Il boia elettrico

H. P. Lovecraft

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    Ser Procrastinazione

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    Per essere un uomo che non ha mai corso il rischio della pena capitale, provo un terrore esagerato della sedia elettrica persino come argomento di conversazione; anzi, penso che mi faccia accapponare la pelle più che all'imputato il quale rischia la vita. Il motivo è che quel particolare strumento di morte mi fa venire alla mente un fatto di quarant'anni fa: un avvenimento piuttosto strano che mi ha portato faccia a faccia con l'ignoto.

    Nel 1889 facevo l'investigatore per conto della compagnia mineraria Tlaxcala di San Francisco, che sfruttava diverse piccole miniere d'argento e rame nelle montagne di San Mateo, in Messico. Alla miniera numero tre, il cui vice sovrintendente era un individuo piuttosto ambiguo e sgarbato di nome Arthur Feldon, c'erano dei problemi: il 6 agosto la compagnia ricevette un telegramma in cui si diceva che Feldon era fuggito portando con sé i registri di magazzino e altri documenti e pratiche riservate; come se non bastasse, aveva lasciato nella peggior confusione la situazione amministrativa e finanziaria.

    Per la compagnia fu un brutto colpo e nel tardo pomeriggio il presidente McComb mi chiamò nel suo ufficio per ordinarmi di ritrovare le carte ad ogni costo: come ben sapeva, c'erano gravi ammanchi. Non avevo mai visto Feldon e le fotografie a disposizione non erano delle migliori: per di più il mio matrimonio era fissato per il giovedì della settimana seguente, quindi fra nove giorni. È comprensibile che non avessi nessuna voglia di essere spedito in Messico per una caccia all'uomo che poteva durare chissà quanto, ma l'urgenza era tale che McComb si sentì nel pieno diritto di affidarmi l'incarico. Dal canto mio decisi che per rimanere alla compagnia dovevo obbedire senza troppe proteste.

    Sarei partito quella sera, usando il vagone privato del presidente fino a Città del Messico, dopodiché avrei preso una ferrovia a scartamento ridotto per le miniere. Jackson, sovrintendente della numero tre, mi avrebbe dato tutti i particolari e ogni indizio disponibile al mio arrivo; poi sarebbe cominciata la ricerca nelle montagne, lungo la costa o nel labirinto di Città del Messico, secondo i casi. Partii con la ferma decisione di risolvere il problema - e risolverlo con successo - il più velocemente possibile, e per compensare la mia amarezza immaginai un veloce ritorno con i documenti e il prigioniero: questo avrebbe trasformato il mio matrimonio in un vero e proprio trionfo.

    Dopo aver informato la mia famiglia, la mia fidanzata e gli amici, mi preparai rapidamente per il viaggio e incontrai il presidente McComb alle otto di sera, presso lo scalo della Southern Pacific. Da lui ricevetti un plico di istruzioni scritte e un libretto di assegni, dopodiché partii nel suo vagone, che era stato agganciato al transcontinentale delle otto e quindici diretto a est. Nel viaggio non accadde nulla di particolare, e dopo una buona notte di sonno mi godetti il lusso del vagone privato che mi era stato assegnato così premurosamente. Lessi le istruzioni con cura e feci piani per la cattura di Feldon e il recupero dei documenti. Conoscevo abbastanza bene la zona di Tlaxcala, senz'altro meglio dell'uomo scomparso: questo mi dava un certo vantaggio nelle ricerche, a meno che non fosse già partito col treno.

    Leggendo le informazioni venni a sapere che Feldon aveva dato parecchi grattacapi al sovrintendente Jackson: si comportava come se avesse qualcosa da nascondere e lavorava nel laboratorio della compagnia, senza dar spiegazioni, alle ore più strane. Si sospettava che fosse implicato in furti di minerale con l'aiuto di un capo messicano e alcuni peones; ma benché i nativi fossero stati licenziati, non c'erano prove sufficienti per fare un passo decisivo verso il misterioso funzionario. Anzi, nonostante i suoi modi furtivi, nel comportamento di Feldon c'era più tracotanza che sensi di colpa.

    Camminava a testa alta e parlava come se fosse la compagnia a turlupinare lui invece del contrario. La sospettosità dei colleghi, scriveva Jackson nel suo rapporto, aveva irritato Feldon sempre più, finché era scomparso con tutti i documenti dell'ufficio. Non era possibile fare ipotesi sul luogo in cui si trovava, anche se l'ultimo telegramma di Jackson suggeriva le impervie alture della Sierra de Malinche, la formidabile montagna ricca di miti che vista sullo sfondo del cielo ricorda un corpo inerte, e dalle cui pendici erano giunti i messicani implicati nei furti.

    A El Paso, dove arrivammo alle due della notte successiva alla partenza, il mio vagone privato fu staccato dal treno transcontinentale e collegato a una locomotiva che avevamo ordinato via telegrafo, col compito di portarci a sud verso Città del Messico. Continuai a sonnecchiare fino all'alba e lo spuntar del giorno illuminò il paesaggio piatto e desertico del Chihuahua.

    Gli addetti al treno mi dissero che l'arrivo a Città del Messico era previsto a mezzogiorno di venerdì, ma ben presto cominciammo ad accumulare una serie di ritardi e perdemmo ore preziose. Il treno si fermava di frequente sui binari morti che fiancheggiavano la linea a una sola rotaia, mentre di tanto in tanto un surriscaldamento della fornace o altre difficoltà tecniche compromettevano ancor più il programma di viaggio.

    A Torreòn avevamo già sei ore di ritardo, ed erano quasi le otto di venerdì - ben dodici ore indietro rispetto alla tabella di marcia - quando il macchinista accettò di aumentare la velocità nel tentativo di recuperare un poco. I miei nervi erano provati al massimo ma non potevo far altro che passeggiare su e giù nel vagone, come un disperato. Alla lunga scoprii che l'aumento di velocità era stato ottenuto a un prezzo altissimo, perché nel mio stesso vagone si notavano i sintomi del surriscaldamento, e dopo un'attesa insopportabile gli addetti al treno decisero che bisognava rallentare e far controllare la vettura alla prima stazione dotata di un'officina, la città industriale di Querétaro. Fu la goccia che fece traboccare il vaso e per poco non mi misi a pestare i piedi come un bambino. Più di una volta mi sorpresi a spingere i braccioli della mia poltrona, nel tentativo d'incoraggiare il treno a non procedere a passo di lumaca.

    Erano quasi le dieci di sera quando ci trascinammo a Querétaro, dove trascorsi un'ora inquieta sul marciapiede della stazione mentre il mio vagone veniva sganciato ed esaminato da una decina di meccanici del luogo.

