CARRY ON WAYWARD SON

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    1 – CARTA STRACCIA:

    Erano le sette in punto. A quell’ora, il bar era immerso nella luce arancione del sole calante, disco di fuoco che si nascondeva dietro le case e i palazzi. Una vecchia canzone jazz accompagnava il rumore dei bicchieri che strisciavano sul bancone di legno, mentre le solide pareti di pietra nascondevano quel piccolo mondo dalla chiassosa città oltre le grandi vetrate. Luka si sedette al suo solito tavolo, proprio sotto uno di quei vetri. Appoggiò i suoi libri sul tavolo e sorseggiò il suo espresso, già dimenticando quella giornata. Frequentava la facoltà di archeologia di Harvard da ben quattro anni, dunque spesso il suo pensiero si rivolgeva all’imminente fine del suo percorso accademico. Finalmente, avrebbe potuto scavare nel passato con le sue stesse mani, senza affidarsi alla voce e alle parole di chi aveva fallito più volte nella ricerca della verità. Luka sapeva di essere più bravo, più furbo e più intelligente di molti dei suoi compagni di corso, forse anche di qualche professore. Eppure, la sua indole lo spingeva a mostrare umiltà, a recitare continuamente una parte per il bene suo e della società. Sì, della società: nessuno si mostrava mai per quello che era, c’erano sempre stati dei segreti e delle ambizioni che l’uomo non poteva permettersi di rivelare al resto del mondo. Luka sapeva che la razza umana era ipocrita, ma se ne faceva una ragione e si rintanava nella sua parte con insistente, costante codardia. Gli assassini, i ladri, i terroristi, i tiranni, i sadici e i pervertiti erano persone coraggiose per lui, non si ponevano il problema di piacere alle persone o addirittura a sé stessi… Ma erano comunque mostri che il mondo doveva cancellare per la sua stessa salvezza. Si tormentava con questa consapevolezza, ma non osava annegare il dispiacere di essere impotente davanti al mondo nell’alcol. Lui era troppo intelligente e giovane per consumarsi dall’interno, non poteva permettersi di lasciar andare le briglie della ragione. Spesso passava davanti a qualche bar e si faceva gioco di quelle bestie che vomitavano sull’asfalto. Perché dimenticare i problemi se il giorno dopo ce ne saranno altri?

    Luka ingoiò l’ultimo sorso dell’espresso e sfogliò le pagine di uno dei suoi libri, pronto a prendere appunti sul suo quadernino. Si chinò sul suo zaino per prendere una penna e fu in quel momento che lo sfiorò di nuovo. Lasciò stare la penna e si concentrò sul vecchio quaderno che aveva trovato solo poche ore prima, nascosto dietro i libri sugli scaffali della biblioteca di Harvard. La copertina di pelle era logora e piena di graffi, mentre le pagine gialle e fragili erano state sporcate con l’inchiostro sbiadito, ma ancora leggibile in molti punti. Era vecchio, molto vecchio. Il suo cuore di aspirante archeologo lo spinse a portarlo via con sé, senza chiedere il permesso alla bibliotecaria. Dopotutto, l’aspetto di quel quaderno era ben lontano da quello dei libri che si potevano trovare sugli scaffali, dunque non era affare di quella donna petulante e spocchiosa, sempre pronta a farsi i fatti degli altri quando gli studenti si presentavano al bancone. Mise da parte i suoi libri e aprì il manoscritto, stando attento a non rovinarlo. Guardandolo con più attenzione, notò che tra una pagina e l’altra c’erano schemi, disegni e simboli che non riusciva a comprendere. Subito la sua mente pensò all’archetipo del satanista o del cacciatore di demoni, ma il pensiero fu scacciato da una debole risata. Lesse il nome scritto in corsivo al centro della prima pagina: Basil Flee. – Anche il suo nome mi sa di satanista… – disse tra sé e sé. Iniziò a leggere, proprio mentre la melodia prodotta dalle casse diventava più cupa e il sole spariva del tutto dietro i muri di cemento e i lampioni di Cambridge.


    06/21/1910

    Sarah mi ha consigliato di tenere un quaderno in cui scrivere le formule, in modo da non dimenticarmele. Mi ha spiegato che anche i maghi migliori non riescono a ricordarsi ogni singolo “incantesimo”… Questa parola non mi è mai piaciuta, devo ammetterlo. Preferisco il termine “rito”. Spero che gli dèi mi guidino in questo viaggio.


    Luka voltò pagina, provando un misto di divertimento, scetticismo e ardente curiosità. Era la prima volta che le parole di uno stolto riuscivano ad attirare la sua attenzione. Le pagine seguenti erano colme di frasi insensate, scritte con un alfabeto che Luka riconobbe come lineare B. Non era possibile, poiché quell’alfabeto non era ancora stato decifrato. Era chiaramente un falso, non c’era alcun dubbio… Ma anche i romanzi scritti con maestria dicevano solo bugie, eppure sono terribilmente interessanti. Dopo una decina di pagine, trovò altre date, intervallate da un folto numero di pagine indecifrabili:


    12/24/1912

    Sarah è morta un mese fa. Ho compiuto il rito nella maniera in cui mi aveva indicato, ma non è ancora tornata. Tutto ciò che ho ottenuto sono solo dei sussurri.
    Nota: Mi sono reso conto solo adesso che il rito deve essere compiuto nella sua stanza, ai piedi del letto, lì dove la morte è in grado di trascinarti via con sé. Ciò significa che dovrò sbeffeggiare la morte. Mi pare che ci sia una fiaba con una trama simile…



    12/25/1912

    Sarah è tornata, anche se non è più quella di prima. Adesso possiamo indagare sulla natura dell’aldilà e del nostro Signore.



    08/15/1914

    Abbiamo incontrato ***. Si è ripreso Sarah, ma lei sembrava contenta di seguirlo. *** mi ha promesso che la raggiungerò, prima o poi, ma devo dare tempo al tempo. Prima devo fare una cosa per lui. Mi ha descritto il luogo che devo trovare, ma non avendo il tempo di scrivere l’ho disegnato. Spero di non aver occupato troppo spazio: non è molto conveniente dividere le conoscenze di un mago in più libri... Devo ammettere che sarebbe parecchio interessante cercare dei nascondigli per ogni quaderno, ma uno è più che sufficiente. Dividere il mio sapere sarebbe come dividere la mia coscienza, ma quest’ultima deve essere intatta affinché io possa incontrare ***. Io lo voglio… Voglio che ogni vivente conosca il suo volto.


    Luka sentì di nuovo il suono della carta che si muoveva tra le sue mani e vide il disegno. L’intera pagina era stata sporcata con l’inchiostro. Lo studente non ci mise molto a capire che quella che aveva davanti erano sette torri alte e strette, che sorgevano su un’isola circondata da linee curve e confuse, tutte intrecciate fra loro: era il mare. Le torri scure erano avvolte dalle spire di una creatura, simile a un serpente, con le fauci spalancate. Le zanne della creatura si stringevano intorno ad una stella a quattro punte che sormontava la torre come se fosse la luce di un faro. E dietro le torri spuntava una figura umanoide, stesa su un fianco, col braccio destro rivolto verso la stella a quattro punte.I pochi spazi liberi che non erano stati inghiottiti dall’illustrazione erano occupati da schemi, numeri e parole scritti di fretta, dunque erano incomprensibili. Luka sfogliò le pagine rimanenti, incontrando spesso quel nome inesistente. Le pagine erano segnate da caratteri leggibili, rigorosamente in corsivo, o in qualche alfabeto di cui pochi eletti conoscono il segreto, ma quell’ordine veniva rotto da quelle continue cancellature. A volte, Luka poteva riconoscere a stento delle lettere oltre i segni profondi lasciati dalla penna di Basil Flee, ma non riusciva a dare un suono a quel nome. Ishtar, Moloch, Inanna, Azazel, Alastor, Belial… Sono solo alcuni dei nomi, tutti appartenenti a divinità pagane e diavoli, che ritornavano spesso fra quelle pagine, nomi che avrebbero spaventato qualsiasi buon cristiano della vecchia guardia e incuriosito un aspirante occultista. Lo studente tornò a leggere quelle pagine come se stesse divorando un romanzo del calibro di “Il ritratto di Dorian Gray”. Giunse alle ultime pagine.


    09/01/1922

    Sono arrivato ad Atene poche ore fa, all’alba. Nonostante l’ora, il porto era già gremito di marinai che schiamazzavano in francese e greco, dunque pensavo di poter passare inosservato e nascondermi agli occhi dei servi degli altri dèi. Eppure, una di loro mi ha notato. Era una donna bassa, tozza e gobba con gli occhi strabici e i denti martoriati. Nonostante il suo aspetto fosse miserabile, la sua voce mi è rimasta impressa nella memoria come il suono dei pistoni della nave su cui mi sono imbarcato. Mi disse di fermarmi e di non compiere la follia che avevo in mente di attuare. Millantava di discendere dall’ultima pizia di Apollo, dunque era in grado di vedere chiaramente il futuro. Le risi in faccia come un moccioso e mi allontanai, chiedendole la cortesia di porgere i miei omaggi al mio Signore. Adesso che ci penso, forse era una Sua serva, forse *** voleva mettere alla prova la mia fede. Ma il dubbio rimane, poiché si mise a urlare e a maledirmi, attirando l’attenzione dell’intero porto del Pireo. Ora che ci penso, anche se fosse stata mandata da un altro dio, non avrebbe avuto motivo di fermarmi: anche gli altri dèi, compresi gli antichi avversari di ***, vorrebbero che Egli tornasse a camminare in mezzo a noi per portare la sua luce. Stanotte compirò il rito e metterò piede sull’Isola. Sento già le braccia di *** stringersi intorno a me e scaldare il mio corpo.



    Erano passati quaranta minuti, ormai. All’esterno, il sole era già scomparso dietro il grigiore dei palazzi e il cielo si tingeva di blu, ma Luka non se ne era nemmeno accorto. Era già pronto a voltare pagina e scoprire il finale della storia, ma sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla.
    – Stiamo chiudendo – gli disse il vecchio barista. Luka lasciò una banconota sul tavolo e uscì dal locale, cercando di non far cadere il contenuto dello zaino per terra. Camminò svelto sotto i lampioni, animato da una forte curiosità. Forse avrebbe dovuto lasciar perdere il diario per qualche ora e lasciare che la curiosità lo consumasse, cosicché il finale sarebbe stato ancora più godibile per i suoi occhi. Oppure, avrebbe potuto leggere l’ultima pagina e dormire tranquillamente, mantenendo il ricordo ancora fresco della storia durante la lezione del giorno dopo.
    Chiuse la porta d’ingresso dell’appartamento alle sue spalle e gettò lo zaino per terra, poi si sedette ai piedi del letto. Quel mucchio di carta straccia lo stava chiamando, non poteva farci niente. Accese la lampada sulla scrivania e aprì il diario per l’ultima volta. I bordi dell’ultima pagina erano ricoperti di macchie brunastre e sembravano rovinati, come se dell’acqua li avesse consumati. La calligrafia ordinata di Basil Flee aveva lasciato spazio a una confusione di inchiostro e altre macchie rosse, leggibile a stento.


