SARCASM

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    1–Contagio:

    Non ci si poteva aspettare granché se si visitava la ridente e tranquilla cittadina di Joysprings, nella verde periferia della romana, inglese Bath. Forse un pittore avrebbe trovato gradevoli i contorni delle vecchie case di pietra e il rumore dei tacchi sui ciottoli che pavimentavano l’antico reticolo di strade che confluivano nella piazza principale. L’anonima cittadina, seppur noiosa, era l’ideale per chi voleva staccarsi dalla frenesia di Londra o di York, così rumorose e prive a tratti del calore che si può trovare solo nelle vecchie, umide case tra monti, colline e foreste, tutte caratterizzate dal tipico odore di legna che arde. Sereno, stanco dopo l’ennesima giornata passata a guardare il muro o le scartoffie sul tavolo, Jeremy Burke se ne stava seduto davanti a un boccale di birra, mentre l’aria del bar si riempiva di quell’umano ronzio, delle parole che si scambiano tra un sorso di vino e l’altro. Il solitario Jeremy si godeva quella tranquillità sulle note di My Way del buon Frank Sinatra, convinto di dover per forza essere trascinato, seppur coscientemente e con un certo trasporto, nel familiare scenario di una tipica serata di un freddo venerdì di dicembre. La porta del bar si aprì con un cigolio e un forestiero, vestito elegantemente, tutto di nero. Per la gente di quel posto, era addirittura stravagante. Non era raro vedere dei londinesi che, avidi di approfittare delle loro ferie, invadevano Joysprings con la speranza di trovare un attimo per chiudere gli occhi e respirare a pieni polmoni l’aria verde e il fumo che nasceva dai comignoli. Ma la realtà era ben diversa, lì in quella cittadina del Sud Ovest. Capitava spesso, se non sempre, che una vecchia con gli stivali di gomma e una gonna sporca di polvere ti guardasse male mentre attraversavi la strada, tu che portavi abiti diversi dai suoi, tu che non riuscivi ad accogliere il religioso silenzio che ti circondava. Jeremy apparteneva alla nuova generazione, quella che per un motivo o per un altro era stata più volte nelle grandi città inglesi, magari anche all’estero, dunque aveva imparato ad accettare, non a tollerare, la presenza dei forestieri. Eppure, quello lì aveva un modo di fare e di essere tutto suo. Camminava con scioltezza accanto ai tavoli circondati da vecchi grassi e paonazzi, che facevano finta di niente oppure lo guardavano di sottecchi. L’impermeabile nero del giovane uomo accarezzava gli schienali delle sedie, il cappello e gli occhiali da sole nascondevano in parte il suo volto serafico. Burke non ci fece tanto caso, non gli importava minimamente del portamento di chi gli si sedeva accanto… O almeno questo pensava. Subito dopo aver ordinato un bicchiere di vino, il forestiero iniziò a cantare a voce bassissima, ma non abbastanza flebile da non poter essere sentita. Si dava pure il ritmo colpendo il tavolo con le unghie e agitando la gamba destra, quello lì.
    – Ma perché non ti fermi un attimo? – pensò subito il poliziotto, uno dei pochi che erano rimasti a Joysprings. Non era il solo ad essere infastidito dal rumore delle unghie sul legno.
    – Scusi, può stare fermo? –
    Il forestiero si voltò di scatto, con un’espressione soddisfatta, traducibile in parole solo con un secco, soddisfacente eccolo!
    L’uomo con gli occhiali da sole si trovò davanti un volto anonimo, simile a tanti altri, bianco e punteggiato di lentiggini. Barbuto e quasi calvo, il signor Schildkamp guardava lo straniero con occhi vacui, privi di emozione. L’elegante e spigliato forestiero, dal canto suo, sembrava addirittura divertito dalla calma con cui gli si era rivolto l’operaio.
    – Mi scusi? –
    – Le dita, per favore. Le tenga ferme –
    Il forestiero alzò le mani in segno di resa, forse per scusarsi, forse per prendere in giro Schildkamp.
    – Chiedo scusa – concluse poi, poi tornò a concentrarsi sul suo vino.
    Era curioso, questo pensava Jeremy, che l’uomo con gli occhiali da sole avesse un accento così simile al suo. Magari non era londinese, eppure il suo abbigliamento gridava “mondanità” da ogni sua singola piega.
    – Pregiudizi, Jeremy. Nient’altro che pregiudizi… – si rimproverò.
    E quando la quiete sembrava essere tornata in sala, il forestiero disse a mezza voce:
    – Eppure ieri notte la moglie del capo mi diceva di muoverle bene, le dita –
    Sorrise soddisfatto, notando le espressioni disgustate degli amabili (non più di tanto) vecchietti seduti intorno a lui. Schildkamp, sempliciotto, sghignazzò insieme al suo compare, Walls, rosso e con qualche ciuffo di capelli in più. Non passò molto tempo prima che il forestiero si alzasse e chiudesse la porta del bar alle sue spalle fischiando Mary Had a Little Lamb, sparendo tra le vecchie mura di pietra grigia del borgo.
    – Non ha nemmeno finito il vino… –

    Le strade erano deserte, le finestre erano state sbarrate per non permettere al freddo pungente di penetrare le vecchie mura. Solo un bambino guardava oltre il vetro della sua finestra, rilassato dai rumori della notte invernale, appena percettibili. Assonnato e con gli occhi annebbiati, il bambino era convinto che l’uomo che camminava sotto il chiarore della luna avesse due accendini al posto degli occhi, gialli e luminosi come quello che usava suo padre. Sì, l’uomo che spariva dietro il tronco contorto dell’albero più alto oltre il cancello del cimitero aveva due accendini al posto degli occhi.