    Finalmente mi comunicarono che il lavoro superava le loro capacità, e che il locomotore aveva bisogno di parti di ricambio che si potevano ottenere solo a Città del Messico. Tutto congiurava contro di me, e stringendo i denti pensai a Feldon che si allontanava sempre più: magari nel facile nascondiglio di Vera Cruz con il suo porto pieno di traffici, o a Città del Messico, da cui partono treni per tutte le destinazioni. Quanto a me, i ritardi mi inchiodavano dov'ero e diminuivano le mie probabilità di successo.

    Inoltre, sapevo per triste esperienza quale fosse l'efficienza di quella gente.
    Il meglio che potevo fare, come presto scoprii, era prendere il normale espresso della notte che proveniva da Aguas Calientes e faceva una sosta di cinque minuti a Querétaro. Sarebbe arrivato all'una di notte, ammesso che fosse in orario, ed era atteso a Città del Messico alle cinque del mattino di sabato. Quando acquistai il biglietto feci un'altra scoperta: il treno era composto di vetture a scompartimenti chiusi, alla maniera europea, invece dei lunghi vagoni americani con file parallele di due poltrone. Gli scompartimenti chiusi erano molto popolari ai tempi delle prime ferrovie messicane, anche perché le vecchie linee erano state realizzate in gran parte da società europee; nel 1889 il corridoio del Messico centrale ne utilizzava ancora un certo numero, sia pure per i viaggi più brevi. Di solito preferisco le vetture americane, perché detesto avere una persona di fronte; ma per una volta fui lieto di poter contare su un treno all'europea. A quell'ora di notte avevo buone possibilità di godermi lo scompartimento da solo, e nelle mie condizioni di stanchezza, nervosismo e ipersensibilità consideravo la solitudine una benedizione, senza parlare delle poltrone imbottite, con braccioli e cuscini per appoggiare la testa, che occupavano la vettura in tutta la sua ampiezza. Acquistai un biglietto di prima classe, riscattai la valigia dal vagone privato che avevano abbandonato su un binario morto e spedii un telegramma al presidente McComb e a Jackson per raccontare l'accaduto; poi mi sistemai nella stazione per aspettare l'espresso notturno, usando tutta la pazienza di cui i miei nervi tesi mi permettevano di disporre.

    Per un miracolo il treno era in ritardo solo di mezz'ora, ma anche così la veglia solitaria nella stazione aveva praticamente esaurito la mia capacità di sopportazione. Il capotreno, indicandomi lo scompartimento, disse che pensavano di recuperare il ritardo e di arrivare alla capitale in orario; io mi allungai comodamente sulla poltrona accanto al finestrino, pronto a godermi un tranquillo viaggio di tre ore e mezzo. La luce che pioveva dalla lampada a petrolio era piacevolmente fioca e mi chiesi se sarei riuscito a schiacciare un pisolino (di cui avevo senz'altro bisogno) nonostante l'ansia e la tensione che mi pervadevano. Finché il treno si mise in movimento ebbi l'impressione di essere solo, cosa di cui ero francamente felice. Tornai con i pensieri all'incarico che mi aspettava e cominciai a dondolare la testa, seguendo il ritmo della lunga teoria di vagoni.

    Ma ad un tratto mi resi conto di non essere l'unico occupante dello scompartimento. Nell'angolo diagonalmente opposto a me, e rannicchiato su se stesso in modo che la faccia risultava invisibile, c'era un uomo di corporatura insolita, che la debole luce non mi aveva rivelato fino a quel momento. Sul sedile accanto a lui c'era una grande valigia, malconcia e straripante, che l'uomo, pur essendo addormentato, stringeva con una mano stranamente affusolata. Quando la locomotiva fischiava a una curva o a uno scambio, il dormiente trasaliva e con uno scatto passava a una sorta di semiveglia: alzava la testa, guardingo, e rivelava un volto piacevole, con la barba, dall'aspetto senz'altro anglosassone e gli occhi neri e lucenti. Quando mi vide si svegliò del tutto, lanciandomi un'assurda occhiata ostile che mi lasciò stupefatto. Senza dubbio, pensai, soffriva della mia presenza perché aveva sperato di avere lo scompartimento tutto per sé; a mia volta non ero meno deluso di trovare una compagnia così poco congeniale nella vettura fiocamente illuminata. Il meglio che potessi fare era accettare la situazione con cortesia, e infatti mi scusai per la mia intrusione. L'altro sembrava americano, e pensai che ci saremmo sentiti più a nostro agio dopo uno scambio di convenevoli. In seguito, ci saremmo tranquillamente ignorati per il resto del viaggio.

    Con mia sorpresa lo straniero non rispose affatto alle mie scuse e continuò a fissarmi aggressivamente, quasi volesse soppesarmi; e quando, imbarazzato, gli offrii un sigaro, rifiutò senz'altro con un brusco gesto laterale della mano libera. L'altra mano continuava a stringere la grande valigia sciupata, e tutta la persona sembrava irradiare una specie di aura maligna.

    Dopo un pezzo rivolse la faccia al finestrino, anche se nel buio totale non c'era niente da vedere. Era strano, sembrava che fissasse qualcosa con grande intensità: qualcosa che solo lui riusciva a vedere oltre il vetro. Decisi di lasciarlo ai suoi pensieri e alle sue manie senza disturbarlo ancora e mi sprofondai nella poltrona, abbassai la falda del cappello sugli occhi e cercai di addormentarmi come desideravo.

    Non dovevo aver dormito molto, e nemmeno profondamente, quando i miei occhi si aprirono come in risposta a una forza esterna. Li chiusi di nuovo deciso a riposare, ma non ci fu niente da fare. Qualcosa d'indefinibile mi teneva sveglio: alzai la testa e mi guardai intorno, per vedere se nello scompartimento fiocamente illuminato mancasse qualcosa. Sembrava tutto normale, ma notai che lo sconosciuto nell'angolo opposto mi fissava con intenzione... Sì, con intenzione, ma senza alcuna traccia di cordialità e buona disposizione; non c'era affatto da illudersi che avesse modificato l'atteggiamento scontroso di prima. Stavolta non tentai di conversare con lui, ma ripresi la posizione in cui speravo di addormentarmi; tenevo gli occhi appena aperti, pronto a cedere al sonno ma anche deciso a osservare il mio compagno da sotto la falda del cappello.

