"Outside, the lions roam. Feeding on remains. We'll never leave, look at us now. So in love with the way we are. Here"
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La prima volta in cui ero andato a casa sua la ricordo ancora: non lavoravamo insieme da molto, forse si era trasferita da noi giusto da un paio di settimane ed aveva iniziato a far parte del nostro team. Era estremamente socievole o almeno sicuramente lo è sempre stata più di me dato che in poco tempo aveva stretto amicizia con tutti i nostri colleghi di lavoro, proponendo idee sempre nuove ed incrementando le vendite. Quella volta in particolare, appunto la prima volta in cui ero andato nel suo piccolo bilocale, non avevamo mancato di scambiarci degli sguardi dolci con i cosiddetti “occhi a cuoricino” nel posto in cui eravamo andati a pranzo soltanto poco prima. Avevo una gigantesca cotta per lei, anche se a trent’anni ormai parlare di cotta poteva sembrare superato da chiunque.
Ricordo il giorno del nostro primo effettivo appuntamento quando lei, non senza alcun velo di timidezza, aveva comprato i biglietti per andare a vedere un film di cui le stavo parlando ormai da settimane, fino alla nausea. Credevo che non lo avrebbe trovato così importante, ed invece pian piano stavo imparando a capire che i miei sentimenti fossero ricambiati.
Sono sempre stata una persona fortemente solitaria, non ho mai sentito il bisogno di circondarmi di troppi amici e, se non vogliamo contare l’illusione durante qualche storiella poi finita molto male, non avevo mai creduto di poter incontrare qualcuno con cui avrei desiderato passare il resto della mia vita.
Si dice sia il giorno più importante soltanto per le ragazze eppure anche io ero molto felice di poter vedere la mia amata varcare la soglia di quella piccola chiesetta nel suo paese, al fianco di suo padre, vestita di bianco con un lungo telo che inevitabilmente trascinava per tutta la navata.
Io e lei non abbiamo mai sentito il bisogno di avere figli, né di circondarci di oggetti di lusso che potessero compensare ciò che, agli occhi degli altri, non avevamo raggiunto nella vita. Abbiamo sempre preferito andare in giro per il mondo, scoprire insieme nuovi posti e renderci conto che, giorno dopo giorno, il nostro amore andava di pari passo alle nostre esperienze, crescendo senza che ce ne fosse un limite.
Purtroppo non avevo idea di ciò che mi avrebbe riservato la vita: ho passato giorni a chiedermi “perché?”, perché stesse accadendo proprio a me e alla serenità che insieme avevamo continuato a costruire. Le venne diagnosticato un cancro in stadio terminale, non c’era più niente che potessimo fare se non aspettare e provare a prolungare le sue aspettative di vita con della specifica terapia, che però non avrebbe mai debellato completamente il tumore; il medico era stato molto chiaro al riguardo. Lei non era più la stessa: aveva accettato che presto ci avrebbe lasciato tutti, è sempre stata coraggiosa, ma non avrebbe voluto far vincere la malattia e lasciare questo mondo senza essere più in grado di riconoscersi allo specchio. Ho lottato affinché cambiasse idea finché, con due occhi rossi e gonfi ormai anche stanchi di piangere, l’ho lasciata andare nella migliore clinica per il suicidio assistito. Persino il nostro medico ci è stato vicino, aiutandomi nei giorni seguenti a recuperare le forze per poter andare avanti anche senza di lei, senza l’amore della mia vita.
Siamo diventati pian piano amici: ho conosciuto la sua famiglia ed il lutto, rielaborato anche grazie ad un valido supporto psicologico, mi è sembrato più leggero in loro compagnia – anche se niente, niente mai riuscirà a risanare il mio rancore verso questa vita maligna, ingiusta, che mi ha strappato l’amore dopo nemmeno dieci anni passati insieme.
Oggi sono stato nello studio del mio amico, quel medico. Aveva una notizia da darmi: anche lui soffre dello stesso cancro che l’ha portata alla morte e, come lei, sa già di non avere grandi speranze di sopravvivere. Credevo volesse il mio conforto, che non riuscisse a dirlo alla propria famiglia e quindi avesse bisogno dell’aiuto di un amico a lui vicino, invece mi aveva chiamato perché, a detta sua, non voleva andarsene senza liberarsi di un peso. Avrei fatto di tutto per aiutarlo e confortarlo, io che c’ero già passato, ma ha aggiunto che il suo cancro fosse diverso da quello di mia moglie. “Perché?” allora gli ho chiesto, domanda ossessiva che ancora una volta tornava a ripresentarsi nella mia mente e nella mia stessa vita. L’ho visto muoversi nervosamente sulla sedia, stropicciare i braccioli di quella poltrona già distrutta mentre con lo sguardo non riusciva più a guardare il mio volto, costretto a puntarlo altrove mentre il ticchettio della penna che aveva in mano si faceva sempre più incessante. “Il mio cancro non è stato diagnosticato erroneamente” disse. “Quello di tua moglie sì”.
Edited by xRedRaven - 7/4/2021, 19:47
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