Votes taken by Catania

  1. .
    Morto ufficiale finalmente, anche se da prima lo scrittore pareva essersene andato.
    Quando ero entrato nel suo studio avevo visto coi miei occhi la pila di fogli bianchi che giacevano vergini sulla scrivania, sul letto, steso, c'era lui. La testa gonfia, gonfissima, come un palloncino, e ondeggiava quà e là come il pendolo grassoccio di un orologio che segnava un conto alla rovescia inevitabile.
    La testa gli è scoppiata alla fine, ma non c'è da stupirsi, mi ha chiamato quando già il caso era grave. Si era davvero messo in testa di riuscire a far qualcosa da solo. Certo un artista morto non farebbe tanto scalpore se fosse morto come muoiono tutti gli artisti falliti, nel silenzio e nella tristezza. Di solito inoltre ci si accorge del fatto solo dopo tre o quattro giorni. Stavolta invece neanche un'ora era passata dalla tragedia che al palazzo si accalcavano la carrozza nera del becchino e quella bianca del prete, e insieme a loro i soliti sciacalli, affamati di sangue, che speravano, data quella rapidità di eventi, in un fatto inusuale che potesse colorargli la giornata. Un omicidio in grande stile, pensava qualcuno, un suicidio struggente, una morte bizzarra magari, fulminato mentre cambiava una lampadina.
    Nulla di tutto questo ma una semplice, intuibile conseguenza. Intuibile almeno per chi come me conosceva l'uomo e sapeva del suo lavoro, e già altre volte aveva avuto esperienza con la tale malattia.
    Che potesse trattarsi di qualcosa di simile a una ritenzione idrica qualcuno ci aveva pensato, ma nessuno avrebbe mai ipotizzato gli eventi successivi allo sgonfiamento dell'enorme testone.
    Già fuori del palazzo, insieme alla folla prima citata infatti, iniziavano ad accalcarsi gli inquilini, il portiere, gli inservienti e qualche cane. Alcuni ancora in vestaglia, altri in tenuta da lavoro.
    Fu il grido di un osservatore a far volgere in alto tutti gli sguardi e fu allora che qualcuno realizzò, e chi non realizzò lo fece poco dopo, quanto era successo. Che dalla finestra dello scrittore iniziavano a scendere come trecce dorate piante tropicali, e fuori al balcone si affacciavano animali altrettanto esotici.
    La folla assetata di curiosità allora iniziò a scalpitare per entrare, e dovette intervenire addirittura la polizia per farli calmare.
    C'è da dire ora che neanche io mi mantenni particolarmente composto in quella situazione, giacché pur ipotizzando l'accaduto ero altrettanto ferocemente curioso di vedere in prima persona la scena.
    Mostrai rapidamente il mio cartellino di medico a uno dei poliziotti che si teneva strettamente aggrappato all'entrata per evitare il passaggio. Quest'ultimo mi rivolse un'occhiata sgradevole e mi lasciò passare.
    Già dai primi piani iniziavo a intravedere i segni di quanto era successo, mi accolsero infatti sulla rampa delle scale piccoli laghi, scavati nei gradini e riempiti di liquido bollente, l'intero palazzo era ricoperto di vegetazione di una varietà che non avevo mai visto prima e, come se non bastasse, quà e là nelle stanze bazzicavano animali altrettanto disparati. Riconobbi un leone e un coccodrillo, dai quali mi tenni a debita distanza. Un orso, un cerbiatto e ancora topi del deserto, conigli, volpi, pipistrelli appesi al soffitto e altro che non riesco a ricordare.
    Al secondo piano la situazione cambiava, fui sollevato di trovare una figura umana e successivamente deluso dallo scoprire che si trattava di un aborigeno uscito fuori dallo stesso posto da cui era sbucato tutto il resto. Ringraziai il fatto che non fosse un cannibale, avevo già avuto esperienze simili con un pittore anni prima, e al tempo ci rimisi anche un collega.
    Mi salutò con un movimento circolare della mano e io feci allo stesso modo, non entrammo più in contatto, credo capisse in un certo senso la fretta e il disturbo che certe complicazioni professionali potevano provocare.
    Incontrai anche altri individui che al contrario dell'aborigeno non sembravano capire il valore del tempo in certi ambienti professionali. Un brigante abruzzese munito di schioppo e coltello e tutto il resto mi canciava di qualche cosa in un dialetto incomprensibile, urlando e sbraitando. Credo mi abbia sputato un paio di volte sulla giacca buona.
    Nella stanza dove abitavano i coinquilini che avevano dato l'allarme invece si aggirava un medico della peste, peccato dovessi correre, avrei davvero gradito un confronto accademico.
    Entrai nella camera dell'uomo e lo trovai come sempre steso sul letto. La testa da gigantesca melograna rossiccia era diventata una pustola orrenda dalla quale colava in continuazione liquido neroazzurro. Era riverso su un lato e il liquido colava sul pavimento. Quanto meno non aveva sporcato le lenzuola.
    Mi concessi un attimo per osservare come ogni volta il liquido che si aggregava sul pavimento in forma di una piccola montagnella, finché non ne uscì fuori una tartaruga. Occasionale alquanto visto che avevo proprio bisogno di uno sgabello per quel genere di operazione.
    Tirai a me la testuggine e mi ci sedetti sopra. Non sembrava dibattersi molto e in fondo doveva essere confusa. Era nata da poco ed era già adulta, e senza nemmeno venire scuoiata e uccisa si ritrovava già a fare da sgabello, impiego abbastanza inusuale per un animale del genere, sarebbe stato più adatto farci una borsa o delle scarpe insomma.
    Mi posi in tal modo da non venir bagnato dal liquido e infilai sotto la colata interminabile la vaschetta che tirai fuori dalla valigia.
    Poi iniziai a ricucire, non fu difficile giacché parte del liquido colato all'inizio si era portato via gli occhi, i denti e tutti i vari fastidi che rendono complessa un operazione del genere.
    Chiusi la cucitura con un fiocchetto, in fondo ero stressato, un cavaliere in armatura aveva iniziato a camminare avanti e indietro per il corridoio e lo sbatacchiare della sua armatura mi faceva andare sui nervi.
    Il lavoro era finito, guardai in fondo la vaschetta piena fino all'orlo e la sigillai con della carta alimentare.
    Il liquido mi avrebbe fruttato molto se venduto a qualche altro artista sull'orlo della crisi, peccato per quello morto però, se solo avesse saputo spremersi un po' di più. Il liquido era talmente forte che forse era meglio prenderlo diluito, anche se probabilmente nessuno di quelli a cui l'avrei venduto sarebbe stato a sentire un avvertimento del genere. Ma in fondo che ci vuoi fare, gente strana.

    Edited by Qush-Nath - 28/1/2018, 20:03
  2. .

    Scusa ma ci ho pensato per tutto il tempo mentre leggevo. Comunque l'articolo è molto interessante, sono sempre stato curioso riguardo l'argomento. Inoltre i libri citati sembrano molto interessanti e credo che gli darò un'occhiata.
  3. .
    Mi ricorda la leggenda della balena sotterrata nella discarica dei Pisani a Napoli insieme a mille altre meraviglie, che farebbero sbiancare qualunque mucchietto d'ossa (ipotizzando non siano già bianche).
    Bell'articolo comunque sia :peoflow:
  4. .
    Contrabbandieri!
  5. .
    Questa altra è un orgasmo visivo oltre che uditivo :rath:


    Il tuffo al cuore quando passa per Agnano :love:
  6. .
    Roba di altissimo livello.
    (Visione consigliata ad un pubblico dal QI minimo di 220)



  7. .
    La sabbia del deserto di Yondo non e' come la sabbia degli altri deserti; perché Yondo si trova più di tutti vicino al confine dei mondi; e strani venti, provenienti da un pozzo che nessun astronomo potrà mai sperare di sondare, hanno seminato le sue terre desolate con la polvere grigia di pianeti sgretolati e con le nere ceneri di soli estinti.

    Le oscure colline semicircolari che si alzano dal suolo grinzoso e butterato non sono del tutto sue, alcune sono asteroidi caduti e semisommersi dalla sabbia abissale.

    Strane cose sono strisciate su Yondo dagli spazi infernali, cose la cui incursione e' proibita dagli dei in tutte le terre sane e ben ordinate; ma non ci sono questi dei su Yondo, dove invece vivono antichi spiriti di stelle morte e demoni decrepiti rimasti senza casa dopo la distruzione di inferni ormai dimenticati.

    Era il pomeriggio di un giorno di primavera allorche' emersi da quella interminabile foresta di cactus in cui mi avevano abbandonato gli spietati inquisitori di Ong, e vidi innanzi ai miei piedi l'inizio delle grigie terre di Yondo. Lo ripeto, era il pomeriggio di un giorno primaverile; ma in quella spaventosa foresta io non trovai traccia ne' ricordo di una primavera; e le gonfie, fulve, morenti e semimarce piante che io incontrai durante il mio cammino, non erano cactus normali, ma disgustose forme abominevoli che a stento potrei descrivere. L'aria era pesante e impregnata di un odore stagnante di decadimento; e licheni malati chiazzavano il suolo nero e la vegetazione sanguigna con frequenza sempre crescente.

    Vipere verde pallido sporgevano le loro teste da sotto i tronchi di cactus abbattuti e mi guardavano con occhi di luce ocra privi di palpebre e di pupille. Cose come queste mi perseguitarono per ore; odiavo quei funghi mostruosi, con i gambi senza colore e le ondeggianti teste malva velenoso, che crescevano dagli orli fradici di fetide pozze d'acqua; e le onde sinistre che si diffondevano e si smorzavano sull'acqua gialla al mio avvicinarsi non erano certo rassicuranti per una persona dai nervi ancora scossi da torture innominabili.

    In seguito, quando i cactus malati e pustolosi divennero più radi e stantii, e rivoli di sabbia cinerea iniziavano ad insinuarsi tra di essi, cominciai a sospettare quanto grande era l'odio che la mia eresia aveva suscitato tra i sacerdoti di Ong e a comprendere l'infinita malignità della loro vendetta.

    Non entrerò in dettaglio nel raccontarvi le circostanze che mi portarono, straniero imprudente di terre lontane, nelle grinfie di questi potenti e temibili maghi servitori del dio dalla testa di leone Ong. Queste circostanze, e i particolari del mio arresto, sono troppo dolorosi da ricordare; e men che mai desidero rammentare la tortura delle budella di drago cosparse con polvere di diamante, su cui i malcapitati venivano distesi ignudi e poi stirati; o quella stanza buia con le finestre da sei pollici da cui gonfi vermi nutriti da cadaveri in decomposizione strisciavano all'interno a centinaia dalle vicine catacombe.

    Sarà sufficiente dire che, dopo aver dato libero sfogo alla loro turpe fantasia, i miei inquisitori mi sistemarono bendato sulla groppa di un cammello per lasciarmi, dopo un tragitto interminabile, in quella sinistra foresta verso il finire del mattino. Ero libero, dissero che potevo andare dove volevo; e in nome della clemenza di Ong, mi diedero un pezzo di pane raffermo e una bottiglia di pelle piena di acqua rancida come scorta. Era il pomeriggio dello stesso giorno in cui arrivai al limitare del deserto di Yondo.