    Mentre il treno avanzava nella notte, notai che l'espressione dell'uomo che mi fissava aveva subito una graduale ma sicura metamorfosi. Credendo che fossi addormentato, e soddisfatto di questo, permetteva alle sue emozioni di manifestarsi, anche se non si trattava affatto di sentimenti rassicuranti. Odio, paura, orgoglio e fanatismo si succedevano sulla curva delle labbra e agli angoli dei suoi occhi; lo sguardo esprimeva una cupidigia allarmante, addirittura un che di feroce. Mi resi conto all'improvviso che quell'uomo era pazzo, e un pazzo pericoloso.

    Mentirei se dicessi di non aver avuto paura, perché ora sapevo come stavano le cose. Sudato da capo a piedi, trovavo molto difficile continuare la finzione del passeggero che cerca di appisolarsi. La vita, soprattutto in un momento come quello, aveva per me molte attrattive, e il pensiero di trovarmi di fronte a un maniaco omicida - forse armato, certo fortissimo - era avvilente. In un eventuale scontro il mio svantaggio era palese: l'uomo si poteva definire un gigante e per di più nella migliore forma atletica, mentre io sono sempre stato un tipo fragile e in quel momento ero lacerato dall'ansia, dall'insonnia e dalla tensione nervosa. Era indubbiamente un momento nero, e riconoscendo la furia assassina che brillava negli occhi dello sconosciuto sentii di essere vicino a un'orribile fine. Rividi gli avvenimenti del passato proprio come l'annegato che nell'attimo fatale ripercorre tutta un'esistenza.

    Naturalmente avevo la pistola nella tasca della giacca, ma qualsiasi movimento per estrarla mi avrebbe tradito. Inoltre, anche ammesso che ce la facessi, non si poteva dire che effetto avrebbe avuto sul maniaco. Anche se gli avessi sparato una o due volte, poteva darsi che gli restasse abbastanza forza per strapparmi l'arma e fare di me quello che voleva; o, supponendo che fosse armato anche lui, avrebbe potuto spararmi o accoltellarmi senza nemmeno prendersi la briga di togliermi la pistola. Un uomo normale può essere indotto alla ragione da un'arma puntata su di lui, ma la completa indifferenza di un pazzo per quelle che saranno le conseguenze gli dà una forza e una capacità di aggressione che finché durano hanno un che di sovrumano. A quei tempi non si era ancora sentito parlare di Freud, ma il buonsenso mi permetteva di comprendere perfettamente la pericolosità di una persona priva delle normali inibizioni. Che lo sconosciuto nell'angolo stesse meditando un piano omicida, non si poteva più dubitare: lo rivelavano gli occhi ardenti e i muscoli contratti della faccia.

    Poco dopo cominciò a respirare irregolarmente, ansimando, e il petto si sollevava sempre più per l'eccitazione. La resa dei conti era vicina, e cercai disperatamente di pensare alla cosa migliore da fare. Continuando a far finta di dormire, feci scivolare lentamente la mano destra verso la tasca in cui tenevo la pistola; nel frattempo continuavo a tenere d'occhio il pazzo, per capire se si rendesse conto dei miei movimenti. Purtroppo fu proprio così, e prima che avessi il tempo di leggerglielo in faccia, mi scoprì. Con un balzo così agile e brusco da sembrare incredibile in un uomo della sua stazza, mi fu addosso impedendomi di capire con esattezza quello che stava accadendo; torreggiava su di me come un orco delle favole, e con una mano mi tenne stretto mentre con l'altra mi impediva di toccare la pistola.

    Fu lui stesso ad estrarla, dopodiché se la mise in tasca e mi lasciò con un gesto di disprezzo, ben sapendo che la sua superiorità fisica mi rendeva del tutto impotente. Si elevò in tutta la sua altezza e sfiorò con la testa il tetto dello scompartimento, poi mi guardò con occhi la cui rabbia si era rapidamente trasformata in un'espressione di disprezzo e aspettativa feroce.

    Non mi mossi, e dopo un attimo l'uomo riprese il suo posto di fronte a me; con un sorriso tremendo aprì la valigia rigonfia ed estrasse un oggetto piuttosto strano: una grossa gabbia di filo semi-flessibile, intrecciata in un modo che ricordava la maschera di un giocatore di baseball ma la cui forma complessiva era piuttosto simile a uno scafandro da palombaro. In cima all'attrezzo spiccava un cordoncino la cui estremità opposta restava nella valigia. Lo sconosciuto trattava l'oggetto con una sorta di affetto, cullandolo in grembo mentre mi guardava con malizia. Poi, con un movimento quasi felino della lingua, si leccò le labbra baffute. Fu in quel momento, per la prima volta, che parlò: aveva una voce profonda, piacevole e persino educata che rivelava l'uomo di cultura e che contrastava in modo straordinario con i rozzi abiti di velluto e l'aspetto trasandato.

    «Lei è fortunato, signore. Sarà il primo soggetto su cui lo proverò. Passerà alla storia come la cavia di un'invenzione straordinaria: grandi implicazioni sociali, capisce; quanto a me, risplenderò come un faro. Per la verità risplendo già adesso, ma nessuno lo sa. Ora lei saprà. Ho già fatto l'esperimento sui porcellini d'India, qualche gatto e persino dei burros... Proprio così, ha funzionato addirittura su uno di quegli asini.»

    Fece una pausa, mentre il volto barbuto si contraeva all'improvviso, in sincronia con un vigoroso movimento rotatorio della testa. Era come se volesse liberarsi di un ostacolo fastidioso, perché il gesto fu seguito da un'espressione più chiara, o forse sottile, che nascondeva la follia dietro uno sguardo attento e composto in cui la tensione era appena intuibile. Notai immediatamente la differenza e cercai di vedere se mi riuscisse di incanalare i suoi pensieri in una direzione meno pericolosa.

    «Sembra che lei abbia un apparecchio meraviglioso, da quello che vedo. Come l'ha inventato?»
    Lo sconosciuto annuì.
    «Semplice logica, caro signore. Ho tenuto presenti le esigenze del nostro tempo e ho agito di conseguenza. Avrebbero potuto farlo anche altri, a patto di avere menti lucide come la mia: voglio dire, menti capaci di instancabile concentrazione. Mi sono reso conto della sua necessità e ho fatto ricorso a tutta la mia forza di volontà. Ho capito che bisogna eliminare gli abitanti della terra prima del ritorno di Quetzalcoatl; inoltre, mi sono reso conto che la cosa deve essere fatta con una certa eleganza. Detesto i massacri e l'impiccagione è un sistema orribile. Come lei sa, la corte dello stato di New York ha deciso l'anno scorso di giustiziare i condannati con una macchina elettrica... Tuttavia, il progetto che hanno in mente è primitivo come il "razzo" di Stephenson o il primo motore elettrico di Davenport. Io conosco un sistema migliore e l'ho detto alle autorità, ma non mi hanno ascoltato. Dio, che pazzi! Come se non sapessi tutto quello che c'è da sapere sugli uomini, la morte e l'elettricità... Ho studiato a fondo il problema, da ragazzo e da uomo... Sono un ingegnere, un tecnico, ma sono stato anche soldato di ventura...»

