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    Sui piloni dei viadotti italiani, lungo le autostrade, sul cemento dei muri di contenimento o sui cartelli stradali appaiono talvolta strane ed ermetiche scritte. La più celebre è DIO C’È. Secondo una leggenda metropolitana, sarebbe opera di un frate francescano che, percorrendo l’Italia a piedi, avrebbe deciso di quando in quando di riaffermare (assecondando istinti piuttosto vandalici, a dire il vero) l’esistenza del Signore. Un’altra spiegazione, mai pienamente confermata, è che si trattasse di un linguaggio in codice camorristico per segnalare la presenza di spacciatori nei paraggi: qualche appassionato di enigmistica ha addirittura pensato che la scritta fosse un acronimo per “Droga In Offerta: Costo Economico”.


    Ancora più incomprensibili e spiazzanti erano i caratteri cubitali che sembravano pubblicizzare o profetizzare un misterioso EMOSCAMBIO, con una caratteristica “E” disegnata come la lettera greca sigma, e seguiti da un numero di telefono. Se ne ricorderà chi, nato negli anni ’70, viaggiava spesso in Nord Italia: campeggiavano su casolari abbandonati, fabbriche in disuso e altri punti poco frequentati. Ma a cosa facevano riferimento quei criptici messaggi sullo “scambio di sangue”?


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    La realtà che si cela dietro alle scritte è sorprendente, e rimane ancora in parte inspiegata. Chiunque si fosse appuntato il numero telefonico, e avesse deciso una volta tornato a casa (non esistevano i cellulari allora!) di saperne di più sul fantomatico emoscambio, avrebbe sentito dall’altro capo della cornetta una segreteria telefonica che lo ragguagliava sui punti salienti di una particolare teoria salutistica, invitandolo poi a spedire un contributo di almeno 10.000 lire ad una casella postale dell’aeroporto Linate a favore dell’I.I.D.F., Istituto Italiano di Fisiologia.


    Ora, un simile Istituto non è mai esistito. Il numero di telefono era quello di un’abitazione privata di Segrate (MI), dove viveva un signore di nome Vito Cosmaj.


    L’unica traccia ufficiale dell’attività di Cosmaj si può trovare nei bollettini del Registro Pubblico Generale delle opere protette dalla legge sul diritto d’autore relativi alla fine degli anni ’70: in quel periodo risulta che Vito Cosmaj avesse facoltà di godere dei diritti di alcune opere edite a sue spese, vale a dire il trattato Fisiologia Universale (Umana Sociale e Cosmica), edito a Lodi dallo stampatore Lodigraf nel 1978, il manuale intitolato T.A.F. – Tecnologia dell’Amplesso Fisiologico (registrato il 13/03/1980), una sua revisione (del 30/12/1980) e infine nientemeno che un Vangelo Secondo Vito Cosmaj (13/10/1980).


    Già questi titoli sarebbero abbastanza eccentrici da stimolare la fantasia di un qualsiasi indagatore. Ma quando si scopre a quali ricerche si dedicasse il nostro Cosmaj, le cose si spingono ancora più fuori dall’ordinario.


    Uno dei fondamenti della sua dottrina era la cosiddetta T.A.F., o Tecnica dell’Amplesso Fisiologico, volta a ristabilire la corretta posizione durante l’accoppiamento: secondo Vito Cosmaj, era essenziale ritornare alla copula naturale, tipica di tutti gli animali, in cui l’uomo prende la donna da dietro, restando in piedi. Far l’amore a letto nella posizione del “missionario”, invece, era a suo dire una perversione inaccettabile, “posizione sbagliata, innaturale e non fisiologica (ossia pornografica, tolemaica, cristiano-ebraica islamico-democristiana)”.


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    I volantini distribuiti da Vito Cosmaj sono un piccolo capolavoro dell’assurdo, che ricorda il futurismo e il surrealismo: per mezzo di costanti divagazioni e pungolature alla politica e alla borghesia, l’autore disegna una specie di folle programma pseudoscientifico per rivoluzionare la realtà italiana. Il gusto dissacrante e ironico è evidente, a partire dalle invenzioni linguistiche (fare sesso con il metodo T.A.F. diventa “taffare”, la laurea che è possibile conseguire presso il fantomatico Istituto è chiamata “Addottorato”, ecc.) fino alla finta pubblicità che reclamizza una cintura di castità prodotta dalla Virgo-Virginis S.p.A. di Palermo, dal capitale sociale di 999 miliardi di lire “interamente versato”…

    Prendiamo ad esempio la descrizione dell’esame finale per ottenere l’Addottorato:


    PER OTTENERE la suddetta laurea è necessario superare un esame con prova pratica ed orale in seno all’I.I.D.F.

    L’ADDOTTORATO in questione è riservato ai soli MASCHI celibi, ammogliati, separati, divorziati, vedovi, ecc. ecc. di nazionalità italiana con età non inferiore agli anni 21, mentre tale laurea è interdetta alle femmine per ovvi motivi, ai religiosi (preti, frati, vescovi, cardinali, papi, ajatolli, archimandritti, ebrei, buddisti, maomettani, cristiani, democristiani, testimoni di geova, protestanti, ortodossi, valdesi, ecc. ecc.), ai reclusi, agli unisex, ai dementi e ciarlatani che insegnano ed hanno imparato la fisiologia negli atenei del nostro “glorioso Stato Italiano”, e a tutti coloro insomma che non avranno superato l’esame per qualsivoglia motivo […]. L’I.I.D.F. non procura femmine da taffare agli esaminandi. È proibita ogni forma di leccamento, succhiamento, masturbazione o toccamento manuale agli organi sessuali da parte di entrambi i soggetti. L’unica eccitazione ammessa è il dimenare del sedere della femmina contro i genitali del maschio e viceversa per 20” dopo di che CHI NON HA EREZIONE OPPURE NON RIESCA A COMPENETRARE LA FEMMINA NELL’ORIFIZIO GIUSTO VIENE INESORABILMENTE BOCCIATO ED ESPULSO DALL’I.I.D.F. […] Premio di consolazione per i bocciati: uno stronzetto d’oro (falso naturalmente) da appuntare all’occhiello quale distintivo.


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    Tra frecciate rabbiose alle religioni, alla Democrazia Cristiana e alla scienza, citazioni farlocche di Napoleone Bonaparte e del generale Cambronne, e virulenti aforismi, Cosmaj costruisce dei testi pirotecnici che avrebbero fatto la felicità di Queneau o di Umberto Eco.

    Ancora sulla T.A.F.:


    L’UOMO però imbecille come sempre, che si sente orgoglioso ed evoluto solo perché è riuscito a sbarcare sulla luna, mentre gli UFO sono ogni giorno di più una realtà e poi perché è riuscito a costruire una bomba (termonucleare) con la quale autodistruggersi, e poi perché è furbo a non finire, è riuscito a crearsi un DIO dentro il quale e per mezzo del quale giustificare tutti i misteri della natura e nascondere tutte le proprie capacità, miserie e limiti che non vuole riconoscersi per paura di perdere di dignità (anziché di trovarla) DOPO 2000 ANNI dal giorno in cui cominciò a misurare la propria esistenza, questa tecnica ancora ignora! PER I PAZZI ovviamente è più importante e più glorioso escogitare il sistema per autordistruggersi piuttosto che quello di vivere bene, armonicamente ed equilibratamente! […] L’UOMO CHE NON SA COMPIERE L’AMPLESSO (O MEGLIO TAFFARE) NUDO MENTRE GLI ALTRI LO OSSERVANO È UN UOMO CHE HA VERGOGNA DELLE PROPRIE AZIONI: Insomma NON È UN UOMO, MA UNA MERDA! (E per la donna vale lo stesso!)


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    Ora, leggendo queste righe, la domanda sorge spontanea: Cosmaj ci era o ci faceva?

    A prima vista tutta la questione dell’emoscambio sembra infatti un’elaborata burla, un esercizio di patafisica. Purtroppo Vito Cosmaj è morto nella prima metà degli anni ’90, e a parte il flano pubblicitario non rimangono altri indizi per conoscere qualcosa di più della sua visione. L’unica pista da seguire è trovare chi l’ha conosciuto di persona.


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    L’abbiamo fatto, chiedendo qualche delucidazione a un altro personaggio particolarmente colorito: Gian Paolo Vanoli, che si autodefinisce “Sovrano Individuale” e “Giornalista Investigativo specializzato in Sanità da 40 anni”. Gestore di un sito di medicina alternativa e recentemente al centro di polemiche a causa delle controverse dichiarazioni rilasciate a Vice e rimbalzate sui siti internazionali, Vanoli bazzica da sempre tutto il variegato sottobosco di teorie sanitarie non convenzionali ed è strenuo sostenitore delle virtù terapeutiche derivanti dal bere la propria urina. Ma quello che ci interessa qui è la sua relazione con Vito Cosmaj, che Vanoli ha conosciuto e della cui assoluta serietà riguardo all’emoscambio si dice convinto. Secondo Vanoli, il fulcro di tutto il pensiero di Cosmaj era proprio la trasfusione di sangue a fini salutistici.


