DIRTY DEEDS DONE DIRT CHEAP

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    1-L’imbrattatele
    Il pennello di Winston correva lieve sulla tela, quel giorno. Il suo piccolo appartamento, ridotto a un antro di mattoni grigi impiastrati di vernice dai colori accesi e vivi, accoglieva la luce grigiastra filtrata dalla pesante coltre di nubi che ricopriva la grande, viva e pulsante New York. Spesso il pittore si affacciava alla finestra del suo appartamento, dalla quale si poteva godere della visione della Statua della Libertà, il braccio teso di quella gigantessa che scrutava l’orizzonte col suo freddo sguardo metallico. Winston non osava staccare gli occhi dalla sua opera, rimasta incompiuta per troppo tempo, per troppi mesi. Ormai non aveva più bisogno di guardare il suo modello – la testa di un pescespada che sbucava dal muro di mattoni – perché ogni minimo particolare di quell’immagine era rimasto impresso nella sua giovane mente. Le setole del pennello correvano rapide, la lingua rosa del pittore veniva stretta sempre di più dalla forza dura dei denti, la fronte si imperlava di sudore e le narici si allargavano per l’eccitamento. Stava per finire la sua opera magna, lui, che era considerato un imbrattatele, un commerciante di quadri senza valore. No… Quella testa mozzata era riuscita a dargli l’ispirazione, era riuscita a risvegliare in lui…
    Winston si bloccò di colpo. Quella gioia, quel raggio di sole che aveva scolpito nella sua mente l’immagine perfetta della sua opera era svanita nel nulla, portata via dal rumore. Si girò di scatto e vide un gabbiano appollaiato sul cornicione di un palazzo vicino. La bestiola spiegò leggermente le ali, piegò la testa ed emise un altro stridio. Winston strinse il pennello, pronto a tarpare le ali quell’abominio con un solo lancio. Il pittore riuscì a calmarsi e si chiuse la porta dello studio alle spalle, portandosi il pollice e l’indice della mano destra sulle palpebre chiare.
    Lo specchio del bagno rifletteva l’immagine di un giovane uomo dal volto pallido e smunto. Gli occhi stanchi avevano perso il loro colore, tipico del rame arrugginito dall’acqua del mare, inghiottiti da due occhiaie scure. Si lavò il viso e si sedette sulla poltrona di pelle nera nel piccolo soggiorno, circondato da manufatti antichi di tutti i tipi. Winston amava i ninnoli di altre epoche, adorava i simboli religiosi di qualsiasi credo che avesse mai lasciato una traccia su questa Terra. Croci latine, statue del Buddha, maschere che, un tempo, giacevano fra la polvere di un antico teatro greco, statue di divinità minori del pantheon ellenico, maschere africane e molti altri oggetti lo circondavano come tanti piccoli satelliti. Era il 5 agosto del 1921 e Winston Peter Oaks si teneva la testa fra le mani, ossessionato dalla sua stessa arte.


    2- Trenta denari
    Non era raro vedere degli uomini avvolti in abiti scuri camminare rapidamente per le strade di New York. Winston non amava la vita d’ufficio, ecco perché continuava a lavorare nel solito, piccolo bar da quattro soldi. Quelle ultime ore di buio erano tutto ciò che rimaneva del suo giorno feriale, raro momento di serenità nella caotica frenesia della vita del newyorkese. Passò sotto la luce giallastra di diversi lampioni, la testa bombardata dal chiasso dei pescatori che tornavano a casa cantando e dalle note che scivolavano dalle dita di qualche artista di strada. Arrivò davanti ad una scalinata di cemento grigio, delimitata dai muri polverosi ricoperti di manifesti sbiaditi. Winston si guardò intorno con sguardo attento, poi calò la visiera del cappello sulla testa bionda e scese lungo le scale, tra le cui crepe crescevano delle piante giallastre e rinsecchite.
    Il bazar di Magda era uno di quei posti nascosti per le strade di New York dove si poteva trovare di tutto. Winston si chiuse la porta alle spalle e camminò lungo il corridoio angusto, le pareti interamente ricoperte da assi di legno e tubi arrugginiti pregni di umidità. Magda lo salutò calorosamente: “Buonasera, Oaks!”
    La donna si alzò di colpo dalla sua poltroncina e si avvicinò al pittore con passo svelto, facendo tintinnare i bracciali e le collane che le ornavano i polsi e il petto. Winston ricambiò il saluto con un freddo: “Ciao, Magda” e si sfilò il cappello. Gli scaffali del bazar erano pieni di oggetti di ogni tipo, da mazzi di chiavi a cappotti, da gioielli a piante di ogni tipo. Quell’antro dal soffitto basso era, insomma, il paradiso di ogni commerciante. Magda si fermò davanti a una delle sue lampade, lasciando che la sua ombra riempisse la parete che Oaks stava analizzando. Non era una donna cattiva, anzi, era sempre stata molto cortese coi suoi clienti. Era la figlia di un’ex-schiava del Sud, probabilmente suo padre era il padrone della madre. La promiscuità del bianco e del nero nella sua carnagione erano motivo di vergogna per lei, unioni del genere non erano ben viste in quella società. Per tutti gli altri, sarebbe sempre stata un’escort da cavalcare su un letto per sfuggire alla fatica e ai problemi.
    Gli occhi di Winston corsero sugli innumerevoli oggetti che schiacciavano le mensole sotto il loro peso finché non vide, nascosto da una fedele riproduzione della Venere di Milo, un crocifisso d’oro. Forse fu la lucentezza, forse fu la sua forma elegante e robusta, ma il pittore si innamorò di colpo di quell’oggetto.
    “Posso vedere quella?”
    Il sorriso della donna si allargò leggermente: era di nuovo riuscita a fregare quell’imbrattatele da quattro soldi.


