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«Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi». Le parole sfuggono come aliti di vento dalla mia bocca tremante. Si perdono nel buio, sporchi lacerti della mia anima. Il buio è riparo. Gli occhi si stanno abituando. Riesco a percepire la sagoma delle tende pesanti, mosse dal vento, e l’angolo del salotto, dove l’oscurità è più fitta. Sono rannicchiato qui, con la schiena poggiata alla base della poltrona, da… quanto? Due ore? Forse qualcosa in più. Ma il sole ancora non sorge. La schiena è contratta, le natiche mi dolgono. Ogni volta che mi muovo, sento ogni osso del mio corpo scricchiolare. È come lo scoppiettio di un fuoco vivo. Di tanto in tanto la sensazione del feltro della poltrona che sfiora la mia schiena nuda mi fa rabbrividire. Potrebbe essere un ragno gigante che mi avviluppa nel suo abbraccio peloso… o la mano di chissà quale demonio che mi accarezza. È soltanto un’impressione sfuggevole; qualche secondo al massimo e poi passa. Ma in quei pochi attimi mi sembra di attraversare il confine che mi separa dalla follia. Ogni volta, tornare indietro – aggrapparmi all’ultimo appiglio prima del precipizio – è più difficile. Ma c’è il buio, e il buio è riparo. Mi nasconde… Nasconde quella cosa. Signore, fa’ che venga a noi il regno delle tenebre. Lo recito solo in mente. Un nuovo abbraccio gelido mi avvolge. Ho sempre pensato che ci fossero due mondi in perenne lotta tra di loro. Bene e male; bianco e nero. Luce e tenebre. Un sistema di dualità in cui gli opposti si guardano senza mai toccarsi. C’è una parte chiaroscurale anche nelle anime più candide, e un fondo di luce perfino negli spiriti più corrotti, certo; ma i buoni rimangono i buoni e i malvagi rimangono i malvagi. Era sulla base di questa rigida separazione che ero entrato in seminario. Il sacerdozio per me ha sempre rappresentato questo: la decisione di arruolarmi. C’è una guerra tra bene e male e io decido di schierarmi dalla parte del bene. Dalla parte di Dio. Adesso mi sembra difficile distinguere questi due mondi. Non c’è del male nei buoni o del bene nei malvagi. Non c’è male e non c’è bene. Se ci sono, la differenza è impercettibile, ingannevole. Niente mondi opposti che si guerreggiano. L’unico sistema che si para davanti all’uomo è il sistema del Caos. Ho guardato nell’abisso e vi ho scovato il mio stesso volto, come in uno specchio. «Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi». Continuo a pregare, ma le mie parole si sgranano in una litania senza senso. Non c’è nessuno lassù e, se c’è, non mi ascolta. Sono solo. Solo come una mucca precipitata in un pozzo profondo, con nessuno pronto ad accogliere i suoi muggiti di dolore. «Mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi mio Dio mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi mio Dio…». Devo riflettere. Ripercorrere quello che è accaduto. Se c’è una minima speranza di salvezza, è lì che si trova: nel labirinto dei miei ricordi. Le tenebre mi terranno al sicuro, almeno per qualche ora. Ma dopo?