    Si appoggiò allo schienale e socchiuse gli occhi.

    «Ero nell'esercito di Massimiliano, più di venti anni fa. Volevano darmi un titolo nobiliare, poi quei maledetti porci l'hanno ammazzato e io ho dovuto andarmene a casa. Ma sono tornato... avanti e indietro, avanti e indietro. Vivo a Rochester, nello Stato di New York...»

    Nei suoi occhi brillò un lampo d'astuzia e si fece avanti, sfiorandomi un ginocchio con le dita della mano affusolata.

    «Come dicevo, sono tornato e mi sono spinto più avanti di loro. Odio le faccette brune di quelli che vivono in questo paese, ma i messicani veri mi piacciono! Una contraddizione? Mi ascolti, giovanotto, non crederà che il Messico sia veramente un paese latino? Dio, se conoscesse le tribù che conosco io! Quelle antiche, che vivono sulle montagne... Anahuac, Tenochtitlan...»

    La sua voce cambiò, intonando un salmo impressionante ma non privo di una certa melodia.
    «Iä! Huitzilopotchli! Nahuatlacatl! Sette, sette, sette... Xochimilca, Chalca, Tepaneca, Acolhua, Tlahuica, Tlascalteca, Azteca!... Iä! Iä! Sono stato alle sette caverne di Chicomoztoc, ma nessuno lo saprà mai! Lo dico a lei perché tanto non lo ripeterà a nessuno...»
    Si calmò e riprese il tono di una normale conversazione.
    «La sorprenderebbe ciò che si racconta nelle montagne. Huitzilopotchli sta per tornare, di questo non può esserci dubbio. Ogni peone a sud di Città del Messico potrà confermarlo. Personalmente non intendo immischiarmi, ma come le ho detto ho fatto la spola con gli Stati Uniti per diverse volte e intendevo donare alla società il mio boia elettrico quando la maledetta corte di Albany ha scelto l'altro sistema. È una burla, signore, una burla! La sedia del nonno... seduti accanto al fuoco... Hawthorne...»

    L'uomo aveva cominciato a ridere, ma non era che una macabra parodia del buonumore.
    «Lo sa, signore, mi piacerebbe essere il primo a sedere sulla loro dannata sedia e a sentire le scariche di corrente! Devono essere così insignificanti che non farebbero saltare nemmeno una rana! E si aspettano di far fuori degli assassini, con quella... Sarebbe la giusta pena, secondo loro! Ma vede, giovanotto, io ho capito l'inutilità, anzi, l'assurda illogicità di uccidere solo pochi criminali alla volta. Tutti sono assassini: c'è chi uccide un'idea, chi ruba invenzioni altrui... Anche la mia hanno rubato, a furia di spiare, spiare, spiare...»

    L'uomo tossì e rimase in silenzio per qualche secondo. Ne approfittai per tentare di calmarlo.
    «Sono sicuro che la sua invenzione sia la migliore di tutte, e forse alla fine decideranno di adottarla.»
    Ma la mia tattica non si rivelò giusta, perché il pazzo reagì con estrema irritazione.
    «Così dice lei, eh? Evviva le dolci, tiepide, inutili speranze! In realtà non gliene frega niente... ma presto vedrà! Perché, dannazione, tutto il buono che c'è in quella loro sedia elettrica lo hanno rubato a me. Lo spirito di Nezahualbilli me lo ha rivelato sulla montagna sacra. Mi spiavano, mi spiavano, mi spiavano...»

    Tossì di nuovo, poi fece uno di quei suoi gesti curiosi, in cui scuotendo la testa cambiava l'espressione del viso. La cosa sembrò calmarlo per un momento.
    «L'unica cosa che manca alla mia invenzione è una prova sperimentale. Voglio dire... Guardi. Il filo collegato alla calotta, insomma alla parte superiore dell'apparecchio, è flessibile e si adatta facilmente. Il fermaglio al collo serve bene al suo scopo ma non soffoca il soggetto. Gli elettrodi toccano la fronte e la base del cervelletto: tutto quello che occorre. Una volta intrappolata la testa, che altro serve? Quegli sciocchi, ad Albany, hanno progettato una specie di poltrona intarsiata, come se dovessero prendere tutto il corpo. Idioti! Non sanno che è inutile sparare a un uomo in mezzo al petto se già gli sono saltate le cervella? Ho visto molta gente morire in battaglia, so di che cosa parlo. Per non parlare dei loro circuiti ad alto voltaggio, le dinamo e tutto il resto. Perché si rifiutano di vedere quello che ho fatto con la mia batteria a ricarica? Nessuno mi dà ascolto, nessuno sa niente, solo io ho il segreto... Ecco perché Quetzalcoatl, Huitzilopotchli ed io domineremo il mondo da soli... Loro ed io, se decido di tenerli con me. Ma devo sperimentare la mia macchina su un soggetto umano, una cavia... e sa chi ho scelto per primo?»

    Cercai di scherzarci sopra, ma passai rapidamente a un'amichevole serietà per paura che se la prendesse. Pensare velocemente, e usare le parole adatte poteva ancora salvarmi.
    «Be', conosco un sacco di soggetti ideali fra i politici di San Francisco. È da lì che vengo. Meritano davvero il suo trattamento, e sarei lieto di aiutarla! A parte gli scherzi, credo di poter fare davvero qualcosa per lei. Ho una certa influenza a Sacramento, e se tornerà negli Stati Uniti con me, dopo che avrò sbrigato un affaruccio qui in Messico, farò di tutto perché le diano ascolto.»

    Mi rispose in modo urbano e controllato.
    «No, non posso tornare indietro. L'ho giurato quando i criminali di Albany hanno rifiutato la mia invenzione e mi hanno messo le spie alle calcagna per rubare il mio segreto. Ma ho bisogno di soggetti americani: la gente di qui è già con un piede nella fossa, sarebbe troppo facile. Quanto agli indios, i veri figli del serpente piumato, sono sacri e intoccabili, tranne come vittime sacrificali... ma questo è un altro discorso, perché bisogna ucciderli secondo il rituale. Devo procurarmi soggetti americani senza tornare indietro, ed essere la prima cavia del mio esperimento sarà un grande onore. Sa chi ho scelto?»

    Cercai disperatamente di temporeggiare.
    «Oh, se il problema è tutto qui le troverò una decina di esemplari di prima qualità appena arrivati a Città del Messico. Conosco un posto dove ci sono un sacco di minatori, e nessuno si accorgerebbe della loro mancanza per giorni.»
    Ma il pazzo mi interruppe con un gesto imperioso e quasi regale.