    Ho visto la verità, nascosta ai miei occhi per anni, ormai, anni buttati al vento, anni spesi a servire il male e il peccato. Quell’isola non deve tornare in superficie, NESSUNO dovrà più metterci piede sopra finché io sarò in vita, perché ciò significa che sarei io a far riemergere quelle terre, che grazie al cielo sono ancora sommerse. Ormai mi sto spegnendo, tra non molto la mia anima sarà trascinata via da ***. Ma che faccio, perché scrivo quel nome immondo? Presto raggiungerò Sarah e mi unirò al suo eterno dolore. No, non devo fuggire. Gliel’ho promesso: ho promesso di donare la vita a suo figlio e di consacrare la mia discendenza.
    Mi sento tradito dal mio stesso maestro… Sarà meglio che io distrugga questo diario e…


    Una macchia brunastra, più grande delle altre, copriva il resto della frase. Poi, appena sotto, scritto con un inchiostro molto più scuro e denso:

    ANDRO’ A QUEDLINBURG. LI’ SORGERA’ IL PHOSPHOROS CHE PRENDERA’ IL MIO POSTO.


    – No, non è possibile… Non ci credo…– Luka pronuncio queste parole con un sorriso stampato sul volto. La storia non era non era ancora finita: Basil Flee aveva lasciato le tracce del suo passaggio anche lì, a Quedlinburg, la cittadina tedesca in cui era cresciuto.





    2 – AFFOGARE:

    In due anni, nulla era cambiato. Appena la vecchia auto noleggiata di Luka varcò i cancelli di Quedlinburg, lo studente poté finalmente tornare a specchiarsi nelle vetrine dei negozi che, fin da quando aveva memoria, si confondevano con le vecchie case colorate della cittadina. Scese dall’auto e la sua ombra, allungata dal tramonto, copriva la neve e il selciato sotto i suoi piedi. Arrivò davanti alla casa dei genitori, di legno scuro e di pietra color amaranto come molte altre abitazioni nel circondario. Proprio mentre stava per bussare alla porta, sentì delle risate alle sue spalle. I figli dei vicini, piccoli e rumorosi animali da cortile, erano cresciuti parecchio durante la sua assenza. Luka si meravigliò di sé stesso: non si era mai soffermato a guardare dei bambini, specialmente quelli fastidiosi, sorridendo come un padre davanti ai suoi figli, ormai divenuti uomini. Ma cosa ci poteva fare? La nostalgia per il passato e il senso del rapido scorrimento del tempo avevano sempre vinto la sua fredda ragione, ghiacciata come il terreno sotto le sue scarpe. Finalmente, bussò alla porta ed entrò nella sua vecchia casa, accolto a braccia aperte dal padre.
    Si sedette sulla poltrona, la sua poltrona, quella vicino alla grande finestra del salotto che permetteva alla luce dei lampioni di entrare.
    – Allora, – chiese Ezra Schäfer – come stanno andando gli studi? –
    Il suo alito puzzava di vino e birra come al solito. Luka non sopportava quell’odore, ma non ci badava troppo quando suo padre lo abbracciava. Amante dell’alcol, ma non in maniera smodata, Ezra era sempre stato un brav’uomo, presenza costante e benevola nella vita del suo unico figlio, fiamma del suo orgoglio. Biondo, paonazzo e sorridente, era una versione più ingenua e paffuta di David Bowie.
    – Non preoccuparti, i tuoi soldi sono ben spesi – disse scherzando il giovane.
    L’uomo si fece una risata, poi disse – Non ne dubito. Ma dimmi, come mai sei venuto prima del previsto? Non è ancora Natale –
    – Sai, mi sono sbrigato con gli esami, quindi posso prendermi una breve pausa. Penso di essermela meritata, no? –
    – Fai bene, fai bene – rispose il padre – Tua madre sarebbe orgogliosa di te. Dopotutto, è lei che ti paga gli studi, no? –
    Luka inarcò le sopracciglia ed emise un verso di assenso. Il gelo si impadronì della stanza per pochi, interminabili secondi, la stessa aria ghiacciata che riempiva il vuoto nel cuore di Ezra e Luka da ben dieci anni.
    – Ti dispiace se vado di sopra a riposarmi, pa’? –
    – Eh? – Ezra si scosse, strappato via del pensiero della moglie – Ah, sì… No, fai con calma. Sarai sicuramente stanco dopo il viaggio. E poi, si sta già facendo tardi… –
    Oltre il vetro ricoperto di brina, il sole era tramontato del tutto già da qualche ora, di nuovo.

    Nel buio della sua vecchia stanza, Luka estrasse il diario dalla valigia e sollevò la striscia di cuoio sulla parte posteriore della rilegatura. Si formò una fessura sottile tra la copertina e la striscia di cuoio, abbastanza larga affinché Luka potesse infilarci dentro le dita. Finalmente, sentì di nuovo il metallo freddo sulla pelle ed estrasse la cosa dalla copertina.
    Quando era ancora un bambino innocente, ben lontano dalla verità che stava per schiudersi davanti ai suoi occhi come un fiore dall’aspetto e dall’odore egualmente orribili, Luka giocava nella sua stanza, a volte accompagnato solo da qualche pupazzo o modellino di plastica, altre con amici. Fin da quando aveva memoria, amava nascondersi dentro il grande armadio e giocare con la fantasia. Più volte aveva notato il cassetto alla sua destra, nascosto dietro magliette e camicie. Laddove ci sarebbe dovuta essere una serratura, c’erano tre buchi collegati da linee sottili per formare un triangolo col vertice rivolto verso il basso. Non era mai riuscito ad aprirlo, nonostante avesse provato più volte a forzarlo e a sfondarlo quando era piccolo. Nessuno era a conoscenza di quel suo piccolo segreto, questo pensava Luka. Eppure, poche ore dopo il ritrovamento del diario di Basil Flee, quando stava infilando il libro consunto nella sua piccola libreria, la sua attenzione fu attirata da un rigonfiamento nella copertina. Era la cosa, un piccolo medaglione ricoperto da macchie di ruggine e graffiato in più punti. Il decoro in bassorilievo coincideva perfettamente con l’incisione di quel cassetto che prendeva polvere dall’altra parte del mondo.
    Dopo anni, Luka rientrò in quell’armadio vuoto, diventato troppo piccolo per lui. Strinse il medaglione fra le dita, sentendo la ruvidezza della ruggine malsana contro la pelle. Fece attenzione a non tagliarsi, poi incastrò il medaglione nella fessura con un sonoro e soddisfacente click.
    Ancora una volta, Luka sorrise. Iniziò ad aprire il assetto, ma appena quello si mosse di qualche centimetro emise un suono fastidioso, lo stesso prodotto da una sedia che striscia sul pavimento. Poiché temeva di svegliare il padre, decise di lasciar perdere fino al giorno seguente. Dopotutto, quel mistero non era così importante, non ancora. Si avvolse nelle coperte, infreddolito e con la mente ancora lucida e attiva. Il pensiero che quel medaglione, proprietà di un folle che parlava con chissà quale dio, fosse legato alla sua casa, dunque alla sua vita, non gli permetteva di abbandonarsi al sonno. Forse quell’armadio era stato comprato a un mercatino dell’usato e apparteneva a Basil, forse non era stato il mago a mettere il medaglione in quel diario, forse si aveva inventato tutto e stava… SOGNANDO. Luka era in piedi, capace solo di muovere la testa e respirare l’aria umida e fredda portata dal vento. La barca sotto i suoi piedi barcollava, spinta dalle onde gonfie d’acqua, alghe e fanghiglia, ma lui a stare in equilibrio nonostante la forza del mare, come se la barca lo stesse proteggendo da una fine inevitabile in mezzo ai flutti. Eppure, il legno era così fragile e lui, immobile, era impotente davanti alla natura. Il cielo grigio sovrastava il mare scuro e vivo, sempre più agitato. La patina incolore che nascondeva il sole sembrava quasi solida, non c’era una nube più grande o vicina a lui delle altre: era come se il cielo fosse sgombro, ma avesse perso il suo colore. Il sole era sparito, ma una luce fredda illuminava il suo viaggio tra i flutti. A un certo punto, quando Luka si rese conto di non potersi più svegliare da quel sogno, una luce verde cadde a diversi metri da lui, provocando un’onda d’urto che rovesciò la barca. Il ragazzo sentì il suo corpo che si sbatteva sulla roccia dura e spigolosa, mentre il sangue abbandonava il suo corpo immobile. L’acqua si colorò di quella stessa luce che lo aveva sbalzato sugli scogli, emersi dal mare poco prima dell’impatto, poi si spense e così fece il cielo. Sei occhi enormi e luminosi rischiararono l’oceano scuro e un mulinello d’acqua trascinò luca sul fondo del mare. Vide centinaia di corpi morti e pallidi che venivano trascinati insieme a lui, avvolti da una luce bianca che si affievoliva sempre di più. Una mano enorme emerse dal buio e iniziò a chiudere le sue dita su Luka. Poco prima di venire schiacciato, il ragazzo vide file di denti gialli e affilati che emergevano dalle dita e dal palmo della mano, composta da una materia rossa e sanguinolenta. Prima venne l’urlo che nessuno poté udire, poi il dolore inflitto alla carne lacerata e infine il nero, freddo e abissale, accompagnato dalla sgradevole sensazione di scendere lungo una gola viscida e spegnersi come una candela consumata dalla sua stessa fiamma.

    Luka si mise a sedere di scatto, aprendo gli occhi sul buio della stanza e respirando a pieni polmoni. Si rese subito conto di essere ancora vivo sentendo il cuore battergli in gola e il respiro che si faceva sempre più lento. Mai in vita sua aveva avuto un incubo così vivido, doloroso e insensato. Sì, quell’incubo non aveva senso, nemmeno l’ombra di un significato. Più volte era riuscito a interpretare, in un modo o nell’altro, i sogni che lo intrattenevano durante il sonno, specialmente quando lo stress della scuola si faceva particolarmente insistente. In quelle occasioni gli capitava di sognare una classe dalle pareti verdi e i vetri oscurati, oppure una giuria di uomini senza volto che lo fissavano e giudicavano per i suoi voti… Niente che potesse avvicinarsi alla sgradevole sensazione dell’acqua salata che scende lungo la gola e arriva ai polmoni. Si alzò dal letto, poi guardò l’armadio ancora aperto. Finalmente, avrebbe potuto aggiungere un’altra tessera a quel puzzle che l’aveva riportato a casa, luogo che non conosceva bene come credeva. Decise di torturarsi ancora un po’ e aspettare la colazione, poi avrebbe scoperto il coperchio del Vaso di Pandora che era sempre stato lì, ad aspettarlo.





