#andamovie
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24 ottobre 1587 – Csejte Ungheria
Erano sei ore che si guardava nello specchio della stazione da toletta.
Era bella.
Molto bella, ma ormai il tempo stava vincendo. La stanza era illuminata dalle fiamme del camino. Dora aveva acceso il fuoco ore prima senza che la contessa se ne accorgesse. Era troppo impegnata a fissare la sua immagine riflessa.
Abbassò lo sguardo e si passò una mano sul seno. Quasi non riusciva a sentire nulla a causa del corsetto che a stento le permetteva di respirare. Scese e accarezzò la gonna. Indossava un vestito di seta, era rosso cardinale e il pallore della sua pelle spiccava facendola sembrare una statua di puro alabastro. Aveva al collo la collana che Massimiliano II le aveva regalato per il matrimonio e l’enorme rubino tagliato a goccia brillava facendo quasi scomparire la fila di perle che le legava il collo. Da tempo aveva smesso di indossare la croce che le aveva dato sua madre. Si passò un dito lungo la guancia cercando di tendere la pelle verso le orecchie, si sfiorò le labbra troppo chiare e arrivò fino agli occhi. La luce che avevano non era diminuita, ma la sua pelle si stava spaccando per le rughe. Sembrava un quadro. Un bellissimo capolavoro a olio, ma avvicinandosi abbastanza riusciva a vedere le crepe della pittura che aumentavano anno dopo anno. Prese un altro specchio che le aveva regalato suo marito. Era d’oro e aveva smeraldi incastonati. Si guardò i capelli che stavano perdendo lucentezza, li teneva raccolti in alto e chiuse gli occhi girando il prezioso specchio, lo appoggiò sul tavolo e sospirò. Una lacrima le scivolò sulla guancia e arrivò fino al mento. Rimase appesa per quasi due secondi, la luce delle candele l’attraversò facendola sembrare una piccola stella e quando si staccò divenne buia e si infranse sul polso della contessa. Il contatto le dette come una scossa e la donna aprì gli occhi di scatto. Un ricordo, un desiderio, una speranza, una convinzione.
Rimase a bocca aperta e si passò le dita sul polso. Era lo stesso punto su cui era finito il sangue di Karla. Un sorriso le increspò le labbra e si fissò un’ultima volta nello specchio prima di alzarsi finalmente dallo sgabello in velluto blu. Fece un cenno alla sua immagine riflessa e raccolse l’enorme gonna per andare alla porta. Subito fuori c’era il suo fidato nano di corte, Ficzkò, era vestito con i suoi ridicoli abiti colorati ed era rimasto fermo in attesa della sua signora per ore. Sulla mano aveva ancora la cera colata dalle candele sul candelabro d’argento e la contessa gli sorrise passandogli una mano sulla testa. Camminarono in silenzio lungo i corridoi del suo castello. Le loro ombre mosse dalla tremante fiammella della candela sembravano danzare sulle pareti in pietra coperte di arazzi raffiguranti le battaglie contro i turchi. Ogni sala in cui passavano era deserta. La servitù sapeva bene cosa stava per accadere e le ancelle non necessarie erano rinchiuse nelle loro stanze. Stavano riunite tutte insieme vicino al fuoco abbracciandosi tra loro e pregando il signore che un giorno non toccasse anche a loro.
Le scale che conducevano alle segrete erano fredde, ma ad ogni scalino che scendeva, la contessa sentiva l’energia aumentare. Le sembrava di respirare meglio, di vedere meglio. La sua pelle si illuminava e i capelli tornavano setosi. E quello non era ancora niente. Arrivò nella sala del bagno e vide Dorothea che le sorrise allungandole le mani. Alla sua destra c’era il suo servo, Thorko che stava a torso nudo con lo sguardo alto. Indossava solo delle braghe bianche lise e mezze trasparenti che riuscirono a far arrossire perfino la contessa, nonostante le dissolute feste in casa di sua zia. «Mia cara, non ci deve essere vergogna qui dentro.» disse Dorothea stringendole le mani e sorridendo alla donna come una madre. «Il momento è arrivato, è tutto pronto.» La contessa rispose al sorriso sentendosi circondata dall’amore delle persone a cui voleva più bene. Incontrò lo sguardo del suo Ficzkò, si voltò a guardare Thorko e i suoi occhi scesero per un secondo per risalire subito con gli zigomi rossi. Poi tornò a guardare Dorothea e sospirò. Allargò le braccia e Thorko la raggiunse. Le tirò un laccio del corpetto e la contessa si abbandonò a un profondo respiro. Era raro riuscire a prendere tanto fiato. L’uomo dietro di lei continuò a sfilarle i legacci e in pochi attimi il prezioso vestito di seta era per terra alle sue caviglie delicate. La donna era completamente nuda, era rimasto solo il rubino che pendeva al centro dei suoi seni ancora perfetti. Le mani di Thorko si muovevano rapide su tutto il suo corpo e ansimava in sincrono con la contessa che stringeva gli occhi in estasi. Dorothea le andò davanti togliendole le forcine e gli spilli che mantenevano i capelli in quella complessa acconciatura. Le ciocche caddero sulle spalle come una cascata ramata e il profumo dell’olio inondò ogni cosa.
Ficzkò fece due passi avanti e allungò la mano aspettando quella lattea della sua signora. La contessa era dispiaciuta di non sentire più le carezze del servo di Dorothea, ma era arrivato il momento.
