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A volte, vorremmo che le nostre vite cambiassero. A volte, vorremmo che il mondo si pieghi alla nostra volontà. A volte, vorremmo che le corone dei potenti fossero fuse in una sola da porre sul nostro capo martoriato. A volte, noi uomini siamo disposti a tutto pur di ottenere ciò che non abbiamo. Il mondo è una grande sfilata di sofferenza e dolore, guidata da chi è costretto ad indossare una maschera sopra l’altra per difendere i propri interessi. Immaginate una piazza grigia, gremita di uomini, donne e bambini recanti maschere di legno, una diversa dall’altra per espressione, forma e colore. Immaginate un grande carro adorno di nastri grigi scintillanti che sobbalza ad ogni buca, trainato a fatica dai poveri omuncoli mascherati. Immaginate un cielo completamente grigio, una grande barriera sfondata da un singolo proiettile di luce, che lascia la sua scia in lontananza, in cima a un alto colle. Un grande carnevale… Questa è la vita. Polvere. Questo è tutto ciò che vidi intorno a me quando strinsi quel patto. La mia casa, la vecchia villa in cui vissi i migliori anni della mia vita tra una festa e l’altra, era appena stata consumata dalle fiamme crudeli. Polvere, questo significa il mio cognome. La piccola Goldia Dust giocava nella sua angusta, muffosa stanza situata sulla sommità di un complesso di appartamenti. Tra le sue mani, una bambola di pezza logora e dotata di un sorriso imposto dal filo marrone che le solcava il volto danzava lieta, accompagnata da una palla di gomma recante un ghigno di inchiostro nero, ormai sbiadito. La luce bronzea del sole inondava la stanza dalle pareti verdastre e metteva in risalto i lineamenti della bambina e le forme del suo esile corpo spigoloso. Non era raro che in casa mancasse il cibo ed era altrettanto frequente che i suoi genitori litigassero violentemente. Goldia sentiva i suoi urlare pochi metri più in là, dietro delle barriere di legno marcio e umido che separava le stanze. Quelle porte erano troppo sottili per proteggere le sue orecchie e la sua innocenza. Suo padre non era un alcolizzato come potreste pensare, era solamente crudele. Il suo comportamento orribile e deplorevole nei confronti di sua moglie, in poche parole, non aveva nessuna giustificazione. Non fraintendetemi, l’alcol non è una scusa, ma solo uno dei tanti fiammiferi che, se accesi, possono generare una fiamma dalla luce rossastra, simile al colore del sangue che viene versato ogni giorno nelle case di molte persone. Chi crede di vivere in un mondo perfetto è un bambino, uno scrittore o un folle. Goldia sentì la mano pesante del padre colpire con violenza la guancia ossuta e scarna della madre, così simile alle sue stesse gote pallide. Le labbra screpolate di Goldia ebbero un sussulto quando pensò a ciò che suo padre avrebbe potuto farle se sua madre non fosse stata lì a farsi massacrare al suo posto… Anche se non sempre quel sacco di carne trita annerita – questo vedeva il signor Dust quando picchiava la sua donna – riusciva a salvarla. La bambina tentò di non guardare i lividi sulle braccia, sul collo e sulle cosce ancora freschi e violacei e continuò col suo gioco infantile e innocente, completamente dissimile da ciò che accadeva nell’altra stanza. Sentì qualcosa cadere per terra, poi le grida di sua madre e infine il silenzio, interrotto solo dai sospiri del padre e dai rantoli della donna. Era così che lei era venuta al mondo… E lo sapeva bene. Un giorno, mentre Goldia sedeva su una panchina nel cortile della sua scuola, suo padre alzava il gomito per la prima volta. Mentre Goldia guardava gli altri bambini giocare, suo padre si iniettava nelle vene dell’animo corrotto sempre più Martini. Mentre Goldia veniva derisa dai suoi compagni, sua madre pregava in ginocchio davanti al crocifisso