Ieri mattina la mamma è sparita. Abbiamo una routine consolidata. Io mi sveglio tra le sei e le sette del mattino, non appena i primi raggi del sole filtrano dagli spiragli della tapparella chiusa. Mi sveglio e, senza aprire gli occhi, prego. È un’abitudine che mi ha trasmesso la mamma. Sin da piccolo, ogni mattino, la prima cosa che faccio è rivolgere silenziose preghiere al Signore. Solo dopo apro gli occhi. E da diciassette anni, da quando mio padre è morto, che il respiro asmatico della mamma accompagna le mie preghiere mattutine. Una sorta di graffio leggero dopo ogni inspirazione, dall’altro lato del letto matrimoniale. Ieri mattina quel sottofondo rumoroso era assente. Mi sono tirato su, allarmato. Lei… è ancora giovane, sessant’anni da compiere il mese prossimo, ma non ha più il cuore di una ragazzina. Ho il terrore di svegliarmi, al mattino, e di trovare il suo corpo senza vita al mio fianco. Lei non era dall'altra parte del letto. Mi sono spostato correndo nel salotto, poi in bagno. Niente. Alla fine nella camera in cui dormiva quando c’era mio padre. Non era neanche lì. Ho provato a chiamarla al telefono e ho sentito la vibrazione del suo cellulare sul comodino della camera da letto. Ero preoccupato. La mamma non si sveglia mai prima delle otto. Mi sembrava anche strano il fatto di non essermi accorto che si fosse svegliata prima di me. Ho il sonno molto leggero. Spesso mi sveglio soltanto per controllare se quell’ansito sonnacchioso c’è ancora. Qualche minuto dopo, scendendo di casa per cercarla nel paese, o magari per chiedere informazioni a qualcuno, ho notato un’altra cosa. La mia automobile era sparita. Sono corso su a casa e ho aperto il cassetto in cui tengo le chiavi dell’auto. Sparite anche quelle. La situazione mi sembrava chiara. La mamma si era svegliata e aveva preso la macchina. Non sarebbe stato spaventoso, se non fosse che lei non aveva mai preso la patente. Per qualunque cosa – una commissione fuori paese, o un incontro con qualche amica – ero sempre io ad accompagnarla. Adesso la mia preoccupazione si era trasformata in un’ansia soffocante. La immaginavo schiantarsi contro qualche albero, o sbandare sulla strada dissestata e sfondare il guard-rail… La faccio breve. Ho chiamato il maresciallo del paese e ho denunciato l’accaduto. Poi ho atteso tutto il giorno. Niente, nessuna notizia, non fino alle quattro di pomeriggio; e intanto l’angoscia era un verme che mi rosicchiava i nervi. Alle quattro sono andato in chiesa. La notizia della scomparsa della mamma si era già sparsa per il paese, per cui avevo annullato la messa del primo pomeriggio e le successive confessioni senza dover dare particolari spiegazioni. Mi ero recato in chiesa per recare sollievo alla mia anima. Ho pregato e ho chiesto perdono al Signore. La preghiera solitaria, nella chiesa vuota e silenziosa, ha sempre avuto per me un effetto estatico. Il tempo si scioglie e la mia anima si eleva e dialoga con Dio. Non ricordo quali peccati ho confessato né quali preghiere ho recitato. In quei momenti, la parte razionale di me rimane ancorata a terra, insieme alle angosce e ai mali terreni. Gli psicologi la chiamerebbero dissociazione; ma l’uomo di fede riconosce la comunione con Dio. L’estasi continua anche nei momenti successivi. Esco dalla chiesa, passeggio nella fresca penombra estiva. La pace è con me. È come essere in un sogno. Ricordo appena i luoghi che attraverso e le persone che incrocio sono sagome nebulose nella luce divina. Mi risveglio solo quando arrivo davanti a casa. Lì le preoccupazioni di questa vita mi assalgono. E, assieme alla preoccupazione, c’è un filo di speranza: magari… magari lei è tornata. È a casa, adesso. Quasi me ne convinco. Avvicinandomi alla porta, sento dei rumori provenire dall’interno. Il cigolio del parquet, come se qualcuno ci stesse facendo ginnastica. E dei gemiti, gemiti di un uomo, a tratti simili a sofferti colpi di tosse. Il mio cuore perde un colpo. Le mie mani tremanti faticano a trovare il chiavistello. Intanto i gemiti all’interno montano di volume. Ora sono sveglio, sveglio