Nella Tempesta Di Neve

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  1. Nogami Sai
         
     
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    Erano le dieci e un quarto di sera ed Herb Tooklander si accingeva a chiudere per la notte, quando un uomo dal cappotto elegante, con un viso bianco e allucinato, piombò nel suo bar, nella zona nord di Falmouth. Era il 10 gennaio; fuori infuriava una tempesta infernale proveniente da nordest. I primi quindici centimetri di neve, caduti prima del tramonto, erano andati via via aumentando con l’avanzare della notte. La radio di Portland1 segnalava il continuo accumularsi della neve sotto la spinta del vento a settanta chilometri l’ora.
    C’eravamo solo io e Tookey2 nel bar quando la porta si spalancò e lo sconosciuto entrò barcollando con i capelli e le spalle coperte di neve come se si fosse rotolato nello zucchero a velo.
    «Chiuda quella porta!», ringhiò Tookey. «Sarà mica nato in una stalla?» Non avevo mai visto nessuno così terrorizzato. Sembrava proprio che avesse visto un fantasma. Ruotò gli occhi verso Tookey e riuscì solo a
    dire: «Mia moglie... mia fi glia». Poi crollò a terra stremato. Una volta ripresi i sensi, l’uomo, che si chiama Jerry Lumley, racconta che l’auto sulla quale viaggiava con la moglie e la fi glia di sette anni è rimasta bloccata dalla neve, a molti chilometri di distanza, nei pressi di una città deserta, Jerusalem’s Lot. È giunto fi no a lì a piedi in cerca d’aiuto.
    «Che razza di città è questa Jerusalem’s Lot?», chiese. «Perché non c’era neanche una luce?» Risposi io: «Jerusalem’s Lot è stata distrutta da un incendio due anni fa».
    «E non l’hanno ancora ricostruita?» Sembrava che non ci credesse.
    «Così pare», dissi, e mi girai verso Tookey. «Che cosa facciamo?»
    «Non possiamo lasciarle là fuori», disse lui.
    Mi avvicinai. Lumley si era diretto verso la fi nestra e scrutava la notte tempestosa.
    «E se fossero già state raggiunte?», chiesi.
    «Può essere», rispose Tookey, «ma non possiamo esserne certi. La mia Bibbia è sullo scaffale. E tu, porti sempre quella tua medaglia del Papa?»
    Tirai fuori il mio crocifi sso dalla camicia e glielo mostrai. Molti di quelli che vivono presso il Lot portano oggetti del genere: un crocifisso, una medaglia, un rosario, insomma cose di questo tipo, perché due anni fa, nel breve volgere di un oscuro mese di ottobre, il Lot è andato in rovina. Se ne parlava a volte a notte alta quando nel bar restavano pochi frequentatori abituali. Si girava intorno all’argomento, per essere esatti. Vedete, il fatto è che nel Lot la gente era cominciata a sparire; prima qualcuno, poi un bel numero, e alla fine praticamente tutti. Poi ci fu l’incendio, alla fine di un lungo periodo di siccità. Ancora oggi non se ne conoscono le cause. Il fuoco dilagò incontrollato per tre giorni. Seguì un periodo di calma, ma poi la storia ricominciò.
    Ho sentito pronunciare la parola vampiri una sola volta. Fu una sera che il camionista pazzo, Richie Messina che veniva dalle parti di Freeport e trasportava pasta di legno, era da Tookey, pieno d’alcol fino agli occhi.
    Tookey mi guardava e io guardavo lui, e intanto mi infi lavo di nuovo il crocifisso nella camicia. Non mi ero mai sentito così vecchio e impaurito in tutta la vita.
    Tookey ripeté: «Non possiamo lasciarle là fuori, Booth».
    «Sì, lo so.»
    Ci guardammo ancora per un momento, poi lui si avvicinò mettendomi una mano sulla spalla.
    «Sei un brav’uomo, Booth.»
    Questo bastò a tirarmi su. A volte si direbbe che, passati i settanta, la gente si dimentichi che anche tu sei un uomo, e persino che lo sei stato.
    Tookey si diresse verso Lumley dicendogli: «Ho un fuoristrada. Vado a tirarlo fuori».
    Una volta giunti a Jerusalem’s Lot i tre uomini, Tookey, Booth e Lumley, trovarono l’auto quasi del tutto sepolta dalla neve. Uscimmo tutti dal fuoristrada e il vento ci travolse, gettandoci la neve
    sulla faccia.
    «Janey! Francie!», strillò Lumley. «Tutto bene?» Aprì con forza la portiera della Mercedes dalla parte del guidatore e si piegò all’interno.
    «Tutto...»
    Si irrigidì, agghiacciato. Il vento gli strappò di mano la pesante portiera, spalancandola.
    «Dio santo, Booth», gridò Tookey, il cui tono di voce era poco più basso dell’urlo del vento, «credo che sia successo di nuovo.» Lumley si girò verso di noi, terrorizzato e disorientato, con gli occhi
    spalancati. Improvvisamente afferrò Tookey per il bavero.
    «Come lo sapeva?», ruggì. «Dove sono loro? Che cosa diavolo sta succedendo?»