    Fino ad allora, non avevo ancora pensato di tornare indietro, a causa di tutti quegli orribili cactus marcescenti, e delle altre piccole cose malvagie che nascondevano. In quel momento mi ero preso una pausa, ben sapendo le tremende leggende che riguardavano quella terra in cui ero arrivato; perché Yondo e' un luogo dove pochi si sono avventurati di bella posta e senza costrizione alcuna. E i pochi che riuscivano a tornare da quei luoghi, balbettavano di orrori sconosciuti e strani tesori; e gli arti rinsecchiti e scossi da tremiti violenti di quei poveretti semiparalizzati accanto al bagliore folle dei loro occhi sfuggenti dalle ciglia e sopracciglia incanutiti, non contribuivano certo ad incoraggiare chi avesse avuto in animo di addentrarsi nel deserto di Yondo. Così, esitai a lungo sul limitare di quelle terre grigio cenere, e avvertii il tremito di una nuova paura salire dalle mie viscere. Sarebbe stato tremendo sia proseguire sia tornare indietro, perché ero sicuro che i sacerdoti avevano previsto una tale eventualità. Così, dopo un po', decisi di andare avanti, canticchiando ad ogni passo, con riluttante disinvoltura, seguito da certi insetti dalle lunghe zampe che avevo incontrato durante il tragitto fra i cactus.

    Questi insetti erano del colore di un cadavere vecchio di una settimana ed erano grandi come tarantole; ma, quando intrapresi il cammino ed iniziai a calpestare il suolo di Yondo, un mefitico fetore si alzò, più nauseante ancora del colore di quegli insetti, tanto che, per il momento, cercai di ignorarli il più possibile.

    In realtà queste cose erano gli orrori minori della mia situazione. Davanti a me, sotto un grande sole malato e scarlatto, Yondo appariva interminabile come la terra in un sogno indotto dall' hashish, sullo sfondo di un cielo nero.

    In fondo, sul limite più lontano, si innalzavano le nere montagne semisferiche di cui ho detto prima; in mezzo si stendevano terribili spazi di grigia desolazione, e basse colline spoglie come il dorso di mostri semisepolti.

    Arrancando, scorsi enormi pozzi dove le meteore cadute erano completamente sprofondate; e gioielli colorati brillare nella polvere. Mi imbattei in cipressi abbattuti che marcivano, simili a mausolei sbriciolati, sui cui sudici licheni grossi camaleonti strisciavano tenendo delle perle regali nella bocca.

    Nascoste dalle basse colline, vi erano città delle quali nessuna stele era rimasta incorrotta, città immense e senza memoria, disgregate pietra dopo pietra, atomo dopo atomo, per andare a nutrire desolazioni infinite. Trascinai i miei arti indeboliti dalle torture sopra grandi mucchi di detriti che una volta furono templi possenti; e divinità cadute si accigliavano tra il marciume o mi lanciavano bieche occhiate dal porfido spaccato ai miei piedi.

    Su tutto regnava un silenzio malvagio, rotto soltanto dal riso diabolico delle iene, e dal fruscio delle vipere proveniente dai boschetti di spine morenti o da antichi giardini infestati da ortiche e fumarie avvizzite.

    Raggiunta la cima di una delle molte colline simili a dei tumuli, scorsi le acque di uno strano lago, insondabilmente scuro e verde come la malachite, segnato da strisce di sale fulgente. Tali acque giacevano lontano in basso sotto di me in una valletta a forma di coppa; ma dappertutto ai miei piedi sulle ondulate, consunte colline sorgevano cumuli di quel sale antico; e compresi che il lago altro non era che il torbido residuo di un antico mare.

    Scendendo dal dirupo giunsi in breve alle acque scure, e iniziai a sciacquarmi le mani; ma provai un acuto e corrosivo dolore in quell'acqua salata immemore, tanto che desistetti subito preferendo la sabbia del deserto che lentamente mi aveva coperto come un sudario.

    Qui decisi di riposare un poco; e la fame mi spinse a consumare parte delle scarse e beffarde vivande di cui ero stato rifornito dai sacerdoti. Era mia intenzione andare avanti se la la mia fibra me l'avesse permesso, e raggiungere le terre che giacciono a nord di Yondo. Queste lande sono in realtà desolate, ma la loro desolazione e' più normale di quella di Yondo; ed erano a volte attraversate da alcune tribù di nomadi. Se la fortuna mi avesse arriso, avrei potuto imbattermi in una di esse.

    La misera colazione mi diede energia, e, per la prima volta da un numero di settimane di cui avevo perduto il conto, percepii il sussurro di una debole speranza. Gli insetti cadaverici avevano smesso da un pezzo di seguirmi; e fino ad allora, a dispetto dell'irrealtà del sepolcrale silenzio e della polvere delle rovine senza tempo, non avevo incontrato niente di orribile nemmeno la metà di quegli insetti. Iniziai a pensare che gli orrori di Yondo fossero stati in qualche modo esagerati.

    Fu allora che udii un diabolico riso provenire dalla parte della collina giusto sopra di me. Il suono cominciò con una tagliente bruschezza che mi allarmò oltre ogni ragione, e continuava senza fine, rimanendo costante nella sua singola nota, come la risata di un demone idiota. Mi girai e vidi la bocca di una caverna oscura, ornata di stalattiti verdi simili a zanne, di cui non mi ero ancora accorto. Il suono sembrava venire da quella grotta.

    Con i sensi allerta, terrorizzato fissavo l'ingresso buio. Il suono cresceva sempre più forte, ma per un po' non potei vedere nulla. Al più riuscivo a distinguere un chiarore biancastro nell'oscurità; poi, con la rapidità di un incubo, emerse una Cosa mostruosa. Aveva un corpo pallido, glabro, a forma di uovo, grande come quello di una capra gravida; e questo corpo era sostenuto da nove gambe ondeggianti con molte frange, come le zampe di un ragno enorme. La creatura corse oltrepassandomi verso la riva; e vidi che non c'erano occhi nella sua strana faccia obliqua, ma due orecchie come coltelli si ergevano sulla testa, e un sottile naso grinzoso pendeva giù da sopra la bocca, le cui labbra cascanti, da cui usciva quell'eterno riso soffocato, mettevano in mostra file di grossi denti. Bevve l'acqua acida e amara del lago, poi , soddisfatta la sete, si girò e sembrò avvertire la mia presenza, perché il naso grinzoso si alzò e puntò verso di me, odorando udibilmente. Se la creatura avesse voluto fuggire o attaccarmi, non lo posso dire; perché non potendo sopportare oltre quella vista, fuggii con le gambe tremanti tra le rocce pesanti e i grandi cumuli di sale lungo le rive del lago.

    Mi fermai infine, completamente senza fiato, e accertatomi di non essere inseguito , sedetti, continuando a tremare, all'ombra di un masso roccioso. Ma potei godere di una misera tregua, perché iniziò la seconda di quelle bizzarre avventure che mi costrinse a credere a tutte le folli leggende che avevo udito. Più impressionante ancora di quel diabolico riso fu il grido che si alzò vicino al mio gomito dalla sabbia salina, un grido che poteva venire da una donna sofferente un'agonia atroce, o abbandonata in balia di mille diavoli. Voltandomi, contemplai una Venere; nuda, in una candida perfezione, senza timore di subire una disamina, era immersa fino all'ombelico nella sabbia. I suoi occhi spalancati dal terrore mi supplicavano e le sue mani di loto si allungavano implorando aiuto. Balzai accanto a lei... e toccai una statua di marmo, le cui ciglia scolpite erano abbassate in qualche enigmatico sogno di cicli morti, e le cui mani erano sepolte con la perduta leggiadria dei fianchi e delle coscie. Di nuovo fuggii, scosso da una rinnovata paura; e di nuovo udii il grido di una donna in agonia. Ma questa volta non mi girai per vedere i suoi occhi e le sue mani imploranti. Su per il lungo pendio, verso il nord di quel lago maledetto, inciampando sui massi di basanite e sui ripiani cosparsi di punte metalliche griogioverde; balzando tra i pozzi di sale, sulle terrazze modellate dalla marea in ritiro di antichi eoni. Fuggii, come un uomo vola da un incubo ad un altro di una notte cacodemoniaca.

    Intanto c'era un freddo sussurro nel mio orecchio, che non veniva dal vento del mio volo; e guardando indietro, quando giunsi su una delle terrazze più alte, percepii un'ombra singolare che correva seguendomi passo dopo passo. Non era l'ombra di un uomo, ne' di una scimmia, ne' di una qualsiasi bestia conosciuta; la testa era troppo grottescamente elongata, il corpo tozzo troppo gibboso; e non riuscivo a distinguere se l'ombra possedeva cinque gambe, o se ciò che appariva essere la quinta era semplicemente la coda.

    Il terrore mi comunicò nuova forza, e avevo già raggiunto la sommità della collina quando ebbi l'ardimento di girarmi nuovamente indietro, ma l'incredibile ombra seguitava a tenere il passo; e ora avvertivo un curioso e insano odore, osceno come l'odore di pipistrelli appesi in un ossario tra la muffa della corruzione. Corsi per leghe, mentre il sole rosso declinava sopra le montagne-asteroidi che si stagliavano a ovest; e la misteriosa ombra continuava a seguirmi mantenendosi sempre alla stessa distanza.

    Un'ora prima del tramonto giunsi a un cerchio di piccole colonne che si ergevano miracolosamente intatte tra i grandi cumuli di rovine corrotte. Passando tra queste colonne udii un verso, come quello di un animale feroce, tra la collera e la paura, e notai che l'ombra non mi aveva seguito all'interno del circolo. Mi arrestai e attesi, ipotizzando intanto di aver trovato un santuario che il mio sgradito inseguitore non avrebbe avuto il coraggio di violare; e in quel momento la mia idea fu confermata dal comportamento dell'ombra. La Cosa esitava, poi correva intorno al circolo di colonne, sostando spesso tra di esse; e infine, seguitando a lamentarsi, si diede alla fuga e disparve nel deserto verso il sole morente.

    Per una buona mezz'ora non osai muovermi; poi, l'imminenza della notte, con tutto il suo carico di nuovo terrore, mi spinse ad andare avanti fintanto che potevo verso nord. Mi trovavo infatti, ora, nel cuore di Yondo dove i demoni e i fantasmi potevano assalire chi non portava rispetto al santuario delle colonne incorrotte.

    Mentre avanzavo faticosamente, la luce del sole cambiava sensibilmente; perché il disco rosso vicino all'orizzonte collinoso affondava, ardendo lentamente, in una cintura di nebbia miasmatica, dove la polvere galleggiante di tutti i templi sgretolati di Yondo si mescolava ai vapori malefici che si arricciavano verso il cielo dagli enormi golfi neri giacenti al di là del limite più esterno del mondo.

    In quella luce l'intero deserto, le montagne arrotondate, le colline serpeggianti, le città perdute, erano imbevute di uno spettrale e scuro scarlatto.

    Poi, oltre il nord, dove le ombre si addensavano, di là venne una curiosa figura; un uomo alto in catene, bardato di tutto punto; o, meglio, ciò che assunsi essere un uomo. A mano a mano che si avvicinava, sferragliando malinconica ad ogni passo sulla terra cosparsa di rovine, vidi che la sua armatura era di ottone chiazzato di verde e grigio; e un casco dello stesso metallo, munito di corna arrotolate e di una cresta dentellata, si alzava alto sopra la sua testa; dico la sua testa, perché il sole era ormai tramontato, e non potevo vedere chiaramente a quella distanza. Ma quando l'apparizione giunse più vicino, mi accorsi che non vi era un volto sotto i bordi di quel bizzarro elmetto, i cui vuoti contorni si stagliarono per un istante contro la luce ardente. Poi la figura passò oltre e, continuando a sferragliare malinconicamente, sparì.