    «Adesso basta, abbiamo scherzato abbastanza. Si alzi e resti in piedi come un uomo. È lei il soggetto che ho scelto, e nell'altro mondo mi ringrazierà per questo onore proprio come la vittima del sacrificio ringrazia il sacerdote che l'ha spedita nel regno dell'eterna gloria. È un principio nuovissimo, nessuno ha mai pensato a una batteria come quella costruita da me; neanche in mill'anni riuscirebbero a duplicarla! Sapeva che gli atomi non sono ciò che sembrano? Sciocchi! Magari fra un secolo qualche stupido potrebbe anche avere un barlume della mia idea, se permettessi al mondo di sopravvivere!»

    Quando mi fui alzato per obbedire ai suoi ordini, il pazzo estrasse dalla valigia dell'altro filo e si mise in piedi accanto a me: teneva il casco elettrico con tutte e due le mani e me lo porgeva. Sul volto abbronzato e barbuto si era disegnata un'espressione esaltata. Per un attimo mi ricordò un mistagogo, uno ierofante ellenico, ed era letteralmente raggiante.
    «A te, giovinezza, noi libiamo! Vino cosmico, nettare degli spazi stellati... Lino, Iacco, Ialmeno, Zagreo, Dioniso, Ati, Ilas... Nati da Apollo e uccisi dai segugi di Argo... frutti di Samatea, figli del sole... Evoë! Evoë!»
    Si era messo a salmodiare di nuovo, e stavolta la sua mente sembrava tornata ai ricordi mitologici di scuola. In piedi com'ero, notai la vicinanza del campanello d'allarme e mi chiesi se potevo raggiungerlo fingendo di rispondere al cerimoniale. Valeva la pena tentare, e dopo aver gridato a mia volta "Evoë'!" spinsi le braccia in avanti e poi in alto, sempre in direzione del pazzo e in modo da simulare un rito. Speravo di poter dare uno strattone alla corda del campanello prima che se ne accorgesse. Ma fu tutto inutile: si accorse delle mie intenzioni e diresse la mano verso la tasca destra della giacca, dove aveva infilato la mia pistola. Non erano necessarie parole, e per un attimo rimanemmo entrambi immobili come statue. Poi lui disse, senza scomporsi: «Faccia presto».

    La mia mente si mise di nuovo al lavoro, cercando una via di scampo più in fretta che poteva. Sui treni messicani, come sapevo, le porte esterne del vagone non avevano chiusura di sicurezza, ma se avessi cercato di aprirne una e di saltare dal treno, il mio compagno avrebbe potuto facilmente impedirmelo. Inoltre, la velocità era tale che un successo sarebbe stato fatale come un fallimento. L'unica cosa da fare era guadagnar tempo. Buona parte delle tre ore e mezzo di viaggio era già trascorsa, e una volta arrivati a Città del Messico la polizia ferroviaria mi avrebbe salvato.

    Potevo tentare due strade diverse. Se l'avessi convinto a non mettermi subito l'elmetto avrei guadagnato parecchio tempo: non pensavo che l'aggeggio fosse veramente mortale, ma conoscendo i pazzi potevo immaginare quello che sarebbe avvenuto se non avesse funzionato. Alla delusione si sarebbe unito un folle risentimento per la mia responsabilità nel cattivo esito della prova, e come risultato una rabbia omicida si sarebbe scatenata su di me. Era questo il motivo per cui l'esperimento doveva essere rimandato il più a lungo possibile, ma esisteva una seconda opportunità. Giocando d'astuzia avrei potuto inventare una convincente spiegazione per il fallimento dell'apparecchio; questo avrebbe attratto la sua attenzione e forse lo avrebbe indotto a tentare di rimediare, con un guadagno di tempo più o meno lungo. Mi chiesi fin dove arrivasse la sua credulità e se mi convenisse recitare in anticipo una profezia di fallimento, che dopo il cattivo esito della prova mi avrebbe trasformato, ai suoi occhi, in un veggente o addirittura in un dio. Avevo un'infarinatura di mitologia messicana e pensavo ne valesse la pena, ma decisi che avrei tentato prima altri sistemi, lasciando che la profezia venisse come un'improvvisa rivelazione. Mi avrebbe risparmiato davvero, se fossi riuscito a spacciarmi per un profeta o una divinità? Potevo "passare" per Quetzalcoatl o Huitzilopotchli? Avrei fatto qualunque cosa pur di rimandare il momento decisivo fino alle cinque, ora dell'arrivo a Città del Messico.

    La mia prima mossa fu il vecchio trucco del condannato che vuol fare testamento. Mentre il maniaco mi ripeteva di affrettarmi, gli parlai della mia famiglia e del matrimonio al quale mi stavo preparando, dopodiché gli chiesi la cortesia di poter lasciare un messaggio nel quale disponevo del mio denaro e dei miei effetti. Se mi avesse prestato un pezzo di carta e promesso di spedire la lettera che avrei scritto, sarei morto più volentieri, e comunque con maggiore tranquillità. Dopo averci pensato su il pazzo accettò la mia richiesta e pescò un taccuino nella valigia, porgendomelo solennemente. Mi rimisi a sedere e presi una matita, spezzandone deliberatamente la punta per perdere altro tempo. L'uomo ne cercò una sua, e dopo avermela data prese la matita rotta e cominciò ad appuntirla con un grande coltello dal manico di corno che teneva sotto la giacca, infilato nella cintura. Era chiaro che rompere anche questa non mi sarebbe servito a molto.

    Oggi non ricordo più quello che scrissi, ma in gran parte doveva trattarsi di sciocchezze, forse brani letterari che avevo imparato a memoria e a cui ripensai in quel momento, perché non c'era altro che mi venisse in mente. Feci in modo che la mia grafia risultasse illeggibile, anche se di primo acchito conservava l'aspetto di un autentico messaggio. Ero sicuro che prima di cominciare l'esperimento il pazzo avrebbe voluto vedere la mia lettera, e sapevo come avrebbe reagito alla vista di un imbroglio palese. Era un rischio tremendo, e ad ogni secondo che passava maledivo la lentezza del treno. Cosa avrei fatto, dopo? Stavo pensando a una formula con cui concludere il testamento quando mi colpì una nuova idea. Terminai le mie volontà con uno svolazzo e porsi al maniaco i fogli che avevo riempito, che egli infilò senza nessuna attenzione nella tasca sinistra della giacca. Era venuto il momento di ricordargli i miei amici influenti a Sacramento, e dirgli quanto si sarebbero interessati alla sua scoperta.