    Ci scrive Vanoli: “L’ho conosciuto incontrandolo solo una volta nella quale abbiamo parlato della sua teoria e mi sono convinto che la praticava personalmente con altri. Infatti gli avevo detto di fare molta attenzione perché con lo scambio del sangue si importano le tossine ed il DNA alterato dei donatori e quindi possibili malattie e morte prematura… cosa che si è realizzata in lui.

    NON ricordo di cosa vivesse, perché sono passati molti anni.

    NON era una burla, la praticava regolarmente ogni tanto.

    Per me è una pratica antica, ma NON salubre, quindi non sono d’accordo nel propagandarla.


    Il dubbio, però, resta. Sia che praticasse davvero delle pericolose trasfusioni, sia che la sua bizzarra propaganda nascondesse in realtà un progetto artistico o che il buon Cosmaj fosse semplicemente un po’ fuori di testa, le sue tracce sono ormai svanite. Anche le innumerevoli, gigantesche scritte che personalmente disegnava sulle superstrade o sugli edifici abbandonati stanno scomparendo a poco a poco, e con esse sparisce anche un folle e affascinante segreto.


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    Ringraziamo il nostro lettore Silvio per averci segnalato questa pagina web, che ha iniziato le ricerche sull’emoscambio, e in particolare l’utente David che nella sezione dei commenti proprio su quella pagina ha approfondito la questione.





    Fonte: Bizzarro Bazar
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    Un pallido sole era appena sorto quella mattina, quando un soldato bussò alla porta dell’Angelo. Non avrebbe mai disturbato il suo sonno, se non fosse stato certo di portargli una scoperta davvero eccezionale. Udita la novità, l’Angelo si vestì in men che non si dica e si affrettò verso i cancelli, gli occhi brucianti di trepidazione.

    Era il 19 maggio 1944, ad Auschwitz-Birkenau, e Josef Mengele stava per incontrare la più grande famiglia di nani di cui si avesse notizia.



    Gli Ovitz erano originari di Rozavlea, un villaggio nel distretto di Maramureș in Transilvania (Romania). Il loro patriarca era il rabbi itinerante Shimson Eizik Ovitz, affetto da pseudoacondroplasia, una forma di nanismo; nell’arco di due matrimoni egli aveva avuto dieci figli, di cui sette affetti dalla sua stessa malattia genetica. Cinque di loro erano femmine, e due maschi.

    Il nanismo impediva i lavori manuali e faticosi: come risolvere il paradosso di una famiglia così numerosa in cui la forza lavoro era però quasi inesistente? Gli Ovitz decisero di rimanere il più uniti possibile, e si dedicarono all’unica attività che avrebbe garantito una vita decorosa a tutti loro: lo spettacolo.



    Fondarono quindi la “Lilliput Troupe”, uno show itinerante in cui si esibivano soltanto i sette fratelli e sorelle nani; gli altri membri della famiglia, di media statura, operavano dietro le quinte occupandosi della stesura degli sketch, dei costumi o lavorando come manager per ottenere nuovi ingaggi. Il loro show di due ore consisteva principalmente in numeri musicali, in cui la famiglia proponeva le hit del momento suonando strumenti costruiti su misura (piccole chitarre, viole, violini, fisarmoniche). Per quindici anni girarono con enorme successo tutta l’Europa centrale, unico spettacolo di soli nani nella storia dell’intrattenimento, finché l’ombra scura del Nazismo non li raggiunse.


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    Gli Ovitz, sulla carta, erano destinati a morire. Innanzitutto perché erano ebrei osservanti; e in secondo luogo perché erano “malformati”, e secondo il programma di eutanasia chiamato Aktion T4 le loro erano “vite indegne di essere vissute” (Lebensunwertes Leben). All’epoca del loro arrivo ad Auschwitz, erano in dodici. Il più giovane era un bambino di 18 mesi.



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    Josef Mengele, soprannominato l’Angelo della Morte (Todesengel), è rimasto una delle figure più tristemente celebri di quegli inimmaginabili anni di terrore. Nei racconti dei sopravvissuti, il suo personaggio è senza dubbio il più enigmatico e spiazzante: uomo colto e raffinato, doppia laurea in antropologia e medicina, affascinante come un divo di Hollywood, Mengele possedeva un secondo volto, fatto di violenza e crudeltà, capace di affiorare in maniera del tutto disinvolta. A quanto si racconta, poteva portare zucchero ai bambini nel campo nomadi, suonare il violino per loro e, poco dopo, iniettare nel loro cuore del cloroformio su un tavolo di laboratorio o compiere personalmente un’esecuzione di massa a colpi di pistola. In qualità di medico del campo, spesso iniziava la giornata stando sulla banchina e decidendo con un colpo d’occhio e un gesto della mano chi fra i nuovi deportati era destinato al campo o a essere eliminato nelle camere a gas.

    Era nota la sua ossessione per i gemelli, che secondo le sue ricerche e quelle del suo mentore Otmar von Verschuer (sempre bene informato delle attività del suo pupillo), avrebbero racchiuso i segreti definitivi dell’eugenetica. Mengele condusse esperimenti umani di ineguagliato sadismo, infettando individui sani con varie malattie, eseguendo dissezioni a paziente vivo e senza anestesia, iniettando inchiostro negli occhi per provare a renderli più “ariani”, sperimentando veleni e bruciando i genitali delle sue cavie con l’acido. Mengele non era uno scienziato pazzo che operava di nascosto, come si era inizialmente creduto, ma era spalleggiato dall’élite della comunità scientifica tedesca: essi godevano sotto il III Reich di inusitata libertà, a patto che dimostrassero che le loro ricerche fossero relative alla costruzione di una razza superiore di combattenti – uno dei chiodi fissi di Hitler.


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    “Ora ho lavoro per vent’anni”, esclamò Mengele. Appena vide la famiglia Ovitz, dispose immediatamente che venissero risparmiati e collocati in baracche privilegiate, in cui avrebbero ricevuto razioni di cibo più abbondanti e goduto di migliore igiene. Era particolarmente interessato al fatto che la famiglia comprendesse sia individui di media statura che affetti da nanismo, così ordinò che anche i membri “normali” fossero salvati dalle camere a gas. A quel punto, anche alcuni altri prigionieri dello stesso villaggio degli Ovitz dichiararono di essere loro parenti (e gli Ovitz si guardarono bene dal tradirli), e vennero spostati assieme a loro.


    In cambio di una vita relativamente più agiata rispetto agli altri internati – non erano stati rasati a zero, né costretti ad abbandonare i propri vestiti – gli Ovitz vennero sottoposti a una serie di esperimenti. Mengele prelevava regolarmente ingenti campioni di sangue (anche dal piccolo di 18 mesi).


    Resoconti scritti di medici deportati gettano ulteriore luce sulle infinite misurazioni e comparazioni antropologiche tra gli Ovitz e i loro vicini di casa, che Mengele aveva scambiato per appartenenti alla famiglia. I dottori prelevarono midollo osseo, estrassero denti sani, strapparono capelli e ciglia, e svolsero test psicologici e ginecologici su tutti loro.

    Le quattro donne nane sposate furono sottoposte ad attento scrutinio ginecologico. Le ragazze minorenni del gruppo erano terrificate dalla fase successiva dell’esperimento: temevano che Mengele le accoppiasse con i maschi nani e trasformasse i loro uteri in veri e propri laboratori, per vedere quale progenie ne sarebbe risultata. Si sapeva che Mengele l’aveva già fatto con altri soggetti sperimentali.


    (Koren & Negev, The dwarfs of Auschwitz)


    In tutto questo, l’Angelo bianco manteneva un rapporto volutamente ambiguo con la famiglia, in continuo equilibrio fra la spietata crudeltà e l’inaspettata gentilezza. D’altronde, se aveva raccolto centinaia di gemelli e poteva permettersi di sacrificarli quando voleva (si racconta di sette coppie di gemelli uccisi in una sola notte), aveva soltanto una famiglia di nani.

    Eppure gli Ovitz non coltivavano finte speranze: erano consci che, nonostante i privilegi, sarebbero morti lì.


    Invece vissero abbastanza a lungo da vedere la liberazione di Auschwitz il 27 gennaio 1945. Camminarono per ben sette mesi per tornare al loro villaggio, ma trovarono la loro casa completamente saccheggiata; quattro anni più tardi emigrarono in Israele, e ricominciarono i loro spettacoli fino a quando non si ritirarono dalle scene nel 1955.


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    Mengele, com’è noto, scappò in Sudamerica sotto falso nome e nei suoi oltre trent’anni da fuggitivo la sua leggenda crebbe a dismisura, amplificandone le già terribili gesta fino a identificarlo con una sorta di demonio che gettava bambini vivi nel forno e uccideva per semplice divertimento. Diversi resoconti ne restituiscono una versione meno esagerata e colorita, ma non per questo meno inquietante: gli esperimenti umani condotti a Birkenau (e, nello stesso periodo, in Cina all’interno della famigerata Unità 731) sono fra gli esempi più agghiaccianti di una ricerca scientifica che si stacca completamente dalla questione etica.



    L’ultima appartenente alla famiglia, Perla Ovitz, si spense nel 2001. Fino alla fine continuò a raccontare la storia della sua famiglia, racchiudendo in una sola frase tutta l’impotenza e la dolorosa assurdità di una simile vicenda, impossibile da spiegare a se stessa e al mondo: “mi sono salvata per grazia del diavolo“.


