Votes taken by Shira™

  1. .
    “Fosca-Losca, Fosca-Losca, è una pazza, Fosca-Losca!” gridavano cantilendando i bambini scagliando zolle fangose dietro la vecchietta che arrancava sulla strada sconnessa di Gark, un piccolo villaggio di pescatori.
    La donna si girò agitando il pugno ossuto, stretto come una zampetta di uccello intorno a un bastone. I ragazzi si dispersero vociando, e scomparvero con strida di eccitazione nelle viuzze laterali.
    “Uuuh, Fosca-Losca si è seccata. Fosca-Losca si è arrabbiata. Occhio! Fosca-Losca dà il malocchio... il malocchio... il malocchio!”
    L'eco delle loro grida, rimandata dalle pareti delle casette bianche, risuonò a lungo. Poi i bambini vennero chiamati in casa dalle loro madri, e le porte richiuse con forza smorzarono le loro voci.
    “Occhio all'occhio di Fosca-Losca” si udì ancora una volta in lontananza, ma la vecchia era già scomparsa nella sua casetta, in fondo alla discesa.
    Fosca-Losca aveva un occhio malefico: lo dicevano tutti a Gark, da quando l'avevano trovata, da piccola, in una notte di plenilunio. Abbandonata sulla soglia di una delle casette di quel piccolo villaggio di pescatori, che consisteva solo di una strada e di alcuni vicoletti laterali. La trovatella aveva circa due anni, e per via del suo occhio losco, era stata chiamata Fosca-Losca.
    Quando Fosca-Losca andava in giro, accadevano incidenti d'ogni genere, in apparenza spontanei. Piccoli incidenti, in realtà: finestre che si rompevano senza una ragione al mondo, qualcuno che ruzzolava per le scale e si rompeva una gamba, un pesante lampadario che si staccava dal soffitto e per un capello non colpiva il cranio pelato del vecchio borgomastro.
    Ma via via che Fosca-Losca cresceva, anche la natura degli incidenti peggiorava. I pescatori, per esempio, tornavano sempre più spesso dalla pesca con le reti vuote: bastava che Fosca-Losca fosse stata lì a guardare il mare. Qualcuno cominciò a far caso a queste coincidenze, e risultò che ogni volta che si verificava qualche guaio; qualcuno aveva visto Fosca-Losca nei paraggi.
    Eppure il suo comportamento non aveva niente di particolare. Era una bimbetta che se ne andava saltellando in giro come tutti gli altri bambini, osservando intensamente ogni cosa col suo occhio losco. Fatto sta che gli incidenti si moltiplicavano e diventavano sempre più seri. Quando, durante una serata tempestosa, un fulmine colpì il campanile della chiesa, qualcuno affermò di aver visto Fosca-Losca affacciata alla sua finestrella a fissare il campanile col suo occhio losco.
    La misura era colma e gli abitanti del villaggio erano stufi. Si tenne una riunione straordinaria, e la sera stessa venne presa una decisione. La mattina seguente, i genitori adottivi portarono Fosca-Losca dal medico del villaggio e lo pregarono di cucire l'occhio malefico di Fosca-Losca con un sottile ma fortissimo filo da pesca.
    Il malocchio era scongiurato.

    Fosca-Losca diventò una vecchia rugosa, ma il suo occhio continuò a restare chiuso. Il patrigno e la matrigna le avevano fatto giurare solennemente che non avrebbe mai tentato di tagliare i fili con cui era stato cucito.
    Fosca-Losca era una persona di parola, e lo fu anche quando i genitori adottivi erano ormai morti da un pezzo. Ma aveva promesso a se stessa che un giorno i suoi compaesani avrebbero pagato cara la loro colpa.
    Tutti a Gark le davano della matta, la trattavano come fosse spazzatura, e perfino i bambini, a Gark, la sbeffeggiavano. Ma Fosca-Losca attendeva paziente, sapendo che il suo momento sarebbe arrivato.

    Il forestiero arrivò un bel giorno a Gark e prese alloggio alla locanda “Il Polpo Felice”. Era uno strano cliente. Aveva con sé una valigia e dall'aspetto sembrava un artista. Disse di chiamarsi Doppel, di professione pittore.
    Aveva in mente di fare degli schizzi e qualche veduta a olio del piccolo villaggio. Ma i paesani speravano che ripartisse presto. Non avevano simpatia per i forestieri, e tanto meno per gli artisti. Ficcavano il naso dappertutto e disturbavano la normale vita del villaggio con la loro presenza, le loro domande e la loro curiosità.
    Doppel andava matto per le casette pittoresche dai tetti rossi e per la strada in discesa con i misteriosi vicoletti e scantinati. Ogni mattina usciva col cavalletto in spalla e la cassetta da pittore sotto il braccio, e la sera mangiava di solito un piatto di pesce alla locanda. Ma quando cercava di attaccare discorso con il locandiere, il più delle volte non riceveva in risposta altro che una mezza parola, o un grugnito. Per questo motivo si stupì altamente il giorno che il locandiere lo prese per un braccio e, indicandogli il quadro che aveva dipinto quel giorno sul molo, gli chiede: “Perché ci hai messo anche quella là?”
    Il quadro rappresentava una fila di casette sullo sfondo di un mare tempestoso e un vasto cielo pieno di gabbiani. E in un angolo in basso, davanti a una delle casette, Doppel aveva dipinto una piccola vecchia con un occhio chiuso.
    “Vorrebbe dire questo personaggio?” chiese Doppel. “Era lì per caso, e mi è sembrato che stesse bene nel quadro. E' rimasta lì immobile per tutto il tempo mentre la ritraevo. Una strana vecchietta. Lei la conosce? Chi è, esattamente?”
    “Tutti la conoscono, e tutti la scansano” brontolò il locandiere. “E' la Fosca-Losca del malocchio” aggiunse con un rapido segno di croce “Giri alla larga da Fosca-Losca. Porta disgrazia, anche con l'occhio chiuso”.
    Doppel scoppiò in una risata. “Il malocchio! Che stupidaggine!”
    Ma il locandiere non ci trovava niente da ridere. “Dia retta a me, giovanotto. Giri alla larga da Fosca-Losca. Distrugga questo dipinto. L'occhio di Fosca-Losca è pericoloso. Guai al nostro villaggio, se mai quell'occhio dovesse riaprirsi! Nessuno sa fin dove arriva la potenza dell'occhio di Fosca-Losca, e nessuno ha voglia di saperlo. Per questo glielo abbiamo cucito, quando era ancora bambina”.
    “Cosa mi dice?” esclamò Doppel sbigottito. “Cucire un occhio a una bambina per una sciocca superstizione! E' mostruoso! E quella poverina...menomata per tutta la vita!”
    Il locandiere sbuffò e rientrò nella sua locanda. E quando il giovane pittore gli ordinò un boccale di birra, brontolò scontroso: “E' finita”.
    Confuso, Doppel salì in camera, si gettò sul letto e si propose di andare a trovare quella vecchietta il giorno seguente. Aveva probabilmente bisogno di fare due chiacchiere, visto che gli abitanti del villaggio la trattavano con tanto disprezzo.

    Con i quadri in valigia, il cavalletto in spalla e la cassetta da pittore sotto il braccio, il giorno seguente Doppel lasciò la locanda. Ne aveva abbastanza di quel villaggio così ostile. Ma prima di partire per sempre doveva a ogni costo cercare quella vecchia donna.
    Scendendo per il lastricato di ciottoli rotondi, giunse davanti alla piccola casa in fondo alla strada. Era una strana coincidenza, pensò, che la casetta di Fosca-Losca stesse isolata dalla fila delle altre abitazioni, come se queste, per paura, se ne tenessero scostate il più possibile.
    “Che idea balorda” pensò “Mi sono lasciato influenzare dalle strampalerie del locandiere”. Ma quando varcò il cancello del piccolo giardino non poté impedirsi di sentire un brivido freddo lungo la schiena.
    Il silenzio, in quel luogo, era così assoluto da dargli l'impressione che tutti gli altri suoni fossero stati improvvisamente cancellati. Le parole del locandiere lo perseguitavano. “Che ci sia qualcosa di più che una pura superstizione?” si chiese d'un tratto, e fu sul punto di risolversi a girare sui tacchi e andarsene in tutta fretta. Ma mentre stava per farlo, la porta della casetta di Fosca-Losca si aprì cigolando. Doppel fissò spaventato il vano scuro dietro la porta, dove qualcuno gli faceva segno di avvicinarsi.
    I dubbi e i timori di Doppel dileguarono all'istante: nel piccolo ingresso buio c'era una ragazza con un'ampia gonna bianca e lunghi capelli biondi che le nascondevano metà del volto.
    Doppel la fissò con gli occhi sgranati. Era rimasto senza fiato. La ragazza gli fece un nuovo cenno con la mano. Obbediente, Doppel raggiunse la porta ed entrò nel piccolo ingresso. Totalmente affascinato da quella giovane donna, aveva dimenticato tutto il resto: dimenticato che questa, in realtà, doveva essere l'abitazione della vecchia Fosca-Losca. Ma forse, si disse riscuotendosi, quella che gli aveva aperto era sua figlia.
    La ragazza lo condusse in una stanzetta bassa e sedette con grazia su un divano quasi completamente in ombra.
    “Siedi, pittore” disse, con una voce che alle orecchie di Doppel suonò come una musica dolcissima.
    Ammaliato, Doppel posò in terra valigia, cavalletto e cassetta da pittore e si lasciò cadere accanto a lei sul divano, fissandola con occhi sfavillanti. Era così bella, così delicata: Doppel sentiva l'impulso irresistibile di prenderla fra le sue braccia.
    Ma con sua grande meraviglia, la ragazza si piegò in avanti e scoppiò improvvisamente in singhiozzi, con i lunghi capelli biondi che le ricadevano sul viso. Doppel sentì una fitta al cuore: avrebbe voluto confortarla, ma non osava muoversi. Eppure avrebbe fatto qualsiasi cosa purché lei smettesse di piangere. Quel pianto gli era insopportabile.
    “Posso fare qualcosa per te?” sussurrò infine “Sei... sei così bella. Non devi piangere”.
    “Non sono affatto bella” singhiozzò la ragazza “Guarda!”. E così dicendo si gettò i lunghi capelli dietro le spalle, così che Doppel potesse vederla in volto. Era un volto bellissimo. L'unico difetto era quell'occhio chiuso, come incollato.
    “Il mio occhio” singhiozzò la giovane donna “Me lo hanno cucito perché mi odiano”.
    Doppel gettò un grido di indignazione. “Quegli insensati! Prima, per la loro superstizione, chiudono l'occhio della madre e poi anche quello della figlia...”
    “Sono tanto infelice!” continuò tra le lacrime la ragazza “Solo se il mio occhio verrà riaperto potrò conoscere la felicità”.
    “Vorrei poterti aiutare” disse Doppel. Piangendo, lei si lasciò cadere contro di lui. “Oh sì, ti prego, aiutami!”
    “E come?” chiese interdetto Doppel, leggermente stordito da un dolce profumo di gelsomino.
    “Taglia il filo che mi tiene chiuso l'occhio. Non posso farlo io...”
    “Ma...”
    “Coraggio! Sono certa che puoi farlo. Avrai di sicuro una lametta affilata in quella cassetta. I pittori la usano per grattar via la vernice dalle tele, non è vero?”
    Doppel esitava. Aveva effettivamente una lametta affilata, ma gli ripugnava l'idea di usarla per riaprire le palpebre della ragazza.
    “Fallo, ti prego! Adesso!” singhiozzava la ragazza. Doppel non riuscì più a sostenere quello sguardo implorante: prese la lametta, e col cuore martellante cominciò a tagliare con estrema cautela uno dei fili, sottile come un capello. La sua mano tremava, ma la ragazza lo incoraggiò.
    “Non aver paura: andrà tutto bene!”
    Come sotto un incantesimo, Doppel tagliò a regola d'arte anche l'ultimo filo. Allora la ragazza si alzò di scatto in piedi e arretrò fino all'angolo più oscuro della stanza, coprendosi l'occhio destro col palmo di una mano
    “Esci! Vattene!” sibilò. La sua voce, da dolce e melodiosa, era improvvisamente aspra e rotta come quella di una vecchia.
    Doppel era allibito. Perché, di colpo, quell'ostilità?
    “Ma... io...”
    “Via di qui!” gridò lei, minacciosa “Hai liberato il mio occhio, e di questo ti sono grata. A te non voglio far del male. Ma gli altri devono avere quel che si meritano...”
    Nell'ombra, la sua figura appariva piccola, curva e sbilenca. Attraverso le dita che le nascondevano l'occhio destro, Doppel vide trapelare una luce abbagliante. Quelle dita erano le dita di una vecchia, ossute come artigli, e il raggio che ne trapelava diventata sempre più accecante.
    “Vattene!” gracchiò la voce “Vattene, prima che sia troppo tardi!”
    D'un tratto Doppel comprese tutto, e fu preso da un panico indicibile. Questa era Fosca-Losca! La Fosca-Losca dall'occhio stregato, che gli era apparsa sotto le sembianze di una bella ragazza perché lui acconsentisse a riaprirle l'occhio.
    Il pittore si precipitò fuori dalla stanza, afferrando, nella fretta, solo la valigia dei quadri. Uscì come un razzo dalla casetta e corse a gambe levate per la discesa. Non pensava che a filarsela al più presto.