    «Non vuole una lettera di presentazione per quelle persone?» chiesi.
    «Potrei fare una descrizione particolareggiata e un disegno della sua macchina, in modo da assicurarle la più cordiale attenzione. Sa, è gente che può renderla famosa... Sono certo che adotteranno il suo metodo in tutta la California, specialmente se ne sentiranno parlare da uno come me che conoscono e di cui si fidano.»

    Mi ero imbarcato su questa strada nella speranza che le sue velleità di inventore frustrato gli facessero dimenticare per il momento il lato religioso e per così dire azteco della sua mania. Appena se ne fosse ricordato, del resto, io sarei passato al trucco della "rivelazione" o "profezia". Il piano funzionò perché i suoi occhi brillarono di soddisfazione, ma mi ordinò bruscamente di far presto. Pescò altri oggetti dalla valigia, fra cui una strana congerie di fili e celle di vetro ai quali il cavo che partiva dal casco era collegato; il gesto fu accompagnato da un diluvio di considerazioni tecniche che non riuscii a seguire, ma che sembravano abbastanza plausibili e sensate. Finsi di scrivere tutto quello che diceva, domandandomi se il misterioso apparato fosse davvero una batteria. Avrei ricevuto una scossa, quando avesse sistemato la calotta? Una cosa era certa: l'uomo parlava come qualcuno che di elettricità se ne intendeva. Descrivere la sua invenzione era un compito che gli riusciva congeniale, e mi resi conto che non era più impaziente come prima. Prima che avesse finito dal finestrino cominciarono a brillare il grigio e il rosso dell'alba, e finalmente sentii che avevo una concreta speranza di cavarmela.

    Ma anche lui vide l'alba, e questo lo mise in uno stato di grande agitazione. Sapeva che il treno sarebbe arrivato a Città del Messico alle cinque, e a meno che non riuscissi a stimolarlo con qualche idea appetitosa sarebbe passato velocemente all'esecuzione. Si alzò con aria decisa, sistemò la batteria sul sedile accanto alla valigia aperta e in quel momento gli ricordai che non avevo fatto lo schizzo dell'apparecchio, cosa invece della massima importanza. Gli chiesi, perciò, di tenere il casco fra le mani in modo che potessi disegnarlo vicino alla batteria. Anche questa volta acconsentì, rimettendosi a sedere; ma le raccomandazioni a far presto si moltiplicarono. Dopo un secondo mi interruppi per chiedergli un'informazione: volevo sapere come andava sistemata la vittima dell'esecuzione, e in che modo si poteva ovviare alla sua resistenza.

    «Ma certo» rispose. «Il criminale viene legato saldamente. Non importa quanto agiti la testa, il casco aderisce alla perfezione e quando passa la corrente diventa ancora più stretto. L'interruttore va spostato gradualmente... eccolo, vede, è molto preciso e c'è un reostato.»

    Oltre i finestrini la luce dell'alba ci mostrava gruppi di case sempre più frequenti, segno del nostro avvicinamento alla capitale; ebbi allora una nuova idea per ritardare l'esperimento.

    «Per la verità» dissi «dovrei disegnare il casco quando è in posizione, vale a dire su una testa umana. Non basta che lo faccia vedere insieme alla batteria. Potrebbe metterselo un attimo e farmi da modello? Non solo i funzionali del governo, ma i giornali vorranno una documentazione completa: e mi creda, a quelli non basta mai.»

    Per caso avevo imboccato una strada più promettente di quanto osassi sperare: a sentirmi parlare di stampa gli occhi del pazzo si spalancarono come piattini.

    «I giornali? Ma certo... maledetti loro, lei può fare in modo che mi ascoltino! Finora non hanno fatto che ridermi dietro, rifiutandosi di stampare una sola parola. Avanti, faccia presto! Non abbiamo un attimo da perdere!»

    Si era infilato il casco e osservava con grande curiosità la mia matita. L'intrico dei fili gli dava un aspetto comico, grottesco, tanto più che se ne stava seduto con le mani tremanti per il nervosismo.
    «Maledizione, adesso sì che pubblicheranno i miei diagrammi! Se lei sbaglia correggerò personalmente lo schizzo... in queste cose bisogna essere accurati a ogni costo. La polizia la troverà quando io mi sarò già allontanato... potranno testimoniare loro stessi che funziona. La Associated Press mi dedicherà un comunicato, poi ho la sua lettera di presentazione... Fama immortale... In fretta, le dico! In fretta, maledizione!»

    Il treno filava sulle rotaie in condizioni non proprio ideali a causa dei grandi svincoli vicino alla città, e ondeggiavamo continuamente. Con questa scusa spezzai la punta della seconda matita, ma ovviamente il pazzo mi diede quella a cui l'aveva rifatta poco prima. Le mie risorse erano quasi finite e mi resi conto che non avrei potuto sottrarmi all'esperimento. Era solo questione di secondi. Mancava un buon quarto d'ora all'ingresso in stazione, perciò tentai la carta religiosa e decisi di formulare la divina profezia. Mettendo insieme quel po' che sapevo di mitologia azteca e nahuan, salmodiai un canto misterioso e gettai da parte carta e matita.

    «Iä! Iä! Tloquenahuaque, tu che sei Tutto in Te Stesso! E anche tu, Ipalnemoan, in virtù del Quale viviamo! Io sento, sento! Io vedo, vedo! Salve, o Aquila che porti il Serpente! Un messaggio, un messaggio! Huitzilopotchli, nel mio animo echeggia il tuo tuono.»

    Il pazzo mi fissò incredulo attraverso la maschera bizzarra che gli copriva il volto, mostrando una sorpresa e una perplessità che ben presto si trasformarono in allarme. Per un attimo non riuscì a far funzionare il cervello, poi sembrò che i suoi pensieri prendessero un'altra direzione. Alzò le mani e cominciò a cantare, quasi in sogno:

    «Micltanteuctli, o grande signore, dammi un segno! Un segno dal profondo della tua grotta oscura! Iä! Tonatiuh-Metztli! Cthulhutl! Comanda e io obbedirò!».

    In quella straordinaria litania c'era una parola che riconobbi, e che fece vibrare una corda profonda nella mia memoria. Strano, perché non ricorre in nessun testo di mitologia amerinda, ma più d'una volta l'avevo sentita mormorare fra i peones superstiziosi che lavoravano per la mia ditta, nelle miniere di Tlaxcala. Sembrava che facesse parte di credenze antichissime e segrete, perché si basava su preghiere che non trovavano riscontro nelle religioni conosciute e appartenevano all'ignoto come il culto stesso. Il pazzo, evidentemente, aveva passato molto tempo fra i peones e gli indiani delle colline, proprio come aveva detto: trattandosi di rituali non scritti, era impossibile che li avesse trovati in qualche libro. Rendendomi conto dell'importanza che attribuiva a quel linguaggio doppiamente ermetico, decisi di colpirlo nel suo punto debole e dargli la risposta - per quanto insensata - che avevo sentito fra i nativi.