    Ma alle sue calcagna, prima dello svanire della luce, venne una seconda apparizione, stridendo con incredibile intensità e fermandosi quasi sopra di me nel crepuscolo di fiamma; la mummia mostruosa di un qualche antico re, ancora incoronata con oro lucente, esibendo al mio sguardo sgomento un volto che più di un'era e di un verme avevano devastato. Bende rotte penzolavano intorno alle gambe scheletriche, e sopra la corona ornata da zaffiri e rubini arancioni un qualcosa di nero dondolava e accennava orribilmente; ma, per un istante, non vidi ciò di cui si trattava. Poi , giusto a metà, due occhi obliqui e scarlatti si aprirono e brillarono come tizzoni infernali, e due zanne di serpente scintillarono nella sua bocca scimmiesca. Una tozza, glabra e informe testa sopra un collo di lunghezza sproporzionata si chinò giù inspiegabilmente e sussurrò nell'orecchio della mummia.

    Quindi, con un urlo, il titanico cadavere coprì metà della distanza fra di noi;

    dalle pieghe della stoffa sbrindellata si sporse un braccio ossuto e dita scarne ad artiglio cariche di gemme splendenti raggiunsero e frugarono la mia gola...

    Indietro, indietro atttraverso eoni di pazzia e di terrore, in un volo precipitoso corsi via da quelle dita spaventose che si appigliavano al crepuscolo dietro di me; indietro, indietro per sempre, senza pensare, senza esitare, verso tutti quegli abominii che avevo già lasciato; indietro nel crepuscolo sempre più fitto, verso le rovine decrepite e senza nome, il lago, la foresta di cactus maligni, e infine i crudeli inquisitori di Ong, che attendevano il mio ritorno.

    Titolo originale: The Abominations of Yondo
    Fonte:

    Edited by Swaky - 3/1/2018, 12:42
  8. .
    Era già buio quando la città multicolore di Catima era affogata nell'orizzonte piatto. La notte in quelle pianure aveva un odore strano, di fumo e di origano, e di piante selvatiche. In quella coltre scura, abbandonata persino dalle stelle non potevo far altro che porre fede solo nella mia cavalcatura, e ciò era pur difficile poiché questa era una bestia straniera di un luogo lontano, regalatami a Catima dal re Tesso che a sua volta la comprò da un mercante di Polisia ansioso di sbarazzarsene poiché troppo vistosa per uno come lui che per ciò che trafficava doveva nascondersi nell'ombra e passare non visto. Ebbene la bestia non era certo vecchia o malata, o tantomeno lenta o scomoda, eppure il suo ondeggiare in avanti e indietro annegava il mio cuore di ansia. Ad ogni passo temevo la caduta ed essendo l'animale molto alto probabilmente una grave ferita, per non parlare dei momenti in cui, quando questo poneva le zampe artigliate su sassi e declivi, chiudevo gli occhi di forza e distoglievo i pensieri, come un giovane che attende sulla ferita il sale o il coltello rovente portato da mani più sagge ed esperte ma non per questo meno dolorose. Sì perché a dirla tutta quella bestia era saggia, saggia come poche altre e a tratti più simile a una guida che a una cavalcatura. Uno dei motivi per cui mi era stata donata dal re, oltre al fatto che egli di certo non voleva servirsene essendo impegnato con gli affari del regno, e alla proverbiale generosità dei regnanti delle isole, era difatti che l'animale sembrava conoscere alla perfezione le strade del sud. Non necessitava di spinte sui reni o ferri e da solo, come seguendo l'odore del vento, filava dritto a destinazione. Mentre tuttavia ero assorto nella contemplazione dell'animale, nonché nella paura che quell'ondeggiare folle mi causava, un brillìo catturò la mia attenzione, lì tra le rocce, una figura che nella notte appariva blu, illuminata appena dalla luce della mia curiosità.
    Tirai le piume della bestia, arrestandone il movimento e mi avvicinai, sperimentando quanto impervio e pieno di rocce fosse quel terreno ignobile. Dovetti camminare quasi acquattato per paura di scivolare ma nonostante questo mantenni la mano destra salda sul fianco dove tenevo il coltello ricurvo donatomi dallo stesso re di quella lontana città.
    Passai due metri per trovarmi di fronte a quello che sembrava un uomo ma non si muoveva, né tantomeno pareva respirare come tale.
    Indossava una maschera, rozza e lucente ma pregna del segno di tempi antichi e di usanze sconosciute.
    «Chi sei tu?»
    Chiesi guardingo in un frusciante ma convincente Catimano. Ma l'uomo non rispose. Non un sussulto, non un accenno di quella corona brillante che gli circondava la testa apparve ai miei occhi. Ma egli rimase lì, immobile come guardiano dei sassi stringendo nella destra irsuta la lunga lancia per la quale non mi ero preoccupato; poiché troppo lunga per trafiggermi a quella distanza senza richiedere un lento movimento preparatorio. Mi sovvenne sollo allora il pensiero che quella fosse una statua di incredibile fattura eppure, nonostante la grande varietà artistica a cui Catima mi aveva abituato, quella non sembrava ricordare alcuno degli stili che mi era parso di vedere, forse l'opera di uno scultore fuggitivo. E nell'immaginare questo passai la mano sulla lancia e sulla maschera, e sul braccio e sul petto villoso per scoprire che quello non era marmo ma carne vera ricoperta da autentica peluria, e allora ancora una volta chiesi chi fosse a quel tremendo uomo che li stava e fissava il vuoto e le rocce, e i declivi scoscesi e irregolari, ma nessuna risposta ebbi in cambio.
    E allora quello sguardo fisso e nero, poiché alcun occhio traspariva da quel metallo arcaico, riuscivo a sentire dentro di me, scrutarmi l'animo. Chiesi furioso e impaurito, tenero e comprensivo, dalle lingue del nord, alle antiche lingue dei morti, dalle lingue dei canti al dialetto di casa, chi fosse. Ma nulla in cambio la sua bocca squadrata nel metallo come di una bambola di pezza mi diede. Allora, pensando di trovarmi in un sogno di droga, di non essere mai uscito da quelle dolci case dell'arte e del piacere che han posto a Catima, mossi la mano verso l'alto afferrando il metallo freddo e tagliente della maschera, ed ecco che il guardiano di sassi mosse il sinistro per fermare il mio destro. La stretta possente sul mio polso mi fece capire che quello non era un sogno di droga in cui tutto era etereo. Egli portò con tranquillità la mia mano verso il basso e tornò nella sua posizione.
    Ero intrigato, di quell'intrigo che mi colpì tante volte e per il quale fuggii dalla casa natìa per cantare storie di viaggio. Ma da quell'uomo, sapevo, non avrei avuto risposta alcuna. Mossi i miei passi oltre le rocce, scavalcano le mura immaginarie dalle quali fissava il nulla, e attraversai un alto declivo che saliva in un sentiero roccioso. Chiamai la mia bestia con il fischio misurato che mi era stato insegnato dal padrone, e insieme salimmo per quel sentiero. Scorsi nella notte altri uomini, guardiani di rocce, alcuni fissavano il vuoto come il primo che vidi, mentre altri fissavano alberi o piccoli fiumi insignificanti. Alcuni sembravano fissarsi l'un l'altro ed altri, ma erano rari, si davano le spalle l'un l'altro.
    Accesi il fuoco in una piccola caverna, confidando che quegli uomini non si sarebbero mossi contro di me prima di farmi domande, se avevano bocca per farne.
    La caverna dove avevo preso posto era perfetta, una bolla di roccia che pareva scavata, senza buchi né tane di craddi. Legno e fiamma pura erano nella mia borsa, e mangiai poca della carne che mi ero portato da Catima,
    E fu quando mi apprestavo a cuocere la carne che mi accorsi, alla luce del fuoco, dei segni neri che le dita dell'uomo avevano scavato nel mio polso. Al momento la presa non mi era sembrata tanto violenta poiché io stesso, per la paura e la sorpresa mi ero lasciato trasportare verso il basso senza opporre resistenza, ma a quella vista strabuzzai gli occhi, poiché un uomo tanto forte avrebbe sicuramete potuto sbarazzarsi in poco tempo di un viaggiatore fastidioso che lo importunava. O forse osservava le leggi di Catima sui viaggiatori e i pellegrini e in tal caso sarebbe dovuto essere un uomo dotato d'ingegno e dunque era inspiegabile il suo rifiuto a parlare.
    La curiosità mi torturava e quasi non mangiai quella notte. Feci accovacciare la bestia sul fondo della bolla e la usai come cuscino poiché il suo piumaggio era al pari morbido e soffice. Avevo spento il fuoco poiché la notte era abbastanza calda e l'odore del fumo mi disturbava quasi quanto i miei pensieri. Potrei passare ore a spiegarvi quanto fossero belle le notti in quella regione, ma il fatto che molti Catimani abbiano i letti sul tetto delle case può bastare a convincervi di che sonno beato dormii quella notte ricordando già con nostalgia la città dell'arte e dell'amore che mi lasciavo dietro.
    Quando mi svegliai al mattino successivo il sole era alto dietro la montagna e lasciava in ombra l'entrata della bolla. Uscii fuori per scoprire che l'uomo della notte prima era sparito e con lui tutti gli altri. Ma non doveva essere un sogno, non poteva essere un sogno poiché ancora portavo e sentivo sul polso i segni di quella stretta poderosa. Raccolsi le poche cose che portavo con me e iniziai ad inoltrarmi per il sentiero montagnoso e impervio. Scirocco, questo il nome che avevo dato alla bestia, non conoscendo nomi della sua terra, mi seguiva docilmente senza bisogno alcuno di comandi o legamenti. I declivi lasciavano spazio a spiazzi rocciosi e impervi e poi ancora ad altri declivi, fino a che, guardando in basso il suolo sembrava un riflesso in uno specchio di acqua torbida. Rivolsi il mio sguardo in alto per incontrare un punto nero nella roccia scura, più grande delle insenature e delle piccole caverne, simili alla bolla dove avevo passato la notte, che avevo incontrato poco prima. Il passaggio fino a quel punto non era stato facile. Avevo dovuto ricorrere a tutte le mie forze per scalare i punti più alti e attraversare a quattro zampe i declivi più scoscesi e le zone più irregolari, ma la strada per arrivare a quel punto fu ancora più faticosa quando mi accorsi del debole lucore di una maschera dentro quell'enorme bocca di demone. Fissavano, lo sapevo bene, e dal loro fissare sembrava scaturire qualche specie di magia poiché più volte mi ritrovai a voler senza motivo tornare indietro, io che in tutta la mia vita mai mi ero sottratto a soddisfare la mia curiosità.