    La gente del villaggio guardava sbigottita l'imbrattatele che, pallido come un cadavere, scendeva a rotta di collo verso il porto e saltava, appena in tempo, a bordo di un mercantile in partenza.
    Il pittore era schizzato fuori dalla casa di Fosca-Losca, questo l'avevano visto coi loro occhi. Che cosa poteva significare?
    Gli abitanti del villaggio cominciarono a sentirsi inquieti. Un piccolo gruppo si mosse titubante verso la casa di Fosca-Losca. Se il forestiero se l'era data a gambe, c'era sicuramente sotto qualcosa.
    Tutto il villaggio venne allertato, e in capo a un'ora un'intera folla si era raccolta davanti alla casetta di Fosca-Losca. Qualcuno scagliò una pietra contro la porta. E poi una seconda. Altri seguirono il suo esempio, e di lì a pochi istanti una gragnuola di pietre piovve sulla porta e le finestre di Fosca-Losca. Si udì un tintinnio di vetri rotti.
    “Esci di lì, strega!” gridarono gli abitanti del villaggio spintonandosi, fischiando, vociando, come mutati in un mostro dalle mille teste. Allora la porta si aprì di colpo, e Fosca-Losca uscì col suo passo malfermo. Era una piccola vecchia curva, che si copriva l'occhio destro col palmo di una mano. Nessuno, nella sorpresa generale, notò la luce bianca che trapelava fra le dita.
    “Guardate!” gridò uno degli autori della sassaiola. “Le abbiamo centrato l'occhio!”. Molti sghignazzarono. Ma Fosca-Losca rimase ferma sulla soglia, muta e imperterrita. Lentamente, Fosca-Losca prese ad avvicinarsi lungo il vialetto del piccolo giardino.
    “E' giunta l'ora” disse fermandosi di fronte alla folla “di farvi pagare la vostra crudeltà. Mi credevate pazza, non è vero? Pensavate che fossi indifferente a tutto? Che non curassi il male?”
    Un indefinibile sgomento si insinuò nella folla. Gli abitanti del villaggio se ne stavano come impietriti sulla strada, incapaci di alzare lo sguardo su Fosca-Losca.
    “E' giunta l'ora...” ripeté Fosca-Losca “La mia ora!”. E così dicendo allontanò la mano dal viso e spalancò smisuratamente l'occhio destro...
    Dalla folla si levò un urlo di terrore.

    “Guarda laggiù” disse al pilota il capitano del mercantile che si allontanava al largo “Un momento fa c'è stato un lampo accecante sulla costa di Gark”.
    Sollevò il cannocchiale e mise a fuoco la costa.
    “Strano. Eppure sono certo che in quel punto dovrebbe trovarsi Gark. E invece non c'è altro che una grande macchia bianca. Come se Gark fosse stato spazzato in un baleno dalla faccia della terra”.
    Il timoniere alzò le spalle, sputando una cicca di tabacco da masticare. Nella sua lunga vita di marinaio aveva visto tante stranezze che niente, ormai, gli sembrava impossibile.

    In un'augusta cabina del mercantile, Doppel, ancora scosso da un leggero tremito nervoso, tolse i suoi quadri dalla valigia e li posò uno accanto all'altro sul pavimento. Poi rimase lì a fissarli, incapace di credere ai propri occhi. Tutte le tele su cui aveva dipinto le vedute di Gark erano immacolate. Come se Gark non fosse mai esistito, e lui non l'avesse mai dipinto.
    Solo in un angolo dell'ultima tela si vedeva ancora qualcosa. Era la figura d una piccola donna rugosa, esattamente come Doppel l'aveva ritratta. Tranne un particolare. Chissà come, ora anche l'occhio destro era aperto e fissava Doppel col suo sguardo strabico.
    Il pittore cacciò un urlo. Poi afferrò il quadro, e senza più guardarlo corse sul ponte della nave e lo scagliò in mare.
    Con un tonfo, la tela cadde fra le onde, che la trascinarono lontano finchè scomparve del tutto alla vista.
  2. .
    CITAZIONE (» S h i n † a k a ™ @ 23/6/2013, 11:16) 

    Gente, dopo ben quattro mesi dal precedente annuncio, sto per proclamare le tanto attese promozioni!
    Partendo dal basso, abbiamo due promossi tra i collaboratori, »Static65« e Shira™; a loro spetta il ruolo di Moderatori


    :la: :la: :la:
  3. .
    La ragazza era seduta di fronte al Direttore della rivista “Scrittori oggi...”, in placida attesa. Le gambe erano accavallate e la pelle liscia era protetta alla vista solo da una tenue calza nera. Lo sguardo del direttore non potè fare a meno di risalire verso la gonna corta, che le arrivava a malapena a metà coscia. Risalendo, gli occhi del direttore incontrarono una camicia a maniche corte, così attillata da rendere ancora più evidente il prosperoso seno. Con un piccolo sospiro, Anthony Summers, direttore della rivista da quasi sette anni, si costrinse a spostare lo sguardo dai punti caldi della ragazza, per tornare a guardarla negli occhi, come aveva fatto nei primi secondi del colloquio.
    “Bene signorina...”
    lasciò la frase in sospeso, osservando la giovane: era così preso dalla bellezza della ragazza che ne aveva scordato il nome.
    “Hopkins”
    “...Hopkins” ripeté il signor Summers, asciugandosi la fronte con un fazzoletto che portava sempre in tasca. Era caldo, quel giorno, e la presenza di una così bella ragazza contribuiva ad alzare la temperatura dell'ufficio.
    Con un gesto secco, il direttore prese i fogli che si trovavano sulla sua scrivania, alzandoli di fronte a sé. Quella ragazza così tremendamente carina si era presentata nel suo ufficio, quella mattina, con quei fogli in mano, gli aveva detto che si trattava di un racconto che aveva scritto e che le sarebbe piaciuto se fosse stato pubblicato nella sua rivista.
    “Qui abbiamo dei canoni molto seri...” cominciò lui, ma subito la giovane alzò la mano verso di lui, interrompendo il suo discorso.
    “Me ne rendo conto, e le sono grata per il tempo che mi sta dedicando”
    Anthony Summers annuì leggermente, per poi portare gli occhi al testo ed iniziare a leggere il racconto della giovane.