    3 – LO SPETTATORE DEL PASSATO:

    Luka starnutì, poi si risistemò il fazzoletto sul naso e proseguì con la sua ricerca. Gli archeologi erano sempre a stretto contatto con la polvere, il ragazzo lo sapeva bene, ma non riusciva comunque a sopportare la sensazione sgradevole che anticipa lo starnuto o la tosse. La cantina della vecchia casa di Ezra non veniva aperta da almeno dieci anni, forse dal giorno in cui sua madre era stata ricoperta da tre metri di terra e la folla si era allontanata dal cimitero. Luka, ormai adolescente, non voleva festeggiare il Natale quell’anno, non senza sua madre. Dunque Ezra lasciò le decorazioni e il pino di plastica a marcire tra le ragnatele, la polvere e l’umidità della sua cantina. Gli scatoloni erano ancora lì, ricoperti di muffa e impilati uno sull’altro per occupare meno spazio, nonostante ce ne fossero ben pochi. Quando era ancora tra i vivi, Nora non voleva che quel posto fosse occupato da cianfrusaglie inutili e teneva quella stanza per sé e per il suo gruppo di amiche. Ezra si era sempre chiesto come mai sua moglie avesse scelto proprio quel posto come luogo di incontro, ma non si era mai immischiato negli affari della moglie.
    Finalmente, Luka ritrovò il suo fedele lettore DVD, ricoperto da uno spesso strato di polvere che, quasi certamente, si era insinuata anche all’interno del dispositivo. Lo portò nel salotto e lo collegò al televisore, sperando che funzionasse ancora. La familiare spia verde accanto al pulsante di accensione emise il suo debole bagliore e lo schermo si illuminò. Approfittò dell’assenza del padre e infilò il disco nel lettore, poi premette il tasto play sul telecomando. Il suo istinto da archeologo gli aveva suggerito la presenza di un altro manoscritto all’interno dell’armadio, appartenuto a chissà quale folle, ma la sua ricerca era culminata in una grande delusione. I dischi non avevano fascino, avevano tutti lo stesso odore asettico.
    Nonostante quel lettore e probabilmente anche il disco fossero vecchi di almeno dieci anni, lo schermo mostrò il contenuto del DVD. Mentre le immagini emergevano lentamente dallo schermo nero, il silenzio della stanza fu rotto da un suono confuso e a tratti fastidioso, lo stesso che si può sentire quando si registra una traccia audio in un posto soggetto alla costante forza del vento. Apparentemente mosse proprio da questa forza, dei drappi di tessuto color porpora, sorretti da altrettanti bastoni di legno, sventolavano in cima a sette torri, una più alta dell’altra, ordinate secondo un criterio sconosciuto al giovane spettatore. Dalla cima delle costruzioni sgorgavano piccoli torrenti di sabbia, dello stesso colore dei mattoni del complesso, che si riversavano nel mare sottostante. Mentre la superficie dello specchio d’acqua sembrava essersi fuso con un banco di nebbia, il sole arroventava le costruzioni in pietra. Delle passerelle di legno sporco di polvere collegavano le grandi finestre, mentre mosche e scorpioni si muovevano lungo le corde di quei ponti traballanti. Chiunque stesse reggendo la telecamera iniziò a muoversi verso la torre centrale, più alta e massiccia delle altre, mentre il suono dei suoi passi rendeva l’audio ancora più sgradevole. Il cameraman arrivò alla fine della passerella e oltrepassò un arco di pietra, permettendo a Luka di vedere, anche se in modo confuso, l’interno della torre. La videocamera inquadrò una piccola statua rozzamente intagliata nella roccia. La bassa qualità del video non permetteva al ragazzo di distinguerne nitidamente il soggetto, ma quando quella si mosse un brivido gli scese lungo la schiena e lo studente sbarrò gli occhi, vittima di uno degli scherzi della sua mente. Quella era una mano, la stessa mano dentata che l’aveva afferrato nel suo sogno. Vide le cinque dita chiudersi lentamente intorno al palmo, poi l’indice scattò verso l’alto, dove due occhi ferini e un sorriso benevolo incominciarono ad ardere nella fresca ombra della torre. Lo schermo divenne grigio il suono del vento fu sostituito da un rumore bianco.
    – Ma proprio sul più bello? – esclamò Luka. Si alzò per controllare il lettore DVD, ma si rese conto di trovarsi sospeso nel vuoto, un abisso nero come il cielo sopra la sua testa. Lo schermo, rimasto sospeso a mezz’aria, fu inghiottito dalle tenebre e il rumore bianco fu sostituito dal soffio perpetuo del vento. Prima comparvero le passerelle di legno, poi il mare, il sole e infine le torri con le loro bandiere strappate. Era lì, era nel video. Indietreggiò e si accasciò al suolo, schiacciato dal peso di quella rivelazione. Il ponte sotto i suoi piedi, i giganti di pietra che lo circondavano e l’odore del mare erano veri, non poteva essere un sogno. Poi, ebbe la conferma: l’orologio che portava sul polso destro continuava a funzionare correttamente. Gli orologi non appartenevano al mondo dei sogni, questo Luka lo sapeva bene. Rimase lì, immobile come una statua, incapace di esprimere a parole o a gesti la follia che si nascondeva dietro i suoi occhi. Immaginò il suo corpo che si contorceva sul tappeto del salotto, in preda agli spasmi, mentre il suo spirito era intrappolato in quello che Luka credeva fosse un sogno ancora più vivido del precedente. Era questa la sensazione che i folli provavano costantemente? Era davvero possibile che il mondo non fosse uguale per tutti e che i matti fossero gli unici miserabili ad essersene accorti? Era lui stesso un pazzo, uno di quelli che disprezzava e temeva allo stesso tempo? I suoi pensieri furono interrotti da un sibilo alle sue spalle. Un serpente nero e dalla pelle lucida lo guardava mentre le sue spire avvolgevano una carcassa, forse quella di un agnello. Il rettile alzò la testa, pronto ad attaccare, risvegliando nel ragazzo la primordiale forza della paura del dolore e della morte. Mentre correva sul ponte e il serpente strisciava rapido alle sue spalle, come se fosse un’anguilla che nuotava nel mare, Luka non poté fare a meno di ridere sguaiatamente della sua stupidità. Se quello non era altro che un’elucubrazione mentale, perché fuggiva dai figli della sua stessa testa? Sì, figli, perché anche scorpioni e mosche iniziarono a bramare la sua carne. Luka entrò nella torre centrale e si voltò, rendendosi conto che le bestie erano sparite, tutte tranne l’agnello col ventre squartato. La piccola statua della mano dentata non c’era, ma il ragazzo era sicuro di trovarsi all’interno della torre più alta. Al posto di quel rozzo ninnolo c’era un recipiente di pietra, sorretto da un piedistallo fatto dello stesso materiale. Il bacile era pieno d’acqua e sulla superficie del liquido si muovevano placidamente dei grumi di alghe secche e sabbia che riproducevano l’esatta forma dei continenti. A Est di quella che doveva essere l’Europa, vicino alla Grecia, una piccola bacca rossa ruotava su sé stessa sul pelo dell’acqua. Più guardava quel frutto insignificante, più la pozza nera si allargava sotto i suoi occhi e le increspature dell’acqua diventavano onde gonfie e spumeggianti. Il vento alle sue spalle si placò, poi venne il nero. Ancora una volta, Luka si rese conto di non potersi muovere, ma non era affatto come nel suo ultimo sogno. Se allora non aveva posto resistenza in alcun modo, ora tentava di gridare, ma la voce non riusciva a lasciare il fondo della sua gola. Quando la luce del tramonto prese il posto del buio assoluto in cui era stato gettato, finalmente conobbe il perché della sua immobilità. Sentiva il sangue scorrere nelle gambe e nelle braccia, ma i suoi occhi, unica parte del corpo capace di muoversi, non riuscivano a trovare i suoi piedi. Eppure erano lì, sopra le radici del grande albero… Oppure ne facevano parte. Anche le sue braccia e le sue dita si erano allungati e attorcigliati, ricoperti da nodi e foglie ancora verdi. Attorno a lui, altri alberi scossi dal vento, forse anch’essi carcerieri di chissà quali anime. Al centro della radura c’era un cerchio di pietre disposte a formare un disegno contorto, ma perfetto nelle sue proporzioni. Era uno dei simboli presenti nel diario di Basil Flee, forse il più ricorrente. Dodici figure camminavano intorno al cerchio con le braccia aperte, cantando in una lingua incomprensibile per le orecchie di Luka. Indossavano un lungo mantello rosso che strisciava sul terreno polveroso e una maschera lucida che lasciava gli occhi scoperti, dotata di un lungo becco che si protendeva in orizzontale come un pungiglione Il rovo ardente al centro del cerchio non accennava a consumarsi, nonostante l’erba e le foglie secche che circondavano le fiamme si stessero carbonizzando. Delle mura grigie e umide si sovrapposero agli alberi e al cielo, mentre le rocce diventavano segni tracciati col gesso. Luka non ci mise molto a riconoscere la sua cantina, custode che aveva mantenuto dentro di sé il segreto di quegli uomini e di quelle donne. Una figura fra tutte attirò l’attenzione di Luka, ormai rapito dallo stupore e dall’incredulità. La donna aveva fattezze familiari, dei tratti che già lo studente aveva visto prima di allora. E fu proprio in quel momento che riconobbe in quella donna i capelli castani e gli occhi neri che vedeva ogni singolo giorno della sua vita quando si guardava allo specchio. Nora Schäfer era tornata in vita dopo dieci lunghi anni. Il cerchio si illuminò e qualcosa emerse dal bagliore che aveva riempito la stanza, qualcosa che Luka aveva imparato a conoscere e temere. La mano dentata scattò e la creatura raccolse tutti i presenti tra le dita con un rapido movimento del polso, poi spremette il sangue dei suoi fedeli su ciò che rimaneva del cerchio di gesso, come se fossero dodici piccole olive appena raccolte. Mentre l’ultima eco delle grida di quelle bestie macellate abbandonava la cantina, il ragazzo sentì la porta del sotterraneo cigolare alla sua sinistra.
    I polmoni dello studente si riempirono con una sola boccata accompagnata da un rantolo, poi Luka si mise a sedere con uno scatto. Si strofinò gli occhi e tossì, rendendosi conto di quanto fosse secca la sua gola e di essere madido di sudore. Era di nuovo nel salotto della sua casa, al sicuro dalla follia che l’aveva trascinato oltre lo schermo. Il televisore mostrava l’immagine statica di una tomba, ma la porta del salotto si aprì prima che Luka potesse leggere l’epitaffio in mezzo a quel groviglio di pixel a bassa definizione. Nella stessa posa che aveva assunto e con l’esatta espressione che aveva sul volto dieci anni prima, Ezra Schäfer fissava suo figlio e il vecchio medaglione che gli era scappato dalla tasca.
    – Anche tu, figlio mio? –





    4 – SEGUI LE ORME, SEGUI IL SANGUE:

    Il vento invernale e l’umidità avevano riempito il freddo silenzio del Cimitero centrale di Friedrichsfelde a Berlino, buio e immerso nel silenzio quasi totale di cui solo le città dei morti possono godere. Il cancello separava quella foresta di alberi e lapidi dal chiasso della vita cittadina, popolata dalle future bestie che presto o tardi sarebbero state ingoiate e digerite dai loculi. Nonostante Luka fosse il solo a camminare fra le tombe quella notte, non si sentiva solo. Gli occhi degli angeli, dei santi e delle molte Madonne del camposanto, immobili statue di metallo o di pietra, erano puntati sul giovane studente infreddolito e lo giudicavano. Lui, profano, non aveva mai creduto in un Dio, nonostante le sue ultime esperienze avessero fatto vacillare la sua fede nella razionalità, ma sentiva comunque la presenza del Padre Eterno e dei suoi servi più che mai. Aveva passato gli ultimi giorni a consultare i registri statali in cerca di quel nome, mentre suo padre lo implorava di tornarsene in America e dimenticare quel video o qualunque cosa fosse. Nora aveva voluto che Luka sapesse la verità, ma Ezra preferiva tenere suo figlio lontano da quel mondo blasfemo e, purtroppo per lui, più reale del suo stesso Dio. Tuttavia, si offrì di raccontare la verità al figlio, forse per eliminare il peso di quel segreto mantenuto per dieci anni, forse per terrorizzarlo* ancora di più e spingerlo ad abbandonare la sua ricerca. Ma Luka non aveva bisogno delle parole di un vecchio ubriacone, né delle sue scuse: aveva già capito di essere stato tenuto lontano dalla verità per il suo bene, dunque perdonò il padre prima che quello potesse implorarlo. Ma la verità era più importante del terrore, poiché gli avrebbe permesso di giungere alla radice e del terrore stesso per bruciarla ed esorcizzarla definitivamente. Tremante, Luka stringeva una mappa rozzamente disegnata nella mano sinistra, mentre la destra reggeva una torcia elettrica e ogni tanto sfiorava la tasca del cappotto per controllare che il cellulare fosse ancora lì.
    Finalmente, arrivò davanti alla lapide che cercava da quando lo schermo ne aveva mostrato l’immagine. Ulysses Überbringer, questo era il nome impresso nella pietra. Luka non poteva conoscere il volto dell’uomo che era stato sepolto lì sessant’anni prima, ma aveva comunque la sgradevole, ma al tempo stesso eccitante sensazione di avere ragione. Sì, Ulysses doveva essere lui, l’inizio di tutto.
    – Devo farlo sul serio? – chiese il ragazzo guardando il cielo nero, forse per rivolgersi a quell’essere che aveva occupato i suoi pensieri per giorni, anche se sospettava di dover guardare per terra, solo per avvicinare un poco il suo sguardo all’Inferno da cui quella mano era riuscita a scappare più volte. Il cielo era alto, infinito, un baratro che si apriva sopra la sua testa e non accennava a mostrare il suo fondo, mentre la terra era molto più concreta e, perché no, resistente. Se quell’essere si fosse davvero trovato nell’alto dei cieli, al posto di quel Dio misericordioso che da anni rinnegava, allora non sarebbe più stato al sicuro, poiché quelle dita avrebbero potuto afferrarlo in qualunque momento. Ma se la mano dentata scavava e strisciava sotto i suoi piedi, intrappolata tra rocce e cunicoli, allora Luka sarebbe stato salvo, almeno fisicamente. Slegò la pala dal suo zaino e iniziò a scavare, stando bene attento a nascondersi dagli sguardi di altri uomini. E mentre quelli gialli e grandi di un gufo infreddolito osservavano il giovane che sudava sotto il cappotto, la pala raggiunse il legno del sarcofago. Per fortuna, la sciarpa preservò naso e bocca dai gas della decomposizione, rimasti intrappolati insieme a quelle ossa scure per sessant’anni. La visione di quei denti marciti, di quel teschio percorso da crepe quasi invisibili e di quelle dita sottili erano rivoltanti, ma non erano nulla in confronto alle foto delle mummie che Luka aveva visto più e più volte sui libri dell’università. Stava davvero guardando le orbite di Ulysses Überbringer, di Basil Flee in persona?
    – Sei davvero tu? – chiese Luka, credendo che, in qualche modo, quel corpo morto potesse ancora ascoltarlo – Perché mi hai portato qui? –
    Stava per sputare in una di quelle orbite, ne sentiva il bisogno. Voleva ringraziarlo a modo suo per quel viaggio nella follia che aveva condotto pochi giorni prima, ma voleva anche punirlo per non avergli risposto. L’uomo è così, a volte compie azioni apparentemente prive di senso, nessuno può negare l’evidenza quando si ritrova da solo in casa, lontano dagli sguardi dei suoi simili, strani come lui o forse di più.
    Poi, il vento si fece ancora più forte e un ramo spezzato impattò contro la schiena di Luka, spingendolo pericolosamente verso la bocca semiaperta dello scheletro. Poi, un’ombra appena visibile fra gli alberi scuri lo fece trasalire. La veste rossa ondeggiava nel vento insieme ai capelli della donna, pallida e magra, quasi rachitica, che avanzava verso di lui lentamente. Ancora una volta, Luka si ritrovò incatenato nel suo stesso corpo, incapace di chiedere aiuto a quegli eventuali sconosciuti che pochi minuti prima avrebbe preferito non incontrare. E mentre quella gli sorrideva mestamente, lui riconobbe quel volto che gli era stato portato via dieci anni prima.

    Il fuoco ardeva sul pavimento della cripta, separata dal temporale da una spessa porta di vetro trasparente. Mentre fuori l’acqua erodeva le tombe, lì il fuoco illuminava le foto e i ritratti sulle pareti, satelliti fissi posti intorno a una croce di ottone consumata dall’umidità. Luka era seduto vicino al fuoco, tremante e libero dalla maledizione dell’immobilità. Nora, invece, era in piedi in un angolo buio sotto la cupola, nascosta dietro un bacile abbastanza largo da proteggerla dal bagliore. Lei apparteneva al mondo del nulla, del buio e della staticità, dunque non le era permesso immergersi nel calore. Luka le dava le spalle e cercava di ignorare la sua presenza, ma la sua mente era talmente annebbiata che non gli era possibile starsene con la bocca chiusa.
    – Perché? – domandò con un sussurro, come se avesse paura di sentire una risposta provenire dalla bocca di un morto. I defunti parlavano in continuazione a chi sceglieva di seguire il sogno dell’antico, sussurravano attraverso le rovine e ciò che restava delle loro vite, spesso anonime. Dunque, non potevano proferire più di qualche parola, poi venivano dimenticati per l’ennesima volta… Ma quello era diverso.
    – Cosa vuoi sapere di preciso, figlio mio? –
    – Tutto, mamma. Voglio sapere tutto. Voglio sapere perché sei stata trascinata all’Inferno e perché sei tornata, voglio sapere se nelle mie vene scorre il sangue (perché so che è così) di un folle, folle quanto lo sono io, o di un povero disgraziato che ha provato ad avvertire il mondo dell’esistenza di… Di qualcosa che va oltre la ragione umana. Tutto, insomma –
    Nora sospirò, poi sussurrò: – Afferra la mia mano, Luka –
    Il ragazzo si voltò verso il bacile e vide le dita pallide della madre che si tendevano verso di lui. Avrebbe dato la sua stessa anima per poter riabbracciare la madre, ma sentire quelle dita fredde contro la pelle avrebbe confermato l’esistenza di quel corpo morto in mezzo ai vivi, oppure era proprio Luka ad essere l’unico vivente in un luogo che non gli apparteneva. Ma mentre affondava sempre di più nelle sue paranoie, le sue dita si erano già strette intorno a quelle di Nora e stava già appoggiando la testa sulle sue gambe. Si poteva fidare di sua madre. Chiuse gli occhi e lasciò che Nora gli accarezzasse la fronte, poi si lasciò cullare dalla voce del fantasma.
    – Io non conosco la storia di mio nonno, Luka, so solo che il suo vero nome non era Ulysses Überbringer, ma Basil Flee. Ma questo lo avevi già capito. So anche che venne qui intorno al 1924 ed ebbe un figlio, un tal Luka Überbringer, poi nacqui io. Fin da quando ho memoria, mio nonno mi accompagnava nella cantina della sua vecchia casa e mi faceva leggere dei libri scritti con una lingua che nessuno ormai conosce, escludendo pochi eletti di cui io faccio… Facevo parte. Uno di quei manoscritti, il più antico ed importante di tutti, era stato custodito tra le radici di pietra delle sette torri che tu stesso hai visto. Sai, l’isola che mio nonno è sprofondata in mare da millenni, ma lui è comunque riuscito ad arrivarci grazie al potere conferitogli dal mio Signore. Ma lui era un apostata, dunque perse gran parte delle sue capacità. Col tempo imparai a conoscere e ad amare gli dèi che, così mi diceva il nonno, portavano speranza e gioia nelle nostre vite. Eppure, non sembrava convinto di ciò che diceva. Gli anni della mia giovinezza trascorsero così, tra lo studio di quella che tu chiameresti “magia” e una vita pressoché normale. Non dissi a nessuno del mio segreto, nemmeno a mia nonna o a mio padre. Pensavo che egli fosse al corrente delle pratiche che io e mio nonno svolgevamo nel seminterrato, lo stesso in cui mi hai vista morire, ma col tempo mi resi conto che mio padre non mi lanciava gli stessi sguardi di ansia, rassegnazione e a volte pietà che leggevo negli occhi di mio nonno. Basil mi diceva che mio padre non era degno di scoprire i segreti dietro questo mondo. Lui era debole, ma anche il vecchio Basil, sotto sotto, lo era. A volte mi adiravo, e parecchio, quando mi diceva queste cose, ma lui non voleva sentire ragioni. Sai come sono fatti i vecchi, no? Troppo radicati nelle loro idee stupide e obsolete, vogliono imporsi su figli e nipoti solo perché sono terrorizzati dal fatto che il mondo che hanno imparato ad amare, ma anche ad odiare, stia lentamente sparendo. Temono la loro morte, ma temono ancora di più la morte dei loro ideali, unica e vera eredità di una generazione. Spesso tutto ciò che rimane sono solo dei nomi e niente di più… Ricordatelo, figlio mio. Come stavo dicendo, mi continuava a dire che ero destinata a grandi cose, ma anche in quelle occasioni mentiva. Io lo sapevo. Lo costrinsi a dire la verità poco prima che morisse, sette giorni prima se non ricordo male. L’avevo minacciato di abbandonare la Retta Via (così si chiama il sentiero che un vero occultista, nonché l’intera umanità, dovrebbe seguire), anche se avevo il terrore di rinnegare gli dèi. Basil mi credette, forse accecato dal terrore del fallimento, e mi disse tutta la verità. Mi rivelò il suo nome, ma non la sua storia. Mi disse anche non sarei stata io a riportare l’uomo sulla Retta Via, ma qualcuno col mio stesso sangue, un Phosphoros nato nella prossima generazione, destinato ad essere dimenticato assieme al suo nome. Dovresti aver già capito di chi sto parlando –
    – Quindi sarò io il Salvatore? – chiese Luka con voce flebile, senza che le emozioni alterassero il suo tono distaccato. Sembrava che stesse parlando nel sonno, ma la realtà era ben diversa. Luka cercava di mantenere la mente fredda per ragionare e metabolizzare quelle informazioni e, sotto sotto, si godeva le carezze della madre.
    – Sì, tu sarai colui che porterà la luce –
    – Perché? Come?– aprì gli occhi e guardò la madre come un cucciolo di cane guarda il suo padrone con gli occhi lucidi – Cosa avrò in cambio? Voglio dire, l’umanità mi ha sempre fatto schifo, ma non ho mai voluto cambiare le cose… –
    – Ma ti senti comunque in colpa per essere un menefreghista, vero? –
    Luka aprì la bocca per parlare, ma non fiatò.
    – Vuoi che ti mostri la strada che dovrai percorrere? –
    Il ragazzo sospirò, poi si mise a sedere e si voltò verso Nora.
    – Sì –