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    Per approfondire:


    Un estratto video dal documentario The Seven Dwarfs of Auschwitz (acquistabile e scaricabile qui) , in cui è presente anche uno stralcio del racconto di Perla Ovitz.

    Giants: The Dwarfs of Auschwitz (Koren&Negev, 2013) è la principale ricerca sulla famiglia Ovitz, basata sulla testimonianza di Perla Ovitz e decine di altri superstiti.

    Children of the Flames: Dr. Josef Mengele and the Untold Story of the Twins of Auschwitz (Lagnado e Dekel, 1992) racconta degli esperimenti di Mengele sui gemelli, con interviste a innumerevoli sopravvissuti.

    – Il video in cui il figlio di Mengele, Rolf, racconta del suo incontro con il padre – che non aveva mai conosciuto e che viveva in incognito in Brasile.

    La verità su Cândido Godói, paesino del Brasile con un’inaspettata incidenza di parti gemellari, in cui negli anni ’60 si aggirava uno strano medico tedesco: Mengele ha continuato i suoi esperimenti in Sud America?





    Fonte: Bizzarro Bazar
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    Un tempo, sulla midway dei circhi o dei Luna Park, fra l’odore di hot dog e le grida degli imbonitori, si potevano vedere straordinarie attrazioni secondarie, dai mangiatori di fuoco alle donne barbute, dalle ballerine elettriche alle mostruosità più esotiche (ne abbiamo parlato ad esempio qui e qui).

    Eppure, oltre al fascino che ancora esercita su di noi quest’epoca di ingenua meraviglia, c’è un’altra e meno conosciuta ragione per cui dovremmo essere grati alle vecchie fiere itineranti: fra coloro che stanno leggendo queste righe, quasi uno su dieci è vivo anche grazie ai sideshow.


    Questa è la strana storia di come i Luna Park, e la caparbietà di un medico visionario, contribuirono a salvare milioni di vite umane.



    Fino alla fine dell’800, i bambini nati prematuri non avevano pressoché alcuna possibilità di sopravvivenza. Gli ospedali non disponevano di unità neonatali in grado di assicurare cure efficaci per il problema, dunque i prematuri venivano ridati ai genitori affinché li portassero a casa — in pratica, a morire. Con ogni evidenza, Dio aveva deciso che quei bambini non fossero destinati a sopravvivere.

    Nel 1878 un celebre ostetrico parigino, il Dr. Étienne Stéphane Tarnier, visitò una mostra chiamata Jardin d’Acclimation in cui veniva esibito anche un innovativo metodo di allevamento del pollame in ambiente riscaldato da un sistema idraulico, inventato da un impiegato dello Zoo di Parigi; immediatamente, il medico pensò di applicare lo stesso sistema ai neonati prematuri e commissionò la costruzione di una scatola che permettesse di condizionare la temperatura dell’ambiente in cui il bambino si trovava.

    Dopo le prime, positive sperimentazioni all’Ospedale di Maternità di Parigi, ben presto l’incubatore fu dotato di una campanella che suonava quando la temperatura si alzava troppo.

    Il suo braccio destro, Pierre Budin, sviluppò ulteriormente il concetto dell’incubatore di Tarnier, studiando da una parte come isolare e proteggere i fragili neonati dalle malattie infettive, e dall’altra ricercando le modalità e le quantità corrette di alimentazione di un bimbo prematuro.



    Ma nonostante i buoni risultati, la comunità medica stentava a riconoscere l’utilità degli incubatori. Si trattava principalmente di una riserva dettata dalla mentalità dell’epoca: come ricordato, riguardo i bambini prematuri l’atteggiamento era piuttosto fatalista, e la morte dei piccoli più deboli era considerata inevitabile fin dall’alba dei tempi.


    Fu così che Budin si decise a spedire un suo collaboratore, il Dr. Martin Couney, all’Esposizione Mondiale di Berlino nel 1896. Couney, il vero protagonista della nostra storia, era un personaggio fuori dal comune: al di là delle sue competenze di ostetrico, aveva uno sviluppato carisma e la verve di un vero animale da palcoscenico; queste sue doti si rivelarono, come vedremo, fondamentali per la riuscita della sua missione.

    Couney, al fine di creare un po’ di clamore e diffondere meglio la novità, ebbe l’idea di esporre negli incubatori dei bambini prematuri in carne ed ossa. Dimostrando una notevole faccia tosta, chiese direttamente all’Imperatrice Augusta Vittoria di poter utilizzare alcuni infanti dell’Ospedale di Carità di Berlino. Il favore gli fu accordato, visto che comunque i neonati erano destinati a morte certa.

    Però nessuno dei bambini alloggiati negli incubatori morì, e l’esposizione di Couney, intitolata Kinderbrutanstalt (“vivaio di bambini”) ebbe un’eco clamorosa in tutta la città.




    Il successo si ripeté a Londra l’anno seguente, all’Esibizione di Earl’s Court (Couney totalizzò 3600 visitatori al giorno), e nel 1898 all’Esposizione Trans-Mississippi ad Omaha, Nebraska. Nel 1900 tornò a Parigi, all’Esposizione Mondiale, e nel 1901 alla Pan-American a Buffalo, NY.


    L'edificio costruito per gli incubatori a Buffalo.

    L’edificio costruito per ospitare gli incubatori a Buffalo.


    Gli incubatori all’Esposizione di Buffalo.


    Negli Stati Uniti, però, c’era una resistenza ancora maggiore nell’accettare questa innovazione e implementarla negli ospedali.

    C’è da sottolineare che nonostante Couney stesse esibendo un’invenzione medica, lo stand con gli incubatori veniva (con suo grande disappunto) invariabilmente relegato nelle aree destinate al divertimento invece che nella sezione scientifica.

    Fu forse per questo motivo che nel 1903 Couney prese una coraggiosa decisione.


    Gli americani pensavano che quella non fosse altro che una trovata da circo? Bene, allora avrebbe dato loro l’intrattenimento che volevano. Ma a pagamento.


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    Couney si trasferì definitivamente a New York, e aprì una nuova attrazione al parco di divertimenti stabile di Coney Island. Per i 40 anni successivi, ogni estate, il medico esibì bambini prematuri nei suoi incubatori, al costo di entrata di un quarto di dollaro. Il pubblico affluiva numeroso per contemplare quei bambini estremamente sottopeso, gracili e indifesi, che dormivano nelle loro scatole di vetro temperate. “Mio Dio, guarda che piccolo!“, si sentiva esclamare dalla folla, mentre la gente scorreva lungo la ringhiera che la teneva separata dalla corsia di incubatori, infilati l’uno dietro all’altro.




    Couney, per enfatizzare le dimensioni minute dei suoi neonati, cominciò a ricorrere anche a trucchi da vero e proprio imbonitore: se il bimbo non era abbastanza minuscolo, aumentava le coperte che lo avvolgevano per farlo apparire più piccolo. L’infermiera Madame Louise Recht, al fianco di Couney fin dalle primissime esibizioni a Parigi, di tanto in tanto infilava il suo anello sul braccio dei neonati, per dimostrare quanto fossero sottili i loro polsi: peccato che l’anello fosse in realtà di dimensioni sproporzionate anche per il dito dell’infermiera.


    Madame Louise Recht con uno dei neonati.

    Madame Louise Recht con uno dei neonati.


    Bambino prematuro con al polso l’anello dell’infermiera.


    L’attività di Couney, che presto si allargò a contare due centri di incubazione (uno a Luna Park e uno a Dreamland), può sembrare ai nostri occhi piuttosto cinica. Eppure non era affatto così.

    I bambini ospitati nelle sue attrazioni erano stati rifiutati dagli ospedali della città, e consegnati ai genitori che non avevano speranze di vederli sopravvivere; il “Doctor Incubator” prometteva alle famiglie di curarli senza alcuna spesa da parte loro, a patto di poterli esporre al pubblico. I 25 centesimi che il pubblico pagava per vedere i neonati coprivano interamente le elevate spese di incubazione e di alimentazione dei piccoli, garantendo addirittura un modesto margine di guadagno per Couney e i suoi collaboratori. In questo modo, i genitori avevano un’opportunità di salvare il proprio bambino senza sborsare un soldo, e Couney poteva continuare la sua opera di sensibilizzazione sull’importanza e l’efficacia del metodo.

    Cosa più unica che rara nell’America di inizio secolo, Couney non faceva nemmeno distinzioni di razza, esibendo neonati di colore a fianco di neonati dalla pelle chiara. I suoi incubatori annoverarono fra i loro “ospiti” anche la figlia prematura di Couney stesso, Hildegarde, che più tardi divenne infermiera e affiancò il padre nella gestione dell’attrazione.


    Infermiere con bambini alla Fiera Mondiale di Flushing, NY. Al centro la figlia di Couney, Hildegarde.


    Oltre ai suoi due stabilimenti di Coney Island (uno dei quali rimase distrutto nel terribile incendio del 1911), Couney continuò a portare in tour per tutti gli Stati Uniti i suoi incubatori, da Chicago a St. Louis a San Francisco.