e terrorizzato. Finalmente riesco a girare la chiave nella serratura. Spingo la porta, che sbatte sul muro portante con un gran fracasso. Sulla poltrona in pelle, il volto della mamma spunta al di sopra delle spalle dello Sconosciuto. È lei, la mamma… ma è più giovane. Le rughe intorno agli occhi sono scomparse. Il suo viso, sbavato di sudore e fondotinta, è liscio, incrinato solo dal piacere che le deforma la bocca. Ha le cosce aperte, i muscoli dei polpacci si contraggono in spasmi intorno alla schiena dello Sconosciuto. Di scorcio, riesco a vedere il suo seno destro. Sodo, il capezzolo turgido, quella voglia a forma di virgola defilata verso la spalla. Lo Sconosciuto si ferma. Una lunga cicatrice, che parte dall’altezza della spalla, gli attraversa la schiena nuda. Il suo pube striscia contro quello della mamma. È nudo, eccetto che per un paio di calzini neri. È una vista oscena, che mi strizza lo stomaco come se fosse uno straccio bagnato. Lo sento ridacchiare. Poi si sfila dalla mamma e si volta verso di me. Non faccio in tempo a guardarlo in volto: la sua mano si dirige verso l’interruttore al fianco della poltrona. Le luci si spengono. Sono solo, nel buio, e lo Sconosciuto è di fronte a me. «Eccoci» dice lo Sconosciuto. Si avvicina a me. Sento il calore del suo corpo che attraversa l’aria. «Saprai chi sono, finalmente». Parla quasi ridacchiando. Ha una voce conosciuta, la voce di…
Forse capisco. Restituiamo al mondo ciò che riceviamo. Il brutale principio di azione e reazione. La somma totale delle forze in gioco deve essere zero. È questo che dovrei credere? Nessuna regia divina a condurre il film della storia umana? Non siamo che l’incarnazione di leggi fisiche? Mi riesce difficile pensarci – deformazione professionale. Anni a predicare la bontà del piano divino, e ora… Ma faccio fatica anche a trovare un minimo stralcio di significato dietro tutto ciò. Neanche sforzandomi posso leggere la volontà del Signore in questa storia. Se c’è un piano divino, allora il Dio che ho adorato è un Dio immondo. Forse è soltanto un estremo tentativo di razionalizzare. Azione e reazione – ho dato al mondo ciò che ho ricevuto. Sembra semplice. Troppo semplice. Il buio permane. È un rifugio caldo… Ma ora comincio a sentire quell’odore. Per quello non c’è riparo. Neanche il buio può nulla.
Avevo otto anni quando mio padre mi costrinse per la prima volta a inginocchiarmi di fronte a lui. Mi disse che avrebbe detto alla mamma e a Gesù che ero stato un bambino cattivo. Obbedii. Avevo paura di Gesù e avevo paura della mamma. Obbedii ogni volta, per cinque anni. Crescendo, dall’inconsapevolezza iniziale, cominciai a sentire che quello a cui mi costringeva era sbagliato. A dieci anni non riuscivo a guardare negli occhi mio padre. Era come se la colpa mi gravasse sul collo e mi impedisse di tenere la testa sollevata al suo cospetto. A dodici anni, mi sentivo viscido come un rettile. Puzzavo del suo sesso e mi portavo quel puzzo per tutta la scuola. Se pensavo alle ragazze, mi veniva in mente l’immagine di mio padre che mi scrutava dall’alto, gli occhi e la bocca dischiusi e deformati dalla prospettiva. Era il tempo delle prime erezioni mattutine. Anche quelle erano peccato: le associavo a mio padre. Mi svegliavo e correvo in bagno, tentando di stringere il pene tra le cosce per fermare l’afflusso di sangue; poi, seduto sul bidet, ci facevo scorrere sopra l’acqua. Prima gelida, per placare l’istinto; poi bollente, per castigarmi. Fu a tredici anni appena compiuti che mi imbattei nello Sconosciuto. Tornavo da scuola prima del previsto a causa di uno dei miei soliti mal di pancia strategici, inventati per saltare la lezione di educazione fisica. Stavo aprendo la porta di casa, sovrappensiero, quando mi accorsi del rumore. Il cigolio del parquet, e l’ansito di un uomo. Un ansito simile a un colpo di tosse. Aprii la porta, in silenzio, e fu allora che vidi. Sulla poltrona, la mamma, a cosce aperte, accoglieva lo Sconosciuto. Lui non si fermò. Lei aveva la testa rivolta verso la porta, ma non si accorse di me. Gemeva anche lei, ma