    5 – CADDE(RO) DAL CIELO:

    Il calendario segnava il tredicesimo giorno del mese di dicembre del 2012. Il cielo sopra la Grecia era immobile, solcato solo da qualche pigra nuvola e completamente buio, dominato solo da qualche sporadica stella visibile anche dalle luminose aree urbane e dall’invisibile presenza della luna nuova. Nonostante fosse quasi mezzanotte, le isole davano ancora qualche segno di vita. E furono proprio i pochi greci rimasti svegli che videro il proiettile verde schiantarsi a chilometri di distanza, non molto lontano dall’isola di Zante. Anche dall’altra parte del mondo erano scattati mille allarmi, nonostante nessuno si fosse accorto dell’imminente schianto. Mormorii e orini si levarono da numerosi centri spaziali, tutti con i telescopi puntanti verso l’alto. La meteora era comparsa dal nulla e nessuno, uomo o macchina, era riuscito ad individuarla prima dell’impatto. E’ inutile dire che gli osservatori si misero in contatto all’istante, ed è altrettanto scontato immaginare i volti dei ricercatori mentre le loro paranoie si tramutavano in realtà e ogni dubbio, purtroppo, non era più tale. Bastò un’ora e una soltanto per fare in modo che la notizia si diffondesse a macchia d’olio per il mondo e con lei viaggiarono anche stupore e dubbi. Tutti pensavano che si trattasse di un errore, magari causato da una tempesta solare, ma nessuno osava aprire la bocca per confermare quella tesi. Quando la comunità scientifica, unico baluardo d’ordine in un mondo di urla, proteste e irrazionalità, era in preda al panico, allora anche gli altri uomini pregavano insieme agli scienziati. E mentre quegli esseri insignificanti come insetti rendevano ancora più caotico il loro formicaio, le acque del Mediterraneo ribollirono, trasformando il settentrione del continente europeo in una landa nebbiosa. Tutte le città sulla costa, porto sicuro per le navi mercantili, divennero la trappola più ostile per i timonieri, mentre la coltre di nebbia inghiottiva anche la luce dei fari. Il vapore caldo cacciò l’inverno e ogni casa divenne una fornace ardente. La terra tremò, i picchi sul sismografo si fecero sempre più stretti e allungati in pochi istanti. E mentre le isole greche perdevano la loro forma, mentre le case crollavano sulle teste dei loro ospiti, rocce giovani emersero dal mare. Prima vennero le torri, sette in tutto, dall’aspetto granuloso, come se fossero fatte di sabbia bagnata. Dalle loro guglie sgorgavano piccoli torrenti di fanghiglia molle, le finestre mostravano le ombre di scheletri appesi alle pareti, molti dei quali puntavano le braccia tese verso il mare o verso la terra agonizzante a Nord-Est. Poi venne la roccia bianca, quasi trasparente, terra in cui erano radicate le sette torri. Il bagliore verde correva attraverso quelle pietre, l’acqua le rendeva lucide. Vennero anche le case grigie e piatte, i templi e le colonne curve e spigolose e gli obelischi scheggiati che spuntavano da quella terra, immuni alla forza delle scosse. E poi venne la montagna, unita all’isola da una sottile passerella di pietra bianca e grigia. Il monte aveva forma d’uomo, un uomo ferito che stramazza al suolo e le sue gambe, ahimè, non possono più correre: dal costato sgorgava un fiume di melma nera, in cui galleggiavano i cadaveri in parte putrefatti, in parte ancora argentati, di pesci e calamari. La mano sinistra era radicata nel terreno, come le se le unghie nere del gigante lo stessero scavando; la mano destra, invece, aveva accolto la meteora col palmo aperto e le crepe lunghe e profonde che correvano sulle dita si illuminavano di quella stessa luce. Il volto del gigante era agonizzante, gli occhi e la bocca sprigionavano altro vapore. Così era fatto il gigante di pietra, steso sulla terra e proteso verso il cielo, incapace di alzarsi e di raggiungere il vuoto sopra la sua testa. Il mondo non era più materia comprensibile ed esplorabile, ma una sfinge che si stava svegliando.

    Luka era seduto sul suo divanetto di pelle con la testa che ricadeva all’indietro. Era stanco, stanco delle immagini che riempivano lo schermo del televisore, stanco della voce tremante della giornalista che si faceva sempre più acuta man mano che gli eventi si facevano sempre più incontrollabili e incomprensibili, stanco dei suoi sensi di colpa, stanco dell’odore di sangue marcescente che proveniva dal giardino. Spense il televisore e si infilò sotto le lenzuola, nauseato al solo pensiero delle sue mani sporche di rosso, gocciolanti e viscide. Aveva passato gli ultimi mesi dopo la laurea a studiare i libri che la madre aveva conservato per lui sotto il pavimento della cantina, in modo tale da nasconderli alla vista di Ezra. Non aveva il tempo di studiare ogni singola divinità adorata dagli occultisti, gli bastava conoscere la storia di quella più importante: il Tredicesimo Titano. – Poiché sua madre non l’ha mai partorito – gli spiegò Nora, prima dell’accaduto– è impossibile dargli un nome. Gli dèi acquisiscono i loro epiteti solo dopo aver compiuto delle gesta memorabili, nobili o nefaste che siano. Anche suo padre non ha un nome, poiché la sua figura si è confusa nel corso dei secoli. Viene chiamato Crono, Loki, Baal, Moloch, Seth, Anansi, Daēva, Lucifero, Satana… Ma noi sappiamo che Lui è diverso dalle entità maligne che ho appena nominato, tutti dèi inferiori e insignificanti a cui nessun occultista dovrebbe dare ascolto, poiché lui è un dio benevolo, addirittura più antico di quelli mesopotamici. Sappiamo che un giorno cadde dal cielo, sfavillante di luce verde, per poi sprofondare nelle viscere della terra, cioè dentro lo stesso corpo della dea Gea, o Gaia se preferisci. L’energia sprigionata dall’impatto ingravidò la dea e l’embrione del Mai Nato fu conservato nella stessa caverna generata dal padre, venuto dal cielo. I testi antichi parlano di un pozzo scuro pieno d’acqua, il triplo di quanta ce n’è nei grandi oceani che conosciamo oggi, abbastanza da sommergere il mondo intero. Ma quell’acqua è santa… Non mi riferisco a quella che si trova nelle chiese, quella che spesso si vede nei peggiori film sugli esorcismi, ma al liquido amniotico della stessa Gaia. Quando il Tredicesimo vedrà la luce del dio Sole, allora quel liquido arriverà anche alle nostre bocche e potremmo dissetarci una volta per tutte. Ma parlo come se fossi ancora viva, io ho già raggiunto il Vero Paradiso… Come ogni essere vivente, il Titano ha bisogno di nutrimento ed è compito nostro fornirglielo. La tradizione ebraica ci insegna che l’anima non è racchiusa nel cuore o nella ghiandola pineale, come professano alcuni maghetti da quattro soldi, ma nel sangue. Il sangue è vita, è il luogo in cui risiede la vera essenza dell’uomo. L’anima umana è potente, più di quella degli altri animali, poiché all’uomo è stato affidato il controllo del mondo. Ebbene, il figlio del nostro Signore ha bisogno di centoquarantaquattromila anime. A te spetta sacrificare l’ultimo agnello, la chiave che permetterà ad ogni vivente di raggiungere il Paradiso e di conoscere il Suo volto –
    – Ma se tu ti sei sacrificata per Lui, allora perché sei qui con me? – domandò allora suo figlio.
    Nora sorrise, poi allargò le braccia verso il cielo e sussurrò: – Un dono del mio Signore –
    Erano bastati sei per apprendere tutte le pratiche necessarie per liberare il Tredicesimo Titano dal ventre di sua madre. Lì, tra le montagne della sua bella Germania, nessuno avrebbe potuto disturbarlo, nessuno avrebbe potuto udire i suoi canti e sentire l’odore del sangue che, presto o tardi, avrebbe versato. Finalmente, arrivò il suo momento, quello che aveva atteso e temuto per settimane. Il cerchio di pietre nere era pronto, le fiaccole ardevano agli angoli del recinto sacro. Luka usci dalla baita e indossò la sua maschera, bianca come la neve sotto i suoi piedi. Il sacerdote trascinava un sacco di tela nero avvolto da molte corde strette da altrettanti nodi. Fece cadere la vittima sacrificale in mezzo al cerchio e osservò il movimento del torace che si alzava e si abbassava. Dormiva ancora, dunque non si sarebbe neanche resa conto della sua morte. L’agnello lasciava quel mondo con gli occhi chiusi, in pace, una pace che avrebbe ritrovato una volta giunta dall’altra parte. Le labbra gonfie e nerastre, unica parte del volto rimasta scoperta oltre al naso, erano state cucite con del filo bianco, lo stesso che, all’altezza della fronte, disegnava una stella a quattro punte sul sacco nero. Luka iniziò a cantare in quella lingua di cui aveva imparato ogni segreto e sollevò il coltello. Guardò la lapide spezzata della madre, appoggiata accanto alla grondaia. I contorni di Nora stavano lentamente comparendo nel vento freddo, ma non era sola: altri trentanove spiriti vestiti di rosso si stavano avvicinando al cerchio per danzare insieme a quel sacerdote che ancora non aveva celebrato la sua prima, nonché ultima, messa. Immolò la sua vittima con un colpo vibrato nel torace, distogliendo lo sguardo. Il gesto fu accompagnato da un grido disumano, emesso dalle gole fredde e morte dei quaranta spiriti, i cui volti erano scoperti, ma irriconoscibili nella tempesta. Benché non indossassero le loro maschere, il fuoco che ardeva sulle torce ne delineava comunque i contorni nell’aria. E mentre il sacerdote invocava il nome del dio caduto dal cielo e della sua compagna terrena, il sangue veniva inghiottito dalla neve e dalle rocce sottostanti. Gaia si era nutrita e presto la parte migliore di quel pasto avrebbe dato inizio al travaglio. Le fiaccole si spensero nel vento, le quaranta ombre si ritirarono nell’abisso da cui erano fuggite strisciando.