    3-La chiamata
    Le palpebre di Winston si schiusero. Il suo corpo immobile era circondato da alberi dalle chiome verdi, le cui radici stringevano nella loro morsa robusta rocce color amaranto. La luce del crepuscolo alle sue spalle permetteva alla sua ombra di cadere sui mattoni bianchi di quella che sembrava essere una chiesa. Winston ne osservò il rosone, un tempo colorato e illuminato dalla luce dell’Araldo di Dio, il Sole; ora, invece, il colore di quelle schegge di vetro incrinato era stato assorbito dalla polvere. Il pittore, non del tutto padrone del suo corpo, si mosse verso il portale, sul cui legno erano scolpite le immagini di angeli e santi. I loro volti, però, erano stati intaccati dalle intemperie e alcuni di essi, ma questa fu solo un’impressione che ebbe Oaks, sembravano avere delle corna che svettavano sulla fronte. Il rumore delle foglie schiacciate dai tacchi fece posto al suono riecheggiante delle scarpe sul marmo polveroso. Le candele della chiesa erano tutte accese, ma la luce non arrivava ad illuminare l’altare. Chino sulla pietra sacra c’era un sacerdote, la cui veste sembrava sovrapporsi gradualmente alle tenebre che avvolgevano l’altare. Diversi metri sopra di lui, all’altezza del rosone, vi era un crocifisso di grandi dimensioni, non dissimile da quello che Winston aveva comprato poche ore prima con gli ultimi soldi che gli rimanevano. La testa d’oro cadeva sul petto del Cristo, le membra erano rilassate. Era un’opera fin troppo realistica, quella. Il silenzio tombale era intervallato dal crepitio del fuoco sulle candele di cera ai lati della stanza.
    La fronte del Cristo iniziò a tingersi di rosso sotto la corona di spine e allo stesso modo polsi, costato e caviglie iniziarono a grondare sangue. Le gocce caddero sull’altare, poi sulla testa del sacerdote, il quale alzò la testa di scatto. Riecheggiò uno schiocco, come di una frusta, i chiodi che tenevano fermo il Figlio di Dio saettarono nell’aria come proiettili e l’Agnello cadde in piedi sul marmo con un tonfo metallico, coprendo l’ombra del sacerdote. Winston non osò muovere un muscolo, o meglio, non poteva. Le fiamme che fino a poco tempo prima crepitavano sulle pareti si spensero, i bracieri di ferro e le candele caddero sul marmo, percorso dalle crepe generate dall’impatto. Winston vide Gesù Cristo avvicinarsi a lui con passo pesante, facendo ondeggiare il capo lentamente. Nonostante la statua fosse d’oro massiccio, i capelli si muovevano nell’aria rarefatta come se fossero veri. Il portale alle spalle del pittore si chiuse con un lento cigolio e la chiesa fu inghiottita dalle tenebre. L’unica fonte luminosa era la pelle aurea del Cristo, portatore di luce in quella spelonca senza pavimento e soffitto. Oaks guardò il Figlio del Padre negli occhi, due pozze verticali colme di metallo fuso e incandescente.
    “Non avere paura” disse Lui sussurrando. “Lascia che io ti parli, Winston.”
    Oaks non poté fare altro che annuire.
    “Io sono qui per aiutarti, per fare in modo che la tua vita sulla Terra sia degna, affinché io possa prepararti un posto nel mio Regno. Non c’è bisogno che io ti dica dove ti porterò, vero? Tu mi conosci già, Winston, e io conosco te.”
    Silenzio. Poi, la statua d’oro gli porse un coltello dalla lama arrugginita. Si scostò leggermente, rivelando una figura umanoide senza tratti facciali. Il corpo anonimo che Winston aveva davanti era completamente nudo e la pelle era grigia, mentre il petto e il cavallo non rivelavano nulla sul suo sesso. Era, quindi, solo un corpo.
    “Fa ciò che devi.”
    Winston si avvicinò all’essere informe, il quale alzò la testa al suo passaggio, come se lo volesse guardare dritto negli occhi. Quelle che dovevano essere le guance ebbero un fremito e le spalle si mossero impercettibilmente. Era disgustoso, questo pensava Oaks. Vibrò il colpo con tutte le forze che aveva. La creatura si portò le mani alla gola squarciata e si inginocchiò mentre il sangue usciva a fiotti. La pelle all’altezza delle costole, delle cosce e degli avambracci si squarciò, lasciando fuoriuscire un piccolo torrente di monete d’oro luccicanti.
    “Hai capito quello che devi fare?” chiese Cristo.
    “Sì.” Winston rispose in automatico, senza pensarci. Eppure, quel che rimaneva della sua coscienza lo spingeva a non fidarsi, gli diceva che tutto quello che vedeva, toccava o diceva faceva parte di un sogno. Il Cristo parve leggere i suoi pensieri.
    “Se non mi credi, chiedi del precedente proprietario della croce. Quando lo troverai, se lo troverai, digli solo: Do ut des. Trentasei, ventiquattro, trentasei. Lui capirà. Ora svegliati!”
    Il pittore inspirò profondamente l’aria rarefatta della sua stanza, poi aprì gli occhi e si mise a sedere con uno scatto. Si toccò la fronte imperlata di sudore, ansimante. Sollevò lo sguardo e vide il suo crocifisso d’oro appeso al muro. Le imposte della finestra gettavano un’ombra a forma di croce sul ninnolo, racchiudendo perfettamente la sua forma. Winston si alzò e strinse la croce fra le dita, poi sorrise beffardo. Quella spavalderia, però, scomparve quando il polpastrello sfiorò una piccola incisione sulla superficie liscia dell’asse più piccola, impossibile da distinguere ad occhio nudo. Si recò nello studio inciampando nel suo pigiama, prese la lente di ingrandimento che giaceva sul tavolo e osservò quello che credeva essere un difetto sotto la luce giallastra di una lampada a petrolio.
    “Non è possibile…” sospirò. “Non è vero, no…”
    Sull’asse minore era riportata la scritta: DO UT DES. XXXVI XXIV XXXVI.


    4-Non ci credo se non lo vedo
    Il mare era calmo quel pomeriggio. I marinai e i pescatori sudati tornavano a casa dopo una giornata, per alcuni una settimana, di intenso lavoro fra le onde e i gorgoglii profondi del mare. Le nuvole sulla Grande Mela lasciavano che qualche raggio del sole al crepuscolo facesse scintillare la superficie increspata dell’acqua. Nonostante il chiasso, il porto dava una sensazione di immensa stanchezza quando il sole lo tingeva di rosso. Fu proprio lì che Winston trovò il suo uomo, colui che, forse, avrebbe risposto alle sue domande, direttamente o indirettamente.

    “Dimmi dove l’hai preso. Dimmelo ora!” aveva urlato Winston poche ore prima. La voce del pittore, roca e tesa, rimbombò per la grotta sotterranea. Magda fece pochi passi indietro, inquietata non tanto dalla voce del suo cliente, ma dal suo sguardo. Winston Oaks stringeva il manico di una valigetta nera fra le dita, diventate bianche per la frustrazione. Non riusciva a capire, non riusciva a rendersi conto dell’esperienza straordinaria che aveva vissuto. Quelle parole e quei numeri erano sempre stati lì, sulla croce, ma non poteva averli notati la sera dell’acquisto: quei simboli erano troppo piccoli per essere visti. La mente dell’uomo fu invasa, anche se solo per un attimo, da un dubbio atroce che, però, avrebbe risolto tutti i suoi problemi.
    “E se i simboli fossero il frutto del sonnambulismo?” pensò. Il pittore ricordava ancora una versione più giovane di sé che, a volte, si risvegliava al freddo e al gelo in mezzo ai vicoli dietro la sua abitazione o, addirittura, sul tetto della sua casa d’infanzia. Aveva, dunque, sofferto d’insonnia in passato e proprio per questo, ogni notte, legava il polso sinistro alla testiera del letto, mentre con la mano destra reggeva un pezzo di fil di ferro piegato a mo’ d’uncino, col quale riusciva a depositare la chiave delle manette in un cassetto sempre aperto distante un metro e mezzo dal letto. Tutto quello che doveva fare, poi, era gettare il fil di ferro dall’altra parte della stanza e abbandonarsi fra le braccia di Morfeo. Di conseguenza, se il sonnambulismo, unica tesi razionale, non era sostenibile…
    “Dimmelo, disgraziata!”
    “Da chi vuoi che l’abbia preso, l’ho comprato! Dannazione Oaks, ma che ti prende?”
    “Non sono affari tuoi”.
    “Potrei dire lo stesso di te, Oaks”.
    Winston aprì la sua valigetta e rovesciò tutti i suoi sudati risparmi sul bancone, sollevando una nube di polvere grigiastra.
    “Ti bastano?”
    Magda prese una mazzetta fra le mani e fece scorrere l’unghia sul lato più corto del fascio. Sollevò lo sguardo e vide il volto pallido di Winston, madido di sudore e con un’espressione di vago trionfo che gli distorceva la bocca. La luce giallastra della lampada da interni proiettava un’ombra insolita alle spalle del pittore. In quell’istante, Magda avrebbe giurato di vedere la sagoma sbiadita di una figura umanoide, la cui testa era cinta da quella che sembrava una corona di spine, sovrapporsi all’ombra più scura del suo cliente. La contrabbandiera strinse le dita sottili intorno alla spalla massiccia di Oaks e gli sussurrò il nome che tanto aveva sperato di sentire. Il suono dei passi affrettati di Winston si perse nel silenzio del sotterraneo, luogo che non avrebbe mai più rivisto per il resto dei suoi giorni.