    2–Sintomi:

    Un’altra alba sorse sul paesino in mezzo al verde. Il ghiaccio aveva ricoperto i vetri delle finestre e le poche auto parcheggiate sul ciglio della strada. Jeremy si svegliò senza fretta, schiudendo lentamente le palpebre. Aveva dormito solo per tre, misere ore. Lo sfogo sul braccio era peggiorato negli ultimi due giorni, non faceva che gonfiarsi e arrossarsi sempre di più sotto la furia delle sue unghie che erano riuscite a strappare via anche qualche lembo di pelle. La gola, invece, pulsava ormai da due settimane e non smetteva di intasarsi di muco. Ma c’era chi stava peggio di lui, quella mattina.
    Il paese si era svegliato da poche ore, ormai privo della tranquillità che l’aveva sempre tenuto nascosto all’ira e al sadismo di Dio, se un Dio esisteva.
    Il signor Schildkamp era rimasto al freddo e al gelo per tutta la notte, ormai privo della benché minima traccia di razionalità. Jeremy l’aveva visto, era lì nel suo salotto quando quell’amabile padre di famiglia fu arrestato. Quello che un tempo fu il signor Schildkamp non capiva il perché di quelle manette e del freddo che gli recavano ai polsi, si limitava a guardare gli agenti di polizia che l’avevano circondato ed immobilizzato. Aveva le pupille dilatate e le guance tese in un sorriso maligno, così ampio che Jeremy aveva poteva vedere tutti i denti di quel sadico puzzolente, anche i molari. Lo portarono via che ancora rideva, coi vestiti ancora umidi del sangue che aveva versato e bevuto nella notte. Era sposato da quindici anni con una certa Marta, lontana parente di Burke, una donna di una bellezza rurale, non curata. I capelli castani di Marta, lunghi e lisci, erano incrostati di sangue parzialmente coagulato, l’occhio destro era puntato sul soffitto. L’altro occhio, il sinistro, era stato asportato e probabilmente galleggiava nello stomaco del signor Schildkamp, sazio dopo un banchetto degno di un re. Sì, l’occhio galleggiava e si consumava insieme agli intestini di Marta, di cui era rimasta solo un’ultima propaggine avvolta intorno al collo bluastro. Il figlioletto, invece, era disteso sul suo letto, ancora avvolto nel suo pigiama a righe blu. Si era addormentato pensando al fuoco che ardeva negli occhi del forestiero, una figura che l’aveva visitato in ogni stralcio di sogno che riuscì a ricordare al suo brusco risveglio. Il forestiero era sempre lì, su un colle o in una foto, seduto con le gambe accavallate o in piedi a testa alta, sempre sorridente. I suoi occhiali da sole a nulla servivano contro i due soli che gli ardevano dietro le iridi. Quando il bambino aprì gli occhi, le iridi brillanti erano sparite. Al loro posto, due occhi iniettati di sangue, di un verde rame screziato di giallo sotto le prime luci dell’alba ancora giovane, lo fissavano dall’alto. Il sudore sulle guance barbute del padre si era mischiato col sangue maleodorante della madre e si era addensato agli angoli della bocca sorridente. Il bambino non fece in tempo a respirare che le sue guance furono portate via dai denti affilati e giallastri del padre, avidi di scavare ancora e senza sosta nella carne della sua stessa carne. Prima venne il rosso ribollente degli strilli del bambino, subito zittiti da un morso preciso sulla trachea che fu invasa dal sangue della carotide squarciata. Finché il cuore batteva, questo aveva pensato il gentile signor Schildkamp in quel momento di irresistibile ingordigia, conveniva bere il sangue ancora caldo. Così saziò la sua sete a grandi sorsi, finché il bambino non raggiunse la madre dall’altra parte, graffiando la schiena sudata del padre con le ultime forze che mi rimanevano. Finito il suo vino, Schildkamp sollevò la pelle di petto e pancia coi denti, leccò via il grasso e iniziò a mangiare i muscoli e a rosicchiare le ossa fino a lucidarle con la saliva.
    – Così sì che sarò bello grasso! – aveva urlato colpendosi la pancia nuda con le mani sporche di sangue come se fosse un tamburo di lardo.
    – Guardatemi! – diceva ridendo ai poliziotti – Sono disgustoso! Sono un pesce palla! Sono una montagna di merda con le gambe, dai! –
    Si era presentato agli agenti trascinandosi come un pinguino e riempiendo le guance d’aria, trattenendo a stento le risate. Augurò un felice e bianco Natale agli agenti, sperando di suscitarne l’ilarità. Chi mai non riderebbe sentendo un ubriaco che canta Jingle Bells?