    Tookey si liberò dalla presa e lo spinse da parte. Guardammo tutti e due dentro la Mercedes. C’era una bambola di Barbie sullo stuoino di fi anco al posto di guida e un giaccone spiegazzato sullo schienale.
    Lumley con il volto tremendamente pallido prese il giaccone.
    «Il giaccone di Francie», mormorò. E poi più forte, urlando: «Il giaccone di Francie». Si girò tenendolo dritto davanti a sé per il cappuccio foderato di pelo. Mi guardò, pallido e incredulo. «Non può essere fuori senza giaccone, signor Booth. Perché... Perché... morirà di freddo.»
    «Signor Lumley...»
    Si agitava, sempre stringendo il giaccone e strillando: «Francie! Janey! Dove siete? Dove siete?».
    «Dobbiamo fermarlo, Booth», disse Tookey.
    Lo inseguimmo più veloci che potevamo, non certo a una gran velocità, visto che in certi punti si affondava nella neve fi no ai fi anchi. Poi si fermò e noi riuscimmo a raggiungerlo.
    «Signor Lumley», cominciò Tookey mettendogli una mano sulla spalla.
    «Da questa parte», disse Lumley, «sono andate di qua. Guardate!»
    Abbassammo lo sguardo. Si distinguevano due serie di tracce, una più grande e una più piccola, che si stavano riempiendo di neve. Ancora cinque minuti e sarebbero scomparse.
    Cominciò a seguirle, con la testa china, ma Tookey lo trattenne. «No! No, Lumley!»
    Lumley, pallido, spostò lo sguardo verso di me e poi di nuovo verso Tookey.
    «Congelerà», disse, come se si rivolgesse a due bambini idioti.
    «Non lo capite? È senza giaccone e ha solo sette anni...»
    «Potrebbero essere ovunque», disse Tookey, «è impossibile seguire queste tracce... alla prossima folata di vento scompariranno.»
    «Lei che cosa suggerisce di fare?», urlò Lumley con voce forte e isterica.
    «Se torniamo indietro a chiamare la polizia, morirà di freddo! Francie e anche mia moglie.»
    «Potrebbero già essere assiderate», disse Tookey. I suoi occhi fi ssavano quelli di Lumley. «Assiderate o qualcosa di peggio.»
    «Cosa intende dire?», mormorò Lumley. «Parli chiaro! Me lo dica!»
    «Signor Lumley», disse Tookey, «nel Lot c’è qualcosa...»
    Fui io a concludere la frase, con quella parola che mai mi sarei aspettato
    di pronunciare: «Vampiri, signor Lumley. Jerusalem’s Lot è piena di vampiri».
    In quel mentre ci fu una voce: usciva dal buio come un tintinnìo di campanelli d’argento, mi raggelò il cuore come ghiaccio in una cisterna.
    «Jerry, Jerry... sei tu?»