    “Gaspare Baglieri?”
    Il pescatore si voltò, attirato dal suo nome, ridotto a un cumulo insensato di sillabe sputate rozzamente dall’accento americano del biondino.
    “Chi lo cerca?” chiese con voce baritona.
    Il pittore si portò una mano al petto e si inchinò leggermente.
    “Winston Peter Oaks. Piacere di conoscerla, Signor Baglieri.” Winston distese il braccio in avanti e aprì il palmo, in attesa.
    Il pescatore lo squadrò da capo a piedi.
    “Cosa ti fa pensare che sia io, eh?”
    Oaks indicò la benda che ricopriva l’occhio sinistro del vecchio con un cenno appena percettibile della testa.
    “Ah, sì… La benda.” Gaspare sputò sul palmo e strinse la mano di Winston, disgustato dal calore viscido della saliva del pescatore.
    “Cosa ti porta qui? Non ti ho visto spesso al porto…”
    “Vogliamo parlarne davanti a una bottiglia di birra, Signor Baglieri?”
    Il pescatore si grattò la barba brizzolata, frugando in profondità lo sguardo di Winston con il suo unico occhio sano.
    “Andata”.
    Il primo suono che arrivava alle orecchie dei clienti della bettola era il fruscio dei boccali di birra sul bancone di legno lucido. Il barista, un nonnetto tutto pelle e ossa dotato di un naso aquilino e due fosse nere all’altezza degli occhi, guardava i suoi clienti che, aiutati dall’allegria che solo le prime tenebre dopo il crepuscolo portano, ingurgitavano bicchieri e bicchieri di alcolici. Il primo odore che investiva i nuovi arrivati, invece, era una mistura del sudore acre dei lavoratori coi capelli attaccati alla fronte lucida e di fumo, una nebbiolina calda e grigia che si levava dai tozzi sigari che i giocatori di carte dalle dita inanellate stringevano fra le labbra. Era in mezzo a quel ricettacolo di ebbrezza che sedevano Winston e l’immigrato Gaspare. Il pescatore italiano, approfittando della gentilezza del pittore, continuava a tracannare bicchieri su bicchieri. In realtà, era proprio Winston che approfittava della semplicità di quel povero orbo. Il modo più facile per arrivare al cuore di un uomo era l’alcol, questo Winston lo sapeva fin troppo bene. Lavorava in quello stesso bar da cinque anni e mai avrebbe pensato di trascorrere il suo giorno libero lì dentro, prima di allora.
    “Mi chiedo perché uno come te stia bevendo questo piscio con me. Sei strano, tu…” il pescatore ruttò sonoramente, poi rise di gusto dopo aver ascoltato l’ultima eco della sua opera magna.
    “Solo per parlare, niente di più, niente di meno”.
    “E cosa vuole sapere uno come te…” Gaspare puntò un dito calloso contro il petto di Winston. “…Da un vecchio balordo come me? Voglio dire… Vo-voglio dire…”.
    Era già ubriaco. Winston si aspettava che una persona di quello stampo reggesse l’alcol meglio di qualsiasi altra. A quanto pareva, invece, Gaspare Baglieri non aveva bevuto abbastanza rum sui pescherecci rugginosi in mare aperto, lo stesso mare da cui era venuto in cerca di una vita migliore.
    “Vede, sono un pittore. Vorrei farle qualche domanda per rendere la mia opera più realistica, se non le dispiace.”
    “Ah, i pittori… Ne conoscevo uno, anni fa… Giù in paese lo chiamavamo…”
    Se c’era una cosa che Winston aveva imparato a non sopportare erano i discorsi di un ubriacone.
    “A che ora lascia il porto di solito, Signor Baglieri?”
    “Mah, alle cinque del mattino o giù di lì. Poco prima dell’alba”.
    “Quanto guadagna di solito?”
    “Dipende dal… Dal carico, sì. Ci sono delle volte in cui la rete tra un po’ scoppia, altri in cui non vedo nemmeno l’ombra di un fottuto pesce”.
    Winston proseguì con le sue domande per altri dieci minuti, mentre Gaspare beveva e apriva il suo cuore a quello sconosciuto che, per qualche motivo, aveva deciso di invitarlo a quel tavolo. Il pescatore, ormai, era in perfetta sintonia con Oaks, non aveva peli sulla lingua. Arrivò anche ad insultare il suo datore di lavoro, lui che non osava aprir bocca quando il salario diminuiva o quando il vecchio Sam scaraventava bottiglie vuote contro altri pescatori, colpevoli di essersi fatti sfuggire un pesce di grossa taglia. Gaspare si accorgeva di essere brillo quando iniziava a pensare che due più due facesse cinque, ma quella sera non ebbe il tempo di testare il suo livello di lucidità.
    “Un’ultima domanda, Signor Baglieri… Lei tiene un crocifisso in casa?”
    Gli occhi del pescatore si restrinsero in due fessure.
    “Sì, sì ce l’ho. Cioè, ce l’avevo fino a qualche giorno fa. Poi l’ho venduto”.
    “Perché?”
    Baglieri esitò.
    “Mi ha spinto a fare delle cose orribili… Orribili, sì. Oh Signore, perdonami…” Si fece il segno della croce.
    “Cosa le ha fatto fare?”
    Il pescatore si sporse in avanti, facendo strisciare il pancione grasso sul tavolo. Accostò la bocca all’orecchio di Winston, il quale poteva sentire l’olezzo dell’alcol e la barba crespa del pescatore che sfiorava la sua guancia.
    “Un sacrificio. Sono stato uno sciocco… Lo sono stato due volte, in realtà. Ho sprecato la mia ricompensa in pochi giorni… Secondo te perché lavoro ancora su quella cazzo di barca tutta buchi, eh?”
    Era il momento.
    “Ha mai sentito o letto la frase: Do ut des. Trentasei, ventiquattro, trentasei?”
    Gli occhi del pescatore si accesero di rosso e le sue mani, percorse da vene grosse e pulsanti, iniziarono a tremare.
    “Vattene” disse a denti stretti.
    Il pescatore crollò sul tavolo con gli occhi chiusi e la bocca semiaperta. Russava sonoramente, attirando l’attenzione degli uomini seduti alla loro destra. Winston raddrizzò il marinaio sulla sedia e lasciò qualche banconota fra le dita del vecchio barista, poi uscì dal locale.
    "È stato uno sbaglio… È stato un errore… È stata colpa sua…”
    Queste erano le parole che Gaspare si faceva sfuggire nel sonno, seguite da una serie di numeri, cifre che Winston conosceva bene.
    “Trentasei… Ventiquattro… Trentasei…”