    [Mark Skyler non sapeva a cosa stava andando incontro, quel giorno. Sapeva soltanto due cose: la macchina si era fermata e si trovava in mezzo al nulla. Si guardò intorno, osservando la stradina in cui si trovava: poco più di un sentiero, in verità, più buche che altro, proprio per questo la sua macchina l'aveva abbandonato: un sasso preso dalle ruote aveva creato più danni del previsto.
    La notte era ormai calata e Mark non riusciva a vedere niente, perso in quell'oscurità che lo avvolgeva. Mosse qualche passo lungo il sentiero, guardandosi disperatamente attorno, e sperando di scorgere qualcuno, nel buio. La temperatura calava rapidamente, da quelle parti, ed il freddo era ormai una morsa che lo stringeva, sempre più forte.
    Camminò per quasi un'ora, prima di riuscire a scorgere qualche segno di vita. Finalmente, a non troppa distanza dal punto in cui si trovava, vide una grande casa illuminata.
    “Finalmente...” disse, tirando il fiato. Con un ultimo sforzo, si incamminò lungo il vialetto in salita che conduceva alla villa, sperando di trovare persone cordiali che l'avrebbero ospitato e gli avrebbero permesso di usare il telefono per chiamare un meccanico.
    Man mano che si avvicinava, i dettagli della casa prendevano forma, permettendogli di farsi un quadro più preciso: era una villa molto isolata, ma non sembrava esserci alcun cane da guardia, una cosa, questa, piuttosto strana. O si trattava di persone eccessivamente fiduciose, o di persone armate. Dentro di sé, Mark sperò che la prima soluzione fosse quella giusta. Ormai mancavano pochi passi, lanciò un'occhiata ai vetri illuminati, e scorse qualcosa al suo interno, niente di chiaro e definito, fu solo un'ombra rapida, ma, almeno, gli diede la certezza che dentro c'era davvero qualcuno. Bussò piano alla porta, stringendosi di più nella giacca, per riscaldarsi le membra. Dovette aspettare solo pochi secondi, poi udì un rumore di passi in avvicinamento, e la porta si aprì, lasciando fuoriuscire all'esterno uno spiraglio di luce.
    “Ehm...salve...” iniziò lui, poi fu costretto a bloccarsi, osservando la figura che gli si parava davanti. Era una ragazza di circa venticinque anni, non troppo alta, con lunghi capelli neri che le arrivavano fino al fondoschiena, un corpo perfetto e due grandi occhi verdi in cui Mark sentiva di poter perdersi.
    “Salve” gli rispose lei, con un sorriso che scaldò il cuore del povero ragazzo “Posso aiutarla?”
    “Ecco...la mia macchina si è fermata...così...” deglutì a vuoto, si sentiva in soggezione di fronte a tanta bellezza “...io...mi chiedevo se fosse possibile chiamare un meccanico...e...magari...trascorrere qui la notte...”
    La giovane annuì, aprendo del tutto la porta.
    “Oh, certo che può fermarsi!” disse, con un tono di voce forse leggermente alto, o almeno così parve a Mark. In quel momento, si udì un rumore di passi, poco distante. Mark si voltò verso una porticina in legno, che sembrava l'origine di quei suoni. Confermando le sue impressioni, la porta si aprì e fece la sua apparizione una seconda ragazza, che stringeva tra le mani una cassetta degli attrezzi.
    “Che succede, Marion?”
    Mark osservò la nuova apparizione: era più alta della prima ragazza -che adesso sapeva chiamarsi Marion- aveva corti capelli biondi e due profondi occhi di un azzurro pallido, quasi lo stesso colore del ghiaccio. Il fisico squadrato e atletico fece capire al ragazzo che aveva a che fare con una donna autoritaria e sicura di sé.
    Lo sguardo della ragazza si focalizzò su di lui, incupendosi in un'espressione interrogativa.
    “La mia macchina si è fermata non troppo distante da qui” Mark fu lesto nello spiegare anche a lei il motivo della sua venuta “Sono qui per chiedervi ospitalità...e...” le sorrise, cercando di risultare accattivante “...potrei fare una telefonata? Sa, per chiamare il meccanico”
    La ragazza bionda lo osservò ancora per qualche istante, senza dire niente, poi alzò le spalle, in un gesto di noncuranza.
    “Sì, può restare” posò la cassetta degli attrezzi sul tavolino dell'ingresso “Il telefono si trova su quel mobiletto” con un cenno del capo indicò un piccolo mobile in ebano, dove faceva bella mostra di sé un grande telefono nero e un elenco telefonico.
    Mark si diresse verso il punto indicatogli, mentre dietro di lui poteva avvertire il brusio delle voci delle due giovani, senza, purtroppo, riuscire a distinguere cosa stessero dicendo. Doveva ammetterlo, Marion l'aveva stregato, e adesso moriva dalla voglia di conoscerla meglio e sapere tutto il possibile su di lei.
    La telefonata fu breve, trovare il meccanico non fu un problema, fortunatamente non si trovava molto lontano da un centro abitato, il proprietario della rimessa sarebbe venuto a trascinare via la sua auto il mattino dopo.
    Posò la cornetta e rimase fermo, cercando di acutizzare i sensi, così da poter percepire qualche rumore di passi: non gli sembrava cortese fare un giro della casa per trovare le proprietarie.
    Gli sembrò di sentire nuovamente qualche rumore soffocato, dietro la porticina in legno già notata in precedenza. I suoi occhi saettarono verso il tavolino dove era stata posata la cassetta degli attrezzi: vuoto. Evidentemente la giovane bionda era tornata al lavoro, qualsiasi cosa stesse facendo.
    “Ha finito di telefonare?”
    La voce alle sue spalle lo fece sobbalzare, ed il cuore cominciò a battere all'impazzata, quando però si voltò, vide solo il volto divertito di Marion.
    “Oh, mi scusi, non volevo spaventarla”
    Mark cercò di riprendersi e allungò la mano verso la giovane
    “Che maleducato, non mi sono presentato! Io sono Mark”
    In risposta, la giovane allungò a sua volta la mano, stringendo quella dell'uomo
    “Marion”
    Mark ritirò la mano, sentendosi improvvisamente a disagio.
    “Spero di non recare troppo disturbo”
    Marion ridacchiò appena, inclinando la testa di lato, e facendo sprofondare ancora di più il cuore di Mark.
    “Oh, no” mosse qualche passo verso l'ingresso “E poi, anche Silvia non ha niente in contrario, quindi non c'è alcun problema”
    Mark annuì appena, Silvia doveva essere la ragazza bionda.
    “La sua amica sta...”
    Lasciò la frase in sospeso, considerava maleducato interrogare quella ragazza così bella sulle attività di quella casa, ma lui era una persona per natura molto curiosa.
    “La caldaia” rispose Marion, con un dolce sorriso “Non funziona molto bene, Silvia sta cercando di aggiustarla”
    “Oh, ma posso dare una mano!” esclamò Mark, pronto a sdebitarsi per l'ospitalità delle fanciulle
    “Non credo che sia il caso” si affrettò a rispondere Marion “Ferirebbe il suo orgoglio, sa”
    Mark rimase leggermente stupito, ma decise di non ribattere, non poteva imporre il suo aiuto, se non era desiderato.
    “Sa, sono contenta che sia venuto”
    Mark guardò la fanciulla con stupore, ma dentro di sé si rallegrava delle attenzioni della ragazza
    “E' tutto il giorno che Silvia sta dietro a quella caldaia, e mi sentivo sola. Vuole farmi compagnia?”
    Il ragazzo non aspettava altro che un'occasione per starle accanto, per questo accettò senza indugio.

    Le successive ore trascorsero con tranquillità, Mark scoprì che Marion, oltre ad essere una bellissima donna, era anche molto simpatica. Dalla cantina continuavano a provenire dei suoni soffocati, ma il giovane non ci fece caso, in fondo più Silvia litigava con la caldaia, più tempo avrebbe avuto lui per stare da solo con la mora.
    Silvia fece nuovamente la sua comparsa quando era ormai ora di andare a dormire.
    Mark si alzò dalla poltrona su cui era seduto, e, con un lieve inchino si congedò dalle giovani. Mentre saliva le scale, che l'avrebbero portato alla sua camera, sentì le due che discutevano al piano di sotto. Cercando di non farsi vedere, si fermò in un punto non illuminato, così da poter udire.
    “Allora, che stavate facendo?” la voce che aveva appena parlato apparteneva alla bionda
    “Niente, parlavamo”
    “Oh, certo...” il tono sembrava sarcastico “Ho visto come ti guardava, ti stava mangiando con gli occhi”
    Mark arrossì nella penombra delle scale, imbarazzato dal fatto che i suoi sentimenti fossero stati scoperti così in fretta.
    “Sì, hai ragione” la risposta della mora lo fece arrossire ancora di più “Ma che posso farci se attraggo gli uomini?” il tono sprezzante di questa frase lo stupì. Marion non gli era sembrata una tipa altezzosa “Sono una bella ragazza, no?”
    Era quasi un atteggiamento di sfida, che Mark non riusciva ad unire all'immagine della ragazza che si era formata nella sua mente. Pensieroso, decise che aveva ascoltato abbastanza e continuò a salire le scale, mentre, dietro di lui, le voci delle giovani si facevano sempre più indistinte.

    La notte era ormai calata da molte ore, e Mark non faceva che rigirarsi irrequieto nel suo letto. C'era qualcosa di strano, in quella casa, qualcosa che non riusciva ad afferrare. Si sentiva irrequieto, il suo sesto senso gli urlava di fuggire...
    Il giovane scosse la testa, nascondendo il volto sotto le coperte. Tutte sciocchezze! Si era solo lasciato suggestionare! Era l'atmosfera di quella casa...così isolata e silenziosa. E poi, quella ragazza, Silvia...i suoi occhi di ghiaccio lo inquietavano, ed il tono arrabbiato delle sue parole gli aveva lasciato addosso una strana sensazione di disagio, che adesso non riusciva più a togliere.
    Con un sospiro scostò le coperte, lasciandole cadere a terra, quindi posò i piedi nudi sul freddo pavimento, ciò gli causò un brivido lungo la schiena che lo lasciò paralizzato per qualche istante. Si riprese, riempendosi d'aria i polmoni, anche per darsi coraggio.
    Continuava a ripensare a quei rumori soffocati...cosa li aveva provocati? E poi per quale motivo erano così bassi, sembrava che qualcuno si fosse preso la briga di insonorizzare quella stanza. Perché mai qualcuno avrebbe dovuto insonorizzare la cantina?
    Con queste domande che gli ronzavano nella testa, Mark scese le scale, cercando di muoversi silenziosamente. Non sapeva dove si trovassero le camere delle ragazze, quindi non poteva dirsi al sicuro in nessun punto.
    Camminando in punta di piedi e lentamente, gli sembrò di aver trascorso un'eternità su quelle scale, mentre, invece, doveva aver impiegato solo una manciata di secondi a scendere.
    Sempre cercando di non far rumore, si diresse verso la porta della cantina. Posò la mano, sudata a causa dello stress, sulla maniglia e si guardò intorno, temendo di essere scoperto. Si sentiva un ragazzino preda di paure sciocche, ma sapeva che non sarebbe riuscito a dormire se prima non avesse controllato cosa c'era in quella cantina.
    Con lentezza, girò la maniglia della porta, per poi spingerla verso l'interno e, così, aprirla. Una voragine nera si aprì su di lui, e per un attimo fu tentato di chiudere quella porta e andarsene, se non voleva rischiare di rimetterci l'osso del collo. Stranamente, però, fu proprio la paura a dargli il coraggio di allungare una mano sulla parete, tastando alla cieca alla ricerca di un interruttore.
    La sua ricerca fu premiata, e una luce soffusa illuminò l'ambiente, quel tanto che bastava per vedere dei piccoli scalini in discesa.
    Cominciò a scenderli, cercando di fare attenzione a non scivolare, non voleva che le due ragazze si accorgessero che era entrato lì dentro.
    Ci mise pochi secondi per terminare quelle scale e finalmente fu libero di guardarsi attorno. Ciò che vide, però, lo fece rabbrividire.
    La caldaia c'era, è vero, e, forse, era anche vero che Silvia la stava riparando, visto che la cassetta degli attrezzi vi era posata sopra, ma c'era qualcosa che attirò l'attenzione di Mark in maniera agghiacciante.
    Incatenato alla caldaia vi era un corpo umano. Mark fece qualche passo in avanti, avvicinandosi. La figura era ricoperta di sangue, in alcuni punti secco, in altri fresco, segno che era stato colpito più volte. Numerosi tagli erano presenti sul corpo, tuttavia nessuno di questi era letale, dovevano essere stati inferti al solo scopo di far soffrire quell'uomo.
    La causa della morte era evidente: un pugnale conficcato nel cuore.
    Mark lasciò vagare lo sguardo per il resto della stanza, ed i suoi occhi incontrarono un fagotto, abbandonato in un angolo. Il giovane si avvicinò, per poi fare un salto all'indietro, non appena capì di cosa si trattava: uno scheletro.
    Aveva decisamente visto troppo, voleva scappare, ma le sue gambe erano paralizzate.
    “Sono come te”
    Disse una voce alle sue spalle, Mark si voltò, ed un urlo uscì dalle sue labbra. Silvia si trovava ai piedi della scala, doveva essere scesa mentre lui era paralizzato dall'orrore, e non poteva sentirla.
    I suoi corti capelli biondi erano spettinati, e lei indossava un grande pigiama verde e delle pantofole dello stesso colore, segno che anche lei doveva essersi alzata in fretta. Probabilmente lui aveva fatto più rumore del previsto.
    Lo sguardo terrorizzato del giovane si focalizzò su ciò che la donna teneva tra le mani: un'accetta, che teneva con presa sicura, come se fosse un'abitudine, per lei.
    Rimase a guardarla, mentre sentiva distintamente numerose gocce di sudore scivolargli sulla schiena.
    “Anche loro la volevano” continuò la donna, muovendo qualche passo verso di lui “Ma io non permetto a nessuno di portarmela via”
    I suoi occhi di ghiaccio mandavano guizzi di pura malvagità, e Mark si sentì beffato dal destino, che l'aveva mandato proprio in quella casa. Il suo stomaco era chiuso, come in una morsa, non riusciva a deglutire, si sentiva improvvisamente vuoto, come se una corrente gelida gli fosse passata tra le membra. Si sentiva un bambino perduto e spaesato, e gli veniva voglia di piangere. Nonostante tutto, però, sapeva che la sua unica salvezza era mantenere una certa dose di sangue freddo. Piangere sarebbe servito solo ad accelerare la sua fine.
    La donna continuava ad avanzare verso di lui e al giovane sembrava quasi di cogliere un bagliore sinistro sulla lama, anche se sapeva bene che, data la penombra, questo non era possibile.
    “Te ne andrai anche tu...” sibilò ancora la donna, ormai vicinissima “Anche tu smetterai di guardarla così!”
    Con uno scatto la ragazza cercò di colpire Mark alla spalla, ma il ragazzo fu più rapido, si spostò e, sfruttando la momentanea perdita d'equilibrio della giovane, corse a perdifiato sulle scale.
    La sua unica salvezza era fuggire, lontano da quella casa, lontano da quella bestia.