inchiodato saldamente sulla porta di casa, il quale però non aveva versato una lacrima: Dio, dovreste saperlo, non è compassionevole. Mentre Goldia piangeva da sola rannicchiata dietro la panchina, sua unica difesa, la Morte si avvicinava alla sua casa con passo leggero, mentre la lama ricurva della sua falce strideva sul marciapiede grigio e sporco. Quando Goldia tornò a casa poche ore dopo, quello che trovò non la turbò quasi per nulla. Vide i cadaveri dei suoi genitori spiaccicati sul suolo come statue bluastre e pallide di diavoli caduti dal Paradiso. Tutt’intorno alla macabra scultura del Mietitore, un ammasso di arti e vesti logore, le luci blu e rosse delle auto della polizia colpivano i muri marroni e verdastri della piccola piazza in mezzo ai palazzi avvolti dal fumo di Boston. I vicini, anch’essi privati della grazia di una vita migliore di quella che già conducevano, osservavano curiosi la scena sotto di loro. “Ma quello non è Dust?” “Ma che è successo?” “Oh, Misericordia… Si sono ammazzati! Si sono ammazzati sul serio!” “Ha avuto la fine che si meritava. Quel maledetto cane…” Le mani del signor Dust erano ancora avvolte intorno al collo della sua consorte, mentre questa giaceva con le braccia spalancate e col volto segnato perennemente dal terrore su una pozza rossa. Un volo di dieci piani aveva posto fine alla tragica esistenza dei coniugi Dust… E aveva dato una scintilla di vita all’esistenza di Goldia. La bambina non aveva parenti stretti, quindi fu rinchiusa in un istituto. Lì, la sua vita migliorò notevolmente. La fanciulla bionda poté finalmente mangiare, seppur non a sazietà come aveva sperato, poteva giocare e sentirsi parte di un gruppo di suoi coetanei, altri poveri agnelli dimenticati dal Padre… Dio mio, Dio mio, perché li hai abbandonati? Pochi mesi dopo, l’istituto fu dato alle fiamme. Il fuoco, incarnazione dell’ira e della distruzione, che fino a poco tempo prima aveva succhiato il sangue della fanciulla a grandi sorsi, consumò quella che era diventata la sua casa in una sola notte di giugno. Lei fu l’unica a salvarsi dalle fiamme crudeli, mentre le suore e i bambini furono uccisi dalla tortura splendente. Le loro urla si levarono in tutta Boston, la quale si accorse troppo tardi che una delle sue poche aree soleggiate stava venendo consumata orribilmente. Non si seppe mai chi appiccò il fuoco, ma è sicuro che si tratti di un atto doloso. Goldia scomparve nelle tenebre al led di Boston quella notte e nessuno sentì parlare di lei per anni. La polizia non si curò nemmeno di cercarla, tanto erano malridotti i resti dei suoi compagni, cadaveri di carbone e ossa bruciate nel grigiore della cenere. Goldia visse per cinque lunghi anni tra i container dell’affollato porto di Boston, ogni giorno gremito di pescatori e commercianti. Non mancavano di certo i delinquenti, i ratti di fogna e gli emarginati come lei, i quali si rifugiavano nelle carcasse di metallo verniciato dei container in quel grande formicaio. Spesso i reietti del porto si aiutavano a vicenda, a volte, invece, si uccidevano per un pezzo di pane raffermo, altri si spingevano nelle vie interne della città e portavano con loro dei doni per sé stessi e per gli altri. Goldia odiava quella vita, odiava essere ritornata nella polvere da dove era venuta dopo aver conosciuto l’oro. Quel giorno si trovava sola e pensosa in un vicoletto buio e umido poco lontano dal porto chiassoso di Boston. Stava frugando in un cestino della spazzatura, territorio di caccia preferito dai gatti della zona, quando trovò un sacchetto di plastica aperto contente qualche mandorla senza guscio. Si sedette in mezzo alla sporcizia, avvolse il suo cappotto rosso e sgualcito intorno alla vita e iniziò ad assaporare il cibo che qualcuno prima di lei aveva rifiutato irresponsabilmente. Come si poteva sprecare