    «Ya-R'lyeh! Ya-R'lyeh!» urlai. «Cthulhutl fhtaghn! Niguratl-Yig! Yog-Sototl...»
    Non mi diede il tempo di finire. Preso da un attacco di mania religiosa provocato dalla mia appropriata invocazione, che neppure a livello inconscio si sarebbe atteso, il pazzo si buttò in ginocchio sul pavimento del vagone, piegando ripetutamente la testa chiusa nel casco e girandola verso destra e verso sinistra. A ogni scatto la sua devozione raggiungeva un nuovo vertice di parossismo, finché dalle labbra schiumanti colsi ripetutamente la formula "uccidi, uccidi, uccidi". Capii di aver voluto strafare, e che la mia risposta aveva scatenato una vera e propria follia omicida: adesso mi avrebbe ammazzato prima che il treno entrasse in stazione.
    Man mano che gli scatti del folle aumentavano d'intensità, il cavo che collegava il casco elettrico alla batteria si era attorcigliato sempre più. Ora, in un delirio totale, il pazzo descriveva con la testa una serie di circoli completi: in questo modo il cavo gli passò intorno al collo e l'estremità collegata alla batteria cominciò a tendersi. Mi chiesi che cosa avrebbe fatto quando fosse accaduto l'inevitabile e la batteria posata sul sedile sarebbe finita a terra, fracassandosi.

    A questo punto avvenne il cataclisma. La batteria, che le contorsioni del folle avevano già portato sull'orlo del sedile, cadde come mi aspettavo ma non fu danneggiata in modo irreparabile. Anzi, come mi resi conto in un attimo, l'urto vero e proprio fu subito dal reostato e l'interruttore scattò a piena potenza. La cosa meravigliosa è che la corrente c'era davvero: l'invenzione non era soltanto il sogno di un pazzo.

    Ci fu un lampo azzurro, accecante, e l'urlo più orribile di quel viaggio maledetto, seguito dall'odore nauseante della carne bruciata. Era più di quanto i miei nervi già logori potessero sopportare e immediatamente svenni.

    Quando un agente della polizia ferroviaria mi fece risvegliare, a Città del Messico, scoprii che sul marciapiede della stazione si era raccolta una folla. Lanciai un urlo involontario che incuriosì e meravigliò le facce che premevano intorno al mio scompartimento, e fui contento quando il poliziotto allontanò tutti con un grido, lasciando passare solo il medico azzimato che aveva tentato di farsi strada fino a me. Il fatto che gridassi non aveva in sé nulla di strano, ma non era per l'orribile spettacolo che mi aspettavo di vedere in terra; anzi, direi che il mio terrore dipendesse da qualcosa che non c'era: sul pavimento infatti non vi erano tracce del morto.

    Il poliziotto mi confermò che non c'era stato neppure quando aveva aperto la porta, trovandomi svenuto all'interno. Nessun altro aveva acquistato biglietti per quello scompartimento, e infatti ero l'unico occupante. Io e la mia valigia, nient'altro. Ero stato solo per tutto il viaggio da Querétaro.
    Alle mie domande angosciose e insistenti il poliziotto, il dottore e i semplici spettatori si toccarono la fronte con un dito, in un gesto eloquente. Si era trattato di un sogno o ero pazzo? Ricordai la mia ansia, i nervi tesi e rabbrividii. Ringraziai l'agente e il dottore, mi liberai dei curiosi e barcollando raggiunsi un taxi che mi portò al Fonda Nacional; di là spedii un telegramma a Jackson e dormii tutta la mattina, nella speranza di riprendere il controllo su me stesso. Mi feci svegliare all'una del pomeriggio, in tempo per prendere il treno a scartamento ridotto che portava nella zona delle miniere. Mi alzai, ma c'era un telegramma di Jackson sotto la porta: quella mattina Feldon era stato trovato nelle montagne, morto, e la notizia era stata comunicata alla ditta verso le dieci. I documenti erano al sicuro e l'ufficio di San Francisco era stato avvertito. Il viaggio, la terribile prova e il vero e proprio incubo di quella notte non erano serviti a niente!

    Sapendo che McComb avrebbe preteso un rapporto personale nonostante la piega che avevano preso gli eventi, spedii un altro telegramma e presi il treno a scartamento ridotto. Quattro ore dopo fui depositato, con le ossa rotte e i muscoli a pezzi, nella stazione della miniera numero tre, dove Jackson mi aspettava per darmi il benvenuto. Era così preso dalle sue faccende che non notò il mio aspetto ancora scosso e malandato.

    Il racconto del sovrintendente fu breve, e me lo riferì mentre mi guidava alla capanna dove avevano sistemato il corpo di Feldon, tra le alture sopra l'arrastre. Feldon era sempre stato un tipo strano, dal carattere cupo, e da quando era stato assunto un anno prima questo era stato ben chiaro. Lavorava a un'invenzione segreta e si lamentava di essere spiato; d'altra parte aveva rapporti ambigui e fin troppo camerateschi con la mano d'opera di colore. Conosceva il lavoro, il paese e la gente, questo è certo, e spesso si spingeva nelle colline dove vivevano i peones. Laggiù prendeva parte ad alcuni dei loro vecchi riti pagani. A volte faceva allusioni a misteriosi segreti e straordinarie potenze, ma altrettanto spesso vantava la sua abilità meccanica. Negli ultimi tempi la sua personalità era andata deteriorandosi: era diventato assurdamente sospettoso dei colleghi e non c'era dubbio che avesse emulato i suoi amici nativi nei furti di minerale, perché ormai di denaro non ne aveva più. Per una ragione o per l'altra gli occorrevano grandi somme, e riceveva continuamente grossi pacchi da laboratori e fabbriche di Città del Messico o degli Stati Uniti.

    Per quanto riguarda il furto dei documenti, doveva essere stato un assurdo gesto di ribellione contro lo "spionaggio" che temeva di subire. Era matto come un cavallo, nessuno ne dubitava, perché aveva attraversato il paese fino a una caverna inaccessibile sulle pendici della proibitiva Sierra de Malinche, dove non vivono bianchi, e aveva fatto cose straordinarie. La caverna, che nessuno avrebbe mai trovato se non vi fosse accaduta la tragedia, era piena di orrendi idoli aztechi e di altari, questi ultimi coperti di ossa carbonizzate e di vittime più recenti, ma di dubbia natura. I nativi non erano disposti a parlare, anzi giuravano di non sapere niente, ma era facile capire che la caverna rappresentava per loro un vecchio punto d'incontro, e che Feldon ne aveva imitato in tutto le pratiche.