    Burke ascoltava i deliri del vecchio Schildkamp, confinato tra tre mura di cemento e una fila di sbarre troppo sottili per contenere la sua snervante, quasi lodevole loquacità. Non smetteva di parlare, di sghignazzare e di tentare di far ridere le sue guardie, ma quelle non osavano incurvare minimamente le labbra. Stavano lì e fissavano prima lui, poi il muro e infine il cancello di ferro battuto con occhi sbarrati, assillati dall’odore del sangue e dalla vista delle ossa nude della creatura che ormai, grazie a Dio, non giaceva più su un materasso imbevuto di sangue secco. Più pensavano al modo in cui sbarazzarsi di quel pensiero e tornare alla loro vita tranquilla, fatta di bicchierini di vino e pacche sulle spalle tra una pausa e l’altra, più l’immagine di quell’uomo, che si era fatto bestia in una sola notte, invadeva i loro pensieri. Il signor Schildkamp era fisicamente confinato a pochi centimetri da loro, eppure il suo sguardo folle insozzava anche ciò che stava oltre il ferro arrugginito che lo imprigionava. Sì, quel ferro era vecchio, corroso. Non serviva più a niente perché, ironicamente, non era mai servito a niente. Joysprings era il paradiso, Jeremy l’aveva sempre pensato, nessuno si era mai meritato la gatta buia. Ma a volte, forse sarebbe stato meglio pensare raramente (una sola parola può stravolgere un ragionamento), gli abitanti di quel felice borgo si permettevano di uscire fuori dagli schemi e di alzare lo sguardo quando la sentinella, cioè il loro vicino, guardava da un’altra parte. Il poliziotto si ricordava ancora la lontanissima notte in cui, dopo il campeggio, aveva sentito il pianto di una sua compagna di scuola dietro le mura grigie del suo vicino che ancora non era rincasato.
    – No, non dirlo al papà! – implorava la ragazzina, mentre il fratello maggiore le strattonava il polso e continuava a camminare, incurante delle lacrime della sorella. Jeremy era ancora un bambino, non riusciva ancora a capire che tra quattro mura poteva scatenarsi la peggiore delle bestie o la più esilarante delle tragedie. In quel momento, con la fastidiosa risata del vecchio ansimante nelle orecchie, si rendeva conto della doppia, ma anche tripla vita che ogni abitante del suo paradiso terrestre conduceva. Come poteva essere certo della condotta impeccabile del poliziotto che stava in piedi accanto a lui? Jeremy Burke non poteva fermare il martellio del dubbio costante e del sospetto infondato, si rendeva finalmente conto di non potersi più fidare di nessuno. Tutti gli stranieri che aveva conosciuto oltre il confine del paesino, sacro agli anziani del posto, gli faceva schifo, ma non quanto gli esseri disgustosi con cui aveva a che fare ogni giorno.
    – Mi auguro solo che nessun’altro la pensi come me, – pensò – altrimenti potrei essere io il prossimo ad essere incarcerato. Ma allora perché gli altri sono ancora liberi e non mi lasciano in pace, una volta tanto? –
    Ormai tutti erano colpevoli di tutto, le vittime e i carnefici stavano diventando la stessa cosa.
    Uno scatto improvviso del collo del signor Schildkamp interruppe i pensieri di Jeremy.
    – Vai, ciccio! Fagli vedere qualcosa che fa veramente ridere! –
    L’ombra scura che per un attimo aveva oscurato la luce che filtrava dal portone socchiuso si era già dileguata, ma le guardie poterono sentire distintamente la sua voce tremendamente umana e bestiale: – Puoi giurarci, vecchio bastardo! –
    L’ultima eco di quella promessa non fece in tempo a spegnersi che già Jeremy e un suo compagno, Bowers, stavano già correndo sui ciottoli. Walls aveva praticamente confessato un crimine che ancora non aveva commesso, ma questo bastava per trasformare la tensione in panico. I due agenti riuscirono a immobilizzare il signor Walls, incredibilmente forte e tenace. L’uomo, la cui spina dorsale si poteva intravedere attraverso la camicia, si dimenava e si contorceva con la forza di un cervo per liberarsi dalle braccia che l’avevano inchiodato al suolo. Con un’ultima scarica di adrenalina, si tagliò un polso con un ciottolo sporgente e avvicinò la mano sanguinante alla guancia ferita di Bowers, sporca della polvere della campagna e sanguinante. Mentre il folle gridava: – Prenditelo anche tu! Prendilo! – Bowers tentava di evitare il contatto col sangue sporco del vecchio, talmente pallido che le vene bluastre quasi gli bucavano la pelle molle delle mani. Quando Burke immobilizzò il braccio di Walls, quello gli rise in faccia notando lo sfogo rossastro sul suo braccio, così simile a quello che aveva lui sull’inguine. – Tu ce l’hai già! Maledetto finocchio! –
    Rise, rise di gusto. Rise di sé stesso, dell’espressione confusa di Bowers e del volto deliziosamente pallido di Burke, che non riusciva a staccare lo sguardo dalle abrasioni che si intravedevano tra i capelli radi del vecchio.
    – Tu ce l’hai già! – aveva detto? Jeremy aveva qualcosa dentro di lui? Per un attimo, desiderò che le sue vene si riempissero di terra ed esplodessero, poiché non voleva che quel sangue sporco insudiciasse ulteriormente il suo corpo.
    – L’ho preso… – aveva detto, mollando il braccio esile del vecchio malato – L’ho preso! Cazzo! –
    Liberatosi dalla presa del poliziotto, Walls premette la mano sanguinante contro la guancia di Bowers, lasciando che il suo sangue iniziasse a scorrere inarrestabile nelle vene del suo assalitore. Anche lui era stato condannato. Venne fuori che Walls, malato da anni, aveva intenzione di svuotare le sue vene infette di sangue nelle sacche rosse e gonfie dell’ospedale, già pregustando l’amara sorpresa che i pazienti avrebbero avuto dopo la trasfusione.