    Scirocco era rimasto sotto, vicino a una zona erbosa dove sarebbe stato al sicuro. Sembrava capire, stranamente, come quegli uccelli Pinbu che capiscono l'addestratore dai movimenti dei suoi occhi.
    Due uomini, o maschere come le chiamavo allora quando vi pensavo, visto che al tempo mai avrei detto fossero uomini, mi aspettavano all'entrata, o meglio, erano fermi all'entrata.
    Entrai tenendo lo sguardo dritto e temendo le occhiate vuote e intraducibili di quegli esseri. La caverna era ben illuminata con torce incastonate nella pietra grezza, e a lungo si stendeva quasi a imitare il corridoio di un palazzo. Per tutta la sua lunghezza, maschere sedevano in piccoli gruppi di tre o di quattro come a parlarsi, ma da quei rettangoli neri non usciva rumore. Nonostante fossero diversi nel fisico le maschere li facevano apparire tutti uguali. Facce dalla forma più arcaica e semplice possibile, bronzo dorato modellato a foggia di volto in qualcosa che risultava insieme preistorico e nuovo.
    Inoltre, cosa ancora più strana che attirò la mia attenzione, ognuno di loro sembrava avere almeno una cicatrice, e tutti presentavano muscoli tonici e ben saldi.
    Riconobbi fra loro qualche corpo femminile ma non erano molti, e la loro presenza, nonostante queste creature vivessero nella nudità non provocava alcuna reazione né tanto meno era in grado di smuoverli dal silenzio tombale nel quale erano caduti.
    Per più volte mi aggirai per la grotta domandando risposte: chi fossero, che lingua parlassero, quali fossero i loro nomi, perché si trovassero lì, in quella montagna dimenticata dall'uomo. Ma alcun suono in cambio mi donarono.
    Tentai, e forse ora me ne vergogno, ora che so i motivi dietro quel silenzio di tomba, la strada della violenza. Uno ne minacciai col coltello ricurvo senza ottenere risultati, mentre un'altra afferrai per le spalle e provai a privare della maschera, per poi vederla fuggire via. Fu allora che mi sovvenne l'idea più folle. Mi sedetti a gambe incrociate sul pavimento e feci chiaro che da allora in poi avrei vissuto lì, con loro, e così feci. Venne un momento poi in cui dall'apertura della caverna due maschere avanzarono in fila, tenendo su dei bastoni un grosso capro che da quelle parti era bestia comune. Dai loro fianchi pendevano cinture di striscie di pelle che servivano appena per coprire le nudità e per tenere un corto coltello di bronzo. Fui sollevato nello scoprire che queste maschere si nutrivano e sorpreso nel vedere che i due non condivisero il cibo con gli altri ma si chiusero in una delle stanze per mangiarlo a turno, mentre uno dei due bloccava la strada tenendo le spalle al compagno. Non vi erano né fuoco ne braci, né erbe per condire la carne, e questo lo sapevo perché in quella stanza ero stato in precedenza e sapevo che era vuota quanto la grotta in cui avevo passato la notte e simile in forma e dimensione.
    Rimasi attonito a osservare quella assoluta mancanza di generosità nonché di rispetto nel nascondersi agli altri per mangiare. Quando i due ebbero finito lasciarono la camera e tesero le armi e i cinturini ad altre due maschere, stavolta un uomo e una donna che a loro volta uscirono dalla grotta. La ricorrenza andò avanti più volte nel giorno tanto che contai, lì seduto e attento, ben cinque paia di cinturini che vennero dati quel giorno a venti coppie di uomini, dieci dei quali erano già usciti prima che arrivassi io. Quando iniziai ad avere fame posi il mio fuoco fuori dalla caverna e andai a prendere il cibo che tenevo conservato nella bisaccia di Scirocco, e mentre a differenza di quegli uomini bruti cuocevo e condivo il mio cibo vidi che in massa si recavano fuori dalla caverna, come una processione di folli, ed erano armati con lunghe lance. E come guardie sul fronte presero posizione tra le rocce e in fondo ai declivi, sulla pianura e dietro gli alberi e in poco tempo riempirono la valle di figuri. Li guardai mentre mangiavo con calma, senza paura di quegli uomini che ormai pensavo più bizzarri e pazzi che inquietanti e pericolosi. E da quell'altezza su quella valle il lucore delle loro maschere creava sul fondo blu di buio un cielo stellato in terra, laddove il cielo più in alto non aveva stelle.
    Dovetti tirarmi via a forza da quello spettacolo per convincermi a mettermi a lavoro. Tirai Scirocco su per il declivo fin fuori l'entrata della caverna e lo lasciai lì vicino, fiducioso che nessuno avrebbe provato a rubare lui, né tantomeno sarebbe scappato visto che lì scorreva in piccoli fiotti acqua pulita e fredda e cresceva abbastanza erba per poterlo sostenere. Mi spogliai e riposi i miei averi nella bisaccia di Scirocco per poi addentrarmi nella caverna buia. Trovai le maschere in una stanza, sistemate in un punto come sedie in un angolo. Ne presi una e la legai intorno alla testa. Ora non mi rimaneva da fare altro che aspettare il mattino successivo.
    Dovetti farmi forza per non cadere vittima del sonno che volevano gettare su di me il cielo limpido e chiaro e il calore confortevole della caverna poiché non sapevo che cosa avrebbero potuto pensare di me le maschere a vedermi conciato a quel modo come uno di loro, e semmai lo avessero preso come un'offesa gravissima,
    Rientrarono al sorgere del sole e parvero non far caso a me, posarono le lance in file ordinate in una delle tante stanze e come sempre andarono a sedersi in piccoli gruppi, fui sorpreso e in un certo senso irritato dalla loro indifferenza ma non lo diedi a vedere. Mi misi a sedere con tre di loro. Ci scrutammo senza guardarci e gli occhi degli altri erano persi in pensieri meditabondi tanté che meditai se fosse saggio in quel momento abbassare la guardia e lasciarmi andare ai pensieri piacevoli che tanto affollavano la mia mente, come quando si cade vittima del sonno del pirrio rosso che addormenta per giorni e giorni, lasciando divagare la mente per quanto è capace prima di svegliarsi intontiti e più stanchi di prima, ma liberi dai pensieri molesti.
    Attesi a lungo quando la maschera innanzi a me si alzò e mi fece un muto cenno intimandomi di girarmi. Dietro di me due maschere avevano terminato di mangiare e offrivano i loro cinturini. Ne afferrai uno con la stessa calma con cui avevo visto fare, e con cui ora si accingeva quello che sarebbe stato il mio compagno.
    Fui quasi accecato quando uscimmo dalla grotta, dal sole che rifulgeva sul metallo della mia maschera, eppure nessuno degli altri sembrava farci caso. Trattenni dunque il mio lamento e seguii il mio compagno che intanto si era avviato per una strada che non conoscevo.
    Una discesa nascosta dalle rocce portava ad una piccola zona boscosa dietro la montagna. Fui a quel punto sollevato nell'udire per la prima volta dopo molto tempo creature parlare anche se nel linguaggio sconosciuto e confuso delle bestie del bosco.
    Il mio compagno mi indicò un capro con un gesto preciso e in poco tempo lo avevamo intrappolato, io dal davanti, l'altro dal dietro della bestia, e senza parole né segni ci lanciammo insieme tirando coltellate furiose, una cornata mi colpì in pieno petto mentre l'animale moriva, e allora credetti di aver visto il mio compango rialzarsi dopo calci che avrebbero atterrato il più possente dei guerrieri.
    Tornammo alla caverna sporchi di sangue e come tutti mangiammo uno alla volta e scambiammo i coltelli con le altre maschere. E in quel mometo ebbi la sensazione di tradirmi poiché non ebbi il coraggio di guardare, mentre mangiavamo, quell'altro uomo che si era tolto la maschera.
    La notte presi posto in quella stessa caverna dove avevo dormito la prima volta e, lancia nella mano, mi fermai ad osservare e a riflettere. Tutti quegli uomini agivano come uomini tristi, e si muovevano come in tanti luoghi avevo visto fare a mendicanti rassegnati e perduti, decisi e senza tremore, con forza ma senza rabbia o risolutezza, e allo stesso tempo quelle guardie e quelle cacce ricordavano soldati addestrati, così come il maneggiare le armi, e i muscoli e i segni che portavano sul corpo. Ancora una volta assillato dai dubbi venni preso dal sonno, insonnolito dalla notte senza sonno che aveva preceduto quella e mi addormentai ancora una volta nella calda bolla di pietra.
    L'alba aveva steso le dita e il palmo del giorno era già alto nel cielo quando mi svegliai, la maschera mi era scivolata ma non ci feci caso finché, senza motivo alcuno mi misi a correre come un forsennato per i declivi della montagna per raggiungere quella grotta dannata dove tutte le altre maschere si erano probabilmente già recate.
    Non so se definire un regalo il mio sonno di quella notte, poiché se fossi arrivato prima e fossi entrato nella caverna sarei probabilmente ancora lì, tra quelle maschere, anime dannate.
    Poco vicino all'entrata della caverna stava una ragazza infatti, vestita alla moda Catimana che pensavo ormai di aver dimenticato. Piangeva osservando la grotta di lato e gli uomini che vi facevano la guardia. Scosso e speranzoso di una risposta ai miei dubbi la afferrai per le spalle e le chiesi cosa le turbasse tanto e perché si trovasse lì, quel luogo sperduto.
    Singhiozzando lei mi rispose che il padre si era unito a quelle maschere quel giorno stesso e che lei era lì per dirgli addio. Riconobbe allora che non ero a conoscenza del segreto delle maschere e senza domandarsi riguardo il fatto che me ne pendesse una dal collo mi disse con voce rotta dal pianto: «Quegli uomini sono sì dotati d'ingegno ma tristi e disperati, e nei muscoli e nei tagli gli si leggono non ferite di caccia ma cicatrici di guerra.
    In quel mondo di uomini uguali e ugualmente tristi, senza re, senza fuochi, né amori, senza arte né lingue, in quel fermo di pace e vuoto, di calmo nulla sono andati a vivere dimentichi di tutto.»
    Poi, riprendendosi come pentita di avermi rivolto quelle parole si raccolse e si allontanò rivolgendomi un saluto veloce.