    In quarant’anni di attività Couney trattò circa 8000 bambini e salvò almeno 6500 vite; ma la sua instancabile ostinazione nel divulgare l’incubatore ebbe effetti ben più vasti. I suoi sforzi, sul lungo termine, contribuirono all’apertura delle prime unità ospedaliere di cura intensiva neonatale, oggi presenti in tutto il mondo.




    Dopo un picco di popolarità a inizio secolo, sul finire degli anni ’30 il sucesso degli incubatori di Couney cominciò a calare. Si trattava di un’attrazione ormai vecchia e risaputa.

    Quando il primo reparto per bambini prematuri venne inaugurato al Cornell’s New York Hospital, nel 1943, Couney confidò a suo nipote: “la mia opera è conclusa“. Dopo 40 anni di quella che aveva sempre considerato propaganda a fin di bene, chiuse definitivamente la sua attività a Coney Island.


    Martin Arthur Couney (1870–1950).


    La maggior parte delle informazioni presenti in questo post provengono dallo studio più approfondito sull’argomento, ad opera del Dr. William A. Silverman (Incubator-Baby Side Shows, in Pediatrics, 1979).


    (Grazie, Claudia!)




    Fonte: Bizzarro Bazar
  4. .


    Quello del medico è un mestiere strano: da una parte professione, dall’altra vocazione per così dire “assoluta”, che dovrebbe prescindere dal tornaconto e dal benessere personale. In effetti, dal giuramento di Ippocrate in poi, ogni medico è tenuto a prestare soccorso anche al di fuori dell’ambito strettamente professionale, e non sono certo pochi quei dottori che mettono a repentaglio la propria stessa salute pur di curare, o anche soltanto comprendere, una malattia.


    Nicolae Minovici (1868-1941) era uno di questi uomini decisi a sporcarsi le mani pur di aiutare gli altri.

    Gran parte della sua vita fu spesa a soccorrere i deboli, gli umili e i reietti che nella Romania di inizio secolo ricevevano ben poco sostegno da parte delle autorità: fu il fondatore di uno dei primi servizi di ambulanza e pronto soccorso, diede cure e assistenza a più di 13.000 senzatetto, offrendo loro la possibilità di reintegrarsi lavorando per le unità di emergenza. Si occupò anche delle ragazze madri, aprendo dei punti di accoglienza in cui le giovani donne potevano trovare aiuto prima e dopo il parto. Fu inoltre sindaco del quartiere di Băneasa, dove rimodernizzò fognature, fontane, ricoveri notturni.

    La carriera professionale e accademica non era per Minovici che un’ulteriore declinazione del suo coinvolgimento nel sociale. Essendo stato medico legale, aveva potuto toccare con mano le realtà più drammatiche del suo tempo; i suoi studi di criminologia, anatomia patologica, psichiatria e antropologia lo portarono poi a interessarsi alla delinquenza (d’altronde suo padre era Mina Minovici, fondatore rumeno delle discipline criminologiche). Nel 1899 Nicolae pubblicò un saggio sulla presunta relazione fra tatuaggi e personalità criminale, arrivando alla conclusione — atipica per quei tempi — che non ve ne fosse alcuna. Fondò l’Associazione di Medicina Legale di Romania, e il Romanian Journal of Legal Medicine.

    Ma il suo nome è ricordato soprattutto per un altro lavoro, il famoso Studio sull’impiccagione del 1904.


    La sensibilità umanista di Minovici lo portava a credere che la vocazione di un medico dovesse essere allo stesso tempo scientifica e morale, come dicevamo in apertura. D’altronde, non era tipo da tirarsi indietro di fronte al pericolo.

    Quando, all’inizio dei suoi studi sullo strangolamento, si rese conto che non avrebbe potuto capire a fondo la dinamica dell’impiccagione senza provare ad impiccarsi, Minovici non esitò.



    Nel suo primo esperimento, Minovici provò a regolare personalmente l’intensità dell’asfissia. Fece passare la corda in una carrucola fissata al soffitto, e attaccò un dinamometro al cappio (non scorsoio): poi tirò con tutte le sue forze sull’altro capo della fune. Immediatamente il suo volto virò al rosso scuro, e Minovici udì un fischio continuo nelle orecchie, mentre la sua visuale diventava sfuocata. Dopo soli sei secondi, perse conoscenza.


    Il sistema gli consentiva di interrompere la tensione della corda nel momento esatto in cui venivano a mancare le forze. Dopo aver sperimentato a questo modo diverse altre posizioni, annotando tempi di resistenza e sintomi, Minovici passò a una fase di prove decisamente più pericolose. Aiutato da alcuni assistenti, stabilì di farsi sollevare per il collo, usando ancora una volta un nodo non costrittivo.



    Un paio di assistenti tiravano la corda, uno di loro scandiva ad alta voce il conto dei secondi che passavano, in modo che anche Minovici lo sentisse al di sopra dell’acufene. Ma la prima volta che il professore venne sollevato da terra, e i suoi piedi persero il contatto con il pavimento, un lancinante dolore gli attraversò la gola, mentre le vie respiratorie rimanevano strozzate e i suoi occhi si serravano involontariamente. Minovici segnalò freneticamente agli assistenti di riportarlo a terra, dopo pochissimi secondi.


    Per nulla scoraggiato, Minovici decise che gli serviva un po’ di pratica. “Mi lasciai penzolare sei o sette volte, per quattro o cinque secondi al fine di abituarmi“. Dopo questo allenamento, il professore riuscì a resistere fino a 25 secondi mentre era impiccato con i piedi a due metri dal pavimento: lo scotto da pagare per questo esperimento furono due settimane di fitte ai muscoli del collo e alla gola.


    Infine, Minovici si preparò all’impresa più pericolosa ed estrema: avrebbe tentato di usare un nodo scorsoio.



    Come al solito, i suoi assistenti cominciarono a tirare la corda ma questa volta il cappio si strinse in un attimo, artigliandogli il collo in una morsa di dolore bruciante. Lo shock fu così intenso che dopo soli tre secondi Minovici fece segno di lasciare andare la corda. I suoi piedi non avevano mai lasciato il suolo: nonostante questo, per tutto il mese successivo il professore deglutì a fatica e con sofferenza.



    Oltre agli esperimenti su se stesso, Minovici ne condusse anche altri — meno drammatici — su volontari, che venivano strangolati tramite pressione della carotide e della giugulare. Anche in questi casi, mentre la faccia del soggetto diventava paonazza, si presentavano problemi alla vista, parestesia (sensazioni di formicolii e punture sulla pelle, o di avere gli arti “addormentati”), calore alla testa e acufeni.

    La ricerca di Minovici, pubblicata in Romania nel 1904 e in Francia nel 1906, venne ampiamente citata nei successivi studi sull’argomento. Il suo saggio, infatti, non si limitava al resoconto di questi singolari esperimenti di impiccagione, ma riportava casistiche, statistiche, tipi di nodi maggiormente utilizzati dai suicidi, annotazioni di anatomia e via dicendo.




    Nicolae Minovici, appassionato di folklore, lungo tutta la sua vita aveva collezionato oggetti d’arte popolare rumena. Quando nel 1941 morì ancora celibe, donò la sua casa e la sua collezione al Paese, e oggi la sua villa a Bucarest ospita un museo etnologico.






    Fonte: Bizzarro Bazar
  5. .


    Nel 2002 Lydia Kay Fairchild, una donna di 26 anni residente nello stato di Washington, era già madre di due bambini, con un terzo in arrivo, e senza lavoro fisso; aveva quindi deciso di fare richiesta di assistenza pubblica.

    La prassi stabiliva che i figli fossero sottoposti al test del DNA per confermare che loro padre era effettivamente Jamie Townsend, l’ex-fidanzato della Fairchild. Doveva essere un controllo di routine, ma qualche giorno dopo la donna ricevette una strana chiamata in cui le si chiedeva di presentarsi nell’ufficio del procuratore per i Servizi Sociali.

    E fu lì che il suo mondo rischiò di crollare.


    Una volta entrata, gli ufficiali chiusero la porta dietro di lei e cominciarono a interrogarla severamente: “Chi sei davvero?“, continuavano a domandarle con insistenza, senza che lei capisse cosa stava succedendo.

    Il motivo di questo accanimento era assolutamente imprevedibile: i test del DNA avevano dimostrato che Jamie Townsend era in effetti il padre dei bambini… ma che Lydia non era la madre.



    Per quanto la donna ripetesse di averli portati in grembo e di averli partoriti, i risultati lo escludevano categoricamente: i profili genetici dei suoi figli erano infatti costituiti per metà dai cromosomi ricevuti dal padre, e per metà da cromosomi di una donna sconosciuta. Il rischio era che a Lydia Fairchild venisse revocato l’affidamento dei bambini.

    Di fronte alla disperazione della donna, gli assistenti sociali ordinarono un secondo test, che però diede esattamente gli stessi risultati. Lydia non aveva nessun tipo di parentela genetica con i suoi figli.


    Per i 16 mesi successivi, le cose continuarono a peggiorare. Gli ufficiali avviarono le procedure per togliere alla Fairchild la custodia dei figli, in quanto avrebbe potuto trattarsi di un caso di traffico di bambini, e lo Stato inviò perfino un funzionario del tribunale ad assistere al parto del terzo figlio, in modo da poter eseguire il controllo del DNA immediatamente dopo la nascita. Ancora una volta il neonato non mostrava geni in comune con Lydia, che cominciò dunque ad essere sospettata di surrogazione di maternità dietro compenso (che nello stato di Washington è considerato un reato).