    3–Diagnosi:

    Jeremy era solo, immerso nella nebbia e nell’aria gelida del mattino. La luce del sole, rosea oltre la cupola di nebbia, era bianca e soffusa e infastidiva la vista, poiché il poliziotto doveva sforzarsi per vedere i contorni degli alberi oltre i colli. Nonostante l’alba avesse portato il gelo, le finestre delle case erano spalancate e le tende erano agitate dalla brezza del mattino. Le figure scure e tutte uguali degli abitanti di Joysprings, così familiari ma al contempo anonime, scrutavano Bowers coi loro occhi luminosi, la cui luce si dilatava e assumeva la forma di cerchi confusi: era come se Jeremy fosse diventato miope, ma lui non poteva saperlo. Gli spettri neri lo guardavano e se ne stavano lì, immobili senza fare niente. Solo un bambino, seduto sul bordo ripido di un tetto e con le gambe penzolanti, iniziò a ridere di gusto indicando l’uomo colpevole.
    – L’imperatore è nudo! – gridava il pargolo – Guardatelo! E’ nudo! –
    Subito le figure affacciate alle finestre iniziarono a bisbigliare e a lanciare occhiate sprezzanti a Jeremy, che aveva inspiegabilmente avvertito un improvviso calo della temperatura. La risata del bambino divenne ben presto una delle tante urla scimmiesche che canzonavano Jeremy, che nel frattempo si era reso conto di essere completamente nudo. Il poliziotto corse in preda al panico, cercando un rifugio per sfuggire agli sguardi delle figure nere, ma le mura di pietra sembravano essersi fuse tra loro ai lati della strada. Non poteva andare né a destra, né a sinistra, ma solamente avanti o indietro. Correva ad occhi chiusi, incapace di ignorare le risa dei mostri neri e ferendosi i piedi sulle pietre scheggiate. Andò a sbattere contro un albero dalla corteccia ruvida e subito dopo sentì un corpo tondo e pesante che impattava contro la sua testa. Era davanti a un fico imponente, le cui foglie erano perfette per coprire la sua nudità. Mentre intrecciava le foglie con mano tremante, vide una mela spaccata riversa tra i ciottoli, la stessa che l’aveva colpito poco tempo prima. La mela marcia, annerita e consumata dai vermi, era caduta dallo stesso fico che gli aveva offerto un riparo: non aveva senso. I raggi del sole, che fino a quel momento era rimasto nascosto, scacciarono la nebbia e offuscarono gli occhi brillanti delle creature, la cui pelle nera e squamosa luccicava alla luce del giorno. Se anche loro erano nudi, perché ridevano? Il sole, circondato da un anello di fuoco, assunse l’aspetto di un’iride gialla e gigantesca, dotata di una pupilla divisa in tre parti: due occhi, che altro non erano che due puntini neri, e una parentesi rovesciata che fungeva da bocca sorridente. Un’altra bocca ben più grande si aprì nel cielo rosso, mostrando due file di denti affilatissimi che grattavano uno sull’altro. I canini erano lunghi, stretti e protesi in avanti come le zanne velenifere di un serpente. Il cielo iniziò a ridere, dunque la terra tremò. La pupilla tripartita divenne una sola, stretta feritoia in mezzo all’iride color ambra. Era l’occhio malevolo di un serpente.

    Jeremy si svegliò zuppo di sudore. Sebbene il suo cuore continuasse a palpitare e a scalciare come un cavallo, non sentiva più freddo e non aveva i piedi feriti. Era lì, nella sua vecchia e calda casa, unico posto in cui quelli del mondo esterno non potevano vederlo. Era solo, padrone di sé stesso, del suo corpo e dei suoi pensieri.
    – No, aspetta. C’è anche lui–
    Si guardò le vene sui dorsi delle mani che si ingrossavano al passaggio del sangue. Lui era lì dentro da molti anni ormai, ma aveva dato segnale della sua presenza da poche settimane. Jeremy si alzò dal letto, grattandosi il braccio che era ancora arrossato e gonfio, seppur meno di prima. La flebo se ne stava in piedi in un angolo, pronta ad essere utilizzata ogni sera, subito dopo i pasti. Subito dopo i pasti come una pastiglia per una banale influenza, o almeno così si sforzava di credere Jeremy. L’HIV non era un’influenza, però. Non sapeva cosa fare: Bowers aveva sentito le parole del signor Walls, aveva visto il suo sfogo e la sua espressione disgustata quando il dubbio si era insinuato dentro la sua testa come un tarlo e si era pure preso il virus. Ma gliel’avrebbe detto? Forse era meglio lasciargli credere che Walls stesse solo delirando in preda a chissà che cosa e lasciare che Bowers morisse da solo, reputando la sua malattia l’ultimo e unico grande mistero che avrebbe dovuto risolvere prima di andarsene. Jeremy si sentiva già in colpa per sé stesso, non voleva altri pensieri. Probabilmente avrebbe fatto delle analisi per conto suo, sapendo che era venuto a contatto col sangue di un folle.
    – Bowers è sano – si disse, quasi credendoci. L’uomo che gli aveva messo quel veleno nel sangue, invece, non lo era. Era bastato quel bellissimo viaggio ad Amsterdam, lì dove aveva potuto mandare in vacca tutte le regole che gli erano state silenziosamente imposte per tutti quegli anni. Gli era bastato il sorriso di quello sconosciuto, unito a una buona dose di erba e di birra per avere l’esperienza più bella della sua vita. Mai avrebbe pensato di poterlo fare là, sotto gli occhi di quei vecchiacci che controllavano ogni sua mossa e la distorcevano coi loro insulsi pettegolezzi. In Olanda, dove nessuno lo conosceva, era libero. Ma lo scorpione l’aveva punto lo stesso. Non aveva fatto in tempo a riprendersi dall’orribile esperienza onirica che il telefono squillò nel silenzio, facendolo sussultare ancora una volta. Sollevò la cornetta.