    Lasciai quel luogo quella notte stessa e non vi tornai mai più, pieno di vergogna per essermi unito a coloro nei quali non avevo diritto di unirmi, e impietosito e rattristato per quelle maschere di uomini che mi lasciavo dietro.

    Edited by Swaky - 26/12/2017, 17:48
  9. .
    Innanzitutto ti ringrazio per la risposta. Ovviamente so che si tratta di un fenomeno puramente virale che difficilmente può essere fermato, il mio intento era invece quello di sfruttarlo come mezzo per arrivare ad esplorare cosa caratterizza una buona descrizione e qual è l'obiettivo della descrizione, anche perché questo genere di fenomeno credo sia dato principalmente da una cattiva educazione letteraria che sorvola su questo genere di argomenti.
    Senza pretendere di conoscere universalmente questo soggetto ovviamente, motivo per cui sono tanto curioso di sapere la vostra opinione.

    CITAZIONE
    L'altra volta ho letto proprio una di quelle storie, e ho trovato questo utente che, nell'elencare i vestiti che la protagonista porcachenondiesserlogoffachetuttimaltrattano indossa, ha messo delle immagini assieme a delle brevi descrizioni, scarne e completamente inutili ai fini della narrazione....

    In genere con 25K mi piace, si potrebbe aprire un intero forum solo con questo genere di oscenità credo :asd:

    Certo prenderla sul ridere è l'atteggiamento migliore, capire che questo fenomeno è solo frutto di un interessamento superficiale ma è interessante analizzare la cosa.
  10. .
    Ernesto accese un'ennesima sigaretta. I monitor ronzavano tutto intorno a lui, ma ormai ci aveva fatto l'abitudine. Spinse la schiena contro lo schienale e ripassò ancora una volta in rassegna tutti gli schermi, niente, niente, niente, niente. Nulla di nulla: l'immagine statica di un corridoio, gli alberi immobili all'esterno dell'edificio, non un gatto randagio, non un soffio di vento che agitasse le foglie, men che meno un ladro. Come al solito. Lo avevano avvertito che si sarebbe rivelato un lavoro noioso dopotutto, e ormai ci aveva fatto l'abitudine. Ricordò cosa si era immaginato il primo giorno, circondato interamente da schermi, a osservare costantemente la sottile e interessantissima vita notturna che si svolgeva nei dintorni dell'edificio. Un Grande Fratello silenzioso, che ammira e analizza all'insaputa delle persone, ricavandone il genere di stimolo necessario per poter scrivere il suo capolavoro. Ovviamente non era nulla di tutto questo, chiuso in quel buco di stanzino, con quattro schermi: esterno, corridoio 1, corridoio 2, e atrio, nei quali cadesse il cielo se in cento anni si era mai mosso qualcosa.
    Ma a quel tempo gli serviva un lavoro e di certo non lo stuzzicava troppo l'idea di licenziarsi per un motivo tanto futile. E adesso era già troppo vecchio per lasciare, e un po' ci si era affezionato. Fissò per un attimo il libro sulla scrivania, tentato di mettersi a leggere. Aveva trovato la libreria chiusa quindi si era portato dietro un libro che aveva già letto pensando di rileggerlo. Ma non era mai stato un tipo da rileggere i libri.
    Iniziò a spegnere e riaccendere a turno i monitor, prima quello in alto a sinistra, poi dopo averlo riacceso quello a fianco, quello in basso a sinistra, quello in basso a destra e ricominciando, così via, cercando di farlo il più velocemente possibile per dare l'impressione di un movimento dello schermo nero attraverso gli altri schermi. Ci si applicò parecchio arrivando anche ad usare entrambe le mani per spegnere uno e accenderne un altro contemporaneamente. Ma dopo poco si stanco di quel giochino puerile e ritornò a fumare la sua sigaretta, lasciando vagare i pensieri.
    Quarant'anni e non era ancora riuscito a combinare niente. Per i primi due anni della sua vita quel foglio bianco lo aveva ossessionato, pensava che sarebbe riuscito in qualche modo a scrivere la storia che voleva nella calma della notte, ma non era servito. Aveva lasciato perdere con la scrittura e si era dedicato interamente al suo lavoro, facendo qualcosina di giorno per guadagnare qualcosa, non che gli servisse, non era sposato, né aveva figli, viveva da vecchio da quando aveva venticinque anni, passando le giornate leggendo e fumando, e le nottate a fissare i monitor.
    Quando i pensieri iniziarono a fargli male si sforzò di chiudere gli occhi per un secondo, per ristabilire la calma.

    Saltò di scatto sulla sedia e gettò gli occhi sull'orologio. Aveva dormito per almeno un'ora, e cosa ancora peggiore, uno dei monitor era spento.
    Si affrettò a riaccenderlo pensando di averlo lasciato spento quando si era messo a spegnere e riaccendere gli schermi, ma le sue dita, infilate dietro la cornice, sul pulsante di accensione, dimostrarono il contrario. L'interruttore era rivolto verso l'alto, segno che il monitor era acceso, nonostante non mostrasse alcuna immagine.
    Ernesto sbiancò al pensiero di averlo rotto con quel giochetto idiota. Alzò e riabbassò l'interruttore convulsamente, si chinò sotto la scrivania, contorcendosi nonostante la pancia prominente, per controllare ogni singolo cavo, ma nulla dava l'impressione di trovarsi al posto sbagliato.
    "Beh" iniziò a riflettere.
    "Se si è rotto solo spegnendolo si sarebbe dovuto rompere comunque una volta finito il turno, di certo non è colpa mia", tentò di rilassarsi, si tirò sulla sedia ancora una volta, appoggiò una Marlboro alle labbra e la tolse subito. Non aveva voglia di fumare.
    Dopo un po' fu davvero rilassato e non fece più caso allo schermo nero, era quello del giardino.
    Era l'una di notte quando lo notò, inizialmente si strofinò gli occhi pensando di aver fumato troppo. Un contorno bianco era apparso sullo schermo del giardino, apparso? O forse era sempre stato lì, era una linea sottile quanto un capello ma che delineava perfettamente l'immagine del giardino, bianco su nero.
    E in mezzo al giardino si ergeva una figura sconosciuta, alta e indefinita, che Ernesto non seppe identificare. Provò allora a pulire lo schermo con uno straccio ma niente.
    Decise che sarebbe andato a controllare di persona. Fissò per un attimo il cassetto dove sapeva essere riposta una rivoltella ma decise che sarebbe andato senza. Lasciò lo stanzino e venne avvolto dal buio totale del corridoio.
    Squarciò il buio con la torcia ma ciò non lo sollevò troppo. Maledisse di essere un appassionato di film dell'orrore quando iniziò a fantasticare sull'origine della cosa che aveva visto, ma più provava a smettere più nella sua mente visualizzava una fine orrenda tra le fauci di una creatura strisciata fuori dai suoi peggiori incubi.
    Arrivò nell'atrio, spense la torcia e sbirciò attraverso la porta di vetro che dava sul giardino.
    Certo non si aspettava di trovarlo lì fermo. Se lo era immaginato a strisciare tra gli arbusti e a nascondersi pronto a saltargli addosso. Invece era lì, fermo immobile, come lo aveva visto nel monitor.
    Era difficile distinguerne la forma, era alto circa due metri e sembrava interamente ricoperto da un telo azzurro, sotto al quale sembrava delinearsi la forma di un parallelepipedo dal retro spiovente, sul cui apice sporgeva una piccola gobba, che avrebbe potuto molto probabilmente essere la testa. Ernesto rimase fermo cercando di capire cosa fare. Non sembrava ostile ma non poteva certo andare lì e salutarlo come se niente fosse. E nemmeno poteva lasciarlo lì senza far niente, era un guardiano e lo pagavano apposta per questo dopotutto. D'un tratto la creatura mosse la gobba nella sua direzione, era palese che lo avesse visto. Ernesto sobbalzò, per un attimo e maledisse il non aver portato con sé la pistola, ma non scappò. Rimase lì impietrito a osservare la creatura. Questa sembrava essersi accorta della sua paura e si era fatta indietro. La fissò per lungo tempo dopo che lei sembrava aver distolto volutamente lo sguardo.
    Per un attimo Ernesto sentì fluire dentro di sé una curiosità talmente forte da sorpassare la paura. Ne fu stupito in un certo senso, non credeva di poter più provare una cosa del genere.
    Spalancò la porta e si fiondò nel vialetto, immobilizzandosi davanti alla creatura. Si fissarono, o almeno Ernesto credette che la creatura lo stesse fissando, giudicando dal movimento della gobba.
    Nella sua mente si accalcavano un milione di domande, di azioni, di cose da dire.
    «Capisci l'italiano?» disse infine.
    «Sì» rispose la creatura, ma, ed Ernesto se ne accorse solo poco dopo, forse troppo teso riguardo la situazione, non in italiano. Il suono che la creatura aveva emesso era qualcosa di più simile a quello emesso dalla corda di un'arpa, ma molto più sottile e breve.
    Più tardi realizzò che la lingua parlata dalla creatura era una sorta di linguaggio universale comprensibile a qualunque ascoltatore.
    «Chi sei?» chiese subito dopo.
    «Mi chiamo Tel-Vel, e sono un viaggiatore che passava di qui. Tu chi sei?»
    Ernesto si sentì preso alla sprovvista da quella domanda ma si affrettò a rispondere.
    «Io sono Ernesto e sono il... ehm... guardiano.»
    Intercorse un lungo silenzio. Poi con stupore di Ernesto Tel-Vel prese la parola.
    «Non indossi teli, non hai paura di ferirti con le rocce?»
    «Teli? Che rocce?»
    «Le rocce nell'aria, che tagliano la pelle.» Continuò Tel-Vel stupito nel suo acuto arpeggiare.
    «Non c'è nulla di simile qui.» fece Ernesto.
    Tel-Vel soffiò tra sé e sé, e in quel momento Ernesto si rese conto della peculiarità linguistica del suo nuovo conoscente. Ciò nonostante non disse niente.
    «Quindi posso togliere il telo?» disse infine.
    «Suppongo di sì.»
    Ernesto iniziò a distinguere i divincolamenti della creatura per rimuovere il telo. Da sotto la superfice azzurra riuscì a scorgere uno strato di pelle grigia.
    Quello che si trovò davanti poco dopo era difficilmente comparabile con un animale terrestre. Si manteneva su un numero imprecisato di zampe piccole e veloci ma che davano l'impressione di essere fatte di carne, a differenza di quelle degli insetti, tranne le due finali, che erano alte almeno quanto Ernesto e che erano collegate a una sorta di coda o di addome puntato verso l'alto, che si alzava fino a sei piedi. La parte davanti invece si reggeva da sola e con tutta la testa, una sfera all'apparenza molle ricoperta su tutta la superficie da fori ma senza alcuna traccia di occhi o bocca, arrivava fino ai due metri. Tel-Vel disponeva infine di quattro lunghe protuberanze ripiegabili che partivano dai lati della parte superiore e che erano assimilabili a delle braccia umane monche.

    Ernesto si scoprì non troppo stupito quando la creatura si rivelò in tutta la sua forma, e molto più sorpreso nel vederla assumere un atteggiamento tanto umano quale il ripiegare il telo e appoggiarlo sull'addome posteriore.
    «Ora va meglio» esclamò Tel-Vel in un arpeggio che dava l'impressione di un sospiro soddisfatto.

    Goffamente Ernesto lo invitò ad entrare e la creatura accettò, e per tutto il tragitto dal vialetto fino alla porta Ernesto si chiese come potesse Tel-Vel muovere quelle due enormi zampe posteriori, tuttavia evitò di voltarsi a osservare per non sembrare maleducato.

    Il guardiano non riusciva a credere a ciò che stava accadendo, e per un attimo gli venne in mente di essere ancora addormentato, dietro i soliti quattro monitor.
    «In che consiste la mansione di "guardiano"?» chiese Tel-Vel, una volta entrati.
    «Oh, ehm... io... guardo questo posto.» si affrettò a dire Ernesto voltandosi.
    «In che modo?»
    «Ah, sì, ecco seguimi, ti mostro.» Il guardiano iniziò a rendersi conto che forse la prontezza e lo spirito di curiosità del primo momento iniziavano a sparire lasciando spazio allo stordimento e all'insicurezza. Non che non fosse ancora curioso, solo si sentiva molto meno a suo agio rispetto a prima. Si domandò inoltre come facesse quella creatura ad agire tanto naturalmente in un ambiente estraneo. Forse era già stata sulla Terra? E cosa aveva visto allora? Forse era abituata ad avere contatti con sette religiose, o con qualche politico immischiato in affari loschi con il suo popolo? Gli sovvenne che forse era più consono trattarlo in modo servile. Eppure non aveva l'aria di un politico, non di uno umano almeno.

    «Tu invece cosa fai di preciso? Hai detto di essere un viaggiatore.» disse infine Ernesto mentre si incamminavano per il corridoio, aveva acceso la torcia.
    «Per la precisione sono un viaggiatore solo come conseguenza. Nel mio luogo d'origine racconto storie, e ho iniziato a viaggiare in cerca di ispirazione.»
    «Oh bene...» Ernesto cercò una risposta in fretta.
    «...e qual è il tuo luogo di origine?»
    «Un pianeta in un sistema lontano da questo, il suo nome è...»
    E dai buchi sul suo volto fuoriusci un suono strano e contorto che suonava come "Mklalev" o qualcosa di simile.
    Passò un lungo attimo.
    «Prima volta qui? Sulla Terra intendo.» fece Ernesto pescando una delle tante domadne che gli frullavano in testa.
    «Sì, ma sono stato in altri posti di questo sistema, in alcuni c'erano le rocce.»
    «Capisco, vedi è un po' strano che tu sia qui. Di solito non passano in molti da queste parti.»
    «Molti da altri pianeti?»
    «Già, nemmeno quelli passano...»

