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Una notte mi fermai a dormire in un motel di periferia, nel New Hampshire. Non riesco a ricordare dove si trovasse esattamente il motel, né come fosse l’edificio dall’esterno né che aspetto avesse la receptionist, o il receptionist. Le uniche immagini che la mia memoria ha preservato di quel posto sono la stanza che prenotai, e il parcheggio all’esterno. Non rammento il numero della stanza, ma ricordo la finestra, le mura color borgogna e i mobili in mogano. Ricordo il tutto come un brutto incubo: i particolari sono limpidi, ma tutto il resto è sfocato. A volte mi chiedo se sia stato davvero un brutto sogno, e in qualche modo la mia mente si sia illusa che fosse tutto vero. Lo stucco sulle pareti era cedevole, e il soffitto era screpolato in diversi punti, così che si intravedeva il bianco del cemento dietro il rosso smorto della pittura. La muffa aveva cominciato a insinuarsi negli angoli, ma non abbastanza da richiedere una nuova mano di vernice, almeno non per un motel fatiscente. C’erano un piccolo armadio in cui non osai mettere niente, un letto con un comodino, una porta per il bagno e una scrivania. La scrivania era davanti a una finestra che si apriva sul parcheggio del motel, uno spazio grigio illuminato dal bianco sbiadito di un lampione. C’erano due auto parcheggiate; una era la mia, una vecchia Chevrolet del ‘64. Dopo aver visto cosa c’era fuori, mi misi a lavorare sulla scrivania. Sentivo un leggero ronzio nelle orecchie, ma mi ci abituai subito e passai qualche ora in tranquillità. All’improvviso mi resi conto di essere in uno stato di dormiveglia, il che ovviamente mi fece ridestare. Mi ero assopito sulla sedia a mezzanotte circa, ma fortunatamente avevo ripreso conoscenza. Tuttavia, quando mi rialzai compresi che qualcosa non andava. Avevo l’impressione che la mia testa fosse diventata molto, molto più pesante, gli occhi si chiudevano e trovavo quasi impossibile riaprirli, il mio corpo si muoveva lentamente, in modo scoordinato, e non riuscivo a stare in piedi. Mi appoggiai al muro e cercai di riprendermi. Notai che il ronzio era ancora presente, più intenso di prima. Non era spiacevole come il ronzio di una zanzara nell’orecchio; era più simile al rumore bianco che fanno alcuni elettrodomestici e che io ho sempre trovato rilassante. Cominciai a riprendermi. Avendo sempre avuto problemi relativi al sonno, pensai di essermi svegliato quando il mio corpo era ancora addormentato per metà, e che fosse questa la causa della mia languidezza. Intento ad accontentare le mie membra stanche, spensi la luce e mi misi a letto. Come spesso capita, una volta sotto le coperte non riuscivo a chiudere occhio. I miei pensieri vagavano di qua e di là senza tregua e le palpebre che poco prima erano grevi di stanchezza non avevano più problemi a restare aperte. Le persiane della finestra non si potevano chiudere completamente, così un po’ di tenue luce color ambra riusciva a filtrare da fuori, proiettandosi in forme allungate sulle pareti. Desideravo tanto che quella luce sparisse, così finalmente avrei potuto addormentarmi senza alcun fastidio. Però, sotto sotto, sapevo che era l’insonnia a tenermi sveglio, e di certo non qualche filo di luce. Di nuovo il ronzio. Più aggressivo di prima. La testa era china sul cuscino, la schiena in una posizione scomoda. Non riuscivo a muovermi. Il ronzio sembrava provenire da ovunque e da nessuna parte, dal mio cervello e da tutta la materia che mi circondava. La stanza era piombata nel buio totale. La porta si aprì d’un tratto, ma ero sicuro di averla chiusa a chiave. Una figura completamente nera si introdusse nella stanza. Si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Disse qualcosa di incomprensibile in una voce ineffabile. Poi scomparve, stemperandosi nel buio che lo circondava. Riuscii di nuovo a muovermi. Non era la prima volta che avevo una paralisi del sonno: il mio cervello amava prendersi gioco delle mie fobie almeno una volta a settimana, privandomi delle facoltà motorie e facendomi credere che qualcuno si fosse intrufolato nella mia stanza. Per quanto fossi abituato a questi brutti scherzi, ero comunque turbato. Accesi l’abat-jour perché non riuscivo a vedere più niente, poi mi avvicinai alla porta per chiuderla a chiave. Ma era già chiusa, che mi era passato per la testa? Decisi di darmi una rinfrescata nel piccolo bagno adiacente alla stanza. Le piastrelle bianche erano un bel modo di spezzare l’atmosfera opprimente di quel posto tutt’altro che accogliente, i cui colori sembravano scelti con il solo fine di fomentare l’angoscia. Mi versai un po’ di acqua fredda in faccia, sperando di lavare via l’ansia, e mi guardai allo specchio. Il mio viso era segnato da profonde occhiaie. Ancora quel ronzio. Avevo bisogno di dormire. Ma Oniro aveva altri piani. Steso sul letto, al buio, avevo l’impressione che qualcosa fosse fuori posto. Vegliai per così tanto tempo che finalmente capii: la luce. Quando ero arrivato, il lampione fuori dalla finestra irradiava una luce bianca; quando ero andato a dormire, sulle mura vedevo raggi arancioni. E dopo la paralisi, la stanza era totalmente immersa nell’oscurità, vale a dire che il lampione si era spento. Ma quando mi ero alzato, la luce era tornata? Non riuscivo a ricordarlo, e non ricordo tuttora. Sapevo soltanto che in quel momento un timidissimo barlume penetrava ancora dalla finestra.