    5-La tentazione nel deserto
    “Hai capito, quindi?” chiese la creatura d’oro. Winston era seduto sul bordo di una gola rocciosa, un precipizio scuro di cui poteva vedere la fine. Sotto le sue scarpe lucide e offuscate dall’irrealtà onirica, c’era una città di pietra, un borgo i cui tetti si fondevano con cappelle tonde, esili campanili e croci di metallo arrugginite. Era una città morta o, questo pensava Winston, una città dei morti. La sabbia del deserto alle spalle del pittore danzava nell’aria insieme alla cenere portata dal vento, una brezza leggera che veniva dal nero vuoto che lo circondava. La sua figura, le guglie, le sabbie del deserto e il Cristo d’oro sembravano esistere in quel luogo grazie alla presenza di una luce senza raggi. Era come trovarsi in una tela priva di ombre, un mondo imperfetto, uno schizzo in cui la luce arrivava da ogni direzione, ma anche da nessuna parte.
    “Chi dovrò uccidere?”
    “Devi essere tu a scegliere”.
    “Ma tu non dovresti portare l’amore fra gli uomini?”
    “Ah, voi mortali… Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa”.
    Winston aveva già sentito quelle parole anni prima, una domenica di febbraio tra le mura di una chiesa. Erano i versi del vangelo di Matteo.
    Le labbra dorate della statua vivente si schiusero nuovamente: “L’uomo ha una cosa che altre creature, creature che voi considerate perfette e potenti, non hanno. Sai cosa è?”
    Winston rimase in silenzio e gettò un sasso nel precipizio.
    “Il libero arbitrio” disse infine.
    “Sì. Voi avete la facoltà di scelta. Quando il Demonio mi tentò - le ultime due parole furono pronunciate da una voce diversa – lui fece leva sulla mia – Winston era convinto che Cristo avesse sillabato “Di mio padre” con le labbra, ma quella voce si era ribellata a quel movimento così preciso – umanità. Eppure, il libero arbitrio può essere usato contro di lui. Il Diavolo porta sofferenza, ma puoi usare il suo stesso veleno, il Peccato, per uscire vincitore da questa continua guerra”.
    Il pittore annuì debolmente e fece scorrere un piccolo fiume di granelli di sabbia fra le dita.
    “Gli affari sporchi hanno reso il tuo mondo un posto migliore, Winston. Il Peccato non è sempre un male. Lascia che il Demonio entri nel tuo cuore, poi distruggilo. Risorgi, Winston”.
    Come se fosse comandato da una forza invisibile, Oaks si alzò in piedi e, con gli occhi serrati e le ciglia sporche di sabbia e sudore freddo, si gettò sulle guglie della città congelata nella cenere. Colui che, prima di lui, era stato tentato nel deserto e non si era gettato, stava in piedi diversi metri sopra di lui. È scritto che gli angeli sosterranno il Cristo con le loro mani, affinché il suo piede non tocchi pietra… Ma lui non era Gesù Cristo, era solo un uomo. Era un uomo che si era appena gettato nella gola cavernosa del Peccato.


    6-Per Cristo, con Cristo e in Cristo. Sacrificio
    Il fruscio della carta di giornale zuppa accompagnava i passi di Winston. Il vento forte e la pioggia scioglievano nel nulla le prime pagine dei giornali, ammassi informi di carta giallastra e squamosa, viscida come la pelle di un serpente o il pelo di un ratto delle fogne. In prima pagina, proprio sopra l’articolo di spalla, si poteva ancora intravedere il volto in bianco e nero di un uomo con una benda sull’occhio, distorto dalle intemperie. Modellato dalla forza dell’acqua e del vento tagliente, il suo sguardo sembrava quello di un’anima in pena, sembrava chiedere pietà con parole silenti. Il cadavere di Gaspare Baglieri era stato trovato poche ore prima tra le sue stesse reti, dilaniato da parte a parte. Il ventre grasso, divenuto pallido dopo l’abbraccio di Tanato, era percorso da solchi profondi dai bordi violacei e nerastri. DEUS VULT. Due parole, un unico scrittore. Due minuti, un unico corpo. Due persone, solo un sopravvissuto. In cuor suo, Winston sapeva che quel corpo, quella massa difforme di cellule morte, aride di vita, era il riflesso della conseguenza delle sue azioni. DEUS VULT, aveva scritto il responsabile, un uomo spietato… Se davvero era uomo. Se ne sarebbe lavato le mani e avrebbe dimenticato il suo incontro con Gaspare, ma non avrebbe gettato nell’oblio un ricordo molto più fresco, molto più personale. Le scelte importanti sono come piovre che si attaccano a fazzoletti bianchi: non si staccano più dal ricordo e, ogni tanto, si riesce a percepire la loro presenza.
    Winston non amava camminare nei vicoli bui di New York. Quelle strade, lastricate di pietre irregolari, erano state calpestate da gente che, in un modo o nell’altro, era stata rifiutata dal mondo. Lì risuonavano ancora gli echi dei passi di vagabondi, prostitute, mafiosi, ratti e cani randagi. Winston si sentiva poco protetto fra quei palazzi opprimenti, le cui finestre polverose sembravano occhi, volti, bocche aperte. Teneva le mani affondate nelle tasche del lungo cappotto nero, una stretta intorno a un coltello, l’altra intorno a una pistola carica. Doveva trovare uno di quei rifiuti, uno solo, e ucciderlo come si fa col vitello grasso prima delle feste. La lama piantata nello stomaco sarebbe stata l’ideale, avrebbe fatto cadere la luce dei riflettori su altri senzatetto, ma la pistola aveva più di un colpo in canna.
    “Vicoli malfamati un corno…” sospirò Winston dopo pochi minuti. Si aspettava di trovare orde di cani affamati ad aspettarlo, ma dovette ricredersi. Quel giorno non c’era nessuno. Il pittore era sul punto di girare i tacchi e andarsene, ma dovette scacciare quell’ipotesi dalla testa quando sentì un flebile colpo di tosse dietro un angolo. Davanti ai suoi occhi si parò la visione di quella che, un tempo, doveva essere una donna. Le ginocchia e i gomiti sembravano perforare la pelle tesa e sudicia di quella creatura, nient’altro che un ammasso palpitante di ossa. Sotto i piedi uniti di lei vi era una pozza rossastra e maleodorante; tra le sue braccia scheletriche, invece, svettava la testa ovale di un bambino dal colorito verdastro avvolto in stracci sporchi. Quella creatura, quel relitto vivente, aveva appena partorito. Lo sguardo dei due si incrociò per un lungo minuto. Il mare nero e rigonfio che Winston vide negli occhi della donna mosse nel suo petto una sensazione sgradevole, era come se tutto il sangue si fosse raggrumato intorno al cuore. Era pietà, quella? O quello che sentiva era il suo stomaco, pronto a vomitare? La compassione mosse la sua mano. Winston vibrò il colpo e, con un taglio netto all’altezza della giugulare, tinse il muro di rosso.