quella manna venuta dal Cielo oltre le nuvole? Era Natale e Goldia aveva già compiuto dodici anni. Sentiva le canzoni allegre e recanti gioia che riempivano le strade, vedeva giovani allegri e a volte ubriachi che cantavano e ridevano di gusto nel loro benessere, vedeva i led in mezzo ai grattacieli della sua odiosa città. E lei era lì al freddo, circondata dalle mosche. Fu allora che la luce argentea della luna si oscurò all’improvviso. Goldia sollevò lo sguardo, sorpresa dalla presenza di quella figura che non aveva visto o sentito arrivare. “Buon Natale, mia cara!” disse l’ombra. Goldia non ricambiò l’augurio. “Perché sei così triste?” chiese allora la figura, poiché non aveva ricevuto alcuna risposta. “Non si vede?” disse la ragazza caustica. Non riusciva proprio a capire se il suo interlocutore fosse un uomo o una donna… I capelli argentati del losco individuo erano raccolti in sottili e numerose trecce ricche di anelli e venivano colpiti dai raggi lunari con una certa violenza. Il cappotto grigio scuro, invece, sembrava fuggire dal chiarore argenteo. “Oh, non essere così crudele con chi ti vuole aiutare…” La figura scura si chinò sulla ragazza e due puntini bianchi e luminosi illuminarono le orbite nere dell’essere, dando una forma alla maschera che portava sul volto. Goldia indietreggiò spaventata. In tutti quegli anni di sventure non aveva mai visto nulla del genere. Fissò la maschera nera, decorata con motivi verdi e sinuosi come le spire di un serpente affamato. Ad un esame più approfondito, Goldia vide che il corpo ligneo del rettile si stava muovendo alla luce biancastra in fondo alle pupille della figura. “Chi sei?” chiese la ragazzina con voce ferma. Aveva imparato a farsi rispettare in mezzo ai quei vicoli, dunque si alzò. La figura avvolta nel pastrano scuro rise di gusto, emettendo versi simili al respiro tagliente e gelato di un serpente. “Io, mia cara, sono Apathes Locky, il Venditore di Maschere!” Le spire del serpente si contorsero per formare un sorriso stilizzato sul legno nero della maschera. Apathes tese in avanti la mano guantata e aiutò la confusa Goldia Dust ad avvicinarsi a lui. “Puoi aiutarmi?” chiese lei. La sua voce non tradiva alcuna emozione, ma il suo animo era attanagliato da un pitone le cui zanne erano intrise di incredulità, scetticismo e desiderio. “Assolutamente sì, mia cara Goldia Dust… Non guardarmi con quella faccia! Io so tutto! Mi basta uno sguardo per leggere la tua storia…” I punti luminosi che ardevano al centro dei fori della maschera si fecero più intensi per un istante. “Tutto quello che mi devi dare è un oggetto che ti sta particolarmente a cuore. Niente di più, niente di meno.” “Mi stai imbrogliando, non è vero?” chiese lei con gli occhi sgranati e le labbra serrate. Il Venditore di Maschere guardò le iridi color smeraldo della ragazzina mentre il serpente di legno si agitava sulla sua maschera, poi si portò una mano al petto con fare teatrale. “Io sono il più onesto degli spiriti, mia cara Goldia… E poi, non me ne farei nulla di quella bambola di pezza tutta rovinata, non credi?” disse poi, indicando la tasca del giaccone della ragazza. Lei portò istintivamente la mano al suo fianco destro e tastò il rilievo, causato dalla presenza del suo vecchio giocattolo. Apathes Locky frugò nelle tasche interne del suo pastrano, poi strinse una maschera di legno fra le dita e la mostrò alla ragazzina. La maschera era ornata da disegni d’oro e di argento, da fiori e foglie rigogliose che sembravano brillare sempre di più nelle tenebre. Al centro della fronte bianca e lignea c’era una mela dorata, al cui centro splendeva l’argenteo simbolo del dollaro. Tutt’intorno, piccoli semi – o meglio, mandorle – seguivano il profilo delle guance come se fossero lacrime. A differenza del serpente smeraldino della maschera di