    Luka saltò giù dal letto e spalancò la porta con un calciò. Preda dell’ira e del senso di colpa, ruppe la lapide della madre con un vaso di metallo e ne scagliò i pezzi giù dalla montagna. Era colpa di quella puttana, di quella sporca manipolatrice che non aveva fatto altro che guidarlo verso l’irreparabile! Era la cosa giusta da fare, quella? No, non poteva essere giusta. Aveva davvero ucciso un uomo, lui che credeva di essere l’uomo che più si avvicinava alla perfezione? Sì, lo aveva fatto. Si era sporcato le mani col sangue di un ragazzino innocente. Aveva spezzato una vita. – Era un sacrificio necessario! – gridò nel vento, come se volesse giustificarsi – Come avrei potuto porre fine a questo mondo, altrimenti? Chi può giudicarmi, forse altri peccatori? Forse un dio che più di una volta ha preso a schiaffi in faccia il suo popolo eletto? Forse qualche diavolo, spregevole come me? Rispondetemi! – guardò il cielo scuro e proprio in quel momento le nubi si aprirono, mostrando le stelle sopra la sua testa – Che io sia fulminato ora se ciò che ho fatto è sbagliato. Anche i sacerdoti dei tempi che furono sacrificavano bestie e lui – indicò un cumulo di terra riempito da poco – non era che una delle tante! CAPITO? – Il suo ultimo grido si spense nel rumore della tempesta, lasciando che la voce monotona del vento riempisse gli spazi fra le montagne.





    6 – IL VASO DI PANDORA E’ GIA’ STATO APERTO:

    Non fu difficile imbarcarsi su quella nave. Luka sapeva, ormai da quando era ragazzino, che mantenere dei buoni rapporti con “i grandi” dava sempre i suoi frutti. Da piccolo riusciva sempre ad ottenere qualche piccolo favore dal pasticcere del paese in cambio di qualche lavoretto, di un gesto di cortesia, o di una buona parola. Su quella nave, invece, ci era salito con l’aiuto dei suoi professori universitari. Certo, non poteva essere lui il capo della spedizione poiché la sua laurea era ancora fresca, ma poteva comunque lavorare vicino ai ricercatori più importanti, tra il palcoscenico dei volontari, armati di pala e picconi, e le quinte, territorio di chi ne sapeva quanto lui, forse un po’ di più, ma aveva più esperienza sul campo.
    La nave procedeva veloce sul pelo dell’acqua, lasciando che alcune gocce scappate dal mare finissero sul ponte e colpissero il cappotto di Luka. Lui era seduto sul ponte, riparato dal parapetto della nave, mentre tutti gli altri erano sottocoperta e si godevano il calore. Lui era solo, unico uomo in mezzo al mare inanimato, casa di molti viventi, e dei gabbiani, anch’essi infreddoliti. Il cielo sopra la sua testa era dello stesso colore di quello che aveva visto nel suo sogno, ma nessun proiettile verde e luminoso l’avrebbe sbalzato fuori dall’imbarcazione, poiché era già successo ad altri. Una quarantina di pescatori, aveva detto la voce dietro lo schermo, tutti dispersi o morti. Alcuni erano stati ritrovati lungo la costa di Zante, tredici in totale, stesi uno accanto all’altro, non lontani dalla carcassa gocciolante di un peschereccio capovolto. I loro volti erano maschere di terrore rugose e abbronzate, ricoperte dal sale. Di altri si erano solo ritrovati i cappotti, le scarpe, qualche braccio con l’osso che si affacciava fuori dall’involucro di carne marrone e secca. Ma Luka non pensava più alle vite che aveva spezzato con le sue mani, senza neanche sforzarsi troppo, senza vedere il velo negli occhi dei corpi sballottati dalle onde, ma al gigante di pietra che presto sarebbe emerso dalla nebbia. Ed eccolo, nero e imponente contro il cielo grigio, preceduto dagli edifici di pietra grezza e dalle sette torri. Le zanne del serpente nero e gli occhi vitrei dell’agnello dal pelo bianco invasero di nuovo la mente di Luka, meravigliato da ciò che un uomo solo poteva fare: era lui l’architetto che aveva progettato quell’isola, lui e nessun altro.

    Si era ormai fatto mezzogiorno, ma la temperatura non accennava ad aumentare. Il disco luminoso del sole era appena visibile oltre la coltre di nubi, mentre l’odore di fango e di pesce marcio invadeva ogni anfratto dell’isola. Le case erano disposte su file ordinate, tutte identiche e sullo stesso livello, un poco più in alto rispetto al livello del mare. Eppure, quella disposizione ordinata cozzava con la struttura degli edifici, rocce cave che assomigliavano solo vagamente a delle case. Le abitazioni fantasma furono le prime ad essere analizzate, poiché l’isola era sprovvista di un porto e i templi erano stati completamente svuotati da ciò che contenevano in origine, forse saccheggiati dal mare, forse dalla mano di uno o più uomini. Luka entrò in una di quelle case basse e tozze, da solo, curioso di scoprire i segreti della terra che lui stesso aveva fatto emergere. Le pareti erano spoglie, eccezion fatta per qualche chiazza di muffa e numerose alghe secche incollate sulla roccia all’altezza delle ginocchia. L’odore del fango limaccioso si levava dal pavimento, spoglio e monotono nei suoi colori come le pareti e la bassa cupola che chiudeva la struttura. Nessuna traccia di mobili, di utensili, nessuna traccia di vita umana, eccezion fatta per un portellone di metallo al centro della stanza buia e angusta, priva di finestre. I cardini rugginosi si erano staccati dalla pietra e Luka riusciva a vedere il fondo del piccolo pozzo sotto i suoi piedi, profondo tre metri circa. Si calò nel cunicolo, facendo attenzione a non scivolare e perdere la presa sui pioli arrugginiti che sporgevano dalla parete. La stanza sotterranea era più grande della cupola e molto, molto più buia. La luce che scaturiva dalla torcia di Luka si soffermò su una cassa di pietra nera, dello stesso identico colore del gigante scuro e spigoloso che dominava l’isola col suo sguardo sofferente. A differenza della roccia grigia con cui erano stati costruiti gli edifici, la pietra nera non recava i segni dell’erosione. Al centro del coperchio che sigillava la cassa c’era un’iscrizione in una lingua che, nonostante i mesi di studio continuo, Luka era sicuro di non aver mai visto. I caratteri davanti ai suoi occhi non avevano nulla a che vedere né con l’alfabeto comune alla maggior parte delle lingue europee, né col lineare B, né col greco antico.
    – Che sia una lingua orientale? – sussurrò, rivolto al buio che lo circondava. Per un attimo, pensò che Nora si fosse dimenticata di insegnargli il segreto di quei caratteri, ma non aveva senso. Se lui, colui che avrebbe aiutato Gaia a partorire il suo ultimo figlio, doveva recarsi sul quell’isola grigia e priva di respiro, allora perché non gli era stata insegnata quella lingua, parte stessa del territorio di cui calpestava le ceneri? Lasciò stare le incisioni, simili al braille, ed esaminò altre due scritte più in basso, una in greco antico e una in lineare B. Qui giace il corpo morto di uno dei devoti del Tredicesimo titano, ramingo nella terra degli in attesa del dolce oblio della morte definitiva. Aspetta paziente la venuta del Vero Padre e del suo unico Figlio . Luka si tolse un guanto e sfiorò la scritta con mano tremante. Ancora una volta nella sua vita, provava la strana sensazione di vedere nel mondo reale ciò che era scritto sui libri, ma questa volta la materia era ben più grande della misera storia dell’uomo. Si voltò per tornare in superficie e trovò numerosi vasi di pietra nera, alcuni scoperchiati, altri riversi sul pavimento limaccioso. Tibie, femori, costole, colonne vertebrali spezzate e teschi, tutti cristallizzati nel fango scuro, erano stipati nei vasi e si affacciavano verso il soffitto. Luka si rimise il guanto e allungò la mano per portare via con sé un campione da analizzare, dopotutto erano dei resti umani (forse), ma si bloccò prima di stringere fra le dita uno dei femori, arrivato fino ai suoi giorni chissà come. Non voleva violare quella tomba, ormai aveva paura dei morti, degli dèi e di tutto ciò che non riusciva a comprendere con la sua mente semplice.
    Lo stesso schema si era ripetuto per le altre case, o meglio, per le altre tombe. Luka non lo aveva notato a causa del fango, ma sulla cupola della tomba che aveva visitato, e conseguentemente su tutte le altre cupole, erano presenti delle illustrazioni. Figure umanoidi, bianche e stilizzate, formavano una catena compatta intorno all’impronta di una mano, nera come il carbone e posta al centro della cupola. Laddove il palmo e il polso si incontravano, c’era una linea curva, simile alla coda di un rettile.
    Poche ore dopo, appena prima del tramonto, un sarcofago fu portato in superficie, non senza una dose abbondante di olio di gomito e gemiti di dolore e fatica. Era più pesante di quanto si aspettassero i ricercatori, ma far intervenire le macchine nel sepolcro angusto sarebbe stato controproducente. Ci volle molto tempo prima che il corpo rivedesse la luce, poiché i membri del team avevano paura di danneggiare il coperchio o, ancora peggio, i resti. Un ricercatore avvicinò una lampada al viso marrone ed essiccato della mummia, rivelando la presenza di ben quattro cavità oculari e di denti affilati e sottili come spilli. – Curiosa, questa mummia… – disse il ricercatore, ma tutti i suoi colleghi sotto il tendone, nessuno escluso, sembrava aver apprezzato la battuta. – Voglio dire – riprese, cosciente di aver parlato al momento sbagliato – anche le mummie di Chinchorro sono conciate in modi strani no? Sono dei semplici corpi umani, anche se sono riempiti di piume e… – decise di stare zitto. L’ipotesi dell’imbalsamazione “fantasiosa” era la più razionale, anche su quell’isola sorta dal nulla, ma in quel caso ogni altro corpo rinvenuto avrebbe mostrato i segni dello stesso trattamento. Presto il porto improvvisato sul lato Sud dell’isola fu riempito da altri letti di pietra e dai loro sgradevoli ospiti. C’era una mummia con tre paia di corna che spuntavano dal cranio scheggiato, un’altra aveva la testa di un cane con la bocca spalancata e maleodorante, una terza aveva tre volti e altrettante bocche, tutte cucite con un sottile filo nero che aveva sigillato per sempre anche gli occhi, una quarta con la bocca all’altezza dello stomaco e molte altre, tutte diverse una dall’altra. Erano davvero uomini, quelli? Mentre questo dubbio serpeggiava per tutta la squadra e saltava da una bocca all’altra, un’altra nave viaggiava verso l’isola dove ogni teoria, anche la più malsana e improbabile, sembrava prendere forma nelle ossa, nella carne putrefatta e nella terra, simile ai cocci di vetro rotto che vengono levigati dall’acqua del mare. L’equipaggio, incaricato di analizzare i cadaveri, non arrivò mai a destinazione.
    – L’uomo non è ancora pronto per conoscere il sovrannaturale – aveva detto Luka quella sera. Si era rannicchiato contro una cassa e mangiava un panino sotto l’ombra nera del cielo notturno, incurante del freddo. Nonostante l’isola fosse circondata dal mare, il vento non osava disturbare il sonno profondo della necropoli.
    – Non crederai davvero che quelli siano i corpi di qualche mostro? – il volontario che si era seduto accanto a lui ridacchiò, ma il suo sguardo tradiva un misto di nervosismo e incertezza.
    – E’ una possibilità. Quest’isola è emersa dal mare, non vedo perché non dovremmo preoccuparci – addentò il panino. L’ultima parola che aveva pronunciato aveva contribuito ad aumentare l’ansia del volontario e aveva fatto abbassare lo sguardo del capo della spedizione. Lui era il lume della scienza, l’ago della bussola che avrebbe permesso alla razza umana di svelare anche l’ennesimo mistero della natura, ma quello era un peso troppo grande per lui. I membri della spedizione, intanto, si stavano tutti ritirando nelle loro cabine, sulle grandi navi che li avevano portati ai cancelli dell’Inferno. Luka si stese sulla sua branda, più agitato di qualunque suo compagno. Si rigirava tra le lenzuola, in preda a un’estasi che solo un compito importante come il suo poteva dare. Si sentiva potente, la superbia e l’orgoglio davano vigore al suo corpo e lo costringevano a restare sveglio. Ma anche l’istinto di sopravvivenza scacciava il sonno: presto sarebbe morto, così come ogni altro vivente che osava respirare. Il mondo soffriva, lo aveva sempre fatto e cercava la morte. La cercava nei suicidi, nelle stragi, negli abusi e nei soprusi, negli stermini, nelle malelingue, nei pregiudizi e nelle risate. Sì, le stramaledette risate erano il problema per lui. Si ricordava ancora quando passava davanti ai bar per vedere grassi e unti uomini ebbri che cadevano sull’asfalto e si rigiravano nel loro stesso vomito, poiché erano esseri semplici. Dopotutto, anche loro si divertivano a guardare i cani che tentavano di mordersi la coda… Erano creature meno intelligenti di loro, dunque erano autorizzati a riderne. Luka avrebbe tanto voluto sputare nel suo stesso occhio per essersi comportato come la maggior parte della massa dannata, destinata (per fortuna) all’estinzione. Avrebbe ucciso miliardi di persone e ne era consapevole, ma nessuno avrebbe sofferto. Luka vedeva l’omicidio non solo come l’annullamento di una mente unica e irripetibile, ma anche come un martello che poteva ferire gravemente gli amici, i parenti e gli amanti della vittima. Ma nessuno avrebbe sofferto la morte di nessuno, poiché tutti sarebbero stati cancellati. Spesso gli capitava di passare davanti al municipio del suo paese e di soffermarsi ad osservare la statua dell’eroe Orlando che se ne stava lì, immobile ad osservare i passanti. Tutta l’Europa ricordava le gesta di quell’eroe della cristianità, poiché anch’egli si era sporcato le mani di sangue ed era perito durante la sua missione. Luka stava per ripetere le sue stesse azioni, ma nessuno l’avrebbe ricordato. Il suo nome sarebbe sparito per sempre insieme a quello di Socrate, di Cesare, di Orlando e perfino di Hitler, ma quel pensiero non lo scalfiva minimamente, poiché non voleva essere ricordato da un mondo che odiava profondamente. E mentre fissava il soffitto, in preda ai suoi pensieri, alcuni ricercatori vomitavano, pallidi e sudati, la poverissima cena che avevano mandato giù a fatica. Quell’isola era malsana per loro, così come lo era per il capo della spedizione. I suoi singhiozzi erano udibili solo a Luka, separato da lui da un muro sottile. Sentì la sicura di una pistola che scattava, poi i singhiozzi divennero solo dei versi, pronunciati con le labbra serrate. – Si è ficcato la pistola in bocca… – sussurrò Luka, già preda del sonno. Si aspettava di udire uno sparo, di vedere decine di uomini riunirsi davanti alla porta della cabina accanto e disperarsi alla vista del loro unico faro, diventato solo un’inutile bambola senza testa, ma alle sue orecchie giunse solo un sussurro: “Signore, ti prego, dammi il coraggio di farlo ora!”, poi di nuovo i singhiozzi soffocati dalla canna della pistola. Il figlio di Nora si rese conto solo in quel momento di essere l’essere più potente del mondo, capace di annientare intere civiltà, ma di essere anche un inetto che non poteva fare nulla per migliorare il mondo. Il vaso di Pandora era già stato aperto e lui non aveva intenzione di richiuderlo perché il mondo era già marcito, o forse era lui ad essere privo di forza di volontà e di empatia. Quello che stava per compiere era un gesto egoistico, niente di più, niente di meno.