    Se Dio esisteva, era un artista crudele. Se Dio esisteva e non voleva intervenire direttamente, allora era un mecenate sadico che commissionava delle opere fuori dalle sue stesse grazie. Se Dio esisteva, allora Jeremy non voleva stare con lui, ma essere consumato dalle fredde fiamme dell’Inferno: come faceva un luogo privo del fuoco creatore ad essere caldo? Caldi erano, anche se ancora per poco, i corpi straziati dei due folli compari, Walls e Schildkamp, rigidi e sorridenti. Erano morti con gli occhi sbarrati, ormai ridotti a quattro palle di vetro opaco, di un colore giallo spento. Erano sempre stati verdi, quegli occhi, non dorati. I due erano stati crocifissi su due alti pali del telefono posti ai lati della stazione di polizia, con le mani inchiodate a due rudimentali assi di legno scheggiato. Il sangue era penetrato nelle venature e nei solchi del legno, ormai divenuto pasto per insetti e corvi. Era ancora l’alba, il sole stava sorgendo alle spalle dei due crocifissi, che altro non erano che una cornice per una terza croce a cui era rimasta attaccata della carne ancora viva. Uno dei pochi agenti di Joysprings, biondo e tozzo, penzolava dalla sua personale tortura di legno e fili elettrici, con la mano destra inchiodata all’asse più piccolo. Agitava le gambe e si aggrappava alla croce col braccio sinistro, ridendo come una iena affamata. Anche i suoi occhi, ma forse era solo la luce dell’alba, erano diventati gialli.
    – Oh, povero me – diceva sghignazzando – Aiutate questo povero Cristo! –
    Sua moglie, con la testa bionda avvolta in un fazzoletto, era inginocchiata ai piedi della croce e implorava l’agente, che era stato incaricato di scortare Walls nella sua cella solo poche decine di ore prima.
    – Tesoro, scendi! La colazione è pronta! Dai, scendi! – rideva anche lei, mostrando dei canini stranamente lunghi e protesi in avanti. Le sue mani erano giunte al petto, ma Jeremy aveva visto gli artigli neri radicati della carne squamosa delle dita. Mentre correva verso le croci insieme ad altri due poliziotti, vide la donna sollevare una lunga asta di ferro ricavata da due attizzatoi e agitarla contro il Cristo che, a quanto pare, non ne voleva proprio sapere di scendere. Entrambi ridevano sguaiatamente uno dell’altra.
    – Nanetta! Tanto non ci arrivi –
    – Adesso vedi come ci arrivo, cornuto pezzo di merda! –
    Poco prima che la lancia, ancora calda del fuoco del camino, penetrasse il petto sporco di rosso del poliziotto, la donna fu braccata dagli ultimi servi della legge e dell’ordine. Un ragazzino crudele, sui dodici anni, aveva assistito alla scena dalla finestra della sua stanza. Ridacchiò sotto i baffi, incantato dall’ingiusta (apparentemente) crudeltà con cui quei cretini in divisa stavano strapazzando quella racchia rincretinita. Subito gli venne voglia di fare lo stesso.
    Il terzo giorno a partire dalla crocifissione, il portone di legno della piccola scuola cittadina cadde al suolo con un tonfo sordo. Subito dopo, un’orda scatenata di bambini e giovani ragazzi lo calpestò e lo ridusse in pezzi con la forza dei piedi scalpitanti. Dalle case, dai bar e dai vicoli si levò un grido di gioia e di determinazione, lo stesso di un esercito che carica il nemico con la certezza di aver già vinto la guerra. In tre giorni, Joysprings era diventata un covo di iene sghignazzanti e violente, un cimitero marcescente di cadaveri sorridenti che venivano arrostiti dal freddo sole invernale. Jeremy era nascosto dietro una barricata di sedie e tavoli, pronto a scaricare i colpi della sua pistola sul primo di quei mostri dagli occhi gialli che avesse osato invadere la sua casa, ultima fortezza della ragione rimasta nella cittadina. Tutti, nessuno escluso, avevano delle squame verdi sul collo e sulle braccia, due lunghe zanne velenifere al posto dei canini e degli artigli neri e lunghi che laceravano la carne delle dita dall’interno. Lì dov’era, Jeremy poteva vedere uno stralcio della strada oltre la tenda bianca. Vide una madre, donna che conosceva molto bene, dare un calcio alla figlia di tre mesi, che non smise di ridere finché la cassa toracica non fu fracassata dalle ruote di una bici. Tutte quelle persone così perfette e miti, tutti quegli uomini e donne che non avevano mai osato dare sfogo alla vena più sadica della loro creatività avevano spaccato gli argini come un fiume in piena. La porta di Jeremy, purtroppo, era molto più fragile di quegli argini di carta. Non ebbe il coraggio di sparare, quando vide quegli occhi gialli schiacciati contro le sopracciglia dalle guance gonfie e rugose di un volto sorridente.