    I ricercatori l'avevano trovata grazie ai canti e all'urlo finale. Era successo verso le cinque del mattino, e dopo essersi accampato tutta la notte il gruppo si era preparato a tornare alle miniere a mani vuote. Poi qualcuno aveva sentito in lontananza un debole rullare di tamburi e s'era reso conto che in un punto imprecisato della montagna a forma di cadavere era cominciato uno degli orribili rituali amerindi. Nella litania ricorrevano i vecchi nomi - Mictlanteuctli, Tonatuhmetzli, Cthulhutl, Ya-R'lyeh e tutti gli altri - ma la cosa strana era che ad esso si mescolavano parole inglesi: e in inglese autentico, non la lingua corrotta dei mezzosangue. Guidati dai canti, gli uomini si erano diretti verso il punto da cui provenivano e avevano scalato il fianco della montagna coperto di vegetazione selvaggia. Era una cosa terribile, peggiore di qualsiasi litania che avessero udito prima. Sembrava che nell'aria ci fosse del fumo, e ovunque si diffondeva un odore acre, nauseabondo.

    A un tratto si erano imbattuti nell'ingresso della caverna, mimetizzato da fronde di mesquite da cui uscivano nuvole di fumo pestilenziale. L'interno era illuminato, e la luce tremante delle candele che i partecipanti dovevano aver cambiato meno di mezz'ora prima rischiarava gli orrendi altari e le immagini grottesche. Sul pavimento cosparso di ghiaia si trovava la cosa allucinante che aveva fatto indietreggiare gli uomini della compagnia: era Feldon, la testa ridotta a un ammasso di carne bruciata da uno strano apparecchio che qualcuno gli aveva applicato al cranio. Si trattava di una specie di gabbia metallica collegata a una batteria male in arnese, e che sembrava caduta da uno degli altari vicini. Quando gli uomini l'avevano vista si erano scambiati occhiate perplesse, ripensando al "boia elettrico" della cui invenzione Feldon si era sempre vantato: oggetto che a suo dire era stato respinto da tutti quelli a cui l'aveva sottoposto, ma che poi avevano tentato di rubargli e copiargli. I documenti erano al sicuro nella cartella di Feldon, che giaceva accanto al corpo ed era aperta; un'ora dopo la colonna di cercatori era ripartita per la miniera numero tre con il suo macabro fardello adagiato su una barella improvvisata.

    Questo è tutto, ma bastò a farmi impallidire quando Jackson mi guidò alla capanna oltre l'arrastre dove si trovava il corpo. L'immaginazione non mi mancava e sapevo fin troppo bene che la tragedia che mi era stata riferita aveva un risvolto soprannaturale le cui radici affondavano nell'incubo.
    Sapevo ciò che avrei visto dietro la porta socchiusa intorno alla quale si affollavano i minatori curiosi, e quando fui davanti al grande corpo in abiti di velluto, alle mani stranamente delicate, ai ciuffi di barba bruciacchiata e alla macchina infernale, non battei ciglio: la batteria era lievemente danneggiata e la calotta che poggiava sul cranio era annerita dalla cosa carbonizzata che conteneva. La grande valigia rigonfia non mi sorprese e arretrai alla vista di due sole cose: i fogli di carta ripiegati che sporgevano dalla tasca sinistra e l'aspetto della tasca destra, rigonfia come se fino a poco prima avesse contenuto qualcosa. Approfittando di un momento in cui nessuno guardava, allungai una mano e presi i fogli fin troppo familiari; quindi li appallottolai, senza avere il coraggio di dare un'occhiata alla scrittura.

    Adesso, in un certo senso, mi spiace che il terrore mi abbia indotto a bruciarli quella notte stessa, senza osare guardarli. Eppure, avrebbero potuto provare o negare il mio dubbio... dubbio che, comunque, avrei potuto risolvere chiedendo notizie della pistola che il coroner aveva recuperato dalla tasca destra. In realtà, non ebbi mai il coraggio di chiedere nulla: infatti, dopo la notte sul treno la mia pistola era scomparsa. Anche alla mia matita qualcuno aveva rifatto la punta in modo rozzo e grossolano, molto diverso dal mio metodo abituale (del resto l'avevo temperata non più tardi di venerdì pomeriggio, con il temperamatite che si trovava nel vagone del presidente McComb).

    Alla fine, dunque, tornai a casa in preda a mille interrogativi, e forse è un bene che sia andata così. Il vagone privato era stato riparato e partii senza ostacoli da Querétaro, ma il mio più grande sollievo fu quando attraversai il Rio Grande e rientrai a El Paso, negli Stati Uniti. Il venerdì successivo ero a San Francisco e il matrimonio che era stato rinviato si celebrò la settimana seguente.

    Per quanto riguarda ciò che accadde realmente quella notte... come ho detto, non oso fare ipotesi. Quell'uomo, Feldon, era sicuramente pazzo, ma alla sua follia personale aveva mescolato per buona misura una manciata di stregonerie azteche più antiche della storia, e che nessuno avrebbe il diritto di conoscere. Era un inventore geniale, non lo si può negare: quella batteria era proprio ciò che Feldon prometteva. In seguito appresi che negli anni precedenti era stato messo al bando e ridicolizzato dalla stampa, dal pubblico e in genere dai centri di potere. Per alcuni uomini la delusione è sopportabile solo fino a un certo punto; in ogni caso, influenze di natura più impalpabile si erano messe all'opera. Fra parentesi, era stato effettivamente un soldato agli ordini di Massimiliano.

    Quando racconto la mia storia, molti mi danno del bugiardo senza mezzi termini; altri ricorrono alla psicopatologia (Dio sa se ero coi nervi a pezzi) e altri ancora parlano di una sorta di "proiezione astrale". Certo il mio desiderio di catturare Feldon ebbe l'effetto di concentrare su di lui tutti i miei pensieri, e non è escluso che la magia india gli permettesse di captarli a distanza. Era stato il pazzo a trasferirsi nella carrozza ferroviaria o ero stato io nella montagna a forma di cadavere? Che cosa sarebbe accaduto, se non avessi ritardato il suo piano? Non so, lo confesso, e non sono sicuro di volerlo sapere. Da allora non sono più tornato in Messico, e, come ho detto all'inizio, non mi piace sentir parlare della sedia elettrica.

    Edited by & . - 6/6/2020, 11:32
     
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