    Grazie alla forza della disperazione, in poco tempo si ritrovò fuori dalla casa, e ci mise appena una manciata di secondi a raggiungere l'aperta campagna.
    Solo a quel punto si guardò alle spalle: nessuno.
    Sospirò di sollievo, mentre l'adrenalina in circolo calava e l'uomo era libero di percepire il forte dolore ai piedi, tagliati e lacerati a causa della corsa a piedi nudi.
    Ma ce l'aveva fatta: era vivo!
    Solo in quel momento la razionalità tornò a imporsi nella sua mente. Sì, lui era libero, ma Marion era ancora prigioniera di quella casa, con un mostro simile!
    Mark riportò lo sguardo all'edificio, ormai lontano. Si portò una mano tra i capelli, cercando di riprendere fiato, mentre i polmoni gli bruciavano e le gambe si rifiutavano di compiere un altro passo, a causa dello sforzo a cui erano state sottoposte.
    Tuttavia era suo preciso dovere salvare quella povera ragazza, e doveva farlo in fretta, prima che la furia di Silvia potesse investirla...

    Per raggiungere di nuovo la villa impiegò più tempo di quello impiegato a fuggire, tuttavia riuscì a tornare, nonostante i muscoli indolenziti ed i piedi martoriati.
    La porta d'ingresso era ancora aperta: nessuno l'aveva chiusa dopo che lui era scappato? Oppure Silvia era uscita a cercarlo?
    Sperò che la seconda possibilità fosse quella giusta e che non stesse per tornare indietro.
    Con il cuore che gli martellava in testa, mosse qualche passo cauto nell'ingresso, completamente buio. In quel momento avrebbe dato qualsiasi cosa per un fiammifero, Silvia poteva essere avvolta nel buio, pronta a giocare con lui come il gatto con il topo.
    Avvertì un movimento alla sua destra e si voltò, nel farlo urtò con la mano contro un vaso, rischiando di farlo cadere. Riuscì ad afferrarlo al volo e lo tenne tra le mani, pronto a usarlo come rudimentale arma, se necessario.
    Un secondo movimento mise i suoi sensi ancora più in allarme, e questa volta riuscì a riconoscere una sagoma umana nel buio.
    Alzò il vaso, pronto a calarlo sulla testa di quella donna malvagia, quando...
    ...la luce si accese, illuminando l'ingresso, e rivelando la figura di Marion, che lo guardava spaventato.
    “Mark! Cosa stai facendo?”
    Il giovane si lasciò andare ad un sospiro di sollievo e si affrettò a posare il vaso dove l'aveva trovato, guardando Marion pieno di gioia.
    “Oh, per fortuna stai bene!”
    disse, avvicinandosi a lei, e prendendole le mani tra le sue
    “Ma certo che sto bene...” mormorò lei, con espressione confusa.
    “Silvia dov'è?”
    “Non lo so. Non in camera, comunque. Sono scesa a cercarla...ed ho trovato te con il vaso in mano!”
    Mark sentiva di doverle delle spiegazioni, ma sapeva anche di avere poco tempo per trarla in salvo.
    “Ascolta, ti spiegherò tutto più tardi, adesso dobbiamo andarcene da qui, prima che torni Silvia!”
    La ragazza lo guardò, inclinando appena il capo, con un'espressione da dolce bambina dipinta sul volto
    “...non capisco...”
    Il ragazzo sospirò appena, stringendole più forte le mani
    “Lei è impazzita. Ha cercato di uccidermi...lei...ecco...” arrossì leggermente, sotto lo sguardo della ragazza “...il fatto è che tu mi hai colpito molto, e questo a lei non va bene. Dobbiamo scappare, prima che ci trovi!”
    Adesso lo sguardo della mora si accese di una luce di consapevolezza, e questo fece apparire un sorriso sul volto di Mark: aveva capito.
    “Capisco...” disse la giovane, ed un largo sorriso -per Mark decisamente inadatto alla situazione- comparve sul suo bel volto “...lei è gelosa” disse quindi.
    Mark la guardò, sorpreso e a tratti confuso. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne ebbe il tempo. Sentì un forte dolore alla nuca, e poi vide solo il buio.

    Riaprì gli occhi, dopo un tempo che non seppe quantificare. Poteva essere rimasto svenuto per pochi secondi o per molti giorni, non aveva modo di saperlo. L'unica cosa che sapeva era che gli faceva male la testa, e che non riusciva a muoversi.
    Scosse la testa, mentre, piano, piano, la vista si snebbiava, permettendogli di riconoscere con più facilità gli oggetti che lo circondavano.
    Improvvisamente Mark spalancò gli occhi. Si trovava in cantina! Silvia doveva essere tornata, e aveva sorpreso lui e Marion. Cercò di alzarsi, ma si accorse di essere incatenato alla caldaia. Aveva preso il posto del corpo che vi si trovava prima.
    Era in una situazione disperata, ma non era a sé stesso che pensava in quel momento, tutta la sua preoccupazione era diretta verso Marion...dov'era finita? Cosa le era successo?
    “Ti sei svegliato, finalmente”
    Mark alzò lo sguardo, in cima alle scale si trovava Silvia, stringeva tra le mani la cassetta degli attrezzi. Lo osservava con uno sguardo beffardo, quasi di sfida. In un secondo Mark seppe con certezza che la sua ora era giunta.
    “Dov'è Marion? Cosa le hai fatto? Se le hai fatto del male giuro che io...!”
    Silvia scese qualche gradino, misurando con calma i passi, senza alcuna fretta.
    “Tu...cosa? Sei legato, amico mio”
    Purtroppo aveva ragione, non poteva muoversi, che cosa mai avrebbe potuto fare?
    “Dimmi cosa le hai fatto” ripeté, muovendosi furiosamente, anche se sapeva che si trattava solo di uno spreco di energia.
    “Oh, proprio niente” rispose la donna, sempre con quel sorriso beffardo sul volto.
    In quel momento la porta della cantina si aprì, catturando lo sguardo di Mark, e dentro il suo riquadro fece la sua apparizione proprio la mora.
    “Marion!”
    esclamò Mark, incredulo. La squadrò attentamente, in cerca di graffi o contusioni, ma sembrava stare bene. Non solo, non sembrava neanche triste, uno strano sorriso le illuminava la bocca e lo sguardo.
    “Ciao Mark” disse lei, scendendo le scale e raggiungendo Silvia, che affiancò.
    Adesso il giovane era ancora più confuso, gli sembrava di essere il protagonista di un film, o di un racconto dell'orrore.
    Marion dovette accorgersi del suo sguardo, perchè subito gli sorrise, per poi posare la testa sulla spalla di Silvia.
    “Te l'ho detto che è molto gelosa” non sembrava che la cosa le desse un qualche dispiacere, anzi, dal tono sembrava contenta, come una bambina a cui è stata appena regalata la cioccolata “Non è adorabile?”
    Mark non ebbe il tempo di rispondere, e, in effetti, non avrebbe neanche saputo cosa dire. Senza attendere oltre, Silvia aprì l'onnipresente cassetta, estraendone un punteruolo.
    “Te l'ho detto...non la guarderai mai più così...”
    Mark spalancò gli occhi e la bocca.
    Ma nessuno lo sentì urlare]

    Anthony Summers finì di leggere il racconto della ragazza, per poi alzare lo sguardo su di lei, che sedeva, in placida attesa.
    “Bene, signorina...” cominciò, costringendosi a guardarla negli occhi. La giovane subito si sedette sulla punta della sedia, preda di una visibile emozione
    “...è ben scritta, mi piace il suo stile, ma...”
    L'eccitazione parve sparire dallo sguardo della ragazza
    “Ma...?”
    Il Direttore si sistemò la cravatta, leggermente a disagio.
    “Insomma, non è verosimile, capisce?”
    Visto che la ragazza non rispondeva, l'uomo decise di andare avanti con la sua argomentazione
    “Insomma...” prese i fogli e li sistemò in ordine, picchiettandoci sopra con l'indice “Una fidanzata gelosa che uccide tutti gli uomini che guardano la sua donna” smise di picchiettare, alzando lo sguardo sulla giovane “E l'altra invece di essere legittimamente spaventata da tanta ossessione...ne è felice!” scosse piano la testa, restituendo i fogli alla ragazza “No, no, mi dispiace. Come le ho detto, è inverosimile!”
    La ragazza afferrò i fogli, alzandosi con calma.
    “D'accordo signore. La ringrazio per avermi dedicato il suo tempo”
    L'uomo annuì appena, alzandosi ed aprendole la porta, per farla uscire.
    “Mi dispiace molto, signorina, le basi ci sono, ma provi a cimentarsi con un altro tema”
    La signorina Hopkins non disse niente, semplicemente uscì dall'ufficio, con il suo fascio di fogli sotto il braccio
    Una volta uscita dal palazzo chiamò un taxi, per farsi riportare a casa.