    7-Gloria
    Il club era sempre più disordinato, c’era da aspettarselo. Jill Willows, la fondatrice di quel piccolo gruppo di amici ossessionati dall’arte, non aveva mai tempo per le pulizie. Nessun membro di quel club, dopotutto, riusciva a ritagliarsi qualche minuto nella giornata per dedicarsi alle proprie passioni. Winston lavorava in uno squallido bar vicino a casa e il suo quadro era ancora in fase embrionale. Più volte aveva pensato di appendere il grembiule bianco al chiodo e lasciarsi alle spalle il fetore dell’alcol brunastro che serviva ogni sera, ma aveva bisogno di soldi. Ogni volta che il pittore faceva visita a Jill, vedeva maschere di rassegnazione intorno a lui. Anche Oaks indossava una di quelle maschere. Cosa doveva fare un artista per farsi notare? Il mondo stava diventando sempre più cieco davanti alla mirabile visione delle arti, mentre il suo udito si affinava sempre di più per percepire il suono delle monete che cadono nella cassa dei banchieri e dei commercianti.
    La schiena di Jill era sempre più curva, piegata dalla sua passione per i libri.
    Desiderava diventare una scrittrice di fama mondiale, ma le donne non erano particolarmente apprezzate nel settore. Nonostante i problemi fisici, Jill Willows riusciva sempre a mantenere un certo portamento e circondarsi di un’aura di austerità e immobilità, non dissimile dall’effetto che i riflessi sulle sculture, che circondavano il piccolo arcipelago di poltroncine, davano. Quelle opere erano state realizzate da un altro membro del club, il quale, però, non riusciva a portarne a termine neanche una.
    Seduto sulla sua poltrona di velluto, Oaks pensava e ripensava al riflesso dorato che veniva inghiottito dal colore brunastro del sangue fresco, appena versato. Lì, nel suo studio, al sicuro da occhi indiscreti, aveva offerto il suo sacrificio al crocifisso d’oro. La goccia di sangue cadde lungo la lama del coltello ancora sporco e scivolò in mezzo all’intricato rilievo della corona di spine, poi scese lungo il volto, il collo e il petto del Cristo, fino ad arrivare all’estremità inferiore dell’asse. Il liquido brunastro si ridusse in sottili spirali di vapore color ruggine e un vento freddo irretì i sensi di Winston. Il pittore sapeva che quel sacrificio avrebbe dato i suoi frutti, prima o poi.
    Dopo mezz’ora di conversazione, Jill, una delle poche nel gruppo che amava ascoltare e non parlare, ruppe l’imbarazzante silenzio che, tipicamente, va a crearsi quando si esaurisce un argomento.
    “Vedo che ci hai portato qualcosa” disse, indicando la tela ai piedi di Winston, tenuta ferma dalle gambe dello stesso pittore. Oaks si era quasi dimenticato della sua opera, eppure, quando aveva varcato quella soglia, era impaziente di mostrarla agli altri. Ma le chiacchiere, si sa, se accompagnate da cibo e bevande, cancellano le intenzioni.
    “Oh, sì…” replicò lui con un po’ d’imbarazzo nella voce tremante. Sì, imbarazzo. Nonostante il delitto si fosse consumato solo tre giorni prima, non provava la minima ombra di rimorso. Aveva solo iniettato del veleno nel corpo di un cane sofferente, tutto qui. Si alzò in piedi, pose la tela su un cavalletto di legno e sollevò il panno bianco. Inutile dire che tutti i membri del club, sempre pronti a dare consigli utili e a fornire critiche costruttive, rimasero con la mascella a penzoloni. Anche Jill, che dispensava la maggior parte dei consigli, non disse nulla. Anzi, si poteva sentire un lieve rantolo provenire dalla sua gola, il tipico suono di sorpresa che viene emesso da chi rimane senza parole. La tela non verrà descritta perché, come potete giustamente intuire, chi può descrivere un qualcosa che lascia senza parole?
    Bastò un telegramma scritto da Jill, incantatrice e maga con le parole, per convincere un critico d’arte, uno di quelli competenti, ad entrare in quel salotto polveroso. L’omino, dotato di membra colme di grasso e un sigaro in bocca, fu spinto con un’insistenza quasi opprimente dalla signora di quella combriccola di artisti.
    “Deve vederlo, mi creda!”
    Se Jill non avesse avuto il portamento elegante che la contraddistingueva, probabilmente si sarebbe messa a sbavare come un cane.
    “Non capisco come un posto del genere possa ospitare un’opera degna di una mostra, mi creda”.
    “Tipico degli snob…” sussurrò uno degli artisti, facendosi sentire solo da Winston e da qualche altro collega.
    Quando il sosia di Churchill vide l’opera di Oaks, il sigaro gli cadde dalla bocca e il suo doppio mento, degno delle migliori raffigurazioni del gigante Pantagruel, tremolò. Anche lui, come tutti, era rimasto incantato. Sfiorò i bordi della tela con le dita inanellate, poi si voltò e sorrise a Winston, mostrando una fila di denti gialli e storti.
    “Quanto vuole, signor Oaks?”
    Una settimana dopo, Winston era su tutti i giornali. Il suo desiderio si stava realizzando rapidamente: non era più un imbrattatele, ma un artista di fama nazionale.
    Nel 1920 la droga non era ancora arrivata a contaminare le menti degli occidentali, c’era solo il tabacco. Ebbene, il successo e la bella vita, a poco a poco, diedero assuefazione al pittore. Se prima il suo desiderio più grande era diventare un grande artista, ora era quello di vivere come un sultano dell’Oriente. Si era circondato di altri artisti, politici, nobili inglesi, figure di spicco nell’esercito nazionale, la crème de la crème, insomma. I suoi nuovi amici, tutti dotati di un alito all’aroma di gamberi e champagne, avevano soppiantato i membri del club Jill compresa. Lei, che l’aveva ospitato nella sua casa, che era riuscita a contattare quel critico. In compenso, ricevette diecimila dollari. Ormai, Winston passava le sue serate in ristoranti, bar, teatri e, a volte, faceva visita a qualche giovane donna disposta a vendersi. Non era raro, infatti, che il pittore, inebriato dall’alcol, legasse i polsi di una prostituta alla testiera del letto e si divertisse. Fece sempre molta attenzione a tenere a freno i suoi istinti, andava a letto solo con donne a pagamento, non accettava mai le avance e non osava toccare una ragazza che non fosse consenziente. Non voleva finire vittima di qualche scandalo che lo portasse alla rovina, ma dopo un po’ si rese conto che l’amore carnale non gli bastava più: lui voleva amore, amore sacro, non un sentimento nato dalla passione per il denaro. Tutti i suoi nuovi amici erano innamorati della sua arte, ma non di lui, il più bravo, il più furbo e il più intelligente. Winston, ormai, bramava di diventare perfetto. Era giunto il momento di un nuovo sacrificio.