Apathes, quegli ornamenti erano immobili. “É di tuo gradimento?” chiese con voce melliflua “Tutto ciò che devi fare è custodire gelosamente quella maschera e la tua vita cambierà in meglio. Fidati di me, riuscirai a vedere l’altra faccia della medaglia con questa. Avanti, Goldia…” Riluttante, Goldia Dust aprì la cerniera del cappotto e porse la bambola di pezza al Venditore di Maschere, poi sentì il freddo legno stringersi delicatamente intorno al suo volto ossuto e spigoloso. Quando si ritrovò la maschera fra le mani, questa sembrava essersi rimpicciolita. Locky ripose la bambola in una delle sue profonde tasche e si voltò. “Abbi cura di te e della tua maschera, mia piccola Goldia…” e se ne andò via. Quando scomparve dietro un angolo, Goldia sbirciò oltre il muro di mattoni anneriti e cercò il suo benefattore con lo sguardo… Ma Apathes Locky si era dissolto nella nebbia e nel fumo senza lasciare traccia. Sette giorni dopo, la mano di Goldia era stretta in quella di una donna dal viso gentile. Le due camminavano fianco a fianco nella nebbia di Boston. Io avevo solo dodici anni quando quella carogna maledetta, quel demone dell’Inferno, si presentò al cospetto di mia madre. La nostra villa era appena andata in cenere, quando quell’essere era emerso dalle tenebre, sibilando. In quei vent’anni di lontananza dal demonio, mia madre era riuscita a scalare le vette della società. Io nacqui in mezzo all’oro e alla seta, ben lontano dal mondo crudele che mia madre aveva conosciuto. Nonostante lei fosse cresciuta in mezzo alla polvere, pareva essersi dimenticata del marciume delle strade macchiate di verde e rosso, della bontà della sua madre adottiva, della fortuna che aveva avuto in tutti quegli anni… Era una dei pochi eletti, i quali si contano sulle dita di una mano. Eppure, era diventata indifferente come un borghese qualsiasi. Forse voleva solo esorcizzare il suo passato, forse voleva solo essere convinta che il suo successo fosse farina del suo sacco… Ma ha pagato il suo cinismo. Se solo avesse dedicato la sua vita alla povertà, forse quel ladro non sarebbe entrato in casa nostra per rubare la maschera che mia madre custodiva lì, sulla parete, a mo’ di trofeo di caccia. Che sciocca che era stata… Non doveva affidarsi a quei dannati sistemi di sicurezza. “Ti sei goduta questo lungo periodo di benessere, Goldia?” chiese il Venditore di Maschere ergendosi alto e fiero davanti a mia madre, inginocchiata nella cenere. I suoi vestiti erano laceri e bruciati in parte, i suoi occhi erano inespressivi. Non avevo mai visto mia madre in quel modo, ma capii che quello sguardo era tornato sul suo volto dopo tanto tempo. Mi sembrò di vedere il corpo di mia madre rimpicciolirsi e farsi più magro, quasi scheletrico, mentre gli occhi del demone bruciavano di piacere. Io ero lì, nascosto fra i detriti della casa crollata. Sentivo le sirene urlanti dei vigili del fuoco avvicinarsi minacciose e frettolose come il canto lugubre di un corvo. Volevo gridare, ma sapevo che in quell’essere c’era qualcosa che non andava. Sentii il peso di dodici anni di indifferenza e cinismo gravare sulle mie spalle: mia madre aveva avuto quello che forse si meritava… Ma io non avevo colpa! “Cosa vuoi da me?” chiese lei, tremando come una foglia. Da lei mi aspettavo un certo vigore e una certa rigidità, ma quegli anni passati ad ingrassare con tacchini e vino l’avevano rammollita. Non era possibile, l’uomo non dimentica mai il proprio passato, le cicatrici non spariscono mai… Ma allora perché lei era cambiata? Davvero mia madre era vissuta per strada? “Oh, ecco… Tu hai perso la maschera, quindi la pacchia è finita.” Apathes Locky portò le dita della lunga mano sinistra sulla parte inferiore della maschera. Il serpente di legno sibilò di gioia e mi parve che i suoi occhi si illuminassero per un istante.