più sommessa, e tracce di fondotinta e mascara le sporcavano il volto sudato. Sul seno sodo, una voglia violacea, a forma di virgola. Mi sembrò osceno e insieme mi piacque. Chiusi la porta, attento a non farmi sentire, e mi sedetti sul pianerottolo delle scale. L’erezione mi tendeva i pantaloni. Mi toccai e qualche secondo fu sufficiente. Dopodiché, sporco nei calzoni e nell’anima, portandomi dietro quell’odore aspro, mi precipitai fuori dal cancello e corsi via. Camminai a lungo e tornai solo a ora di pranzo. Il pomeriggio mi masturbai una seconda volta, solo in cameretta. La sera arrivò la terza, dopo aver recuperato dai panni sporchi le mutande ancora umide della mamma. Ogni volta, a un piacere sempre più effimero seguiva un senso di sporcizia sempre più persistente. Eppure continuai. Continuai per anni. Nei bagni della scuola, sul pianerottolo mentre lo Sconosciuto e la mamma facevano cigolare il parquet, di notte sotto le lenzuola. E pensavo a lei. Alla sua faccia sudata, col trucco guasto, devastata dal piacere, e alla voglia a forma di virgola vicino al capezzolo. Quando ne avevo l’occasione, la spiavo dagli occhielli delle serrature o irrompevo in bagno, fingendo di non accorgermi del fatto che ci fosse lei. Intanto gli incontri con mio padre erano finiti. Già a dodici anni, le sue richieste si erano fatte più sporadiche. Pochi mesi dopo il giorno in cui avevo trovato la mamma con lo Sconosciuto, smise di perseguitarmi. Doveva aver deciso che ero diventato troppo maturo per i suoi gusti. Morì qualche anno dopo, stroncato da un infarto sul posto di lavoro, e non ne soffersi. La sensazione di avere quel fondo sporco e melmoso nell’anima però non finì. Era soltanto cambiata la motivazione della mia colpevolezza. E insieme a quella, avvertivo un’angoscia che non sapevo definire. Aveva a che fare con lo Sconosciuto, in qualche modo. Non sapevo chi fosse e non volevo scoprirlo. L’unico indizio riguardo al suo conto era quella cicatrice lunga e frastagliata che gli percorreva il lato destro della schiena. Era troppo anche quello. Quando ipotizzavo un incontro tra lui e la mamma, mi accostavo alla porta e poi, seduto sulle scale, prendevo a toccarmi ascoltando quei rumori e immaginando cosa accadeva di là della porta. Ma finivo in fretta, e subito correvo via – non tanto per il timore di essere scoperto, ma perché l’idea di sapere chi fosse mi angosciava. Immagino abbia a che fare con il fatto che fu lui a indurmi sulla via della masturbazione. Senza di lui, non avrei mai immaginato la mamma in quel modo. Durò per anni, fino al mio ingresso in seminario. A quel punto gli incontri con lo Sconosciuto si erano interrotti già da qualche tempo. Non le mie fantasie: quelle erano continuate. Dopo di allora… be’, non posso dire di non averci più pensato. Quell’immagine – mia madre a cosce aperte sulla poltrona, e il suo volto e il suo seno – ha continuato a tormentarmi per anni. Ma ho trattenuto ogni istinto. Avevo Dio dalla mia parte.
Ricordo il dolore. Ricordo la scia di sangue incrostata sul fondo della vasca. Impiegai un’ora intera per farla sparire, strofinando a fondo con la spugna. Avevo diciassette anni. Il periodo più vivo della mia ossessione. Avevo assistito all’ennesimo incontro tra la mamma e lo Sconosciuto. Quella volta, l’idea che lei non potesse essere mia – l’idea di non poter essere al posto dello Sconosciuto – mi era sembrata odiosa. Mi chiusi in bagno e mi spogliai. Afferrai il rasoio che usavo per farmi la barba ed estrassi la lama. Mi tagliai prima al di sotto della spalla, fino all’altezza delle costole; poi, partendo appena sopra il sedere, aprii il secondo taglio e tentai di ricongiungerlo al primo. Ci feci scorrere l’acqua fino a fermare la colata di sangue. Bruciava, ma mi sentivo eccitato. Mi masturbai nella vasca, immerso nell’acqua mista a sangue. Ora avevo anche io la mia cicatrice. Desiderio di emulazione? O soltanto l’idea di potermi sostituire allo Sconosciuto nelle mie fantasie? Non lo sapevo e tuttora lo ignoro. So che la desideravo. Quello fu il punto più alto della mia ossessione.