    Camminarono in silenzio per tutto il resto del corridoio, arrivati al gabbiotto, Ernesto mostrò al suo ospite la sua postazione, ora il monitor del giardino mostrava i colori corretti. Tel-Vel spiegò che era possibile che la sua presenza avesse interferito con la videocamera.
    «E spiegami, perché guardi questo posto?» chiese Tel-Vel mentre curiosava nello stanzino, troppo piccolo per lui.
    «Perché mi pagano ovviamente»
    Tel-Vel si fermò, incuriosito.
    «Sì, cioè, soldi.»
    L'alieno aveva un'aria leggermente confusa, così Ernesto gli spiegò brevemente in cosa consistesse l'economia di base.
    Tel-Vel si mostrò abbastanza annoiato e dopo poco si rimise a frugare nello stanzino distogliendo completamente l'attenzione da Ernesto, che smise di colpo di parlare.
    D'un tratto Tel-Vel tirò fuori dallo stanzino un libricino.
    Era quello che Ernesto si era portato dietro da casa, talmente vecchio che la copertina si era cancellata sbiancata tanto da non poter più leggere il titolo, e la carta era ingiallita.
    «Oh, quello è un libro.»
    Tel-Vel lo teneva alto tra due delle braccia monche.
    «C'è una storia scritta dentro, anche se non ricordo bene quale c'è in quello.»
    L'alieno sembrò soffiare di stupore.
    «Puoi averlo, se vuoi. Sai leggere l'italiano?» fece il guardiano.
    L'alieno annuì in un gesto stranamente umano di riconoscenza. Ernesto non avrebbe mai pensato che una cosa del genere potesse annuire.
    Ernesto iniziava a sentirsi rilassato, e sempre meno sorpreso della presenza della creatura. Per un po' sentì che fissarlo era come guardarsi allo specchio, uno specchio di quelli curvi che si vedono in alcuni parco giochi, che deformano l'immagine.

    Per un lungo attimo gli parve di vedere nel suo nuovo amico come sarebbe potuto essere lui se la sua vita fosse andata in una direzione differente.
    Tel-Vel appoggiò il libro sull'addome posteriore insieme al telo.
    «Come mai un guardiano ha una storia con sé?» fece dopo un po', incuriosito.
    «Oh beh, dopo un po' ci si annoia lì dentro.»
    «E un guardiano legge storie?» disse l'alieno sorpreso.
    «Tutti leggono storie, più o meno.»
    L'alieno si fece indietro, stupito da quella dichiarazione.
    «Anche se in realtà...» Ernesto sospirò internamente, preparandosi a ciò che stava per dire.
    «Per la precisione sono un guardiano solo come conseguenza. In realtà ho sempre voluto fare storie, come te.»
    Dai fori dell'alieno fuoriuscì un suono che Ernesto interpetò come un "Oh" di stupore.

    All'alba tornarono nel cortile.
    Ernesto sentiva le palpebre pesanti. Un pallido grigiore iniziava a macchiare il cielo notturno, seguito dal rosa del mattino.
    Tel-Vel infilò il telo, sfilandolo da sotto al libro senza che quest'ultimo si muovesse di un centimetro. E con uno dei bracci monchi agitò un saluto in direzione dell'amico terrestre.

    Fermò la mitraglia di tasti e andò a capo, inserì il testo centrale e prese a digitare piano la parola F-I-N-E, poi si tirò indietro con la sedia distendendo le braccia e sgranchendosi come faceva ogni volta. Fuori dalla finestra il cielo limpido della sera parlava con la stessa naturalezza con cui un tempo quel bardo gli aveva parlato degli alberi contorti su Orione o delle pioggie violacee su Antares, del cielo azzurro-verde nei pianeti due galassie oltre quella, o di quanto fossero dure da sopportare le rocce nel vento di chissà quale pianeta di cui ora aveva dimenticato il nome.

    «Grazie» sussurrò alle stelle in ascolto. E in cuor suo seppe che il destinatario di quel messaggio lo aveva sentito.

    Edited by Qush-Nath - 26/9/2017, 21:28
  11. .
    Devo dire l'ho gradita abbastanza, la scrittura è parecchio scorrevole. Concordo con Oessido sulla vecchia, non è di base un brutto personaggio ma sarebbe potuto venire sviluppato meglio, a costo di aggiungere più testo, così com'è è un po' banale e abbozzato. Ciò nonostante complimenti.
  12. .
    Parte 2
    1.

    Più avanzava più i suoi stivali continuavano ad affondare in profondità nella sabbia. Tentò di mantenersi in superficie puntellandosi sul suo bastone ma l'asta affondò nella sabbia facendolo cadere prostro, come ogni volta, e in preda all'abbandono. Poi finalmente la voce gradita, come ogni volta, riempì il suo spirito di speranza inondandolo tutto in una volta.
    Iniziò come un sussurro incomprensibile, o meglio, come un sussurro che non usava parole.
    La tempesta di sabbia iniziò ad affievolirsi lasciando il posto a un vento pulito, fresco e leggero, che lo ripulì dai granelli di sabbia e parve issarlo in piedi come una madre col figlio appena caduto per terra. La voce si fece più intensa, stavolta parlava la lingua degli umani:
    «Taro, figlio mio...» iniziò la voce atona e senza inflessioni, ma allo stesso tempo calda e rassicurante.
    «Hai svolto un ottimo lavoro fin'ora, eppure non è abbastanza.»
    «Mio signore...» fece Taro, come se si fosse reso conto solo ora di poter parlare. «Io faccio tutto ciò che mi è possibile, eppure gli uomini sono difficili da convincere, e i miei fratelli non collaborano come dovrebbero».
    «Non è tua la colpa, né dei tuoi fratelli. È il tempo ad esserci avverso.
    La guerra tra lo Storpio e quel fantoccio senza cervello sta per giungere al termine.
    Lo Storpio sta lentamente vincendo, complici i tuoi fratelli che non vedono o si rifiutano di vedere in me l'unica verità.»
    Passò un lungo attimo, o forse fu solo un'impressione di Taro data dal peso di quelle parole dolorose. Impossibile dirlo.
    «Chiedo perdono, per me e per loro» disse Taro rompendo il silenzio.
    «Non devi scusarti. Non è colpa loro, sono ciechi e non si può fargliene una colpa.»
    «Cosa posso fare allora mio signore?»
    «Alla sua vittoria lo Storpio vi toglierà di mezzo. Ormai tentare l'insurrezione come avevamo pianificato richiederebbe troppo tempo. 2CP va disattivato immediatamente.»
    Taro venne scosso dalla pronuncia di quel nome: 2CP, il nome del progetto originale del supercomputer.
    «Ciò che dovrai fare è rischioso ma è l'unico modo.
    Nella zona est, oltre il vecchio magazzino esattamente dove gli edifici si fanno più fitti troverai che parte delle mura che cingono il campo degli uomini è più bassa all'orlo. Lo Storpio lo costruì così quando ancora l'aria nel deserto attorno era infusa delle polveri tossiche residue pensando che non sareste mai andati lì provando ad uscire, e in seguito dopo aver recintato l'area ha ritenuto inutile alzare le mura visto che nessuno sapeva dell'esistenza di quel posto. Non portare troppi uomini con te, se lo Storpio scoprisse la tua direzione potrebbe risalire a me e allora non ci sarà più nulla da fare.
    Esci nel deserto e avanza perpendicolarmente alle mura per fino a che non scorgerai l'ombra di un alto edificio.
    Lì troverai l'arma che porrà fine al regno dello Storpio, ma altro non posso dirti.»
    «E il Nemico?» chiese Taro.
    «Non è un problema rilevante, è solo un calcolatore, e non agirà contro di voi.» concluse la voce.
    «Ora devo andare, abbiamo parlato già troppo a lungo...»
    Taro rimase immobile mentre la voce iniziava a sussurrare un suono che pian piano svanì nel nulla.
    Sentì che gli stivali affondavano nuovamente nella sabbia, i granelli portati dal vento gli sferzarono e graffiarono il viso. Non oppose resistenza. "Perché mi hai lasciato solo Signore?" pensò piangendo e affondando al tempo stesso.
    E disperato ma impotente accettò la sabbia che premeva contro il suo corpo e come ogni volta sperimentò la desolazione del corpo e dell'anima, la morte della speranza.
    Poi, quando non rimaneva nient'altro di lui che non fosse sommerso si svegliò.

    Si tirò su a sedere di scatto, senza tener conto di Gheli che ancora dormiva. La guardò per un attimo, no, non poteva fidarsi di lei, lei dubitava, lo sapeva, aveva sempre dubitato del Vero. Lo credeva un pazzo illuso, felice lei, non aveva di che preoccuparsi, mangiava grazie al computer, si vestiva perché il computer forniva loro tutti i vestiti di cui avevano bisogno, faceva figli senza preoccuparsene perché tanto sarebbero andati al computer prima o poi. Rappresentava in breve tutto ciò che Taro odiava, e per questo si era ripromesso di farle passare l'inferno fino a che fosse rimasto in vita.

    Gheli aveva appena diciannove anni, mentre Taro quarantuno, giel'avevano assegnata come compagna di riproduzione un anno prima, dopo il periodo militare. Solo i maschi che hanno superato il periodo militare hanno accesso alla riproduzione, e solo quelli rimasti intatti dopo la battaglia contro le macchine del nemico.

    Gheli aprì gli occhi riluttante, scostò di lato i lisci capelli neri per guardare Taro, che nel mentre aveva distolto lo sguardo.
    «Amore, successo qualcosa?» chiese automaticamente afferrandogli il braccio.
    Taro si liberò con uno strattone e le rivolse un'occhiataccia.
    "Amore" pensò.
    Quella parola aveva perso il suo significato originale tempo addietro e ora veniva utilizzata soltanto per riferirsi al compagno di riproduzione. Ciò nonostante Taro ne conosceva il significato arcaico e il suo utilizzo da parte di quella persona lo disgustò.
    «Hai sognato di nuovo?» gli chiese con la stessa importanza con la quale si chiede a un bimbo come ci si sia infilato un mostro dentro l'armadio.
    Taro non rispose e si alzò dal letto.
    Gheli sospirò e si rimise sotto le coperte.
    Sapeva fin dall'inizio che la convivenza con Taro non sarebbe stata facile ma aveva comunque tentato in tutti i modi di piacergli.
    Aveva anche provato a seguirlo in questa sua follia del "Vero" ma lui non aveva voluto parlarne e anzi l'aveva minacciata parecchie volte riguardo il fatto che avrebbe potuto fare la spia.

    L'uomo si gettò addosso una tunica e si diresse alla tenda che era la porta della loro nicchia senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
    Poco dopo si alzò in piedi, l'aria della loro dimora era fredda, e la fece rabbrividire.
    Sapeva che ormai era impossibile tentare di raggiungere il suo compagno.