    Lydia Fairchild stava vivendo un vero e proprio incubo: “mi sedevo a cena con i miei bambini e di colpo cominciavo a piangere. Loro mi guardavano, come a dire ‘cosa succede, mamma?’, venivano ad abbracciarmi, e non glielo potevo spiegare, perché io stessa non capivo“.


    Il suo avvocato Alan Tindell, pur essendo rimasto inizialmente perplesso dal caso, decise di indagare più a fondo e un giorno si imbatté in una storia simile avvenuta a Boston, e descritta in uno studio apparso sul New England Journal of Medicine: una donna di 52 anni, Karen Keegan, si era sottoposta a un esame istologico in vista di un trapianto e i risultati non avevano mostrato alcuna corrispondenza fra il suo DNA e quello dei suoi figli.

    Molto spesso le soluzioni dei misteri più intricati si rivelano deludenti, ma in questo caso la spiegazione era altrettanto incredibile.

    L’avvocato comprese che, proprio come la madre di cui parlava l’articolo scientifico, anche Lydia era una chimera.



    Il chimerismo tetragametico avviene quando due ovuli vengono fecondati da due spermatozoi diversi e, invece di crescere autonomamente e risultare in due gemelli eterozigoti, si fondono assieme ad uno stadio precoce. L’individuo chimerico è dotato di due differenti corredi genetici, e può sviluppare interi organi che posseggono cromosomi diversi da tutti gli altri. Gran parte delle chimere nemmeno sanno di esserlo, dato che l’esistenza di due linee cellulari spesso non è evidente; ma portano dentro di sé ad esempio il fegato o qualche ghiandola che avrebbero dovuto appartenere al loro gemello mai nato.

    Nel caso della Fairchild, gli organi “estranei” erano proprio delle ovaie. Al loro interno si nascondevano quei cromosomi sconosciuti che avevano formato il corredo genetico dei bambini di Lydia, come confermato da un’analisi delle cellule prelevate con un pap test.


    Finalmente l’accusa mossa contro di lei venne ritirata. Nell’emettere il proscioglimento, il giudice si domandò apertamente quanto affidabili siano i test del DNA, ancora oggi ritenuti fondamentali in ambito criminologico — ma se il criminale in questione fosse una chimera?

    Oggi Lydia Fairchild è tornata alla sua vita normale, lasciandosi questa terribile avventura alle spalle. E qualche anno fa ha felicemente dato alla luce la sua quarta figlia; o, se volete, la quarta figlia della sorella che non ha mai avuto.



    L’articolo del New England Journal of Medicine citato nel post è consultabile qui. Per approfondire alcune forme di chimerismo meno conosciute, consiglio questo articolo (in inglese).