    4–Fase terminale:

    Provarono in tutti modi a farlo ridere, ma fallirono ogni volta. Jeremy era stretto tra le unghie di due paesani, mentre gli altri erano tutti rientrati in casa e guardavano la lenta processione dalle loro finestre. Proprio come nel suo sogno. Provarono costantemente a strappargli una risata, prima canzonandolo, poi prendendo mogli e figli e appendendoli tutti per le caviglie ai cornicioni delle finestre. Uno arrivò addirittura a buttarsi dal tetto gridando: – Yippie! –, frantumandosi le vertebre. Jeremy non voleva ridere, non doveva ridere per nessun motivo. Tentava in tutti i modi di evitare il contatto visivo con i mostri affacciati alle finestre, ma quando si voltava vedeva la sua carne che veniva perforata dagli artigli neri delle due creature. Intanto, il cancello del cimitero in cima alla collina era sempre più vicino.
    – No, non toccatemi! – pensava, mentre il suo sangue entrava nelle dita ferite delle sue guardie. Ma cosa gliene poteva importare? Che morissero pure, quegli abomini!
    – Bastardi! – gridò – Dio vi punirà tutti! –
    Le risate divennero assordanti.
    – Dio? – gli gridò un vecchio – E chi ci crede in più in Dio? Chi se ne fotte! –
    – Ma tu non eri mica finocchio? No perché quello da punire qua sei tu, scherzo della natura! Sodomita! Pervertito! –
    Gli uomini che trascinavano Jeremy si guardarono, poi gettarono il poliziotto su una tomba di marmo freddo e umido. Erano arrivati a destinazione.
    Jeremy alzò lo sguardo e vide di nuovo lui, il forestiero. Dato che non portava più gli occhiali da sole, la luce ardente dei suoi occhi accecò il poliziotto che fece appena in tempo a vedere le pupille di quell’uomo, se uomo era: le sue iridi erano due volti sorridenti.
    – Ciao Jerry. Ti ricordi di me? –
    – Cosa? –
    – Ti ho chiesto se ti ricordi di me, Jerry. E fidati, non sono il tizio da cui ti sei fatto sbattere ad Amsterdam –
    Tutti risero. Tutti tranne Jeremy.
    – Ma davvero non mi riconosci? – chiese allora il forestiero, allargando il suo sorriso acuminato – Io sono te. Io sono lui, sono lei, sono quelli lì… Io sono tutti voi! Io sono il vostro Dio! –
    La folla proruppe in un caloroso applauso. Il loro Messia era finalmente venuto in mezzo a loro.
    – Tu non sei Dio! –
    – E invece sì, blasfemo! –
    La faccia del dio di Joysprings era a pochi centimetri da quella del poliziotto. Le sue pupille tripartite si erano fuse in due fessure allungate: erano gli occhi ardenti di un serpente pronto a mordere.
    – Vuoi uomini non fate altro che venerami! Dimmi, Jeremy, quante volte ti sei masturbato pensando ai tuoi colleghi, eh? Eppure sai che non dovresti farlo… –
    – Perché non dovrei farlo? –
    Jeremy si pentì subito di aver sfidato il serpente.
    – Ecco, è questo che non ho mai capito di voi uomini: pensare non è un crimine, Jerry. Eppure, ogni singolo verme che ha calpestato questa terra si sente in colpa ogni volta che pensa di uccidere qualcuno, quando sente una battuta razzista o quando vorrebbe proprio spaccare la faccia a un ragazzino insolente. Guarda quella chiesa, Jerry… Che cosa vedi? –
    L’edificio grigio svettava in mezzo alle tombe. I suoi vetri colorati scintillavano sotto la fioca luce del sole oscurato dalle nubi temporalesche.
    – E’ una chiesa –
    – E’ una chiesa, ma è anche il luogo più sacro di questo posto. E’ l’ordine, è l’occhio vigile che vi ha sempre osservati e giudicati nei vostri sogni proibiti. Dimmi, Jeremy: tu non uccidi perché pensi che faresti del male a un’altra persona, oppure perché Dio ti osserva? Pensaci bene –
    La pioggia incominciò a cadere sul cimitero. Sembrava che le statue angeliche poste ai lati del portale della vecchia chiesa stessero piangendo, ma in realtà il cielo le stava sporcando con la pioggia sporca e fangosa. Guardavano Jeremy e gli imploravano di non abbandonarli nel momento del bisogno, ma quello chiuse gli occhi e sogghignò. Nel chiasso leggero della pioggia, Jeremy iniziò a ridere di cuore mentre i suoi fratelli ammiravano la sua metamorfosi tanto attesa: stava diventando come loro, demoni dagli occhi color ambra. Come aveva fatto ad ignorare per tutto quel tempo la sua natura così spregevolmente umana? Il poliziotto si alzò, guardò i presenti e disse: – Volete vedere qualcosa di davvero divertente? –
    I mostri annuirono lentamente. Jeremy staccò un pezzo di marmo da una delle tombe e si avvicinò alla chiesa, seguito dai suoi fratelli e da un curioso demone, che nel frattempo si era rimesso gli occhiali da sole. Quando fu abbastanza vicino, Jerry scaraventò il masso sulla testa di uno degli angeli di pietra vicino al portale, rendendola una manciata di schegge e polvere. Come se fosse fatto di carne, l’angelo senza testa cadde morto tra le braccia del suo compagno in lacrime, straziato dalla perdita.
    Il cimitero si svuotò, abbandonato all’ombra trasparente della chiesa e al silenzio delle ossa. Il sorriso del serpente si sarebbe presto allargato insieme al suo sguardo.