    7 – ACCIDIA:

    Arrivò l’alba dell’ultimo giorno, rosa e splendente come la prima, il cui ricordo era andato perso quando il cuore di Adamo e il respiro di Eva avevano smesso di fare rumore. Luka fu il primo a svegliarsi, seguito dal Professore. Pensare a un finale alternativo a quella vita, immaginare di vedere le cervella che scivolavano lungo la parete, faceva credere al giovane tedesco di vedere un morto che camminava. Arrivarono gli altri, le menti ancora tormentate dal ricordo vivido dei loro incubi. Due di loro mancavano all’appello: uno era il volontario che Luka era riuscito a terrorizzare la sera prima, l’altro era quello sbruffone, così lo chiamavano tutti, che aveva tentato di analizzare il corpo del mostro con i denti a spillo sotto il lume della ragione, lume che in quella terra aveva quasi smesso di splendere. Finita la colazione, il team abbandonò le navi, barcollante e ubriacato dal sonno perduto. Fu allora che furono ritrovati i resti del macabro pasto. Una scia di sangue, ancora parzialmente fresco, correva sui teli bianchi che erano stati stesi per terra sotto il grande tendone. La scia continuava per diversi metri, poi spariva dietro una pila di casse legate da numerose corde. Il Professore, ormai tutti lo chiamavano così, si fece avanti per primo. Mentre il vecchio avanzava insieme a pochi altri uomini, un mormorio si levò sopra le teste del gruppo. Uno di loro cadde per terra in lacrime e iniziò a scalciare e a urlare così forte da raschiarsi la gola con la sua stessa voce stridula. – Non voglio rimanere qui! No! RIPORTATEMI A CASA! – strillava come un bambino, ma nessuno fece caso a quanto fosse patetico, nessuno a parte Luka, che scorse un particolare che gli fece scendere un brivido lungo la spina dorsale. Forse aveva visto male, ma era convinto di aver scorto delle scaglie di pesce sui polsi del malcapitato, proprio quando uno degli altri l’aveva tirato su per una manica e cercava di tranquillizzarlo. – E’ solo sporcizia rimasta dagli scavi di ieri – pensò Luka, ma poi notò delle piccole protuberanze scure, simili a lividi gonfi, sulla fronte del volontario alla sua destra. Alcuni uomini avevano le unghie gialle e lunghe, altri mostravano la loro lingua violacea quando sussurravano qualcosa all’orecchio del vicino, uno dei più anziani aveva le pupille sottili e allungate delle capre… Quelli più svegli notarono subito quei tratti innaturali, mentre gli altri erano convinti di avere le visioni a causa della notte insonne o della follia che li stava mangiando vivi. Un altro grido, questa volta proveniente dalla gola del Professore, interruppe il mormorio. Luka fece in tempo a voltarsi per vedere il proiettile schizzare nell’aria, seguito da una piccola pioggia di sangue sul volto rugoso e barbuto dell’uomo. Urla, preghiere e singhiozzi facevano da cornice alla visione che si era parata davanti agli occhi di Luka, mentalmente lontano dalla sua missione. La testa del volontario, lo stesso ragazzo che era stato scosso dalle sue parole amare, era circondata da un’aureola di sangue che si allargava sempre di più. Il proiettile gli si era piantato in mezzo agli occhi, lì dove un corno d’osso cavo stava germogliando. Le dita del ragazzo erano rosse, così come lo erano i suoi artigli e gli spilli che gli spuntavano dalle gengive gonfie e ricoperte di bolle giallastre, alcune delle quali erano già scoppiate. Accanto a lui c’era un corpo, privo dello stomaco e di una parte del volto. Luka guardò a lungo lo spazio fra le costole, cornice di un vuoto che grondava sangue scuro e bile, riconoscendo in quel ventre freddo l’immagine delle spelonche infernali che sua madre gli aveva mostrato sulle pagine dei libri proibiti. L’odore del sangue ammorbava l’aria e solleticava l’olfatto di non pochi membri della squadra. Luka notò che alcuni avevano la bava alla bocca e ne ebbe timore, perché conosceva la sensazione che si prova quando la carne si lacera da quando aveva sognato lì, nel suo letto.
    Nonostante volesse vedere coi suoi occhi ciò che l’isola aveva da offrire, il ragazzo si rintanò nel bagno della sua cabina, in piedi davanti allo specchio. Col passare del tempo, i suoi compagni stavano diventando sempre più mostruosi e attenti a non mostrare le loro deformità al resto del gruppo. Esaminò ogni centimetro della sua pelle, infreddolito più che mai (si era denudato in pieno dicembre, dopotutto), ma non trovò nulla di anormale. Notò quanto fosse morbida la sua carne. Era impossibile non pensarci, visti i nuovi e selvaggi appetiti che stavano brontolare lo stomaco di molti membri della spedizione. No, lui non poteva permettersi di essere attaccato da quei mostri, altrimenti chi avrebbe svegliato il Tredicesimo Titano? Eppure, decise di allontanarsi dalla cabina, poiché aveva il timore di rimanere chiuso lì, prigioniero dei mostri che stavano camminando e ringhiando intorno a lui. Li vide al lavoro, morsi dal freddo, quasi sembravano degli esseri umani comunissimi visti da lontano. Mentre strisciava silenzioso e solitario tra le rocce più grandi, ripensò ai sarcofagi neri e ai loro ospiti, ma soprattutto alle ossa contenute nei vasi. Possibile che quei mostri un tempo non fossero altro che umani trasformati in esseri deformi? Qui giace il corpo morto di uno dei devoti del Tredicesimo Titano, diceva l’iscrizione sui coperchi. Se i mostri erano i devoti del Dio Mai Nato, allora dovevano essere dotati di intelligenza. Ancora non erano state trovate tracce di cibo sull’isola, dunque l’ipotesi più plausibile era che le ossa rinvenute nei vasi non fossero altro che gli avanzi di un pasto. Sentì dei passi alla sua destra e si nascose appena in tempo: un volontario, armato di pala stava camminando davanti a lui. Nonostante avesse il cappuccio del cappotto calato sul volto, Luka riuscì comunque ad intravedere le sue corna, più lunghe di qualche centimetro rispetto a poche ore prima. – Il Minotauro non era il solo a mangiare la carne umana, allora… – sussurrò, come se stesse spiegando a sé stesso la sua tesi. Ma se quell’isola malediceva chiunque osasse calpestarne la terra, allora perché lui era ancora umano? Oltrepassò le sette torri, convinto di non poter svelare quel mistero prima di aver dato inizio all’Eutanasia. Sperò che gli dèi gli dessero quella ed altre risposte come ricompensa per la sua cieca obbedienza.
    Dopo aver oltrepassato lo stretto ponte a Nord, timoroso di essere avvistato da lontano a causa dell’assenza di nascondigli sullo stretto lembo di terra, finalmente giunse dinnanzi al gigante di pietra nera. La meteora verde emetteva solo dei deboli bagliori dalle sue crepe, l’acqua putrida sgorgava rumorosa dal costato ferito del titano. Lì non c’era ancora nessuno, tranne qualche pesce rimasto vivo per miracolo dopo essere stato sputato fuori insieme alle acque limacciose. Proprio accanto a quella cascata, Luka trovò il portale per il tempio sotterraneo, culla del Tredicesimo e dei suoi fratelli. Iniziò a strisciare nel cunicolo e dopo diversi minuti giunse nel sancta sanctorum del mondo antico. Era in una stanza circolare, illuminata da quattro cristalli che emanavano una luce verde fosforescente. Al centro della stanza, dodici sarcofagi di roccia bianca, impreziosita da alcuni frammenti delle pietre luminose, formavano un cerchio perfetto intorno a una larga botola di metallo. Luka passò tra i sarcofagi, leggendo i nomi dei loro ospiti incisi sui coperchi. I corpi dei figli prediletti di Gaia, i Dodici Titani, erano tutti lì, mentre le loro anime marcivano nel Tartaro insieme a quelle dei Giganti, di Medusa e di Tantalo. Due lapidi, poste una accanto all’altra, erano diverse dalle altre: la prima era segnata da solchi profondi, forse scavati da una spada o da una falce. Una corona stilizzata accompagnava il nome di Crono, Signore dei suoi stessi fratelli. Il secondo sarcofago, invece, era stato imbrattato da quello che sembrava un nerissimo inchiostro capace di impregnare anche la roccia. La scritta TRADITRICE si sovrapponeva al nome di Rea, moglie del dio del tempo. Finalmente, il suo sguardo si spostò sul portellone circolare, anch’esso adorno di scritte e simboli: Il Messia si priverà della sua anima per far partorire la madre del mondo. Sarà un eroe il cui Ka non sarà venerato, poiché lui è e sarà Phosphoros. – Il Ka… – Luka soppesò la parola egizia nella bocca. Non avrebbe avuto un Ka, un “doppio”, dunque le sue spoglie mortali non sarebbero state venerate come quelle di un eroe dei tempi passati. Nora l’aveva avvertito Ma se era senza il suo Ka…
    – Significa che sarò solo Lu-Schäfer! –
    Lucifer, Phosphoros… Tutto tornava. E mentre l’ultima eco della sua risata si spegneva nella grotta, scavata insieme ai fianchi del monte dai mostri che per primi avevano reso culto a un dio che ancora non esisteva, Lu-Schäfer estraeva il medaglione della madre dalla tasca, ancora lucido come il giorno della morte di Nora. Infilò la sporgenza metallica a forma di triangolo nell’incisione al centro del portellone, poi la terra tremò.
    –E’ fatta! – gridò, ignorando il fatto che nessuno poteva sentire le sue grida e provare la sua stessa gioia. Cadde all’indietro e per poco un pezzo del soffitto non gli schiacciò la testa. Il portellone iniziò a cedere, i sarcofagi dei Dodici Titani si riempirono di crepe, i quattro cristalli crollarono su sé stessi, lasciando Luka al buio. Poi, nel buio della cripta dimenticata, un bagliore verde si sprigionò dalle crepe sul pavimento e il portellone fu sbalzato verso l’alto. Un mulinello d’acqua verde e luminosa di proporzioni mai viste prima riempì la grotta, poi la Grecia intera e infine il resto del mondo conosciuto. Ogni casa, ogni palazzo e ogni opera d’arte venivano cancellati per sempre insieme a quell’animale superbo, litigioso e bellicoso che veniva chiamato “uomo”. Prigioniero della sua stessa opera, ridotto a un’ombra nera fra le tante nel mulinello luminoso che portava con sé i corpi straziati di ogni vivente, il Messia vide una creatura serpentiforme, la cui bocca spalancata si articolava in cinque strisce di carne e di denti affilatissimi, nel centro esatto del mulinello. La belva ruggiva sotto l’acqua e tutti nel mondo sentirono il suo lamento. Il Tredicesimo Titano era venuto al mondo, un mondo che probabilmente non l’avrebbe neanche conosciuto prima di spegnersi definitivamente.