    8-La Maddalena lapidata
    Quella sera di dicembre, Winston si recò nel solito bordello nei sobborghi della città. Quando entrò, il profumo da donna si mischiò con l’odore acre del fumo e l’aroma pungente dell’alcol. Intorno a lui si erano raccolti molti uomini di ogni età, alcuni giovani e impacciati, altri molto più anziani e dotati di un certo portamento. In ogni caso, le giovani e formose donne che li accompagnavano si comportavano allo stesso modo: ridevano, scherzavano e si lasciavano toccare - anzi, a volte erano proprio loro a spingere i clienti ad afferrare la merce in vendita. Non c’era attore migliore, pensava Winston, di un povero disperato, disposto a fare qualsiasi cosa pur di guadagnare qualche misero spicciolo. Si fece strada in quel gineceo, guidato dalla musica di un pianista di colore seduto in un angolo. Si guardò intorno, disgustato dalla presenza di così tanto trucco sulle guance di quelle donne. Winston preferiva le donne al naturale, quel tipo di ragazze dotate di una bellezza hollywoodiana. Ragazze come quella seduta alla destra della madre superiora di quel convento consacrato al demonio. La fanciulla, forse una sedicenne dallo sguardo magnetico, attirò subito le attenzioni del pittore. Gli piaceva il corpo sottile, adorava le curve appena accentuate. La forma di quelle membra, insieme al colorito pallido delle braccia e del volto, era sinonimo di debolezza e sottomissione per Winston. Non aveva mai visto quella ragazza nel bordello, quindi doveva essere nuova. Forse, ma era solo un’ipotesi, era ancora vergine.
    “Ancora meglio…” pensò. La ragazza, palesemente a disagio, afferrò la mano del suo cliente e si fece condurre al piano superiore. I due attraversarono il corridoio polveroso, circondati dagli echi dei gemiti delle prostitute. Violet, la ragazza, sapeva che quella era tutta finzione, sapeva che, prima o poi, si sarebbe abituata… Ma non voleva. Non voleva farsi violare da quel cane che, per qualche motivo, aveva nascosto il volto agli altri uomini presenti nell’edificio. La porta della camera si chiuse alle sue spalle e Winston si avventò sulla sua preda con violenza. Lui si godette appieno l’amplesso, Violet no. Aveva bisogno di soldi, ma dopo quell’interminabile rapporto si era già pentita della sua scelta. Avrebbe dovuto ammazzarsi come suo padre, non cercare aiuto tra le lenzuola di un letto. Alla fine, Winston si staccò dall’adolescente e si mise a sedere. La pelle bianca di lei era percorsa da segni rossi, simili a morsi, specialmente all’altezza del collo e dell’inguine. Era così indifesa, così debole. Winston le sfiorò il ventre, il quale si contrasse per il disgusto. Era un peccato, davvero un peccato, uccidere una creatura così bella.
    Pochi minuti dopo, il corpo della ragazza giaceva in un vicolo insieme al cappotto nero e al berretto di Oaks. Il pittore tornò nella sua villa, ben diversa dal suo squallido appartamento. Lì, seduto su una poltroncina con le mani giunte, un uomo guardava le fiamme crepitanti nel camino. Quel servo era sorprendentemente simile al suo signore, quasi uguale. Non era stato difficile procurarsi un alibi grazie a quella somiglianza così accentuata: per tutti i suoi amici, Winston era rimasto al teatro per tutta la notte. Congedò il servo e si diresse nel suo studio, progettando di tagliare la lingua a quel povero disgraziato affinché non parlasse a nessuno di quella piccola messa in scena. Estrasse il coltello dal panno in cui l’aveva avvolto e strofinò il pezzo di stoffa sul crocifisso d’oro.
    “Voglio essere amato dalle folle. Voglio essere chiamato Maestro e Salvatore. Voglio essere immortale, potente e irresistibile. Voglio denaro, donne, giovinezza eterna e capacità degne dei demoni delle leggende. Voglio diventare Dio”.
    Il sangue divenne vapore rossastro e un vento freddo investì il volto del pittore, contorto in un sorriso colmo di egoistica crudeltà. All’improvviso, il sangue iniziò a ribollire sul metallo e delle lettere ardenti di fuoco iniziarono a fluttuare davanti all’incredulo pittore.
    “VAI A DORMIRE”.

    “E quindi, quel sacrificio non è abbastanza?” chiese Winston, furente. Il Cristo d’oro gli dava le spalle e guardava sul fondo del nero precipizio.
    “Tu l’hai detto”.
    Il pittore si inginocchiò e strinse le gambe della statua vivente al petto. Ironicamente, colui che voleva diventare Dio si rivolgeva a Dio stesso. “Cosa devo fare?”
    Egli rispose: “Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che non ami, chiunque egli sia, va' nel territorio di Salem e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
    Ancora una volta, Winston ebbe l’impressione di aver già sentito quelle frasi. Sua madre era una donna di chiesa, dopotutto… Quelle parole, o alcune di esse, erano tratte dalla Genesi. Ma quale divinità usa le parole che l’umanità stessa gli ha messo in bocca?
    “Dove posso trovarlo? Dimmelo!”
    Il Cristo si voltò e fissò il suo sguardo ardente sul verme strisciante che gli stringeva le ginocchia. “Pecchi di stupidità, Winston Oaks. Sai cosa devi fare”.