    5–La fede:

    Era il 23 luglio del 1967. Percival era rinchiuso nella sua stanza, compagno solo di una pallina di gomma mezza rosicchiata e del vento che entrava dalla finestra spalancata. Era rimasto solo anche quel giorno, mentre il sole fuori splendeva sui volti abbronzati dei suoi compagni, i suoi amici, come li chiamava sua madre. Per lei, i compagni e gli amici erano la stessa cosa, ma la verità era che Percival stava passando i suoi undici anni nel silenzio assordante della solitudine, quasi pregava che un mostro uscisse fuori dall’ombra e ringhiasse, solo per riempire quella mancanza di suono. Guardava gli altri bambini che si arrampicavano sulle colline, oltre le sbarre pitturate di bianco della sua finestra. Li riconosceva tutti da lontano, lui che aveva una vista straordinaria: Schildkamp, Walls, Bowers e molti altri. Tra di loro c’era anche un tal Jeremy Burke, detto “Jerry”, l’unico che aveva provato a rivolgergli la parola dall’inizio dell’ultimo anno scolastico. Ma Jerry si era allontanato subito da lui, Percy Hammer, il bambino strano e solo che gli altri mocciosi evitavano come la peste. Percy vide la chiesa grigia che svettava in mezzo al cimitero e ripensò alle parole che suo padre gli aveva rivolto prima di andare a lavorare quella mattina notando il malumore del figlio: – Quando non sai a chi rivolgerti, figlio mio, vai in chiesa. Dio può ascoltarti, sai? – Forse era solo un modo carino per dirgli che non gliene importava nulla dei suoi problemi, ma Percival decise comunque di fare un tentativo, lui che di chiesa non ne voleva sentir parlare. Aspettò la notte per non essere visto da nessuno, disse alla madre che usciva con gli amici. – Finalmente – aveva sospirato lei, ignorando il parassita silenzioso che stava crescendo nell’animo del figlio, così spaventato dal mondo e dal giudizio altrui da recarsi in chiesa di nascosto, senza farsi vedere.
    Percival si sedette dietro un inginocchiatoio non troppo vicino all’altare e si piegò su se stesso con le mani giunte, godendosi l’odore dell’incenso appena bruciato. Sotto lo sguardo di un Cristo di legno pitturato, gli si avvicinò il sacerdote, quello che avrebbe sostituito il vecchio parroco rimbambito per i prossimi quindici anni. Percy non aveva mai visto il vecchio prete, ma sua madre continuava a ripetere che fosse un vecchio ubriacone col cervello incartapecorito. Se lo diceva lei, doveva essere la verità.
    – Che cosa ti turba, figlio mio? – gli chiese il parroco.
    Gli disse che non aveva amici, che si sentiva solo. Gli disse che il padre l’aveva mandato lì perché se ne fregava dei suoi sentimenti. La madre, dal canto suo, era più rincitrullita del vecchio prete.
    – Dio può essere tuo amico – gli aveva risposto il parroco sorridendo amabilmente e inginocchiandosi accanto a lui – Posso esserlo anche io, se vuoi –
    – Davvero? –
    – Certo che sì –
    Percival abbracciò il prete, che fece di tutto per stringere le gambe e non pensare ad altre cose. Dopotutto, Dio lo stava guardando dall’alto della croce. Ma prima o poi avrebbe ceduto.
    Erano passati due mesi, era già settembre inoltrato. Percival stava guardando le stelle sotto il freddo vento dell’autunno che si avvicinava sempre di più. Una foglia gli cadde sul petto nudo, ma lui non la sentì, così come non sentì i vermi e le mosche che gli si infilavano tra le dita e sotto le gambe. Era un corpo morto, ancora tiepido dopo aver ricevuto quel colpo mortale in mezzo alla fronte. Prima che si facesse tutto rosso, si ricordava di aver visto il vino che colava sul mento del sacerdote, il suo amico, che l’aveva scaraventato sul pavimento della sacrestia. Pian piano, il freddo aveva iniziato a penetrargli nelle ossa. Insieme al freddo, però, sentì anche della carne viva che lo scaldava dall’interno, ma solo per pochi istanti, poi dei gemiti. Non ricordava come fosse finito in mezzo ai cespugli e alle foglie cadute, sapeva solo che i suoi sensi non esistevano più e presto la sua coscienza li avrebbe seguiti. Ma quando il serpente viscido strisciò sulla sua gamba rigida, allora sì che sentì qualcosa. Il fuoco della vita era tornato ad ardere in lui, infreddolito e steso nella nuda terra accanto ai suoi vestiti. Si specchiò in una pozzanghera: i suoi occhi erano gialli come quelli del serpente. Percival non si fece domande, accolse solo il calore ultraterreno che l’aveva riportato indietro e se lo godette in silenzio. Intanto, il serpente sussurrava al suo orecchio. Avrebbe vissuto in mezzo agli uomini, avrebbe imparato che il loro unico dio erano le loro pulsioni, calde e scalpitanti come un cavallo nero. Avrebbe imparato quali desideri quelli nascondevano agli occhi di Dio, – unico male – per usare le parole del serpente. Dio l’aveva tradito quel giorno, ma presto Percival ne avrebbe preso il posto.


    “Don't mind us we're just spilling our guts
    If this is love I don't wanna be loved
    You pollute the room with a filthy tongue
    Watch me choke it down so I can throw it up.
    Don't mind us we're just spilling our guts
    If this is love I don't wanna be hanging by the neck
    Before an audience of death.”