    “E' sicura signorina? Vuole che la lasci qui?”
    Il tassista sembrava dubbioso, continuava a guardarsi intorno, preda di una strana inquietudine. Il sorriso dolce della ragazza, però, sembrò dissipare ogni dubbio.
    “Sì, io abito qui. Grazie mille”
    Una volta pagato il tassista, la giovane si incamminò lungo il sentiero, fino a raggiungere la sua casa. Bussò ed aspettò pazientemente, tenendo lo sguardo fisso sui fogli e sospirando appena. Anche se aveva cercato di non farlo vedere, c'era rimasta molto male per la decisione del direttore.
    Improvvisamente la porta si aprì, ed una figura femminile la guardò, con una luce di entusiasmo nello sguardo.
    “Allora, che ha detto?” chiese, con voce rotta dall'emozione.
    Marion Hopkins varcò la soglia, guardando la compagna con sguardo triste e scuotendo appena la testa.

    “Ha detto che non siamo verosimili”
    “Oh...che peccato...”


    Edited by Shira™ - 19/6/2013, 13:31
  4. .
    Smisto e cancello i commenti
  5. .
    Come ti ho chiesto: se non puoi dire quale avvenimento uno dei due ricorda, puoi farci un esempio di un avvenimento simile? Così da darci un'idea del tipo di avvenimento con cui ci stiamo misurando.

    Per dire: "Lui ricorda di avermi detto di essersi fatto il piercing all'ombelico ed io non me lo ricordo" è diverso da "Lui ricorda che siam stati mezz'ora a giocare a carte ed io non me lo ricordo"
  6. .
    Sarebbe come dire che entrambi soffrono di disturbo dissociativo della personalità e che lo scambio è avvenuto per entrambi nello stesso momento :P
    Un po' forzata come ipotesi
  7. .
    In una giornata triste, buia e troppo silenziosa, con un cielo di nuvole basse e pesanti, dopo aver cavalcato da solo per un tratto di campagna particolarmente desolato, verso sera, mentre le ombre si facevano sempre più lunghe, mi trovai di fronte alla malinconica casa Usher.
    Non so perché, bastò uno sguardo di sfuggita alla vecchia dimora, per darmi un senso di insopportabile depressione; insopportabile, perché questa mia sensazione non era addolcita dal fascino, quasi perverso, che hanno, perché poetiche, anche le più crude immagini di desolazione e terrore.
    Guardavo la scena che si presentava ai miei occhi, guardavo quella casa e le nude strutture della proprietà, le mura lugubri segnate dagli sguardi vuoti delle finestre, i sedili, i tronchi bianchi degli alberi morti. Guardavo, con quell'oppressione totale dell'anima, paragonabile soltanto al risveglio dai piaceri dell'oppio, verso l'amaro intervallo della normalità quotidiana: il tragico cadere del velo. Era agghiacciante da far mancare il cuore, si era assaliti da un'irrimediabile tristezza che nessuno stimolo dell'immaginazione avrebbe più potuto sublimare. Mi chiedevo cosa fosse, cosa, in questa contemplazione della casa Usher mi indebolisse tanto. Era un insolubile mistero; né potevo combattere le fantasie che in questa riflessione, riempivano la mia testa. Ero costretto a limitarmi a una conclusione abbastanza insoddisfacente, cioé, che certamente esistono combinazioni di oggetti semplicissimi, naturali fino alla banalità, che hanno il potere di impressionarci, ma che, nello stesso tempo, tale potere resta per noi non analizzabile, superiore al potere della nostra mente.
    Riflettei che un semplice cambiamento nei particolari della scena, negli elementi del quadro, sarebbe stato sufficiente a modificare o, forse annientare, l'incredibile forza di questa impressione tanto penosa; seguendo questa idea spinsi il cavallo fino al bordo scosceso di uno stagno nero e sinistro, che specchiava immobile la costruzione.
    Guardai in basso nelle sue acque e vedendovi le immagini capovolte e deformate dei sedili grigi, dei tronchi incolori e di quelle finestre simili a occhi vuoti, provai un brivido ancora più forte.
    Nonostante la sua aria tenebrosa, mi proponevo di soggiornare alcune settimane proprio lì, in quella dimora spettrale. Roderick Usher era stato un mio compagno di baldorie del tempo della giovinezza, anche se troppi anni erano passati dal nostro ultimo incontro; recentemente una lettera mi aveva raggiunto in un luogo remoto del paese, una sua lettere talmente insistente che non mi aveva lasciato altra possibilità che quella di raggiungerlo immediatamente.
    Il manoscritto esprimeva uno stato di acuta tensione nervosa. Lo scrivente parlava di un suo stato di grave malattia, di una confusione mentale che lo opprimeva. Voleva vedermi a tutti i costi; ero il suo unico intimo amico e sperava di trovare nella mia allegra compagnia un sollievo al male. Il modo estremamente sincero con cui tutto ciò veniva detto, e altro ancora, non lasciavano spazio per decisioni diverse, e malgrado fossi convinto che si trattava di un invito assai strano, accettai.
    Sebbene la nostra amicizia da ragazzi fosse molto intensa, in realtà sapevo molto poco del mio amico. Il suo costante riserbo mi era sempre parso eccessivo.
    Sapevo che la sua antichissima famiglia si era distinta, da tempo immemorabile, per una sua particolare sensibilità, rivelatasi attraverso secoli, in molte opere artistiche di rilievo, e, manifestatasi ultimamente, in azioni caritatevoli e generose, come pure in una intensa devozione per i misteri, più che per le ortodosse e banalmente riconoscibili bellezze della scienza musicale. Ero anche al corrente del fatto, veramente sorprendente, che la famiglia degli Usher, nonostante la sua celebrata storia, non aveva mai dato origine a rami collaterali durevoli. In altre parole, l'intera famiglia era in linea di discendenza diretta e, tranne qualche insignificante e transitoria variazione, era sempre stato così.
    Era stata questa carenza -pensai, mentre riflettevo sulle mie impressioni sul paesaggio e le mettevo a confronto con questo carattere della famiglia, ragionando sulla possibile influenza nel corso dei secoli dell'uno sull'altro- forse proprio questa mancanza di un ramo cadetto e la conseguente trasmissione diretta di patrimonio e nome, di padre in figlio, che alla li aveva identificati, fino al punto di fondere il primitivo nome del possedimento nella singolare e ambigua denominazione di <casa Usher>; un nome il quale, nella mente della gente del contado che lo usava, definiva tanto la famiglia quanto la sua dimora.
    Ho detto che l'unico effetto del mio esperimento, per la verità un po' infantile, cioè di guardare nello stagno, era stato render ancor più profonda la mia prima impressione di anomalia. Non c'è dubbio che accorgermi di essere ormai preda della superstizione, inutile chiamarla in altro modo, constribuì a moltiplicare e accellerare il processo. Come so da molto tempo, questa è la legge del paradossale di tutti gli stati d'animo che hanno origine dal terrore; e forse per questa sola ragione, mentre tornavo a guardare direttamente la casa, dopo averne contemplato l'immagine nello stagno, sentivo crescere nella mente una nuova fantasia, un'illusione talmente ridicola, che poteva essere giustificata soltanto dalla potenza delle sensazioni che mi angustiavano.
    La mia immaginazione si era scatenata al punto da essere veramente sicuro che tutta la proprietà, dalla casa al paesaggio ciscostante, fosse gravata da un'atmosfera creata da loro, dal loro mondo cupo, un'aria che aveva abolito il celeste, che trasudava dai tronchi morti, dai muri grigi, dallo stagno silenzioso: una nebbia nociva e mefitica, misteriosa e opprimente; quasi imprecettibile e tinta di piombo.
    Mi liberai da questa impressione che per forza doveva essere un brutto sogno per osservare, con più attenzione, l'aspetto della casa. Il suo connotato più evidente sembrava essere la sua eccessiva antichità. I secoli le avevano conferito una perdita di colore inquietante. Sull'intera facciata si estendeva un fittissimo tessuto di spore. Ma tutto questo era lungi dall'associarsi a segni di decadenza. In nessuna parte c'erano tracce di crollo dei muri: con il risultato di una strana incoerenza fra questa perfetta tenuta dell'insieme e la condizione di fatiscenza delle singole pietre.
    Tutto questo mi faceva venire in mente quelle strutture lignee apparentemente intatte che sono rimaste per tanto al riparo dall'aria in una cantina qualsiasi, sopravvissute all'usura dei lunghi anni trascorsi.
    Ma, a parte questa notazione di uno stato di grave degrado, la struttura dell'edificio non dava un'idea di instabilità. Forse solo lo sguardo di un osservatore meticoloso avrebbe potuto accorgersi di una esilissima incrinatura che, partendo dal tetto, scendeva trasversalmente lungo la facciata, per perdersi nelle lugubri acque dello stagno.
    Immerso in queste notazioni, avevo percorso un breve ponte che portava alla casa. Mi aspettava un servo che prese in consegna il mio cavallo, e io potei finalmente entrare. Fui introdotto sotto la volta gotica dell'ingresso: qui un altro servo dal passoo furtivo mi condusse silenziosamente attraverso un labirinto di tenebrosi corridoi, verso lo studio del suo padrone.
    Non so perché questa breve e insieme interminabile passeggiata rinforzç le mie sensazioni precedenti. Mentre gli oggetti che mi circondavano, il legno intagliato dei soffitti, le fosche tappezzerie delle pareti, il nero d'ebano dei pavimenti, gli illusori trofei araldici che vibravano al mio passaggio, avrebbero dovuto, pensavo, essermi familiari, mi stupii che mi scatenassero emozioni che non conoscevo. Per una delle scale incontrai il medico di famiglia. La sua espressione era insieme perplessa e astuta. Si volse verso di me con aria imbarazzata e scivolò via di soppiatto. Finalmente il servo mi introdusse alla presenza del padrone.
    La stanza in cui mi trovavo era immensa e i soffitti altissimi. Le finestre erano lunghe, strette e a sesto acuto e a una tale distanza dal sobrio pavimento di quercia da essere irraggiungibili dall'interno. La luce fioca e cremisi che riusciva a penetrare attraverso i pannelli intelaiati serviva appena a rendere visibili gli oggetti di maggior rilievo; lo sguardo si perdeva però a scrutare gli angoli più nascosti e il soffitto a volta.