    A quel suono Lumley ruotò su se stesso. Lei allora venne avanti, scivolando fuori dall’ombra di un gruppetto d’alberi come un fantasma. Senza dubbio una signora di città, senz’altro la donna più bella che mi fosse capitato di vedere. Mi venne voglia di andarle incontro e dirle quanto mi facesse piacere che, dopotutto, fosse salva. Indossava una specie di pullover pesante, verde. I capelli, neri, ondeggiavano per il forte vento.
    «Janey!», implorò Lumley, «Janey!» E iniziò a correre verso di lei dibattendosi nella neve, con le braccia tese.
    «No!», gridò Tookey. «No, Lumley!»
    Lui non lo guardò neppure... ma lei sì. Ci guardò con un ghigno. Anche dall’alto della nostra statura, potevamo scorgere distintamente il rosso cupo di quegli occhi in confronto ai quali sembravano più umani anche quelli di un lupo. E quando sogghignava potevamo vedere quanto le si fossero allungati i denti. Non era più una donna
    ma una cosa morta tornata in vita chissà come nel bel mezzo di una terribile tempesta.
    Tookey fece il segno della croce nella sua direzione. Lei balzò indietro... e sogghignò di nuovo. Eravamo troppo lontani e forse anche troppo terrorizzati.
    «Fermalo!», mormorai. «Non riusciamo a fermarlo?»
    «Troppo tardi, Booth», mi fece Tookey minaccioso.
    Lumley intanto l’aveva raggiunta. Coperto com’era di neve, sembrava lui stesso un fantasma. Appena le fu vicino... cominciò a gridare. Un urlo che mi tornerà alla mente per sempre, l’urlo di un uomo che
    era come un bambino in preda a un incubo. Fece un tentativo di allontanarsi da lei, ma le sue braccia, lunghe, nude e bianche come la neve, lo incatenarono attirandolo a sé. La vidi drizzare la testa e poi sporgerla in avanti...
    «Booth!», disse Tookey rauco, «dobbiamo cercare di andarcene da qui!»
    E allora iniziammo a scappare. Fuggimmo seguendo a ritroso le nostre stesse tracce, cadendo, rialzandoci, slittando e scivolando. Continuavo a guardarmi alle spalle per assicurarmi che la donna non ci
    stesse seguendo, ghignando e con quegli occhi rossi.

    Finalmente raggiungemmo il fuoristrada. Girai di corsa intorno all’auto e, dannazione, piombai addosso a una
    bambina: era in attesa vicino alla portiera del posto di guida, con le treccine nei capelli e nient’altro che un semplice vestitino giallo.
    «Signore», disse con voce forte e chiara, «potrebbe aiutarmi a trovarela mia mamma? Se ne è andata e io ho tanto freddo...»
    «Tesoro», risposi «è meglio che tu salga. La tua mamma è...»
    Qui mi interruppi, e se c’è mai stato nella mia vita un momento in cui fui sul punto di svenire dallo spavento, fu questo. Vedete, la bambina stava sopra la superfi cie nevosa senza affondare di un millimetro e
    senza lasciare tracce, in nessuna direzione. Allora lei mi guardò di sotto in su, proprio lei, Francie la figlia di Lumley. Non aveva più di sette anni, e tali sarebbero rimasti per
    l’eternità; il suo faccino era di un pallore spettrale; i suoi occhi rossi e fosforescenti mi attiravano come in un precipizio, e sotto il mento aveva due buchini simili a punture di spillo, dagli orli orribilmente lacerati.
    Mi tendeva le braccia sorridendo. «Mi prenda in braccio, signore», diceva dolcemente, «voglio darle un bacio. Poi potrà portarmi dalla mia mammina.»
    Io non volevo, ma una forza superiore alla mia volontà mi induceva a sporgermi in avanti con le braccia tese. Aveva aperto la bocca, e nel cerchio roseo delle sue labbra potevo scorgere con chiarezza due piccole zanne. Le scivolò sul mento qualcosa, di argenteo e luminoso, e fu con vago senso di orrore che mi resi conto che era bava. Due tenere manine mi si strinsero intorno al collo quando qualcosa
    di nero la colpì dritta nel petto. Lei cominciò a indietreggiare sibilando. Il volto si era trasformato in una maschera volpina che esprimeva rabbia, odio e dolore. Si voltò di fi anco e un attimo dopo... non c’era più.
    «Booth», mormorò Tookey, «fai presto, adesso.»
    Feci del mio meglio, ma non dimenticai di raccogliere ciò che aveva scagliato contro la bambina infernale: la Bibbia di sua madre.
    Tutto questo, tempo fa.
    Da quelle parti si aggira anche adesso una bambina. E, a quanto ne so io, sta aspettando ancora il bacio della buonanotte.

    [Stephen King]
     
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