    9-Sacerdote, uomo, tracotanza
    Oliver entrò nel buio locale, situato nei bassifondi della Grande Mela. Giovane e inesperto, continuava a chiedersi come un uomo vestito in quel modo così elegante, imbottito di velluto dalla testa ai piedi, potesse possedere un locale tanto squallido. Pur avendo dodici anni, però, non era così stupido: il suo coltello a serramanico era a portata di mano.
    “È questo il posto che devo ripulire, signore?” chiese.
    “Sì”, disse l’altro, accendendo una vecchia lampada a petrolio poggiata su un tavolo di legno. “Questa topaia è piena di ratti. Vorrei che tu sistemassi quelle bestiacce in questo sacco di iuta…” sollevò il tessuto dal pavimento polveroso “Se riuscirai a farlo entro il tramonto, ti darò dieci dollari sull’unghia. Affare fatto?”
    Il ragazzo sputò nel palmo e tese la mano aperta che, puntualmente, fu stretta dal pittore.
    “Tieni” disse Oaks, porgendo una pagnotta al ragazzo e chiudendo la porta alle sue spalle con un calcio “Voglio che tu sia in forze prima di iniziare a lavorare.”
    Oliver sgranò gli occhi. Il suo istinto gli diceva di non accettare il dono, ma la voce del suo stomaco sovrastò quella della ragione. Non mangiava nulla di decente da settimane, escludendo quella mezza torta che aveva sgraffignato dal davanzale di una finestra al piano terra. Il ragazzo iniziò a masticare e per poco non sputò il cibo che aveva in bocca a causa del retrogusto amaro.
    “Bravo ragazzo” sussurrò il pittore. Dopo un minuto, Oliver sentì la gola prudere dall’interno e iniziò a grattare la pelle del collo, arrossandola.
    “Da dove vuole che inizi, signore?” Tossì sonoramente. Le sue gambe vacillarono e la figura del pittore divenne sfocata. Il ragazzo si inginocchiò sul pavimento polveroso e, tenendosi le mani strette intorno al collo, guardò il pittore e gli chiese: “Cosa mi hai fatto?”
    "Cianuro".
    Oliver cadde a terra, morto. Winston si avvicinò al corpo, frugò nelle tasche del cappotto e ne estrasse un coltello. Il pittore affondò la lama nella schiena del giovane e bagnò il crocifisso col sangue appena versato. Una nuvola di vapore rossigno iniziò a riempire la stanza.
    “È fatta!” sussurrò Oaks. Ma la lenta danza del fumo si fermò, come se l’aria avesse abbandonato la stanza. Il vapore si ritirò in un unico punto, proprio sulla parete opposta all’ingresso. Il mondo all’esterno della catapecchia si fermò e Winston poté vedere il cielo tingersi di rosso oltre i vetri polverosi. Gli uccelli, le auto e le cartacce sospinte dal vento… Tutto era immobile tranne lui. Una figura avvolta dalle ombre apparve davanti a lui, un essere umanoide fuso con l’oscurità che lo circondava. La toga nera fluttuava in virtù di un vento inesistente, così come i capelli scuri. La faccia, completamente nera, era resa ancora più innaturale dalla sclera rossa degli occhi, le cui iridi erano color argento. Il pittore aveva già visto quella figura, ne era sicuro.
    “Winston Peter Oaks!” urlò il demone. Al suono del suo nome, Oaks fece cadere la croce per terra. La luce rossastra che penetrava dai vetri sporchi trapassava la figura dello spettro, come se quella non esistesse. Era il Demonio, quello?
    “So cosa stai pensando, Winston. Non sono chi credi che io sia. E sì, posso vedere nella tua mente”.
    Quel mostro era dentro di lui e poteva vedere la sua anima. In un attimo, Winston pensò ai suoi ricordi più cari, quelli che lo rendevano vulnerabile davanti alla creatura, proprio perché si era imposto di non richiamarli alla memoria in quel momento. La mente umana tradisce spesso.
    “Chi sei tu?” chiese il pittore con voce tremante, rannicchiandosi contro la porta che non accennava ad aprirsi.
    “Io fui un uomo, Winston, un uomo come te. Guarda” Il demone mostrò il colletto bianco sotto il mento nascosto nell’ombra. Quella che indossava era la toga di un sacerdote.
    “Se è quello che stai pensando, sì, sono lo stesso sacerdote che incontrasti nel tuo sogno. E sì, era mia la voce che si è sovrapposta a quella della mia creatura, quella volta”.
    “Tu… L’hai creato tu?”
    “Sì. E non è l’unica del suo genere, Oaks. Ti sei mai chiesto il perché di quel numero? Adesso capisci il significato di trentasei, ventiquattro, trentasei?”
    Winston realizzò di non essere uno dei primi e nemmeno degli ultimi ad essere caduti nella tela del ragno.
    “Quanti ce ne sono?”
    “Conta le stelle in cielo. Sono sicuro che tu abbia già sentito queste parole, vero? Il nome di Abramo non ti dice niente? Voi peccatori, vittime delle mie creazioni, siete i miei eredi. Osai sfidare Dio quando ero mortale, ma morii in disgrazia. Fu allora che fui tratto in salvo dall’Inferno e divenni ciò che sono”. Il demone guardò in alto e la sua figura fu illuminata da una luce bianca e abbagliante. L’ombra di una colomba con una spada nel becco riempì la parete alle sue spalle.
    “No, non è l’Altissimo, sciocco. Dio è morto quando l’avete crocifisso. Quello era il suo servo più fedele, l’unico degno di prendere il suo posto: è colui che voi chiamate Arcangelo Michele. Se credi che sia venuto qui solo per fare bella figura, ti sbagli. È qui per giudicarti, Winston”.
    Il crocifisso d’oro volò nelle mani del demone e delle bende di lino bianco lo avvolsero come serpenti.
    “Sono secoli che questa mia punizione va avanti. È compito mio punire chi, tentato dalle mie creazioni, osa elevarsi sopra la potenza della Mano Destra di Dio. Quelli, sono tutti degli aborti, degli esperimenti falliti. Non si può imbrigliare il potere di Dio, nemmeno Satanael può farlo. Ti ricordi cosa è successo a lui vero?”
    Una nube di fumo nero avvolse il mostro infernale e il pittore, libero dallo sguardo cremisi del mostro, gridò: “Aspetta!”
    Il mostro scomparve, il cielo tornò ad essere grigio e il tempo riprese a scorrere. L’abito di Winston, realizzato dal migliore sarto di Firenze, si ricoprì all’istante di squarci e i suoi capelli si ricoprirono di polvere e fango come le sue scarpe. L’imbrattatele sedeva in mezzo alla cenere e piangeva, disperato. Separarsi dalla croce significava avere il destino segnato. Come avrebbe fatto a raggiungere il Paradiso senza Cristo?


    10-Elì, Elì, lemà sabactàni?
    Passarono quaranta giorni. Winston era sdraiato sull’asfalto, pieno d’alcol fino all’orlo. La sua camicia, ormai ridotta in stracci, lasciava scoperta la spalla sinistra, sulla quale gli era stata impressa, prima della nascita, una voglia che aveva sempre tenuto nascosta. La parola CAIN sulla sua spalla era coperta di fango, ma Oaks la sentiva bruciare da quando il demone lo aveva lasciato da solo. Le sue case erano bruciate, le sue opere erano state ridotte in cenere o rubate, il suo nome era già stato dimenticato. Sentì dei passi e si voltò, pronto a pronunciare la solita formula che, puntualmente, veniva ignorata: “Fate la carità…”
    Vide una giovane prostituta accompagnata da una bambina distratta, forse sua figlia. La ragazzina aveva le braccia scoperte a causa del caldo, così come sua madre e ogni altra persona che Winston vide passare davanti a lui quel giorno. Proprio in quel momento, la vide, vide la scritta. CAIN, questo diceva la voglia sulla spalla della bambina. Il pittore scoppiò in una risata sadica, isterica e carica di odio per quella bambina di cui non conosceva il nome. Aveva ritrovato la sua unica figlia illegittima.
    Quella sera, il corpo di Winston Peter Oaks fu ritrovato sul retro di un bar nel centro di New York. Il suo ventre magro era stato deturpato da una bestia sanguinaria, un assassino che non sarebbe mai stato catturato da nessun mortale. L’anima di Winston cadde negli inferi e gli artigli dell’Avversario di Dio gremirono la sua anima mentre il suo corpo marciva fra i denti dei ratti della strada.

    VANITAS VANITATUM, ET OMNIA VANITAS.

    “If you're havin' trouble with the high school head
    He's givin' you the blues
    You want to graduate but not in 'is bed
    Here's what you gotta do
    Pick up the phone
    I'm always home
    Call me any time
    Just ring
    36 24 36 hey
    I lead a life of crime”

    AC/DC, “Dirty Deeds Done Dirt Cheap”

    Edited by Kal_The_Salamander - 22/4/2021, 15:53
     
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    Ser Procrastinazione

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    Ti faccio notare qualche stupidaggine qua e là:
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    --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

    Usa questo codice per separare i capitoli:
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    "È stato uno sbaglio… È stato un errore… È stata colpa sua…”

    Manca una virgoletta.
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    – lui fece leva sulla mia – Winston era convinto che Cristo avesse sillabato “Di mio padre” con le labbra, ma quella voce si era ribellata a quel movimento così preciso – umanità.