    Il sole stava sparendo dietro il mare per l’ultima volta. L’acqua era tinta d’oro e d’arancione come quel pomeriggio lontano, quando lo sguardo di Luka si era posato sulle pagine del diario di Basil Flee ed era rimasto intrappolato nella sua ragnatela, vecchia di novant’anni. Basil non aveva avuto il coraggio di porre fine a tutto e di cambiare le cose, ma lui, Lu-Schäfer, lo aveva fatto. Il vecchio mago aveva pensato solo al suo bene, aveva fatto ciò che era necessario per riposare in pace dopo la morte, lasciando che il resto del mondo marcisse all’Inferno o perdesse la propria libertà in Paradiso.
    – No, lui era solo codardo – sussurrò Luka, lo sguardo rivolto verso il cielo – Io sono stato troppo pigro per cambiare il mondo. Forse non me ne fregava niente fin dal principio… Almeno ora portò riposare in pace, no? Non dovrò più preoccuparmi di nessuno –
    La creatura gli sorrise. Luka poteva vedere solo i suoi occhi bianchi e luminosi, privi di iridi e pupille, e la sua bocca altrettanto sfavillante. Il suo corpo era nero, grondante di una strana sostanza nera e densa. Agitò appena le ali, scuotendo i cavi che si diramavano dalla sua schiena ed arrivavano fino al cielo. Aprì la bocca, lasciando che il rumore statico arrivasse alle orecchie del suo servo più fedele con la sua voce: – Sai, mi ricordi molto quegli umani che guardano, o meglio, guardavano, fuori dalla finestra quando non avevano nulla da fare. Annoiati, distaccati dal mondo intero, passavano il tempo a guardare le vite degli altri che proseguivano, mentre loro se ne stavano rinchiusi tra quattro mura. Tu non eri forse uno di quelli? –
    Luka fece schioccare la lingua e si mise comodo sulla roccia su cui era sdraiato, poi rispose: – A volte. Quando una persona non ha nulla da fare, diventa un giudice crudele, sai? Mi sono reso conto tempo fa che il mondo era in declino, forse non aveva mai conosciuto un’Età dell’Oro, ora che ci penso… Ma non me ne importava nulla, dato che la mia vita andava come doveva andare–
    – E allora perché hai fatto tutto questo? –
    Luka chiuse gli occhi e permise alle lacrime che si teneva dentro da tempo di vedere le ultime luci della Terra. – Sai, mi sentivo in colpa per essere indifferente. Ponendo fine a tutto, il senso di colpa sarebbe sparito, dato che nessuno potrà essere salvato. Sono già un mostro, l’isola non aveva bisogno di trasformarmi in una creatura orribile. Tutti gli altri uomini, che altro non erano che maiali, erano angioletti in confronto a me. Mi capisci, Tabris? –
    L’angelo nero guardò le prime stelle che comparivano nel cielo. – Pensi che loro lo facciano? –
    Il firmamento era percorso da lunghe crepe sottili che si intrecciavano una con l’altra, come a formare una grande ragnatela nera. Migliaia di occhi facevano capolino da quelle crepe e guardavano ciò che rimaneva del misero formicaio che avevano accudito per millenni. Tutte le formiche erano morte, tranne una.
    – Angeli? –
    – Sì –
    – Perché non intervengono? –
    Tabris fece un ampio gesto con la mano, rivolto verso le sette torri. Al passaggio dei suoi artigli, l’aria si colorò di verde per un istante, poi la ascia sparì. Il Tredicesimo Titano nuotava come un delfino, saltando fuori dall’acqua per poi rientrarci immediatamente. Poco prima di inabissarsi, la sua coda colpì, una delle torri, facendola crollare su sé stessa. Mentre la sabbia abbandonava l’impalcatura, Luka vide un obelisco di metallo grigio, illuminato da luci di diversi colori, disposte in file ordinate. Il giovane tedesco riconobbe l’alfabeto sconosciuto che aveva visto sui sarcofagi neri. Il Tredicesimo Titano si allontanò, chiudendo i sei occhi verdi prima di scomparire nell’acqua scura.
    – Hanno paura di mio figlio – rispose Tabris – Anche se presto morirà, come tutte le divinità che le menti degli esseri umani hanno partorito nel corso dei secoli. Una volta che gli dèi saranno scomparsi, non ci sarà più un Inferno, né un Paradiso –
    Gli occhi del Messia si erano chiusi per l’ultima volta. Iniziava ad avere freddo. – Anche tu morirai? –
    – Io non sono un dio, ma un osservatore. Ho visto molti mondi cadere, ma questo è andato ben oltre le aspettative di chi mi comanda –
    Luka emise un verso per far cenno di aver capito. – Adesso posso riposarmi insieme a tutti gli altri? –
    Tabris sorrise benevolo. – Certamente –
    Mise una mano sul collo di Luka, pronto a spezzare le vertebre.
    – Come mi sentirò quando smetterò di esistere? –
    – Sarà come dormire, pur essendone consapevoli. Potrai goderti il sonno, ecco –
    – Ok… Fallo –
    E mentre l’ultimo sussurro si spegneva, mentre l’ultimo corpo che non era stato tinto dal pallore della morte si allontanava con la corrente del mare, Lu-Schäfer smetteva di esistere. Tabris guardò i sette grandi computer che emergevano dal mare, proprio davanti alla montagna scolpita dalla mano dei mostri. Lo spazio intorno a lui si era ridotto a un grumo di pixel verdi, intervallati dalle lettere dell’alfabeto simile al braille.
    – L’ennesimo esperimento fallito… –
    Era il 21 dicembre del 2012. La morte vinceva, lasciando che le opere malevole dell’uomo fossero dimenticate per sempre.

    “Masquerading as a man with a reason
    My charade is the event of the season
    And if I claim to be a wise man, well
    It surely means that I don't know
    On a stormy sea of moving emotion
    Tossed about, I'm like a ship on the ocean
    I set a course for winds of fortune
    But I hear the voices say
    Carry on my wayward son
    There'll be peace when you are done
    Lay your weary head to rest
    Don't you cry no more”


    Kansas, “Carry on Wayward Son”
     
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