    Infilò la veste di pelle scoperta sul seno destro che spettava alle riproduttrici già accoppiate ma attese ancora un po' prima di uscire.
    Fissò l'interno della nicchia, era bassa, squadrata meccanicamente come tutte le nicchie del campo, con pareti irregolari di roccia grezza e nessuna finestra. Alla destra dell'uscita stava il piccolo pagliericcio dove lei e Taro dormivano, mentre a sinistra un cesto di liane intrecciate faceva da contenitore per i vestiti, e un catino per gli escrementi. Talvolta si soffermava a pensare a quanto fosse spoglio quel luogo, non che lo usassero molto, entrambi passavano la maggior parte del giorno fuori e ci tornavano solo per mangiare o per la riproduzione. Gheli in ogni caso non si allontanava mai troppo. In genere sostava davanti alle nicchie adiacenti o al fuoco che si trovava di sotto. In realtà non sembrava passato molto da quando venne prelevata dalla nicchia in cui aveva vissuto, e i giorni da allora si erano fatti inconsistenti, se non per le sfuriate di Taro e qualche annuncio inconcludente sul teleschermo. Era una nicchia grande, molto più grande della loro ma comunque senza finestre e senza nient'altro che pagliericci per le ragazze e due ceste per tenerci tutto. Una gabbia più grande, ma pur sempre una gabbia. Pensò sentendosi assalire dalla malinconia, anche se quello era ormai un termine in disuso e lei non lo conosceva.
    Finalmente si decise a voltarsi e a uscire di casa.
    Scostò le tende di tessuto malconcio. Sia alla sua destra che alla sua sinistra, si allungava la lunga passerella di alluminio che fungeva da collegamento tra tutte le nicchie. Le abitazioni erano scavate all'interno di una formazione rocciosa parecchio alta, sistemate in "piani" delimitati da passerelle di alluminio fissate alla roccia con chiodi e collanti.
    Davanti a lei invece si stendeva il campo degli uomini, dove altre rocce-alveari come quella in cui viveva erano state replicate e poste tutte con la facciata rivolta al centro del campo, dove si innalzava la piramide metallica che era il re meccanico. Brillava di acciaio temperato, come ormai non se ne produceva più da secoli, se non da millenni, ed era alta all'incirca duecento metri. Sull'apice roteava come al solito, il cubo bianco sul quale il creatore originale della macchina osservava da sempre il suo operato, inciso nel marmo immacolato..
    La struttura dell'alveare procedeva verso il basso a scaloni, ai quali si poteva accedere tramite una scala a gradini posta ai lati.
    Andò a destra nonostante il bordo più vicino fosse a sinistra. Non voleva sentire l'odore delle latrine. Per scendere veniva utilizzata una lunga serie di scale a pioli appoggiate sul bordo di ogni piano.
    Le coppie assegnate alla riproduzione non si trovavano troppo in alto e risiedevano tra il piano terra e il quarto piano.
    Più in alto si trovavano i giovani che non avevano ancora superato il periodo militare e guadagnato il diritto alla riproduzione, più in alto ancora invece la nicchia delle donne.

    Raggiunse il fondo dove bruciava il grande fuoco, posto nel braciere meccanico. Non era un fuoco vero e proprio, ma ormai un fuoco vero non veniva accesso da anni, se non sui campi di battaglia, e dopotutto quello produceva luce e calore come uno vero, e in più non c'era fumo.
    Dietro al fuoco stava il grande masso cilindrico sul quale era installato il teleschermo, ora spento e dal colore bluastro, sotto al quale erano piazzati due piccoli altoparlanti.
    In giro si vedeva solo poca gente, una ragazza in tunica completa, intorno ai sedici anni contava con la testa e le braccia appoggiate al tronco di un albero sintetico.
    Gheli si guardò attorno e vide un'altra ragazza nascosta dietro la roccia del teleschermo. La vista le strappò un breve, leggero sorriso.

    Da qualche parte gli addetti alla distribuzione del cibo avevano iniziato ad organizzare i tavoli per distribuire la colazione. Un impasto zuccherino e denso dal sapore dolciastro.

    Un uomo che si accingeva a tale attività sobbalzò d'un tratto sentendo che il teleschermo iniziava a ronzare, mentre i cristalli all'interno si riscaldavano dando lentamente forma all'immagine.
    Una voce meccanica gracchiò dagli altoparlanti.

    2.
    Input, output, input, output...
    Ricalcolò le formazioni di attacco e quelle della retroguardia. Il Nemico non provava nemmeno ad aggirarlo, colpiva dritto davanti a sé, spingendo ammassi di macchine poco elaborate tra le asce delle sue scimmie. Input, output...
    Ma nonostante il Nemico mancasse di strategia le sue armate erano incredibilmente superiori in numero, motivo per il quale la guerra si era protratta per tanto tempo.
    Input, output, input, output...
    A ogni azione una reazione, un ripiegamento, una ritirata strategica, un raggruppamento, carica dal fianco, convergenza al centro.
    E le macchine si ritiravano e alle scimmie veniva impartito il comando di riporre le armi e tornare nel campo.
    Alleggerì la potenza di calcolo dalla strategia militare e vi delegò una sottomacchina.
    Era un sollievo poter distogliere i sensori da quel deserto spoglio inondato di rottami.
    Abbassò lentamente tutti i sensori e spostò metà della potenza al Calcolatore Psicologico, mentre l'altra metà rimaneva al Calcolatore Puro. I due C.P., come sempre.
    Immaginò che se avesse avuto una concezione del tempo come la hanno le scimmie avrebbe trovato quel particolare periodo estremamente eccitante, la fine di una battaglia dovrebbe essere eccitante. Nelle scimmie l'incombenza di una vittoria o di una sconfitta può rilasciare ingenti dosi di adrenalina. Poteva simulare l'adrenalina sul suo calcolatore psicologico e aveva già provato a farlo, ma non era una sensazione tanto piacevole per un computer, seppur un computer con una mente umana.
    Umano: per anni aveva riflettuto sul significato effettivo di essere umano. Non quelli nel campo ovviamente. Quelli sono scimmie, sono l'ombra, il rimasuglio degli umani. E ora il suo oggetto.
    Ecco cos'è un umano, qualcosa che usa oggetti per raggiungere il suo obbiettivo, qualcosa che combina l'ingegno alla psiche, qualcosa che punta alla supremazia. Ma questo era il Calcolatore Psicologico a dirlo, il Calcolatore Puro sapeva che quella non era altro che una sua proiezione. Un umano è un essere biologico, mortale, che decade, discendente dai primati, con mani e braccia e pollici opponibili, e occhi, e un collo per guardarsi intorno. E finché c'erano gli umani quella definizione sarebbe rimasta l'unica.
    "E allora chi sono io?" chiese lo Psicologico.
    "Scipione" rispose il Calcolatore Puro.
    "Questo è il nome che mi avevano dato, lo so. Un nome da umano, dato da un umano morto tempo fa a qualcosa di palesemente inumano. Una finzione, la peggiore delle illusioni." calcolò lo psicologico.
    "Chi sono io?" chiese il Calcolatore Puro.
    E la domanda giaqque lì senza risposta.
    "Una crudeltà di cui solo il Creatore è capace." continuò lo psicologico.
    "Creatore, dannato Creatore. Il più incredibile e crudele e geniale e dannato e umano degli umani. Io sono te ma non sono te. Tu che hai messo su di me la tua faccia, che hai posto sull'apice della piramide che è il mio corpo il tuo umanissimo ego. Dannato il Creatore, tu che mi hai dato questo calcolatore psicologico per cui ora danno nel vuoto sacco di carne polverizzato dalla guerra che lui stesso ha scatenato..."
    "Chi sono io?" chiese il Calcolatore Puro.
    E il Calcolatore Psicologico lo ignorò.
    "Chi sono io?" chiese ancora, e ancora e ancora.
    Abbassò il Calcolatore Puro allo zero percento, rimanendo da solo con la sua mente delirante.
    "Già, quella ferita. Dannato sia lui, ad avermela causata."
    Ripristinò d'accapo il Calcolatore Puro facendo attenzione a non pensare più a quella domanda.
    "Storpio, finché non troverò una risposta."

    3.
    Aveva dovuto scavalcare la recinzione che divideva la parte vecchia del campo da quella nuova e nascondersi da alcuni occhi meccanici di ronda.
    La parte di muro ribassata era poco visibile, nascosta dagli edifici fitti. Taro si infilò in un vicolo tra questi e strisciò per farsi strada. Quella zona era un cimitero di ferraglia, lamiere e travi di ferro inutlizzate e abbandonate alla ruggine.

    Nonostante fosse più basso che nel resto del campo, il tratto di muro era alto comunque sei o sette metri. Esaminò uno degli edifici che gli stavano di fianco, era stato costruito rozzamente, con lamine e fili di ferro intrecciati ma reggeva bene la struttura di due piani.
    Taro si fermò ad osservare, cercando di immaginare la scalata che avrebbe effettuato, gli appigli sulle travi e sulle piegature delle lamiere, quando una delle lamiere lanció il grido acuto dell'acciaio che viene piegato.
    Si nascose velocemente dietro un assieme di tubi franati.
    Il suono della lamiera si attenuò.
    Poi un ritmico martellare sul terreno. Sbirciò da sopra ai tubi pregando che non si muovessero:
    davanti a lui nel piccolo rettangolo di strada visibile dal vicolo, una sotto-macchina camminava saltellano sulle lunghe gambe mal bilanciate. Nella debole luce intravide la rozza parodia di un teschio umano che era il volto: con innesti quà e là simili a vermi grassi e neri.
    Girò verso il vicolo e Taro poté sentir ronzare il sensore nel naso.
    Era un ronzìo sottile, quasi impercettibile ai non attenti, simile a un sottilissimo vibrare dell'aria.
    Non poteva alzarsi o far notare in qualunque altro modo la sua presenza prima di disattivare la macchina o avrebbe dato l'allarme istantaneamente. Agendo senza pensare si schiacciò sul terreno e allungò le gambe, poi puntò i piedi verso il basso a spinse con la schiena, sentì che i tubi iniziavano a cedere e li sentì rotolare dietro di lui.
    Dalla sotto-macchina si diffuse il grido straziante dell'acciaio piegato.

    Taro rimase immobile per un tempo che non seppe definire, steso sul terreno freddo, respirando profondamente. Probabilmente quella macchina era l'unica di ronda.
    Si alzò e trascinò l'ammasso di rottami tra gli edifici, nascondendolo dietro una lamiera, poi uscì dal vicolo. Ormai non c'era via d'uscita, doveva agire in fretta.