    Scure tappezzerie pendevano dalle pareti. L'arredo era eccessivo, trasandato, scomodo. Libri e strumenti musicali giacevano sparsi ovunque, senza vita. Mi rendevo conto di respirare un'aria carica di pena. Un'aria di irrimediabile cupezza che invadeva e imprigionava tutto.
    Quando entrai Usher si alzò dal divano dove era disteso. Mi salutò con tale calore e vivacità che mi fece pensare subito all'esagerazione e allo sforzo dell'uomo di mondo ennuyé. Bastò però uno sguardo al suo volto perché mi accorgessi della sua totale sincerità. Sedemmo e per un po' restò muto; lo fissai con un sentimento misto di pietà e timore.
    Di sicuro nessun uomo poteva essere tanto terribilmente cambiato, e in così breve tempo, quanto Roderick Usher! Solo a fatica potevo accettare che quel languido uomo esangue fosse il mio compagno d'infanzia. E' vero che il suo volto aveva sempre avuto qualcosa di singolare. Pallore cadaverico, occhi grandi, umidi e incomparabilmente luminosi; labbra pallide e serrate, dal disegno di sorprendente bellezza; la linea del naso, dal delicato profilo ebraico, insolitamente interrotta dalla larghezza delle narici; mento che, mancando ogni priminenza, rivelava una qualche mancanza di energia morale. Capelli più delicati e sottili di una ragnatela: questi tratti, uniti a tempie eccessivamente ampie, gli conferivano in complesso una fisionomia non facilmente dimenticabile. Ma ora, l'esasperazione del carattere prevalente dei suoi lineamenti e della loro espressione abituale, lo avevano cambiato al punto che non mi rendevo conto di chi avessi davanti. Più di ogni altra cosa mi allarmavano il pallore mortale della pelle e lo sguardo lucido e quasi irreale. Anche i capelli serici erano cresciuti incolti, e poiché, nella loro trama sottile e disordinata, fluttuavano più che intorno al viso, non riuscivo neanche con uno sforzo a ricollegare l'attuale immagine arabesca a un'idea di semplice umanità.
    Del suo comportamento mi colpì l'incoerenza, direi, la quasi inconsistenza, e mi accorsi rapidamente che derivava dalla sua fiacca lotta contro un'ansia abituale, contro l'eccessiva agitazione nervosa.
    A tutto questo ero stato in qualche modo preparato, non soltanto dalla lettera, ma anche dal ricordo di alcuni suoi tratti giovanili e dalla conclusone cui mi avevano portato la sua conformazione fisica e il suo particolare temperamento. Il suo comportamento era, alternativamente, vivace e pigro. La sua voce passava rapidamente dalla tremula indecisione (quando l'energia animale sembrava completamente assente) a una sorta di energica concisione, che suonava brusca, grave, calma e sorda: quel modo di parlare gutturale, plumbeo, controllato e perfettamente modulato proprio dell'ubriacone incallito o dell'incorreggibile mangiatore d'oppio, nei momenti di più intensa eccitazione.
    Fu in tale modo che mi parlò dell'oggetto della mia visita, del suo intenso desiderio di vedermi e del conforto che si aspettava da me.
    Cominciò poi a parlaredella natura della sua malattia. Si trattava, secondo lui, di un male ereditario, una condanna familiare, e, per questo, riteneva che non vi fosse scampo, ma poi aggiungeva che era una semplice affezione nervosa, che si sarebbe risolta rapidamente. La malattia si manifestava in una serie di mostruose sensazioni.
    Raccontate nei dettagli, alcune di queste, mi parvero interessanti e sconvolgenti, certamente anche per il modo in cui le raccontava. Soffriva di una morbosa ipersensibilità; sopportava soltanto i cibi più insapori; poteva indossare soltanto certi tessuti e non altri, il profumo di qualunque fiore gli era intollerabile, gli occhi non sopportavano neanche l'idea della luce; tutti i suoni, esclusi quelli degli strumenti a corda, lo riempivano di orrore.
    Lo osservai e capii che era schiavo di un'anomala specie di terrore. "Morirò" disse "devo morire in questa miserabile follia. Così, soltanto così, avrò pace. Ho paura del futuro, non in sè, ma per i suoi effetti su di me. Tremo al solo pensiero del più banale incidente, per quello che provocherebbe su questa mia insopportabile tensione mentale; non mi spaventa il pericolo, ma la sua inevitabile conseguenza, cioè il terrore. In questa condizione snervante e pietosa, sento profondamente che arriverà il momento in cui, prima o poi, dovrò abbandonare vita e ragione insieme, nella lotta con questo fosco e misterioso fantasma: la PAURA."
    Dai suoi discorsi discontinui e dalle sue ambigue allusioni, mi resi conto di un altro aspetto del suo stato mentale. Era come incatenato da alcune superstizioni che riguardavano la casa, cui si sentiva di appartenere e dalla quale da tanti anni non usciva più, per una cieca sottomissione a forze strane; usò termini troppo oscuri perché possa accennarvi, un influsso originato, diceva, da alcune peculiarità della materia stessa e dalla forma della dimora familiare. E attraverso una lunga sofferenzam l'effetto physique di quei muri grigi, di quelle torri che si specchiavano nello stagno, aveva, infine, agito sulla morale della sua esistenza.
    Ammetteva tuttavia, seppure con un po' di riluttanza, che quella folle malinconia poteva anche avere origini meno oscure e più naturali.
    La malattia della sorella, per esempio, la lunga e grave malattia di una sorella molto amata e da molti anni sua unica compagna e unica parente rimastagli. Parlava della prossima morte di lei, con una amarezza che non posso cancellare dalla mente. Mentre parlava, lady Madeline, questo era il nome di lei, passò lenta in fondo alla sala. Senza aver notato la mia presenza, scomparve. La guardai con l'animo diviso tra stupore e spavento, senza capire i miei sentimenti e seguii i suoi passi mentre se ne andava, preda di un senso di attonita oppressione. Mentre la porta si chiudeva dietro di lei, cercai istintivamente e con ansia il volto del fratello. Invano, si era nascosto la faccia tra le mani. Potevo vedere soltanto le lacrime che inumidivano le sue pallide e nervose dita.
    Il male di lady Madeline aveva da molto tempo sconcertato e messo alla prova le capacità dei medici. Una permanente apatia, un consumarsi graduale della persona, attacchi frequenti anche se passeggeri di semicatalessi; questa l'insolita diagnosi. Finora aveva resistito fermamente contro il male, rifiutando di mettersi a letto, ma proprio la sera del mio arrivo, così mi riferì il fratello, nel corso della notte, in preda a un'agitazione indescrivibile, aveva dovuto cedere all'irresistibile potere maligno del male. Seppi così che la sua fugace apparizione poteva essere l'ultima, che avrei potuto non vedere più la signora, almeno non viva.
    Per parecchi dei giorni successivi il suo nome non fu più pronunciato, né da Usher né da me. Durante questi giorni feci molti sforzi per alleviare la malinconia del mio amico. Dipingevamo, leggevamo o ascoltavo soltanto, come perduto in un sogno, le sue scatenate improvvisazioni di canto e chitarra. Col crescere dell'intimità, potevo entrare nei recessi della sua anima, constatando con amarezza quanto fosse vano il tentativo di rallegrare la sua mente posseduta da una tenebrosità, congeniale come una forza positiva, e che lui riversava su tutta la materia fisica e morale, in una incessante proiezioni depressiva.
    Non potrà mai sopportare il ricordo di quelle ore solenni passate insieme al signore della Casa Usher. Non riuscirò in nessun modo a rendere l'idea del suo tipo di studi e interessi di cui mi rendeva complice e nei quali mi trascinava, facendomi da guida. Una tensione ideale esasperata e turbata copriva tutta la scena di luci brucianti.
    I lunghi e subitanei inni funebri che improvvisava risuoneranno per sempre nelle mie orecchie. Tra l'altro, mi è restata dolorosamente impressa nella mente quel suo strano, perverso arrangiamento della melodia sfrenata dell'ultimo valzer di Von Weber, o quei suoi dipinti sui quali tornava continuamente a meditare, che si scomponevano, tocco dopo tocco, in una indeterminabile vaghezza che mi faceva tanto più rabbrividire quanto meno capivo perché. Di questi dipinti (le cui immagini sono ancora vivide nella mia mente) invano tenterei di trovare una sia pur piccola parte che possa essere espressa con semplici parole scritte. Con l'assoluta semplicità dei suoi disadorni disegni attirava e soggiogava l'attenzione. Se mai mortale ha dipinto un'idea, questi fu certamente Roderick Usher. Delle pure astrazioni che quell'ipocondriaco faceva uscire fuori dalla sua tela ti abbagliava l'intensità lancinante. Al confronto, le ardenti chimere di Fuseli sembrano ancora troppo concrete e impallidiscono.
    Proverò a tradurla in parole, per quanto insufficienti, scegliendo un esempio fra i meno astratti del suo spirito visionario: un piccolo dipinto che raffigurava l'interno di una lunghissima galleria con una volta rettangolare dai muri bassi, bianchi e lisci, senza fregi. Alcuni particolari del disegno suggerivano l'idea che questa cavità si trovasse a grande profondità sotto la superficie terrestre.
    Per tutta la sua estensione non si notavano vie d'uscita; nè una fiaccola, nè altra fonte di luce artificiale e, tuttavia, lo spazio era pieno di abbaglianti raggi che tutto illuminavano, di uno splendore ingiustificato e irrimediabile.
    Ho già parlato della abnorme insofferenza del malato a ogni specie di musica, a eccezione di certi effetti degli strumenti a corda. Erano forse proprio questi limiti stravaganti che, in gran parte, accentuavano il carattere fantastico delle sue esecuzioni alla chitarra, ma la fervida facilità dei suoi impromptus restava in qualche modo inspiegabile. La loro eccezionalità stava proprio nelle note, come pure nelle parole delle sue fantasie selvagge. Poiché spesso si accompagnava con improvvisazioni verbali in rima, il risultato di questa totale padronanza mentale e capacità di concentrazione, cui ho già alluso in precedenza, era percepibile soltanto in questi particolari momenti di eccitazione artificiale.
    Mi è stato facile ricordare le parole di una di queste sue rapsodie. Mentre me la proponeva ne fui particolarmente impressionato; forse perché nel suo occulto significato mistico credevo di notare per la prima volta una piena consapevolezza del tracollo della sua ragione. I versi che lui aveva intitolato "Il palazzo incantato" suonavano press'a poco così:

    I

    Nella più verde delle nostre valli
    Protetta da angeli buoni,
    Un tempo un palazzo bello e nobile,
    Un palazzo radioso, levava la testa
    Nelle terre di re Pensiero -
    Qui si ergeva!
    Mai serafino allargò le sue ali
    Su un edificio tanto bello.

    II

    Bandiere gialle gloriose d'oro
    Sul suo tetto sventolavano
    (Tutto questo accadeva nel tempo antico
    Da cui tanto tempo è trascorso).
    E per l'aria soave nel gioco
    In quelle dolci giornate
    Sui bastioni chiari e piumati
    Si spargeva un odore di ali.

    III

    Chi attraversava la valle felice
    Da due luminose finestre poteva vedere
    Muoversi musicalmente gli spiriti
    Al suono del liuto ritmato;
    Un trono dove si vedeva assiso
    (Porfirogenito!)
    Nella gloria della sua grandezza
    Il Signore del reame felice.

    IV

    E risplendente di perle e rubini
    Era la porta del bel palazzo,
    Da cui fluendo, fluendo, fluendo
    E brillando di luce mai vista
    Delle Eco la schiera più dolce
    Non faceva che cantare
    Con voci di arcana bellezza
    La saggezza e il talento del Re.

    V

    Ma diaboliche cose, vestite di lutti,
    In agguato nel regno del Sire,
    (Consentiamoci il pianto, poiché mai più,
    Il domani per lui sorgerà desolato!)
    Circondarono la sua casa. La gloria
    Che splendeva e fioriva,
    Non è che una storia passata
    Di un antico tempo sepolto.

    VI

    Chi percorra adesso la valle,
    Dalle rosse finestre vedrà
    Varie forme fantastiche in moto
    Al suono di melodie dissonanti;
    E, come un fiume veloce di spettri
    Attraverso le pallide porte
    Una orribile folla si accalca
    E ride, ma non sorride più.



    Ricordo perfettamente che le suggestioni di questa ballata ci condussero attraverso una sequenza di pensieri in cui si manifestava un'opinione di Usher che cito non tanto per la sua originalità (altri infatti hanno pensato la stessa cosa), quanto per l'ostinazione con cui la difese.
    L'opinione, nel suo assunto generale, accreditava la teoria della capacità del mondo vegetale di sentire. Ma nella sua disordinata mente, questa idea si era fatta ancora più audace allargandosi fino a includere il regno inorganico. Non mi bastano le parole per esprimere la dimensione, o il sincero abbandono alla sua convinzione.
    Questa fede assoluta, come ho già accennato, era connessa alle grigie pietre della casa dei suoi antenati. Egli immaginava che qui le condizioni di questa sensibilità erano state poste in essere fin nel metodo di collocazione di queste pietre, nell'ordine con cui erano state disposte, nell'intrico di fungi che le ricoprivano o in quegli alberi morti che circondavano la casa, ma soprattutto nella lunga indisturbata resistenza di questa sistemazione e del suo doppio, che si realizzava nel riflesso con cupe acque dello stagno. Il segno evidente, il segno di questa capacità di sentire mlo si poteva vedere, disse (e a questo punto mi fece trasalire), nel graduale lento e tuttavia certo condensarsi di un'atmosfera propria delle acque e dei muri. Il risultato era riscontrabile in quella silenziosa e inesorabile influenza che aveva per secoli offuscato il destino della sua famiglia e fatto di lui, da quello che potevo constatare, quello che egli era.
    Sono opinioni che non hanno bisogno di commento e io non le commenterò.
    I nostri libri, quei libri che da anni contribuivano solidamente alla vita mentale del malato, erano, com'è immaginabile, in stretto rapporto con questa sua dimensione visionaria. Meditavamo insieme su opeere come Vertvert et Chartreuse di Gresset, Belfagor di Machiavelli, Cielo e inferno di Svedenborg, Viaggio sotterraneo di Nicholas Klimm di Holberg, Chiromanzia di Robert Flud o quella di Jean d'Indaginé, o di De La Chambre, Viaggio nell'azzurro di Tieck, Città del Sole di Campanella. Uno dei preferiti era il Directorium Inquisitorum del domenicano Eymeric de Gironne; e vi erano infine brani di Pomponius Mela sugli antichi satiri ed Egipani dell'Africa, sui quali Usher poteva sognare per ore. Il suo piacere maggiore consisteva però nell'attenta lettura di un volume rarissimo e curioso, un inquarto gotico, un manuale su una chiesa dimenticata, le Vigiliae mortuorum secundum Chorum ecclesiae maguntinae.
    Non potevo fare a meno di meditare sul carattere selvaggiamente rituale di quest'opera, e sulla sua influenza su un ipocrondiaco, quando una sera, dopo avermi bruscamente informato della morte di lady Madeline, mi dichiarò la sua intenzione di conservare il corpo per quattordici giorni (prima della sua sepoltura definitiva) in una delle molte cripte che si aprivano nel sotterraneo della casa. Sul motivo che fornì per questo modo di agire tanto singolare, non volli discutere.
    Il fratello era stato spinto a questa decisioni dall'insolito carattere della malattia della defunta e da alcune impazenti e indiscrete richieste avanzate dai medici e, infine, dal fatto che il cimitero di famiglia fosse molto distante e difficilmente accessibile. Non negherò che, tornatomi alla mente il volto sinistro della persona incontrata per le scale, il giorno del mio arrivo, non sentii l'esigenza di oppormi; anzi, mi parve una precauzione del tutto attendibile e innocua.
    Lo aiutai personalmente, come Usher mi chiese, nei preparativi di quella temporanea sepoltura. Una volta deposto il corpo nella bara, lo portammo, noi due soli, al suo riposo. La cripta in cui lo collocammo (rimasta chiusa tanto a lungo che le nostre torce soffocate dall'aria opprimente non davano luce bastante per un'adeguata indagine), era piccola, umida e priva di aperture che consentissero l'ingresso della luce.
    Si trovava a grande profondità, proprio sotto quella parte della casa in cui era situata la mia stanza da letto. In remota epoca feudale, stando alle apparenze, doveva essere stata adibita alla crudele funzione di carcere, e più di recente, si era trasformata in deposito di polveri da sparo o altre sostanze combustibili. Una larga parte del pavimento, infatti, e tutto l'interno di un lungo passaggio di accesso alla cripta erano sistematicamente coperti di rame; anche la porta di massiccio ferro era rivestita dello stesso metallo: a causa del suo immagne peso, girando sui cardini, produceva un rumore aspro e stridente.
    Deponemmo il nostro funebre carico su due tripodi collocati in questo luogo d'orrore e scostammo parzialmente il coperchio non ancora inchiodato.
    Scrutai allora il volto della defunta. Per la prima volta constatai con sorpresa la straordinaria somiglianza tra fratello e sorella; Usher, indovinando il mio pensiero, balbettò alcune frasi smozzicate da cui capii che erano gemelli e che tra di loro era sempre esistita una affinità di natura difficilmente comprensibile. I nostri sguardi non restarono a lungo rivolti alla morta: non potevamo continuare a guardarla senza provare un dolore ansioso. La malattia che l'aveva portata alla tomba nel fiore di una giovinezza appena matura aveva lasciato, come tutte le malattie a carattere prevalentemente catalettico, la bedda di un rossore appena percettibile sul volto e sul petto e quel misterioso sorriso sulle labbra che è così terribile nella morte. Riabbassammo il coperchio e lo bloccammo inchiodandolo e, dopo aver chiuso a chiave la pesante porta di ferro, risalimmo faticosamente fino agli appartamenti superiori della casa, certamente non meno opprimenti.
    Dopo alcuni giorni di aspro dolore, un evidente cambiamento si produsse nel disordine mentale del mio amico. Il suo solito comportamento scomparve, le sue occupazioni ordinarie venivano trascurate o dimenticate.
    Vagava di stanza in stanza con passi affrettati e discontinui. Il pallore del suo viso aveva assunto sfumature ancora più spettralu mentre la luminosità del suo sguardo si era completamente spenta. La sua voce aveva perso la consistenza aspra di una volta; si era fatta tremula, come spezzata dal terrore. C'erano momenti in cui ero convinto che la sua mente agitata fosse combattuta da un divorante segreto e che egli lottasse con se stesso per trovare il coraggio di svelarlo.
    Altre volte però ero costretto a tornare a credere che tutto fosse dovuto alla divagazioni inesplicabili della sua follia; lo sorprendevo a fissare nel vuoto per lunghe ore come se fosse in ascolto di un suono immaginario. Non può stupire che questo suo stato mi terrorizzasse e anzi invadesse anche me. Lentamente e inesorabilmente, sentivo di essere posseduto dalle selvagge influenze delle sue superstizioni, strane e coinvolgenti.
    Fu proprio la sera del settimo o ottavo giorno successivo alla deposizione di lady Madeline nella cripta, mentre stavo ritirandomi per la notte, che provai appieno la prepotenza di queste sensazioni. Il sonno tardava a venire e le ore trascorrevano. Cercavo di razionalizzare il nervosismo che si era impadronito di me. Mi costringevo a credere che il mio stato d'animo fosse determinato dalla influenza deprimente del cupo mobilio della stanza, dei tendaggi pesanti e sgualciti che ondeggiavano come torturati dal fiato impetuoso di un ancora lontano temporale.
    I miei sforzi furono inutili. Presi a tremare in modo irrefrenabile, a poco a poco il mio cuore fu posseduto da un incubo, da un terrore che sembrava senza causa. Tentai di liberarmi respirando profondamente, mi sollevai sui cuscini cercando di penetrare l'oscurità, con le orecchie tese e allarmate (forse come spinto da una premonizione), percepii bassi suoni indefiniti che giungevano a lunghi intervalli, nelle pause dell'uragano che ormai imperversava, da non so dove. In preda a un orrore profodo, inspiegabile e tuttavia insopportabile, mi vestii precipitosamente (ormai sapevo che per quella notte non avrei più dormito), cercando con tutte le mie forze di sottrarmi a quello stato pietoso in cui ero caduto. Mi misi ad andare su e giù per la stanza a grandi passi.
    Passarono alcuni brevi minuti quando mi parve di cogliere il rumore di un passo leggero sulla scala vicina. Lo riconobbi, era quello di Usher.
    Un attimo dopo bussò leggermente alla mia porta ed entrò nella stanza portando con sè una lampada. Come sempre era cadaverico, sfinito ma soprattutto nei suoi occhi brillava una luce di pazza euforia e i suoi gesti rivelavano accessi di isteria, appena contenuta. Il suo comportamento mi faceva paura ma mi sembrava che tutto fosse più sopportabile della solitudine in cui mi ero sentito soffocare tanto a lungo e lo accolsi con sollievo.
    "Non l'hai visto?" mi chiese bruscamente dopo avermi fissato per qualche istante in totale silenzio. "Così, dunque, tu non l'hai visto. Allora resta e vedrai."
    Detto questo, schermò con la mano la lampada e si diresse alla finestra che spalancò alla tempesta. La furia impetuosa dell'uragano ci sollevò quasi da terra. La notte tempestosa era paurosamente bella, una terribile bellezza, singolare e tragica. Ci trovavamo evidentemente nell'occhio del ciclone, il vento subiva frequenti e violenti mutamenti di direzione e le nubi spesse e basse, a ridosso delle torri della casa, non ci impedivano di cogliere la straordinaria velocità con cui si precipitavano dai più svariati punti per scontrarsi e convergere fra loro, senza mai distanziarsi. La loro densità, come ho detto, non ci impediva di vederne le forme, anche se la luna non era visibile neanche di sfuggita, nè si vedevano le stelle, né alcun lampo illuminava la scena.
    Tuttavia le superfici inferiori di quella enorme massa turbolenta erano di fuoco, come tutti gli oggetti che ci circondavano, illuminati da una luce innaturale. Una esalazione gassosa, una luce vaga che avvolgeva tutta la casa come un sudario.
    "Non devi fermarti a guardare, non guardare!...", dissi a Usher rabbrividendo e tentando di allontanarlo con gentile violenza dalla finestra. "Queste apparizioni che ti convolgono non sono altro che fenomeni elettrici non rari, o che hanno origine dalle intense esalazioni dello stagno. E' meglio chiudere la finestra. Fa freddo, la tua salute può risentirne. Ho qui uno dei tuoi romanzi preferiti; io leggerò per te, tu ascolterai...e questa terribile notte passerà."
    L'antico volume che avevo preso in mano era il Mad Trist di sir Lancelot Canning; per scherzo, ma un malinconico scherzo, lo avevo definito il preferito da Usher; in realtà ben poco del suo andamento prolisso e privo di immaginazione poteva interessare l'animo nobile e raffinato del mio amico. Ma era l'unico libro a portata di mano e avevo la speranza che l'agitazione che lo torturava potesse placarsi (nella storia della follia simili anomalie sono frequenti) proprio con la lettura di vicende eccezionalmente pazze.
    A giudicare dall'attenzione con cui ascoltava o fingeva di ascoltare, avrei potuto congratularmi con me stesso per questa buona iniziativa.
    Ero in procinto di leggere quel famoso passo in cui l'eroe del Trist, Ethelred, dopo aver tentato invano di essere ammesso pacificamente nell'abitazione dell'eremita, decide di entrare usando la forza. Ecco le parole del racconto: "Ethelred, impavido per natura e reso più incosciente dal vino trangugiato, non volle più umiliarsi nel chiedere ascolto all'eremita, uomo ostinato e maligno, ma alla prima pioggia che sentì cadere e paventando lo scatenarsi dell'uragano, senza altro indugio sollevò la mazza ferrata e con furiosi colpi divelse le assi della porta. Spezzò e schiantò tutto mentre il rumore del legno secco che si spaccava risvegliava con la sua eco tutta la foresta."
    Su questa battuta mi fermai trasalento; mi era parso, ma decisi subito che la fantasia mi stava giocando brutti titi, mi era parso di udire, proveniente da un lato molto remoto della casa, un rumore, l'eco, soffocata e sorda, di quel rumore del legno secco spezzato che sis Launcelot aveva così dettagliatamente descritto. Sicuramente si trattava di una coincidenza che si era proposta alla mia attenzione, visto che lo strepito cigolante degli infissi e il fragole del temporale erano tanto invadenti che quel rumore in sè non poteva colpirmi o turbarmi. Ripresi a leggere: "Ma il gagliardo Ethelred, oltrepassata la soglia, dovette sorprendersi e molto adirarsi a non trovare dinanzi a sè l'eremita; al suo posto un drago d'orrido aspetto, coperto di squame e dalla lingua infuocata, messo a guardia di un palazzo d'oro e argento. Dal muro pendeva uno scudo bronzeo che portava la scritta: Varcata la soglia sarai vincitore, uccisa la bestia, lo scudo al migliore. Allora Ethelred, sollevata la mazza, la calò sulla testa del drago frantumandola. Il drago esalando l'ultimo pestilenziale respiro cacciò un urlo tanto forte e aspro che Ethelred dovette tapparsi le orecchie per non sopportarne l'orrendo rumore mai prima d'allora udito."
    Mi fermai di nuovo bruscamente, in preda allo stupore, non vi erano dubbi, questa volta l'avevo udito -difficile soltanto capire da dove provenisse- l'urlo lontano, ma forte e apro, come nel racconto, lo stesso urlo innaturale del drago descritto dal narratore. Colpito da questa seconda straordinaria coincidenza, oppresso da mille sensazioni contrastanti in cui dominavano la sorpresa e il terrore, tentai di conservare la calma per evitare al mio amico un'ennesima sovreccitazione del suo fragile sistema nervoso. Non ero certo che si fosse accorto anche lui dei rumori, sicuramente però nel suo comportamento da alcuni minuti era visibile una strana alterazione.
    Dalla posizione iniziale, seduto di fronte a me, aveva lentamente e progressivamente girato la seggiola in modo da guardare la porta; per questo potevo vederne soltanto una parte del viso e notare il tremito delle labbra, come se stesse mormorando parole intellegibili. La testa era reclinata sul petto e dallo scorcio del suo profilo capii che non dormiva, anzi i suoi occhi erano spalancati. Anche il movimento del corpo era in contrasto con l'ipotesi che dormisse, dondolava innanzi e indietro in modo costante e uniforme.
    Ripresi a leggere: "A questo punto l'eroe salvatosi dalla furia del drago, ricordò lo scudo di bronzo e l'incantesimo dal quale era stato liberato, calpestò la carogna che gli ostacolava il passo e si mosse arditamente sul pavimento d'argento del castello, verso il luogo in cui era appeso lo scudo, che non attese il suo arrivo e cadde ai suoi piedi con un rimbombo greve e terribile."
    Appena pronunciate queste parole, nello stesso momento, come se uno scudo di bronzo fosse veramente caduto pesantemente su un pavimento d'argento, udii una vibrazione metallica, cava e sonora, che sembrava smorzata.
    Sfinito e con i nervi a pezzi, balzai in piedi precipitandomi verso la seggiola in cui era seduto Usher. Aveva gli occhi fissi davanti a sè e il suo volto sembrava pietrificato; appena poggiai la mano sulla spalla tutto il suo corpo cominciò a tremare violentemente; un torvo sorriso ne deformava la bocca, vedevo che parlava in modo sommesso e frettoloso; balbettava parole inarticolate senza avvedersi di me.
    Quando mi chinai su di lui finalmente riuscii a cogliere l'orrendo senso delle sue parole.
    "Non l'ho sentito? Certo che l'ho sentito...sempre...per lunghi minuti, per giorni lo sentivo...e non ho osato...oh! pietà di me!...miserabile disgraziato...niente altro sono...non ho avuto coraggio...non ho osato...l'abbiamo sepolta viva! Non ti avevo detto dell'acutezza dei miei sensi? Ti dico ora che ho sentito i suoi primi deboli movimenti nella cavità della cripta, dentro quella orrenda bara. Li ho sentiti tanti e tanti giorni fa, eppure non osavo parlare. E adesso, questa notte Ethelred ah! ah! L'abbattimento della porta dell'eremita, l'urlo del drago, il clamore dello scudo!!! Di' piuttosto l'infrangersi della sua bara, il suono stridente dei cardini di ferro della sua prigione e la sua vana lotta contro l'arcata di rame della cripta!! Dove fuggirò? Lei sarà qui, tra poco! Non sta forse già affrettandosi per rimproverarmi la mia precipitazione? Non si sentono già i suoi passi per le scale? Non sto ascoltando per caso l'orribile battito del suo cuore affannato? Pazzo!"
    Balzò in piedi preso da una tremenda furia e urlò, come se questo estremo sforzo esalasse la sua anima, queste parole: "Pazzo, ti dico, ORA ELLA E' IN PIEDI FUORI DI QUESTA PORTA."
    Sembrò quasi che la sovrumana energia della sua voce avesse la forza di un incantesimo, le pesanti ante dell'antica porta, che parlando indicava, aprirono lentamente le loro fauci nere.
    Fu certamente per effetto di una forte raffica di vento, ma fuori della porta stava in piedi, avvolta nel sudario, la figura amata di lady Madeline Usher.
    I suoi bianchi abiti erano macchiati di sangue e i segni di un'aspra lotta erano visibili su tutto il suo corpo emaciato. Per un attimo rimase tremante, barcollante sulla soglia, poi con un lungo e terribile gemito sommesso, cadde pesantemente sul corpo del fratello, e nei supremi e violentissimi, ultimi, spasimi della agonia lo trascinò sul pavimento, cadavere e vittima dei terrori che lui stesso aveva anticipato.
    Da quella stanza e da quella casa fuggi terrorizzato.
    L'uragano infuriava ancora con forza, mentre attraversavo l'antico sentiero. Improvvisamente rifulse una stranissima luce. Mi volsi per capire da dove poteva venire, se dietro di me c'erano soltanto l'immensa casa e le sue ombre. Erano i raggi della luna piena che stava tramontando, rossa come sangue, che d'improvviso splendevano vividamente attraverso quella crepa nel muro della casa di cui ho già parlato, che attraversava a zig zag tutta la facciata, dal tetto alla base. Mentre la guardavo, la crepa si allargò rapidamente, l'aria turbinava impazzita, credetti di cogliere l'intera orbita del satellite, il mio cervello vacillò mentre vedevo le possenti mura spalancarsi. Sentii un lungo tumultante rumore simile al frastuono di mille acque e il profondo stagno nero ai miei piedi si chiude, cupo e silenzioso, su quello che restava della casa Usher.