    Get Scared, “Sarcasm”


    I sentimenti/sensazioni/quello che è a cui mi sono ispirato sono la paranoia, il senso di colpa e il desiderio di libertà. Più che altro, è la paura di essere giudicati per le proprie azioni o i propri pensieri immorali, che devono essere rinchiusi nella nostra mente non perché, appunto, sono immorali, ma perché abbiamo paura di possibili conseguenze. Il tema della segregazione delle pulsioni si riflette nei cognomi degli abitanti del villaggio (Burke= fortificato; Walls= mura; Schildkamp= assonanza con "Shield", scudo;...)
    Se mi perdo a spiegare tutto il casino di simboli che ho messo mi perdo, quindi divertitevi.

    P.S.
    L'HIV è uno di quei simboli, non disprezzo i sieropositivi.
     
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    Duuuunque, eccomi qui a recensire il tuo racconto di ben 35258 caratteri (non è un numero buttato a caso, ho usato davvero il conta caratteri) e come sappiamo non è neanche il più lungo che tu abbia sfornato qui sul forum :sisi:

    Il tuo stile di scrittura - lo sai già ma te lo ripeto ugualmente - mi piace e mi prende da subito perché, per quanto ampiamente dettagliato, lascia comunque al lettore la possibilità di tracciare poco a poco il profilo della storia, usando la propria immaginazione naturalmente.
    Ho adorato l'introduzione del misterioso forestiero, palesemente ispirato a Crowley di Good Omens e mi è dispiaciuto ritrovarlo solo alla fine del racconto (mi riferisco ai paragrafi in cui è "umanoide" e fa battutine).
    Se la tua intenzione era quella di trasmettere un'immagine viscida, terrificante e malata degli infetti beh...senza usare troppi giri di parole ci sei riuscito benissimo. La madre che calpesta violentemente la neonata di tre mesi e il tizio che si butta dal tetto urlando Yuppiii mi hanno colpita particolarmente. Insomma ho adorato l'ambientazione apocalittica e i riferimenti agli orrori della Bibbia, tra cui principalmente il cannibalismo.
    Perdipiù ho adorato il tuo modo di dirci quanto sia esagerato un cattolico nel giudicare un sieropositivo, immaginandolo appunto come un demone.
    Nel capitolo finale "la Fede" prevedibile è la fine di Percival. Appena ho letto "bambino" e "prete" ho subito intuito dove volessi andare a parare, tutto sommato però Sarcasm mi è piaciuto. In alcune parti mi ha fatto rabbrividire e in altre invece mi ha strappato un sorriso (merito delle battute del forestiero e del tizio che si butta dal palazzo sì).
    Come voto duuunque ti assegno un bel 4.0. Non ti do il cinque pieno per un semplice motivo: troppi nomi buttati così, tra cui la moglie del tizio crocifisso, possono confondere il lettore.
     
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    Mr. Canotta

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    Ammetto che ci ho messo un po' a finirlo e in alcuni punti ho preferito soffermarmi nuovamente per avere un quadro più chiaro della situazione. Che dire, dal punto di vista narrativo il racconto merita perché è veramente ben descritto in ogni suo punto, dall'ambientazione apocalittica alla caratterizzazione dei singoli personaggi che lo popolano. A proposito, bello il gioco dei cognomi. Le sensazioni che hai voluto usare per il tuo racconto vengono fuori a poco a poco durante la lettura, quindi direi che anche da questo punto di vista ci siamo. Detto ciò penso che 4.5 possa andar bene come voto.

    HS

    Edited by Kohei - 21/2/2022, 12:21
     
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    CITAZIONE (Kohei @ 7/2/2022, 20:56) 
    Ammetto che ci ho messo un po' a finirlo e in alcuni punti ho preferito soffermarmi nuovamente per avere un quadro più chiaro della situazione. Che dire, dal punto di vista narrativo il racconto merita perché è veramente ben descritto in ogni suo punto, dall'ambientazione apocalittica alla caratterizzazione dei singoli personaggi che lo popolano. A proposito, bello il gioco dei cognomi. Le sensazioni che hai voluto usare per il tuo racconto vengono fuori a poco a poco durante la lettura, quindi direi che anche da questo punto di vista ci siamo. Detto ciò penso che 4.5 possa andar bene come voto.

    Grazie capo <3
     
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    Ser Procrastinazione

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    Per avere un quadro più completo anche io ho dovuto rileggere il racconto; grazie a ciò ho potuto apprezzare meglio l'uso dei cognomi.
    Come tutte le tue precedenti storie, devo dire che è molto ben scritta. In particolare, il capitolo che mi ha colpito di più è stato il terzo.
    Non ho molto da aggiungere rispetto a chi mi ha preceduto, dunque anche io attribuisco un 4.5. Per quanto attiene alla sezione di destinazione, per me è smistabile in Horror Stories.
     
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    Il racconto è interessante, e secondo me stai perdendo quell'ossessione per la verbosità superflua che caratterizzava i tuoi racconti precedenti (è un bene a parer mio).

    Horror stories. 4/5
     
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    CITAZIONE (Medea MacLeod @ 20/2/2022, 21:03) 
    Il racconto è interessante, e secondo me stai perdendo quell'ossessione per la verbosità superflua che caratterizzava i tuoi racconti precedenti (è un bene a parer mio).

    Horror stories. 4/5

    Sì, ci sto provando. Mi dà fastidio scrivere roba troppo complicata, quindi sto cercando di accorciare le frasi e di semplificare il linguaggio. Grazie per aver notato lo sforzo :siga:
     
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    Happy Urepi Yoropiku ne~

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    Che devo dire più di quello che hanno già detto? xD

    Il racconto è ottimo, ovviamente va in Horror Stories e 4/5
     
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