Sentii una fitta al cuore. I miei occhi si spalancarono, ma subito si richiusero e faticavo a riaprirli. Un’altra fitta, come se una mano stringesse il mio cuore e mi tormentasse. Un groppo alla gola mi impediva di respirare. Gli occhi non volevano aprirsi, come se il torpore fosse più forte della paura. Lentamente mossi il collo, le palpebre si aprirono a metà. Un attimo dopo ero libero. Questi il mio medico li chiamava attacchi di panico. Mi capitavano saltuariamente, ma non erano frequenti come le paralisi ed erano molto più estenuanti. Dopo un episodio del genere, è buona norma rilassarsi e fare due passi, anche in casa, altrimenti si rischia di avere una serie interminabile di attacchi. Io non ebbi il tempo di rilassarmi. La poca luce che avevo visto poco prima non c’era più. Forse i proprietari del motel la spegnevano di notte per risparmiare, ma se era davvero così avrei dovuto chiedere di riaccenderla, perché sapere che ero circondato dal buio non avrebbe di certo aiutato con l’ansia. Certo, invece di importunare il gestore potevo alzare i tacchi e lasciarmi dietro quelle pareti deprimenti. Mi venne voglia di dare un’occhiata fuori, sperando di trovare un’ultima scusa per andarmene a dormire in macchina sul ciglio della strada. Aprii la finestra e vidi di nuovo il parcheggio, questa volta illuminato soltanto dalla fioca luce lunare. Dopo qualche boccata d’aria avevo ritrovato la pace, e già mi rimproveravo per tutte le critiche che avevo fatto al motel. Finché non sentii un suono che avevo quasi dimenticato: quel dannato ronzio, più forte che mai. Mi stava scavando nelle cervella. Poggiai il capo sul davanzale, con la fronte in giù. Ero paralizzato di nuovo. Proprio sotto di me, a meno di un metro… qualcosa si stava arrampicando. Non era possibile riconoscerne i lineamenti esatti al buio, ma era piccolo, all’incirca la metà di un uomo medio, e i suoi occhi erano enormi e luminosi, come quelli di un gufo. All’improvviso la luce del lampione tornò a brillare, questa volta di un bianco abbacinante, che mi permise di vedere meglio quell’essere. Il suo corpo era ricoperto da uno strato corto di peli grigi; il suo mento era stretto ma il capo era grande e tondeggiante. Il viso era piatto, il corpicino aveva un aspetto esile, e le mani, o le zampe, avevano dei minuscoli artigli. Quella creatura umanoide doveva essere particolarmente sensibile alla luce, perché non appena si accese il lampione lasciò la presa e si portò le mani agli occhi. Emise un debole gracchio mentre cadeva, e non si rialzò più. Avrei quasi provato pietà per lui, se non avessi incontrato suo padre. Il ronzio tornò nelle mie orecchie, ormai così impetuoso da farmi quasi sanguinare. Ero affetto da una lentezza e uno stordimento senza precedenti, ma in qualche modo riuscii a scrollarmi di dosso la paralisi e presi la mia valigia, pronto a precipitarmi fuori da quel motel maledetto. Ma proprio quando feci per sbloccare la porta, qualcuno, o qualcosa dietro di essa la colpì energicamente, deformandola. Non tardò ad arrivare un secondo colpo, seguito da un terzo, e il ronzio stava per sopraffarmi. Con il poco di lucidità che mi restava, spalancai la valigia, rovesciandone i contenuti a terra, tra cui la mia calibro .44. La scaricai contro la porta, sperando di uccidere quel bastardo. I colpi di revolver mi avevano praticamente sfondato i timpani, ma vedevo che la porta continuava a piegarsi sempre di più e le botte arrivavano con la stessa frequenza. Non me ne resi conto allora, ma quegli spari mi salvarono la vita. In pochi secondi mi sentii di nuovo in forze; presi le chiavi della macchina e le gettai fuori dalla finestra, poi mi arrampicai sul davanzale e mi calai fuori. L’ultima volta che vidi la porta della stanza prima di scendere, sembrava al limite, e dietro si intravedevano già i movimenti disumani di quel mostro aberrante. Sperando che la porta resistesse, mi arrampicai lentamente verso il basso, cercando di non fare la fine del cucciolo che vedevo costantemente sotto di me, come un lugubre monito. Arrivato a mezzo metro di distanza mi lasciai cadere, con ogni intenzione di schiacciare la progenie immonda di quel demonio, raccolsi le chiavi e mi lanciai verso la mia auto. Mentre guidavo fuori dal parcheggio, vidi con la coda dell’occhio la testa gigantesca di quella creatura affacciata alla finestra. I suoi occhi sporgenti mi fissavano con un’ira ancestrale, e non lasciavano dubbi sulla sua natura intelligente e maligna. Quella notte non dormii da nessuna parte.
Edited by Markrath - 9/5/2020, 02:11
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