    Fonte: Bizzarro Bazar

    Edited by & . - 23/6/2020, 23:03
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    Don Shintaka a rapporto :zizi:
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    Sul mio fantastico libro di antologia della seconda media (la fonte del 90% dei racconti che ho postato qui) vi era solo una parte di questo racconto, ma l'ho apprezzata tantissimo
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    Io spesso scrivo per "esorcizzare i miei demoni", ecco. Ad Aprile dell'anno scorso ero depressissimo per vari problemi e ho incanalato queste emozioni negative in un racconto, il che mi ha aiutato.
    Magari non sei bravo o non ti piace scrivere, in tal caso prova a riversare i tuoi sentimenti nel disegno, nella musica o in qualsiasi altro hobby creativo. È utilissimo dedicarci a qualcosa che ci piace
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    Benvenuto! :3 Mi stai già simpatico, anche perché hai avuto la premura di controllare il regolamento :asd:
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    Ammetto che questa mi ha colpito davvero.
    Sono una persona scettica e razionale, per cui bollo come stronzate tutte queste storie di fantomatici riti o evocazioni varie. Questo rituale, però, è seriamente inquietante.
    Altro che Lost Episodes e sangue estramamente realistico, ogni passaggio da seguire qui è descritto con precisione maniacale e verosimiglianza, avrei davvero paura a svolgerlo di persona (e ripeto, non credo assolutamente a queste cose, DI SOLITO).
    Complimenti anche a Sesamo per averla portata sul forum, ma spero che a nessuno venga la malsana idea di provare il rituale da sé.
    Tuttavia, non saprei se smistarla in CP o in L&M, perché dovrebbe contare come mistero, no? Non si tratta di qualcosa inventato di sana pianta
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    Belle, grande ;) Le aggiungo sotto spoiler
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    Decisamente da ampliare, ma se troviamo un'immagine adatta potremmo pubblicarla. Possiamo anche usare la rappresentazione di un dissennatore dicendo che queste figure sono riconducibili ai Wraith, sebbene la Rowling non lo abbia mai detto esplicitamente (o forse sì, dovremmo controllare :v:)
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    Povero Woody xD
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    "Era da tanto che non vedevo la luna piena", rifletté Marco guardando fuori dalla finestra. Fissare il cielo stellato lo rendeva sempre malinconico e nostalgico, perché abbinava questa visione all'estate: le scappatelle notturne al mare, i falò sulla spiaggia, la trasgressione e la libertà che solo in vacanza era possibile provare.
    Sorrise amaramente a questo pensiero, rendendosi conto di non aver mai vissuto queste esperienze e che forse per lui fosse troppo tardi per sperimentarle.
    "E' uno strano dolore, morire di nostalgia per qualcosa che non vivrai mai": Baricco era uno degli scrittori che più era riuscito a toccare le corde del suo cuore, e con questa frase aveva colto nel segno; si chiese se esistesse un termine per descrivere quella sensazione, ma ormai era abituato a non saper esprimere a parole i suoi sentimenti.
    Continuò a galoppare con la mente attraverso tristi considerazioni e inquieti ricordi, poi rivolse la sua attenzione a Laura, che giaceva alla sua destra. "Dorme ancora", pensò, e la osservò rannicchiata al suo fianco, rivolta verso di lui: riposava tranquilla, con la gamba sinistra distesa e la destra piegata, posta inconsciamente a coprire la sua nudità; aveva un braccio poggiato sulle cosce e l'altro allungato sul petto, ma col passare dei minuti la sua mano sinistra era scivolata fino a mostrare il suo seno destro.
    Era una visione che suscitò in Marco un senso di dolcezza, più che di lussuria: era per lui una creatura angelica, ma anche estremamente terrena, quindi fragile. Ricordò di aver letto che dormire sul fianco sinistro poteva creare incubi e si afflisse all'idea di non poterla proteggere nei suoi sogni, tale era il sentimento che provava nei suoi confronti.
    La sua mano, poggiata sul volto, dava l'impressione che Laura si stesse accarezzando da sola: si avvicinò a lei e le cinse con dolcezza la vita, per sentire la morbidezza della sua pelle. Ora le era così vicino che poteva percepire il calore del suo tenue respiro. Un sentore di rosa e biancospino gli solleticò l'olfatto, delicato e floreale.
    "Quanto vorrei che tu fossi mia", le sussurrò.
    E di colpo si rese conto di quanto in realtà loro fossero distanti.
    Marco assaporò quell'ultimo contatto con lei trattenendo il respiro - come se potesse servire in qualche modo a fermare il tempo - e si allontanò col groppo in gola, sperando che Laura non si svegliasse sentendolo singhiozzare: era certo che di lì a poco il suo dolore avrebbe cercato di far capolino attraverso il pianto.
    Odiava questo aspetto di sé: era troppo sensibile e ciò non andava bene, doveva mostrarsi forte, tutto d'un pezzo, ma faticava a nascondere la sua vera personalità.
    Si alzò dal letto e si sedette sul davanzale della finestra, dopo averla aperta, per prendere una boccata d'aria: era ancora nudo, ma il tepore della stanza lo opprimeva e desiderava tanto assaporare la fresca brezza notturna sulla sua pelle. Da quell'angolazione poteva farsi un quadro generale della stanza: la sua cameretta era stata ricavata da una piccola mansarda dipinta di blu notte, con un ampia finestra che si affacciava su una distesa di peschi e ciliegi disseminata di villette estive; era il suo rifugio, aveva decorato le pareti con poster musicali e riempito mobili e scaffali di libri, fumetti e dischi.
    Abitava in campagna, così i suoi avevano pensato di comprargli un divano-letto, affinché potesse ospitare per la notte i suoi amici e passare del tempo in compagnia. Marco pensò che erano stati piuttosto ingenui a non immaginare in quali problemi relazionali sarebbe potuto incorrere un ragazzino come lui. Ripensare ai duri anni delle medie gli suscitava ancora adesso rabbia e angoscia: era stato umiliato, picchiato, escluso da ragazzi e ragazze, punito dai professori per i suoi occasionali scatti di ira nei confronti dei compagni. Aveva imparato a reprimere la propria interiorità, ma ciò gli aveva causato traumi destinati a influenzare negativamente la sua vita negli anni a venire.
    "Fanculo", pensò Marco, così si allungò per prendere dal comodino un pacco di sigarette e accendersene una. Aveva iniziato a fumare per dare un tocco di trasgressione alla sua vita: cercava qualcosa che lo aiutasse a rompere la monotonia quotidiana, a non sentire il peso della routine in cui era ingabbiato. Era confuso dall'idea di essere diventato uno di quei classici ragazzetti alternativi, quelli che tanto criticava in passato, ma per una volta, e per quanto riguardasse almeno un ambito della sua vita, voleva entrare a far parte della cerchia dei "fighi", per quanto ciò potesse risultare incoerente.
    "Chissà cosa sarebbe successo se avessi fumato anche in quel periodo", si chiese, e pensò che probabilmente i ragazzi non lo avrebbero trattato da sfigato, mentre le ragazze forse lo avrebbero tenuto in maggiore considerazione. Ma non poteva tornare indietro e alterare la sua vita, quindi affliggersi ulteriormente non sarebbe servito.
    Fortunatamente, quella fase era giunta al termine e, con essa, lo erano alcuni dei suoi problemi di allora. E così, un po' con la coda tra le gambe, dopo la terza media i suoi gli avevano concesso di riarredare la sua stanza affinché si sentisse più a suo agio: via i vecchi giocattoli e le console con cui cercava di comprarsi l'amicizia dei propri bulli e via il divano-letto, sostituito da un materasso a una piazza e mezza, simile al precedente giaciglio e più comodo di un letto normale.
    Marco lo osservò: le lenzuola erano finite sul pavimento, spinte giù con noncuranza, e per terra vi erano anche i loro vestiti, che avevano frettolosamente appallottolato a un angolo del letto.
    E lì c'era Laura, ancora placidamente distesa.
    "E' successo", si disse, "è successo davvero".
    Gli scappò una risatina, ma il sorriso svanì subito dal suo volto: da quella prospettiva si ritrovò per la prima volta a riflettere sugli eventi delle ultime ore e su come avrebbe dovuto comportarsi. Si sentì parecchio imbarazzato per tutto ciò che era accaduto e aveva quasi voglia di buttarsi di sotto all'idea di svegliarsi, l'indomani, e doversi confrontare con Paolo o con gli altri suoi amici.
    Ma soprattutto, doversi confrontare con Laura.
    All'improvviso provò un misto di forte vergogna, rabbia e senso di colpa, desiderò che tutto attorno a lui scomparisse; si sentì vulnerabile e sciocco nella sua nudità, così scese dal davanzale per infilarsi mutande e canottiera e tornò a sedersi voltandosi verso il lato esterno della finestra, raggomitolandosi in sé stesso. Cercò di creare un'immagine mentale del suo corpo esile e di altezza media, pensò alle sue braccia, alle sue gambe, alle sue parti intime, soprattutto al suo viso: credeva davvero che una ragazza come Laura potesse ricambiare i suoi sentimenti? Che, anzi, una qualsiasi ragazza potesse genuinamente innamorarsi di lui? Era sempre stato diverso dagli altri, un "outsider", doveva rassegnarsi all'idea di trascorrere da solo il resto della sua ignobile vita.
    Finì nervosamente la sua sigaretta e se ne accese un'altra, gettando con rabbia il mozzicone oltre il giardino sottostante.
    Sentì un rumore alle sue spalle e intuì subito che Laura doveva essersi svegliata: per tutta la notte avrebbe avuto casa libera ed era stata proprio l'assenza dei suoi genitori a creare quella situazione. La ragazza si era avvolta un lenzuolo attorno al corpo nudo e si era seduta accanto a lui, spostatosi in un angolo del davanzale.
    "Marco, fumare ti fa male", gli disse.
    "Lo so", le rispose lui, inspirando profondamente, "è per questo che lo faccio"; trattenne ancora qualche istante, poi lasciò che il fumo si innalzasse lentamente da bocca e narici, formando una nube che andava via via disperdendosi al chiaro di luna.
    Laura gli diede una spallata amichevole, delicata come sempre, e gli tolse la sigaretta di mano.
    "Fammi fare due tiri, ti prometto che poi te la restituisco" disse lei, ancora assonnata. Sapeva cosa sarebbe successo: come sempre, avrebbe continuato con i suoi "due tiri" e lui gliel'avrebbe tolta dicendole di stare attenta a non bruciarsi; "sei arrivata al filtro e non te ne sei accorta", avrebbe aggiunto, approfittandone per finirla lui stesso.
    Come sempre, lei, col sorriso sulle labbra, lo avrebbe accusato di essere stronzo, lui le avrebbe dato della stupida e avrebbero finito per insultarsi in modo giocoso, prima di abbracciarsi e dimenticare quel bisticcio.