Si fece guidare dal suo nano lungo la stanza circolare e raggiunse l’enorme vasca di rame che era al centro. Era lucente e le fiamme del camino la facevano sembrare viva. Nonostante fosse una parte delle segrete, la stanza era calda grazie al fuoco e la contessa alzò un piede, entrando all’interno della vasca. Sospirò ancora passandosi una mano tra i capelli. Non avevano più la stessa morbidezza di un tempo. Si fissò le mani e vide delle piccole macchie. Chiuse gli occhi e le lacrime le bagnarono le guance. Fece di no con la testa e poi sollevò il mento.
Tre ragazze nude erano appese a testa in giù proprio sopra la vasca. Erano bellissime, giovani, pure. I loro corpi perfetti avevano qualche segno della prigionia, ma non importava. I loro lunghi capelli biondi arrivavano fin quasi al bordo e Erzsébet li prese tra le mani a conca come se fossero stati acqua di fonte. Erano morbidissimi, sani e giovani. Li portò al viso e inspirò. Era così ingiusto che loro fossero ancora giovani e lei non più. Lei era la contessa. Doveva avere la loro giovinezza. Non aveva senso il contrario.
Le ragazze erano imbavagliate e la stanza era immersa nel suono sommesso dei loro singhiozzi e dallo scoppiettio del fuoco. Avevano il viso rosso a causa della posizione e provavano un dolore insopportabile alle caviglie dove le catene avevano ormai scarnificato fino quasi all’osso. Avevano le mani legate sopra la testa e la contessa le accarezzò i gomiti salendo. Arrivo ai seni, poi alla pancia e tornò giù fino al collo. Sorrise e allungò il braccio verso destra senza nemmeno guardare. Thorko le passò un lungo pugnale dalla lama ricurva. Erzsébet lo strinse e fissò le tre ragazze.
Alzò lentamente la lama verso la prima che iniziò a cercare di gridare. La giovane piangeva disperata e sentiva difficoltà a respirare, non riusciva a muoversi e non smetteva di dimenarsi nel tentativo di allontanarsi dal coltello, ondeggiando appesa. La contessa aveva gli occhi che sembravano completamente neri, ma al centro brillava una luce malata. Passò la fredda lama del pugnale sulla pelle della poverina senza ferirla. Le accarezzò il viso come aveva fatto spesso con le sue figlie. Sorrise. Le passò le dita tra i capelli, erano esattamente come i suoi quando aveva la sua età. Le mancavano, come le mancava la pelle liscia e le gambe sode. Voleva avere l’energia di quando aveva sedici anni e la voglia di divorare il mondo che l’aveva portata ad essere la donna più potente dell’Ungheria. Strinse la presa e tirò con forza strappando alcuni capelli. Il suo sorriso si trasformò in un ghigno e poi in una smorfia di rabbia. Le portò la lama sotto il mento e gridò tagliando. Usò talmente tanta forza da intaccare l’osso dietro e il sangue iniziò subito a colare. Quando aveva colpito l’arteria, uno spruzzo le era arrivato sul viso ed era stato come essere stata toccata da un angelo. Un angelo meraviglioso che le donava nuova giovinezza.
Una delle ragazze aveva il bavaglio più lento e dimenandosi le si scoprì la bocca. Prese a gridare con tutto il fiato che aveva e implorò aiuto. La sua voce era melodiosa anche nel terrore. Erzsébet la fissò e tornò a sorridere. Le andò sotto e le passò una mano insanguinata sul viso. Le afferrò le spalle e girò su se stessa come se danzasse. La vittima si avvolse nelle catene che le entrarono ancora di più nella carne e la poverina urlò di dolore. Era come essere marchiata a fuoco ad ogni movimento. La contessa si cullò nel suono della sua disperazione, poi alzò il coltello e la sgozzò con lentezza. Il sangue iniziò a scivolare piano e lei riuscì a vedere la vita che abbandonava gli occhi di zaffiro della contadina. Ormai il sangue aveva fatto una pozza sul fondo della vasca e la nobildonna aveva i piedi immersi fino alle caviglie. Si mise in ginocchio sotto la seconda ragazza e chiuse gli occhi sentendo il suo sangue che le scorreva sul viso. Aprì la bocca e ne bevve un sorso. Aveva un sapore salato quasi metallico. Si sentiva rinata, ma non era ancora finito. Si rialzò e andò verso la terza poveretta. Erzsébet aveva un aspetto infernale. Il suo viso era dipinto di un rosso scuro e i suoi occhi spiccavano al centro come carboni ardenti. Aveva un ghigno malefico e i denti biancheggiavano nella penombra come le zanne di un demone. Anche l’ultima ragazza stava piangendo. Continuava a pensare alla sua povera madre che era morta nel tentativo di non farla rapire dagli sgherri della contessa. I passi della donna spostavano piccole onde di sangue all’interno della vasca di rame. Thorko fissava la contessa senza celare la sua eccitazione e Dorothea accarezzava la testa di Ficzkò come fosse stato un gatto senza spostare lo sguardo pieno d’orgoglio dalla sua creatura più luminosa.
Il coltello si alzò per poi calare un’ultima volta.
Erzsébet Bàthory – 7 agosto 1560; 21 agosto 1614. Invidiosa della giovinezza altrui, resa folle dalla sua stessa vanità (e da generazioni di endogamia) violò il comandamento più importante di tutti: non uccidere. Secondo un diario ritrovato nel castello, per circa 650 volte.
Edited by KungFuTzo - 21/10/2020, 16:20
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