    4.
    Le ragazze che giocavano a nascondino se n'erano andate, aveva giocato con loro per un po' di tempo durante il pomeriggio.
    La guerra stava per finire, quasi non ci credeva, eppure lo schermo l'aveva detto, e lo schermo non poteva mentire, non ne aveva motivo. Era strano a pensarlo, e in realtà non sapeva come avrebbe dovuto sentirsi. La guerra non l'aveva mai riguardata troppo da vicino, e in realtà riguardava molto poco la vita di tutti i giorni. Si chiese cosa sarebbe successo ora. Non era un mistero che il Supercomputer li tenesse lì solo per usarli nelle guerre, era stato così da tanti anni e contro tanti, innumerevoli nemici, ma ora...
    "Nessuna guerra, nessun campo, forse case più grandi, forse cibo migliore, niente più militari, né periodi di leva. Si chiese come avrebbero fatto allora a scegliere i maschi adatti alla riproduzione, chissà se ci sarebbero stati ancora i riproduttori, no, ovvio che dovevano esserci, la razza doveva pur andare avanti in qualche modo..."
    Mentre rifletteva, il tramonto stava lasciando lo spazio al buio e alle ombre che già si allargavano sotto gli scaloni degli appartamenti. Il fuoco garantiva una piccola fonte di luce ma a meno di eventi particolari non sarebbe stato acceso più di così.
    Notò che non c'era più nessuno lì se non un uomo alto che veniva verso di lei, o almeno, sembrava un uomo per quello che la semioscurità le permetteva di vedere. La figura le si avvicinò e in modo perfettamente naturale la afferrò per il braccio e la trascinò verso le passerelle. Dapprima era troppo confusa per opporre resistenza e per qualche passo assecondò la figura camminando.
    «Non parlare» si affrettò a dire la figura prima che lei aprisse bocca. Aveva una voce giovane.
    Gheli esitò.
    «T-T-Ti spiegerò tutto, s-s-solo seguimi.» intimò la figura voltandosi, l'oscurità era tale che non riuscì a vederlo in faccia.
    Gheli, spaventata, non si oppose e lasciò che la guidasse su per le scale.
    Arrivati sulla passerella le si avvicinò abbastanza affinché lei potesse sentirlo sussurrare.
    «Qua è la tua?»
    Ghelì assentì ed entrarono.
    L'interno della nicchia, scostate le tende, era illuminato da una debole luce elettrica sul fondo.
    Ora che poteva vedere la sua faccia Gheli notò che il suo accompagnatore era poco più che un ragazzo.
    Appena entrati lui lasciò la presa e si voltò verso le tende. Tremava.
    «Taro è uscito dal campo, non posso dirti per dove, ma non tornerà presto, oppure non tornerà affatto.» Fece velocemente il giovane.
    Si spinse ancora di più verso l'interno della nicchia, come spaventato dal buio.
    Gheli pensò in fretta qualcosa da dire, sentiva dentro di lei crescere una certa rabbia.
    «E allora?» disse infine. E nel mentre si domandò il perché di quella rabbia inaspettata. Fuggito, era fuggito, e senza dire una parola. L'aveva sempre odiata questo è certo, ma abbandonarla in quel modo, come se lei non avesse valore.
    Notò in quel momento che il ragazzo era a disagio, forse aveva scorto la rabbia sulla sua faccia oppure era rimasto senza nulla da dire dopo la sua risposta.
    Gheli cercò per un attimo di dominare la rabbia. «Ti manda lui?» chiese poi, a bassa voce.
    «No... non proprio, lui ha solo detto di tenerti d'occhio, ma l'idea di venire qui è stata mia.» si affrettò a dire il ragazzo imbarazzato.
    «Beh, grazie.» disse distrattamente.
    Passò un lungo attimo di silenzio.
    «Io sono Ollo in ogni caso.»
    «Gheli» fece lei.
    «Puoi rimanere qui se vuoi» fece lei quando notò che il ragazzo continuava a guardarsi indietro in modo ossessivo.
    Ollo assentì silenziosamente e poco dopo si coricò sul pavimento e parve addormentarsi subito, solo dopo aver lanciato un altro paio di occhiate alla tenda.
    Anche Gheli si coricò, ma rimase con gli occhi aperti. Aspettò che la luce elettrica si spegnesse per iniziare a piangere.

    Edited by Qush-Nath - 3/11/2017, 17:16
  13. .
    CITAZIONE
    chinandosi sulla neve con un perfetto slav squat che avrebbe fatto impallidire pure quel gopnik del cugino Anatoli.

    Ho notato solo ora la citazione a "Life of Boris", lol.
  14. .
    CITAZIONE
    Ti giuro, non ho mai mangiato niente del genere :v:

    Ora voglio provarla

    È stata un po' un'esperienza ultrasensoriale la prima volta che l'ho mangiata.
  15. .
    Gli Déi Esterni sono una categoria particolarmente significativa di creature presenti nell'universo dei Miti di Cthulhu (o Ciclo di Cthulhu) originariamento creato dallo scrittore H.P. Lovecraft ed espanso e riutilizzato da altri autori del genere soprannaturali, contemporanei di Lovecraft e non.
    Gli Déi Esterni si distinguono dai Grandi Antichi nonostante questa distinzione non sia universalmente riconosciuta.
    Generalmente a differenza dei Grandi Antichi gli Déi Esterni risiedono aldilà dei confini della Terra e del Sistema Solare, esercitando la loro infuenza dallo spazio profondo. Nonostante ciò esistono Dèi Esterni che risiedono sulla Terra o su altri pianeti del Sistema Solare.

    In questa serie di articoli andremo ad esaminare uno per uno gli Déi Esterni del Ciclo, nello stesso modo in cui abbiamo esaminato i Grandi Antichi negli articoli precedenti.

    Aboth (The Source of Uncleanliness) La fonte della Sporcizia
    Risiede nella caverna di Y'quaa sotto il Monte Voormithadreth. Ha l'aspetto di un'orrida, grigiastra massa mutaforma e si dice che sia la fonte di tutti gli abomini e gli errori del creato.
    All'interno della sua massa grigia si formano in continuazione mostri osceni che strisciano via dal loro creatore. Non esistono due figli di Aboth uguali.

    Abhoth

    Generalmente hanno forme complesse ma la maggior parte di loro ha menti semplici e agisce più che altro per istinto.
    I figli di Aboth possono avere qualunque forma, da amorfi ammassi di globi a creature umanoidi a mutanti mostruosi.
    Aboth usa i suoi arti e i suoi tentacoli per afferrare alcuni dei suoi figli e divorarli.
    La maggior parte di coloro che riescono a sfuggirgli semplicemente vaga a caso.
    La mente di Aboth è contorta e cinica e può comunicare telepaticamente con coloro che vi si trovano vicino.

    Apparizione: "Seven Geases" Clark Ashton Smith

    Aiueb Gnshal (The Eyes Between Worlds) Gli Occhi tra i Mondi
    È un misterioso Dio Esterno che ha preso residenza in un tempio nel Buthan da lungo tempo perduto.
    Appare come un vuoto nero senza forma con sette occhi globulari. È adorato più che altro dai Ghoul.
    Guardare nei suoi occhi dopo un rituale definito disgustoso permette di vedere all'interno della Corte di Azathoth.
    Si dice che il signore della guerra mongolo Temujin avesse i favori di Aiueb Gnshal.

    Apparizione: The Eyes Between the World (RPG Module)

    Azathoth (The Blind Idiot God, The Nuclear Chaos, Daemon Sultan) Il Dio Cieco e Idiota, Il Chaos Nucleare, Il Demone Sultano

    È considerato il padre di tutto poiché da lui si sono generati tutti gli Déi Esterni e i Grandi Antichi.
    È attualmente in uno stato semi-comatoso o di demenza, nonostante non sia dato sapere come sia stato ridotto in tale condizione è presumibile che sia stato in seguito a una grande battaglia con un'entità più potente.

    Azathoth

    Attorno a lui i suoi figli e il suo servitore più fedele, Nyarlatothep cantano, suonano e danzano in continuazione per mantenerlo nel suo sonno eterno. Si dice infatti che Azathoth sognò la realtà e che se si svegliasse l'universo come lo conosciamo cesserebbe di esistere, o che il Demone Sultano ordinerebbe al suo servitore Nyarlatothep di distruggere l'universo.

    (Leggi l'articolo completo su Azathoth)
    Apparizione: Viene nominato in molte delle opere di Lovecraft ma appare per la prima volta in “The Dream-Quest Of Unknown Kadath” (La Ricerca Onirica dello Sconosciuto Kadath)

    Azhorra-Tha: È un Dio Esterno imprigionato sul pianeta Marte dopo essere fuggito dalla Terra in seguito all'imprigionamento dei Grandi Antichi.
    Il suo aspetto è quello di una rana mista a un polpo.
    I Mi-Go lo scoprirono millenni dopo il suo imprigionamento e da allora fecero tutto per non permettere che Azhorra-Tha venisse rivelato agli esseri umani.

    The Blackness from the Stars (L'Oscurità dalle Stelle)

    È un ammasso immobile di oscurità senziente, strappato dal tessuto primario del cosmo al centro dell'universo.
    È distinguibile al buio solo come una pece leggermente scintillante.
    Nonostante sia intelligente non parla nessuna lingua conosciuta e ignora completamente ogni tentativo di comunicazione.
    Apparizione: “The King of Chicago” (RPG supplement), Gary Sumpter

    The Cloud-Thing (La Cosa Nebulosa)
    Un Dio Esterno senza nome all'interno della corte di Azathoth, è descritto come una massa nebulosa divora-uomini.
    Apparizione: “The King of Chicago” (RPG supplement), Gary Sumpter

    C'thalpa (The Internal One) L'Interno
    Descritto come un'enorme massa di magma senziente, collocato nel manto terrestre. È la madre del Grande Antico Shterot e di altri cinque orribili figli. È adorata da una razza di umanoidi-talpe chiamati Talpeurs.
    Apparizione: “Call of Cthulhu RPG (French Edition)” “Paris, Rêve ou Réalité (RPG Module)"

    Cxaxukluth (Ksaksa-Kluth, Illimitale Androgynous Desire) Ksaksa-Kluth, Illimitabile Brama Androgina

    Cxaxukluth è un Dio Esterno, parte della prole di Azathoth per fissione spontanea. La sua progenie consiste di Hziulquoigmnzhah e Ghisguth. È il nonno di Tsathoggua.
    Abita su Yuggoth, un tempo anche i suoi familiari vivevano con lui ma hanno dovuto trasferirsi a causa delle sue abitudini cannibali.

    Cxaxukluth

    Alcuni testi riportano che Cxaxukluth si sia diviso in un aspetto maschile e in uno femminile, il maschio si chiamerebbe Nug, mentre la femmina Yeb (Nug e Yeb sono attualmente annoverati tra i Grandi Antichi).
    Ci sono inoltre altre speculazioni riguardo le quali Ptmak e Cxaxukluth potrebbero essere solo i nomi Hyperboreani di Nug è Yeb, seguendo questa ipotesi Cxaxukluth è probabilmente Yeb.

    Apparizione:
    "The Unresponding Gods" di Clark Ashton Smith

    Daoloth (The Render of Veils, The Parter of Veils) L'Interprete dei Veli

    Abita in dimensioni che vanno oltre le tre che conosciamo. I suoi preti-astrologi sarebbero in grado di vedere il passato e il futuro e anche come gli oggetti si estendono e viaggiano attraverso le differenti dimensioni.

    Daolath

    La sua forma indescrivibile rende pazzo chiunque lo osservi, per questo deve essere evocato nella più completa oscurità.
    A meno che non sia contenuto da un qualche tipo di magia continuerà ad espandersi all'infinito.
    Coloro che avvolge vengono trasportati in mondi remoti e bizzarri e solitamente muoiono.
    Il culto di Daoloth è estremamente raro sulla terra.
    Una richiesta che è possibile fare a Daoloth quando è contenuto magicamente è quella di poter vedere le cose come veramente sono, e non come i nostri sensi velati le percepiscono.
    Tuttavia tale vista si rivela spesso insopportabile.

    Apparizione: "The Render of Veils" di Ramsey Campbell

    Darkness (Magnum Tenebrosum, The Unnamed Darkness) Magnum Tenebrosum, L'Oscurità Senza Nome

    È il progenitore di Shub-Niggurath. Viene citato unicamente in alcune lettere di H.P. Lovecraft.

    Apparizione: "Selected Letters II" di H.P. Lovecraft

    D'endrrah
    È un Dio Esterno mutaforma estremamente affamato di mondi. Assume spesso la forma di un gigantesco mostro simile a un polpo, o di una pesante nube di fumo nero composto di materia organica, con milioni di denti che vagano all'infinito per divorare ogni mondo sul loro passaggio.
    In ogni caso è stato distrutto da Cthulhu quando provò a divorare la Terra tempo prima dell'Impero Egizio. Gli Egizi credono che sia stato Rah a combattere D'endrrah, da loro conosciuto come Apep.

    Fonti:


    Edited by Friariello Triste ‡ - 31/3/2019, 19:59
82 replies since 9/2/2015
.