Il Venditore di Maschere frugò nelle sue tasche e fece emergere dalle ombre una bambola di pezza. Il giocattolo consunto brillava di una luce sinistra. Non so perché, ma mi venne in mente una pianta del deserto guardando il debole bagliore che rifulgeva davanti agli occhi spaventati di mia madre. Il suo volto era una maschera di puro terrore. “No… Ti prego… Ho un figlio…” supplicò lei con le lacrime agli occhi, fissando i puntini bianchi dietro la maschera del demonio. “Anche coloro che hai rifiutato di aiutare supplicavano come stai facendo tu… Non ti ricorda niente?” “Io…” Apathes Locky sollevò lentamente la maschera. Per un lunghissimo istante, l’urlo di mia madre sovrastò gli ululati delle sirene. Era un grido folle, colmo di terrore e rimpianto. Vidi qualcosa nei suoi occhi umidi, qualcosa che non potrò mai dimenticare. Goldia Dust cadde all’indietro, morta. La sua anima era stata inghiottita dalle fauci grottesche di quell’essere che, grazie a Dio, non avevo potuto vedere in tutto il suo antico orrore. La maschera di legno nero tornò a nascondere il volto orribile. Apathes sollevò la mano destra e il suo indice si allungò sempre di più, fino a distruggere una larga porzione del guanto di pelle che ricopriva la mano grigia. Un artiglio affilato e sottile, lungo forse due metri, tracciò un solco profondo sul volto di mia madre. Chiusi gli occhi e mi portai le mani alle orecchie per non sentire il suono della pelle che si separava dalla carne. Quando riaprii gli occhi arrossati dalle lacrime, vidi il mostro che stringeva delicatamente i bordi di un ovale roseo tra le dita guantate. L’artiglio, nel frattempo, era scomparso sotto la pelle del guanto. Guardai il volto scarnificato di mia madre, rosso e sanguinante tra i capelli biondi. Perché? “So che sei lì, Lucas.” disse con la sua voce gelida, così simile al suono delle unghie sulla lavagna. Un brivido di terror panico corse lungo la mia schiena. “Vorresti tornare alla tua vita, vero?” mi chiese senza neanche voltarsi. Il volto di mia madre si irrigidì tra le sue mani nere, mentre la bambola di pezza che penzolava dalla tasca del pastrano prendeva fuoco e si consumava lentamente. “Tutto quello che devi fare è darmi quella collana.” Il suo tono di voce si fece mellifluo. Strinsi il pendente di cristallo rosa con le mani sporche di polvere. Le sue parole scivolarono nella mia mente come il veleno di un serpente corrompe le vene della sua preda. Ero in suo potere. Si voltò lentamente con i piccoli occhi bianchi e luminosi che ardevano nelle orbite vuote. “Perché dovrei?” riuscii a dire a stento. Le mie labbra si stavano ribellando lentamente al mio volere. Le spire del serpente di legno si incurvarono leggermente. “Perché lo vuoi. É meglio vivere cento giorni nella ricchezza, che mille in mezzo all’odio. Ciò che non ti uccide non ti fortifica, mio piccolo Lucas…Ti rende solo miserabile”. Quando Apathes Locky scomparve nel vento, i pompieri erano già arrivati. Io ero lì, inginocchiato in mezzo alla polvere e fradicio di lacrime e sangue. Tra le mie dita stringevo una maschera veneziana.
THE JOKESTER
Edited by Medea MacLeod - 6/1/2021, 13:02
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