    Come sempre, lui l'avrebbe lasciata fumare perché ogni secondo che passava con una sigaretta in bocca era un secondo in più in cui lui poteva osservare il suo viso dolce e perfetto, i suoi grandi occhi verdi, i suoi capelli mossi e castani e le sue labbra sottili.
    Le sue labbra... quanto gli sarebbe piaciuto poterle assaporare, per questo aspettava con ansia il momento in cui avrebbe messo in bocca quella dannata sigaretta da lei leggermente inumidita. Spesso le diceva che fumare dopo di lei era come baciarla, e quante volte aveva sperato che Laura lo facesse davvero; invece, dopo aver visto l'espressione falsamente schifata di lui, si limitava a ridacchiare e voltargli le spalle.
    "Tieni, Marco", disse lei passandogliela, "stavolta non ti ho lasciato solo l'ultimo tiro"; non poté che ridere amaramente a quell'affermazione, e Laura lo notò, chiedendogli spiegazioni.
    "Niente, stavo solo pensando che..." iniziò lui, per poi fermarsi.
    "...che per ogni sigaretta, ogni boccata di fumo che ti ho concesso avrei voluto strapparti un bacio e che continuerò ancora e ancora a concerdetele, sperando che alla fine tu ricambi il mio amore": ma queste parole non lasciarono mai la sua mente, non avrebbe mai avuto il coraggio di proferirle.
    "...che se ora mi ripagassi per tutto ciò che scrocchi da me, sarei sicuramente ricco" disse invece, e ancora una volta aveva dovuto celare i suoi reali sentimenti dietro a un umorismo di circostanza. Marco si chiese quanto potesse servirgli un atteggiamento di quel tipo, ma anni di introversione obbligata lo rendevano estremamente cauto nell'esternare le proprie emozioni.
    "Ti voglio bene", gli disse Laura, poggiando la testa sulla sua spalla. Quelle parole, quel contatto gli riportarono ancora una volta alla mente gli eventi di quella sera e ciò che aveva provato.
    "Lasciami", la implorò dopo alcuni attimi, "lasciami, ti prego."
    "Marco...", insistette lei, afflitta.
    "No, Laura", ribadì, "per favore..."
    In quel momento provava sentimenti contrastanti: non riusciva ad avercela con lei senza soffrire terribilmente, ma al tempo stesso Laura lo aveva ferito e stavolta non poteva ignorarlo. La ragazza gli diede tregua e aspettò che fosse lui parlare, evitando di irritarlo ulteriormente.
    Si rigirò tra le dita il mozzicone della sigaretta appena terminata e buttò anche quest'ultimo oltre il proprio giardino, poi le rivolse la parola senza distogliere lo sguardo dalle siepi ai suoi piedi.
    "Che fine hanno fatto gli altri? E Paolo?" le domandò, tagliando corto.
    "Li ho mandati via quando ti ho sentito correre qui in mansarda. Ho trovato una scusa per farli andare e sono subito salita da te. Mi hai fatto davvero preoccupare quando sei sparito..."
    Marco si accorse che Laura aveva intenzione di abbracciarlo, ma si stava trattenendo: la parte più emotiva di lui voleva che lei cedesse alla tentazione, ma ora si stava sforzando di pensare razionalmente e voleva che la ragazza si mostrasse genuinamente dispiaciuta.
    "Quando ti sei resa conto che io fossi sparito? Perché per tutta la serata non mi hai prestato affatto attenzione. Mi hai ignorato quando ti ho offerto da bere, mi hai ignorato quando cercavo di rimanere con te da solo, mi hai ignorato quando Paolo ha iniziato a provarci con te e si vedeva che non ti dispiacesse affatto."
    Marco si accorse che le parole, prima centellinate e proferite a fatica, ora sgorgavano dal suo cuore come un fiume in piena, spinte dai suoi sentimenti: per lui era difficile mostrare le sue reali emozioni senza finire poi per sfogarsi in modo quasi logorroico; avrebbe continuato a parlare per interi minuti, ma si impose di fermarsi quando si rese conto che la sua voce era adesso incrinata, segno che le lacrime stavano per far capolino nei suoi occhi. "Ecco", pensò, "sto per mostrarmi debole ancora una volta".
    Sbirciò Laura, sperando che lei non lo stesse osservando di rimando: era invece intenta a fissare la luna, ma il suo sguardo sembrava perso nel vuoto, come se volesse guardare oltre il corpo celeste alla ricerca delle parole giuste da dire; una risposta sincera, forse, o una giustificazione per il suo comportamento, non ne era certo.
    "Marco", iniziò lei, quasi straziata, e lo fissò negli occhi: erano lucidi, come egli temeva fossero i propri. Dal modo in cui serrava la bocca e avvolgeva le braccia attorno alle proprie gambe piegate capì che stesse cercando di dirgli qualcosa, ma non ne aveva il coraggio. Intuì dove Laura stesse andando a parare e sentì il suo cuore iniziare a battere all'impazzata, il suo volto avvampare di calore.
    "Non ha significato niente per te quello che è successo tra noi?", proseguì lei dopo interminabili attimi di tensione. Marco scese dalla finestra e iniziò a camminare in tondo, toccandosi nervosamente i capelli con una mano e stringendo a pugno l'altra. Camminava avanti e indietro, con passi incerti e senza fermarsi, ma, soprattutto, dando le spalle a Laura.
    "Non sono pronto a parlarne", si disse, "non sono pronto": non si sarebbe mai immaginato di fare l'amore con lei, non aveva mai pensato prima di organizzare i propri pensieri e prepararsi un eventuale discorso in merito; quando viaggiava con la mente e sognava di baciare una ragazza o dichiarare i propri sentimenti, quasi si divertiva nel pensare a cosa dire in quella circostanza, per essere sempre pronto. Ma andare a letto con Laura... come poteva anche solo lontanamente sperare che succedesse? Non aveva avuto neanche il coraggio di immaginarlo, avrebbe solo sofferto quando quella visione si sarebbe miseramente scontrata con la realtà.
    "Rispondimi, per favore..." riprese lei, e Marco era addolorato nel vederla così rannicchiata contro lo stipite della finestra: quella posizione gli trasmetteva un senso ancor più forte di fragilità e bisogno di protezione.
    "No, io...", balbettò lui, la cui camminata si fece ancor più irrequieta, "cioè, sì, certo che ha significato qualcosa per me. E' stato importante, ma non è questo il problema..."
    Col cuore che ancora gli martellava nel petto inspirò profondamente, espirò e si gettò sul materasso: aveva una tale confusione in testa che gli sarebbe servito ben più più di un banale esercizio di respirazione per schiarirsi le idee; non era assonnato, nonostante la rocambolesca nottata e l'alcool che probabilmente aveva ancora in corpo, ma quella situazione lo spossava mentalmente e fisicamente.
    "E allora qual è il problema, Marco? Parlamene, non trattarmi da stronza!" gli urlò lei con crescente rammarico, voltandosi verso di lui.
    "Devo dirglielo, non posso farla soffrire così" si disse lui, trovando la forza per aprire il suo cuore. Non era mai facile per lui parlare apertamente delle proprie debolezze, era sempre troppo colmo di imbarazzo; gli risultava più facile confessare le sue emozioni via messaggio, ma questa possibilità gli era al momento preclusa.
    Prese quindi un CD dal comodino adiacente al letto e se lo rigirò tra le mani, fissandolo: decise di rivolgere ad esso le sue parole, lasciando che Laura potesse sentirle.
    "Prima che tu salissi da me ero arrabbiato, arrabbiato e deluso per come mi avevi trattato. Poi mi hai raggiunto e diamine, è stato bellissimo. Ero soddisfatto, anzi, felice per ciò che era successo. Forse è stato grazie all'alcool che mi ha annebbiato i sensi, o forse è stato davvero grazie a te, ma in quei momenti ho smesso di sentirmi così vuoto e depresso."
    Marco si interruppe: vedere di sfuggita il sorriso sul volto di Laura lo aveva fatto esitare, ma non poteva fermarsi; gli sarebbe davvero piaciuto che quello stato d'animo fosse durato più a lungo, ma non era stato così.
    "Poi, però, ho avuto la sensazione che quelle emozioni appartenessero a un sogno, e che io le sentissi vere solo perché, in un certo senso, stavo ancora dormendo. Mi sono come risvegliato e ho realizzato che quella non era la realtà, che tutto ciò era successo, sì, ma non sarebbe mai potuto diventare la mia normalità, che da domani saresti tornata da Paolo e che forse avevi fatto l'amore con me solo per pietà, per darmi un contentino e tenere a bada il tuo amichetto."
    A quel punto si alzò e si pose una mano sul petto, pronunciando quelle parole con una smorfia che lasciava trapelare all'esterno la sua disperazione: "Guardami, Laura, pensi che io sia così stupido da non rendermi conto che non potresti mai e poi mai essere attratta da me? Lo so che non provi alcun sentimento per me, non i sentimenti che vorrei tu provassi, perlomeno, e che non posso fare nulla per cambiarlo. E' questo il problema, hai detto di volermi bene, ma a me non basta, e anche se stanotte ho vissuto un momento meraviglioso non posso che sentirmi terribilmente umiliato e stupido per essermi illuso!"
    Terminato il suo sfogo, Marco sentì un dolore lancinante al petto nel vederla scoppiare in lacrime: "Così mi ferisci", gli disse Laura, e ogni suo sussulto era per lui una fitta al cuore ben più forte della precedente.
    "Credi davvero che io lo abbia fatto solo per pietà? Credi che io invece non provi sentimenti? Ho sofferto nel vederti andar via e per questo ho pensato solo a raggiungerti per consolarti!"
    Fece per alzarsi, ma il lenzuolo le scivolò inavvertitamente per terra, mostrando il suo corpo nudo. Marco distolse lo sguardo, ma Laura, ormai singhiozzando, prese fra le mani il suo viso e lo girò verso di sé.
    "Guardami, Marco, adesso sono io che lo chiedo a te... Guardami, che male c'è? Tu credi che io sia una puttana, che io abbia scopato con te solo per pietà, solo per umiliarti, allora guardami!"
    Marco iniziò a piagnucolare tra le mani di lei, bagnandole con le sue lacrime, finché Laura non lo lasciò per coprirsi e sedersi accanto a lui.
    Detestava quella situazione, detestava il fatto che loro due, migliori amici da anni, si stessero facendo del male, come se a lungo avessero covato del reciproco odio represso. Ma non era odio, bensì amore il sentimento che tratteneva dentro di sé e frenava dal manifestarsi.
    "Scusami, non volevo farti soffrire", singhiozzò lui, "perdonami per quel che ti ho detto, ma tu per me non sei una puttana, non è quello che penso di te, io..."
    Laura lo abbracciò e rimasero a lungo accoccolati l'uno accanto all'altro stretti stretti, piangendo; ansimavano quasi all'unisono, come era successo non troppo tempo prima in circostanze totalmente diverse, sicuramente meno dolorose.
    "Ne vuoi parlare?", gli sussurrò lei, con la testa poggiata sulla sua spalla. Marco rispose facendo cenno di no col capo, ancora chino su sé stesso.
    "Puoi dirmelo, non preoccuparti. So che vuoi farlo..." continuò, ma lui si alzò e si diresse verso il comodino, prese il disco con cui aveva giocherellato pochi minuti prima e lo infilò nel lettore CD lì presente. Si rese conto della curiosità di Laura, per cui la rassicurò: "Tranquilla, voglio farti ascoltare una cosa."
    Saltò fino all'ultima traccia, la dodicesima, e attese in piedi che la ragazza capisse di quale album, di quale canzone si trattasse: dalle casse scaturì una melodia delicata e malinconica, delineate dalle dolci note di una fisarmonica prima, e di batteria, chitarra e basso dopo.