    Non mi suona granché bene, perché così pare che abbia detto "sulla di mio padre umanità". Io metterei "mia" e l'inciso seguente dopo "umanità".

    Finalmente ho modo di commentare. Scusa per il ritardo, ma sono un procrastinatore seriale.
    Nonostante la mia abissale ignoranza, devo dire che sul piano formale sei migliorato. Il tuo precedente racconto, per quanto indubbiamente ben scritto, tendeva ad avere periodi un tantino lunghi, mentre non ho riscontrato questo problema in questa storia.
    Come per lo scorso racconto, ho trovato le descrizioni molto suggestive. Ho notato un topos - se così posso chiamarlo - già ricorrente nell'altra storia: il protagonista che, partendo da una situazione di estrema miseria, con mezzi soprannaturali riesce ad elevarsi, salvo poi finire in condizioni ancor peggiori a causa della sua superbia. Non so se sia voluto oppure no, ma ho apprezzato questo elemento di congiuntura.
    Alla fine non avrei molto altro da aggiungere. Piuttosto vorrei chiederti da dove hai tratto spunto per scrivere la storia (oltre che dall'omonima canzone e in parte dalle Sacre Scritture). In ogni caso continua così. :)
    Infine, per quanto concerne la sezione di destinazione, sarei abbastanza combattuto. A onor del vero ero tentato di optare per HS, ma alla fine gli elementi horror sono principalmente rappresentati dalla croce, dalla creatura e dalle azioni commesse dal protagonista - tutti tasselli che poi lo porteranno a fare una brutta fine. Di conseguenza, per me è smistabile in Drammatico.
     
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    CITAZIONE (& . @ 12/4/2021, 20:39) 
    Ti faccio notare qualche stupidaggine qua e là:
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    Usa questo codice per separare i capitoli:
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    "È stato uno sbaglio… È stato un errore… È stata colpa sua…”

    Manca una virgoletta.
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    – lui fece leva sulla mia – Winston era convinto che Cristo avesse sillabato “Di mio padre” con le labbra, ma quella voce si era ribellata a quel movimento così preciso – umanità.

    Non mi suona granché bene, perché così pare che abbia detto "sulla di mio padre umanità". Io metterei "mia" e l'inciso seguente dopo "umanità".

    Finalmente ho modo di commentare. Scusa per il ritardo, ma sono un procrastinatore seriale.
    Nonostante la mia abissale ignoranza, devo dire che sul piano formale sei migliorato. Il tuo precedente racconto, per quanto indubbiamente ben scritto, tendeva ad avere periodi un tantino lunghi, mentre non ho riscontrato questo problema in questa storia.
    Come per lo scorso racconto, ho trovato le descrizioni molto suggestive. Ho notato un topos - se così posso chiamarlo - già ricorrente nell'altra storia: il protagonista che, partendo da una situazione di estrema miseria, con mezzi soprannaturali riesce ad elevarsi, salvo poi finire in condizioni ancor peggiori a causa della sua superbia. Non so se sia voluto oppure no, ma ho apprezzato questo elemento di congiuntura.
    Alla fine non avrei molto altro da aggiungere. Piuttosto vorrei chiederti da dove hai tratto spunto per scrivere la storia (oltre che dall'omonima canzone e in parte dalle Sacre Scritture). In ogni caso continua così. :)
    Infine, per quanto concerne la sezione di destinazione, sarei abbastanza combattuto. A onor del vero ero tentato di optare per HS, ma alla fine gli elementi horror sono principalmente rappresentati dalla croce, dalla creatura e dalle azioni commesse dal protagonista - tutti tasselli che poi lo porteranno a fare una brutta fine. Di conseguenza, per me è smistabile in Drammatico.

    Sono molto contento che ti sia piaciuta e ti ringrazio per le correzioni. A proposito, quando scrivo "di mio padre" ho notato che strideva, ma poi ho deciso di lasciare tutto così com'è, poiché Winston parla inglese. Lo spirito avrebbe detto "my father's" per farsi capire da Winston, quindi l'ho tradotto alla lettera con "di mio padre", ma adesso che ci penso non è stata la migliore delle idee (ops...). Se avete altri suggerimenti per cambiare quella frase, vi prego di farvi avanti.
    Per quanto riguarda l'ispirazione, ho conosciuto la canzone per caso, spoilerandomi un po' Steel Ball Run, quella che viene considerata come settima parte delle Bizzarre Avventure di JoJo (l'abilità dell'antagonista si chiama come la canzone). Chi conosce JoJo avrà notato il mio modus operandi: inserisco riferimenti ad altre opere quando posso farlo. Un caso è il titolo, la ricorrenza del numero 36 24 36 e il significato del testo che si rifanno a una canzone degli AC/DC, mentre i nomi di Violet e Oliver corrispondo a quelli dei protagonisti di "Pretty Baby" (un film che parla di prostituzione) e "Oliver Twist" (un ragazzino che vive per strada). L'ispirazione mi è venuta solo ascoltando la canzone, comunque. Non c'è altro dietro.
    Ora, l'influenza della Bibbia. Nonostante io sia ateo, trovo la simbologia cristiana molto affascinante, la uso spesso da quando ho visto "Evangelion". E niente, è una passione che ho appena iniziato a coltivare.
    Ultimo, ma non meno importante... Sì, c'è un filo conduttore. Volevo rimediare al mezzo casino che avevo fatto con la mia prima storia, quindi ecco qui.
    E non serve che ti scusi per il ritardo, sono consapevole che una storia abbastanza lunga possa allontanare possibili lettori. Grazie ancora :D
     
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    Il racconto mi è piaciuto molto, non ho da aggiungere rispetto al commento di WDR anche se mi trovo incerta tra Horror e Drammatico (Ci vorrebbe la sezione Thriller ma ahimè, non c'è)

    L'unica cosa che mi ha fatto storcere il naso è la frase "Erano mandorle amare, quelle?" trovo un po' strano che un ragazzino di dodici anni, suppongo un senzatetto, degli anni '20/'30 conosca il sapore delle mandorle. Io mi sarei fermata a lui che notava un retrogusto, alla fine specificare che tipo di veleno lo uccide è un po' superfluo... ma è solo un dettaglio, niente di che.
     
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    CITAZIONE (DamaXion @ 22/4/2021, 09:27) 
    Il racconto mi è piaciuto molto, non ho da aggiungere rispetto al commento di WDR anche se mi trovo incerta tra Horror e Drammatico (Ci vorrebbe la sezione Thriller ma ahimè, non c'è)

    L'unica cosa che mi ha fatto storcere il naso è la frase "Erano mandorle amare, quelle?" trovo un po' strano che un ragazzino di dodici anni, suppongo un senzatetto, degli anni '20/'30 conosca il sapore delle mandorle. Io mi sarei fermata a lui che notava un retrogusto, alla fine specificare che tipo di veleno lo uccide è un po' superfluo... ma è solo un dettaglio, niente di che.

    Giusta osservazione. Correggo subito, grazie :)
     
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    Anche io condivido l'opinione dei miei colleghi, racconto molto piacevole, con linguaggio ricercato e prosa scorrevole. Lo trovo un netto miglioramento rispetto al tuo primo racconto.

    Per me è Drammatico
     
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