«Eccoci» dice lo Sconosciuto. Si avvicina a me. Sento il calore del suo corpo che attraversa l’aria. «Saprai chi sono, finalmente». Parla quasi ridacchiando. Ha una voce conosciuta, la voce di… Non mi dà il tempo di pensarci. «Non eri ansioso di conoscermi?» «Vai via» dico in un soffio. Non è l’uomo adulto che parla. Non il prete sicuro della sua dottrina, no. È l’adolescente invischiato nel viscido della propria anima. «Mi cacci così? Non vuoi sapere chi sono?» Nel buio, l’unica cosa che riesco a scorgere è il suo pene eretto che punta verso di me. «Via…» sussurro. Tremo e provo a sbarrare gli occhi, ma non ci riesco. «Non fare così» ridacchia lo Sconosciuto. La sua voce è sicura, virile. «Non è a me che hai dedicato tutte le tue seghe, in questi anni?» È a qualche centimetro da me. Sento l’odore del suo fiato e del suo sudore. Mi sfiora. A quel punto i miei nervi si sbloccano. Grido e lo allontano da me con uno spintone. Poi lo colpisco con un pugno. Cade, e la sua testa fa un rumore secco e vuoto, come di una noce che si rompe. Crollo anche io a terra. Inizio a singhiozzare, senza lasciarmi andare del tutto al pianto. Striscio verso la poltrona. La mamma è lì – avverto la sua sagoma silenziosa nella penombra. Accendo la luce e striscio verso il corpo dello Sconosciuto. Lo giro, lo guardo, scruto il suo volto. Il fiato si ghiaccia nel petto. La meraviglia e l’orrore si impadroniscono di me. Di fronte a me, a scrutarmi con quello sguardo morto ma colmo di uguale meraviglia e orrore, c’è il mio stesso volto. «L’hai avuta, finalmente» dice in un solo fiato. Ora riconosco la mia stessa voce che viene fuori dalla sua bocca. Mi alzo. Vorrei gridare, ma l’urlo si congela nella mia gola. Mi giro. La mamma è sulla poltrona. Le cosce flosce aperte, i seni cadenti, con quella voglia a forma di virgola che la gravità e il tempo hanno deformato. Ha gli occhi aperti, ma vacui. Nessun respiro ansante viene fuori dalla sua bocca. La sua faccia è la maschera livida della morte.
È l’ultima cosa che ho visto. Dopodiché, ho spento la luce e mi sono rannicchiato dietro la poltrona. Forse ho dormito o forse sono svenuto. Forse ho vegliato nel tempo immobile, ghiacciato. Le tenebre sono ancora fitte, ma ora l’odore è troppo forte perché si possa ignorarlo. Sesso e morte, ecco cos’è. Tremo. Se accendo la luce, e il corpo dello Sconosciuto non c’è, allora… allora… Non riesco neanche a pensarlo. È un abominio troppo profondo. Ma ora i ricordi riaffiorano. È come se una coscienza che pensavo di aver sepolto riemergesse da qualche abisso. Ora ricordo. Ricordo di aver nascosto io la macchina dentro il garage. Ricordo di aver trascorso appena pochi minuti in chiesa, pregando sommessamente, e poi di essere tornato a casa. Ricordo il respiro fermo, al mattino. Ricordo di averla spogliata e di aver portato il suo corpo nudo sulla poltrona. Ricordo la freddezza della sua carne. Ricordo… Mi alzo. Accendo la luce. Nella stanza c’è solo il cadavere della mamma, in quella posa oscena. Lo ricompongo ad occhi chiusi, ma non ho il coraggio di vestirla. Schiudo le tende e mi affaccio alla finestra. Il primo chiarore dell’alba sfiora il paese. Mi arrampico sul battente e mi siedo, coi piedi penzolanti. Poi mi lascio andare.
6: Non commettere atti impuri
Edited by Tommas02 - 28/10/2020, 14:34
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