    "Ma questo... questo è Disintegration dei The Cure, giusto? E' uno dei tuoi album preferiti, me ne parli spesso perché dici che descrive bene il tuo stato d'animo, no?"
    "Esatto", rispose Marco, avvicinandosi a lei, "e questo brano si chiama Untitled, parla del rimpianto di chi vorrebbe rivelare i propri sentimenti alla persona che ama, ma non può farlo perché ormai è troppo tardi per lui."
    La prese per mano e sentì nuovamente le lacrime sgorgare dai suoi occhi, ma questa volta cercò di non reprimerle. "E' troppo tardi per me?", le sussurrò, e lei lo trascinò sul davanzale dove precedentemente sedevano, accompagnati dalle tristi parole di Robert Smith. Tenendo ancora la mano di Marco nella sua, Laura iniziò a parlare: "I miei sentimenti sono molto confusi, o forse non sono abbastanza brava a leggere nel mio cuore per capire cosa io provi davvero, non lo so. Per me sei sempre stato importante e ti ho sempre voluto un bene dell'anima, ma cercavo di convincermi che tra noi ci fosse solo amicizia; mi lanciavi segnali contrastanti e questo mi faceva dubitare ancora di più che si trattasse solo di quello. Temevo di farti soffrire..."
    "Avevi questi dubbi anche al tempo di Andrea?", le chiese dopo un attimo di riflessione, e il solo pronunciare quel nome gli portò alla mente ricordi ancora vividi, nonostante fossero passati ormai quasi due anni dalla fine di quel periodo.
    Era appena iniziato il secondo quadrimestre del loro secondo anno di superiori, e stavano festeggiando il ritorno a scuola saltando la lezione di educazione fisica: erano le sue ore preferite, poiché non interessava a nessuno che lui se ne sgattaiolasse fuori al seguito di Laura; quantomeno si risparmiava l'umiliazione di essere escluso dai suoi compagni e di doverli guardare a bordo palestra, fingendo che non gli importasse.
    Fu la sua amica a notare quel ragazzo nuovo, un tipo dall'aria poco raccomandabile, stupido quanto imponente e con dei fulvi ricci che ricadevano ai lati della testa, dove i suoi capelli erano rasati. Laura cercò di attaccare bottone chiedendogli una sigaretta, e scoprì qualche informazione su di lui prima di rientrare: si chiamava Andrea, era al terzo anno e frequentava il classico liceo della zona per figli di papà, da cui era stato abbastanza stupido da farsi cacciare poche settimane prima per un qualche malriuscito scherzo da bulletto. Da quella conversazione Marco aveva ricavato un soprannome per il tipo, "ciuffo rosso": era l'unica sua caratteristica che potesse prendere in giro senza far capire a Laura quanto gli stesse antipatico. Per lei, invece, era l'inizio di una lunga e travagliata cotta, oltre che di un leggero vizio del fumo che col tempo avrebbe contagiato anche lui.
    Per tutto il resto dell'anno scolastico la sua amica aveva corteggiato Ciuffo Rosso, ormai al centro dei suoi pensieri, e Marco le era stato accanto sempre e comunque, nonostante il dolore che provava.
    "Per tutti quei mesi tu mi hai aiutato a conquistarlo ed ho pensato che non provassi nulla per me, non più, almeno. Credevo che quella storia non ti facesse soffrire... perché mi hai incoraggiato, allora? Perché mi hai permesso di andare oltre con lui?"
    Un sorriso amaro si dipinse sul volto di Marco, contornato da nuove lacrime che gli rigavano il viso. "La prima volta di Laura è stata con Andrea", rammentò, e sentì le budella contorcersi al solo pensiero. Non aveva avuto il coraggio di pronunciare mentalmente quelle parole, di ammettere che loro due avessero fatto l'amore. Eppure adesso era tormentato dalla visione di quella notte di tarda estate, immaginava Ciuffo Rosso mentre possedeva Laura, la sua Laura, e soffriva perché tutto ciò era avvenuto solo per colpa sua. "Magari anche quella notte c'era la luna piena", pensò, "magari ha tenuto anche lui per mano come sta facendo con me in questo momento."
    Mise da parte le supposizioni e formulò la risposta che aveva preparato da tempo: "Avrei fatto qualsiasi cosa per te, anche aiutarti con Andrea, se fosse stato ciò che volevi davvero. Io non avrei mai potuto averti, ma lui sì, così ho messo la tua felicità davanti alla mia: mi bastava per essere felice anch'io."
    Si chiese se Laura si fosse bevuta quel mucchio di fandonie, se davvero credesse che lui potesse esserlo rinunciando a ciò che più desiderava. Per mesi aveva ripetuto queste parole nella sua mente come un mantra, fino a crederci: erano per lui una magra consolazione, una giustificazione per la sua paura di esporsi ed essere rifiutato.
    Teneva a lei così tanto da fingere di non soffrire per non far soffrire lei stessa: tutto ciò era assurdo, per Marco, ma aveva smesso da tempo di interrogarsi sulla razionalità delle sue azioni.
    Laura interruppe il suo flusso di pensiero con una considerazione per lui disarmante: "Sapevi che dopo quell'estate avrebbe cambiato di nuovo scuola, e allora perché hai rinunciato alla tua felicità per spingermi tra le braccia di qualcuno che non avrei mai più rivisto? Sapevi che per me si trattava solo di una cotta, di un sentimento passeggero, lo avevi capito... Avresti potuto chiarire i miei dubbi su di te, su di noi."
    Di nuovo un sorriso amaro, di nuovo le lacrime, ma stavolta si limitò a scuotere il capo, egli stesso in cerca di una risposta sensata a quella domanda.
    "Sarebbe cambiato qualcosa?", chiese, ma la domanda sembrava rivolta più alle stelle nel firmamento, che alla diretta interessata. Si rese conto troppo tardi di aver pronunciato quelle parole ad alta voce, ma ormai non si preoccupava più celare i propri sentimenti.
    Laura si morse nervosamente il labbro inferiore, poi le unghie della mano sinistra, una dopo l'altra; erano rivolti verso il cielo e lei non distolse un attimo gli occhi dalla luna piena, ma la sua destra era ancora stretta attorno alla sinistra di Marco, i palmi che combaciavano e le dita intrecciate tra loro.
    "Tutte le storielle che ho avuto erano basate solo sull'attrazione fisica, senza rendermene conto cercavo di fuggire dalle mie vere emozioni. Però so cosa provo per Paolo e so cosa provavo per gli altri, persino per Andrea "Ciuffo rosso", come ti piaceva chiamarlo: sentimenti semplici, niente di profondo. Ma solo stasera ho capito quanto queste relazioni valessero poco per me... Quando sei scappato ti ho visto così abbattuto che in quel momento mi interessava solo che tu fossi felice, e per renderti felice avrei fatto qualsiasi cosa. Non ho avuto più dubbi su ciò che provavo per te, ed è stata un'emozione immensa."
    Lei si voltò verso di lui e lo guardò intensamente negli occhi, sorridendo con delicatezza: "Ho capito di amarti, Marco."
    Per lui, in quel momento, il tempo si fermò e tutte le voci nella sua testa furono messe a tacere da quella di Laura, quasi un sussurro. "Mi ama", disse tra sé, "Mi ama davvero", e più le ripeteva, più quelle parole echeggiavano nella sua mente e acquisivano valore, diventavano palpabili. Quel tono di voce, quel modo di pronunciare il suo nome: ebbe l'impressione che lei fino alla fine fosse combattuta sul confessare o meno i propri sentimenti, e che l'avesse fatto tutto d'un fiato per evitare ripensamenti.
    Prima che Laura potesse dire altro Marco la abbracciò intensamente, stringendole la vita. Poteva sentire le forme di lei contro il suo petto, attraverso il lenzuolo teso attorno al suo corpo. Lei gli gettò le braccia al collo e rimasero a lungo guancia contro guancia, col calore delle sue lacrime che gli riscaldava il viso e il profumo di lei a inebriarlo.
    "Sta succedendo davvero?", si chiese, mentre le accarezzava teneramente la schiena. Laura era aggrappata a lui e sembrava non lo volesse mai più lasciar andare.
    "Non so cosa farei senza di te... non voglio più perderti", gli sussurrò dolcemente.
    "Ti amo", le rispose, "ti amo, Laura". Quelle parole sembrarono quasi fluire dal suo cuore: lo fecero con tanta naturalezza quanto era stato il timore di pronunciarle, fino a quel momento. Non c'era niente di più spontaneo che potesse dire, avvinghiato in un caldo abbraccio all'unica persona che dava senso alla sua vita, che colmava quell'atroce senso di vuoto nella sua anima.
    Laura sciolse gentilmente la presa, facendo scivolare pian piano le sua mani sulle braccia di lui, fino a toccarle. Con delicatezza baciò Marco su una guancia e tornò a guardarlo in volto, lasciando che lui potesse godere del suo sorriso così amabile e innocente. Poi, un velo di tristezza oscurò il suo volto.
    "Prima non ti ho baciato", affermò lei, attirando la sua curiosità.
    "Sto ripensando a ciò che è successo e me ne sono accorta solo ora: ti ho confessato i miei sentimenti, abbiamo anche fatto l'amore, ma persino allora io non ti ho baciato."
    Marco si intenerì nel vederla genuinamente affranta e le mormorò "sei così sbadata...", prima di darle a sua volta un bacio sulla guancia, ancora umida per le lacrime versate.
    "...Ma ti amo lo stesso", aggiunse, e stavolta la baciò sulla bocca prendendo il suo viso tra le mani.
    "E' questo ciò che si prova, allora" pensò Marco, mentre le labbra di lei si congiungevano alle sue e tutto ciò che li circondava perdeva di significato. Voleva che quel momento di intimità tra loro non finisse mai, che potesse percepire in eterno quell'estrema dolcezza, quella sintonia che trascinava i loro corpi l'uno contro l'altro, quasi a fondersi.
    Marco era felice, felice di stare finalmente con Laura, e quegli anni di attesa straziante e di rassegnazione erano per lui svaniti al contatto con le sue labbra, come se lei lo avesse trascinato di forza fuori dalla depressione che lo attanagliava e lo stesse portando con sé verso una nuova fase della propria vita. Della loro nuova vita assieme.
    Quella notte di Giugno si sentiva come rinato e lo estasiava l'idea di avere tutta un'estate di emozioni davanti a sé. Gli sembrava che le cose per lui si fossero finalmente sistemate, che finalmente fosse il suo turno godersi la giovinezza.
    "In ritardo?", pensò, "Forse sì, ma non è troppo tardi."
    Adesso il pensiero dell'estate non lo avrebbe più reso malinconico, e la vista di una luna piena incastonata in un cielo stellato gli avrebbe riempito il cuore di una piacevole nostalgia, senza alcun rimpianto.
    Alla fine mi sono convinto a postarlo, pur con molto imbarazzo per il tema e gli eventi descritti. E' un racconto scritto quasi a scopo catartico, per incanalare i sentimenti che provo in questo periodo. Non è un racconto autobiografico, però, per rendere a pieno le mie emozioni, ho rielaborato eventi accaduti a me o a persone a me vicine, quindi sicuramente è un'opera molto personale.


    Edited by » S h i n † a k a ™ - 29/3/2016, 20:15
  15. .
    Ecco perchè il gioco dovrebbe includere solo parole italiane :asd:
    Google mi suggerisce "tzschentke tapentadol"
305 replies since 15/11/2007
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