    Edited by Nile - 27/6/2013, 22:01
  8. .
    Benvenuto
  9. .
    Benvenuto
  10. .
    Probabilmente perché è una donna xD
    Ho dato un esempio di entrambi, giusto per completezza di informazione xD
  11. .
    Benvenuto!
  12. .
    Leggi qui: X
  13. .
    Non è una cattiva idea, basta scegliere bene le categorie
  14. .
    Quando uscii dalla stazione della metropolitana pioveva a dirotto. Apii il mio ombrello e cominciai a camminare, ma sentivo che qualcosa non andava. L'atmosfera era sgradevole...strana...
    Ogni singola persona che incontrai lungo il cammivo non aveva l'ombrello. Tutti restavano in silenzio e con uno sguardo torvo; tutti loro camminavano, guardando nella stessa direzione.
    Improvvisamente un taxi si fermò, ed il conducente sporse un braccio dal finestrino, facendomi segno di avvicinarmi. A gesti cercai di fargli capire che non mi serviva un taxi, ma il conducente mi rispose "Su, salga!".
    Era così insistente che fui costretta a cedere. Inoltre, volevo andarmene da quella sgradevole atmosfera.

    Più tardi il tassista, pallido in volto, mi disse "Quando l'ho vista mentre cercava di scansare delle persone in una strada deserta ho pensato che forse avrei potuto aiutarla..."

    290px-Crowd

    Tradotto da qui: X


    Edited by DamaXion - 18/12/2016, 19:08
  15. .
    Jeffrey e Tom amavano il baseball. Da ragazzi, avevano persino giocato nel team locale. Jeffrey era il lanciatore, e Tom giocava in seconda base. Ora che sono cresciuti, spendono il loro tempo libero guardando le partite di baseball in televisione e parlandone tra loro.
    “Secondo te in Paradiso giocano a baseball?” chiese un giorno Jeffrey a Tom.
    “E' una bella domanda” rispose Tom “Il primo che otterrà la risposta lo farà sapere all'altro, in qualche modo”
    Tom fu il primo ad andare in paradiso, dopo un brutto incidente d'auto. Jeffrey aspettò pazientemente di avere sue notizie. Un giorno Jeffrey trovò Tom, trasparente, nel soggiorno. Si spaventò, ma era anche curioso.
    “Allora, com'è lassù?” chiese Jeffrey “E giocano a baseball?”
    “Per quanto riguarda il baseball ho una notizia buona e una cattiva” rispose Tom “Quella buona è che sì, giochiamo a baseball in Paradiso. Abbiamo diversi team. Infatti io gioco in seconda base, proprio come ai vecchi tempi”
    “Qual'è la cattiva?” chiese Jeffrey

    “La cattiva è che...” cominciò Tom “...tocca a te lanciare domani”

    Tradotta da qui: X
150 replies since 22/7/2006
.