Lupus in Fabula

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    Aveva quattro anni quando la piccola Carmen ebbe il suo primo e ultimo incubo.

    Un grosso lupo nero come la notte che le si avvicinava, camminando su due zampe, e lei, distesa nella neve, non riusciva a muovere un solo muscolo mentre il freddo le bruciava la pelle.

    Non importava quanto forte urlasse:

    La voce le si spegneva nel petto.

    Al risveglio, nel cuore della notte, che abbracciava in silenzio la sua casupola, i suoi piedini corsero scalzi nella camera dei genitori e in lacrime, senza nemmeno accendere la luce, strillò che non avrebbe mai più voluto dormire, perché era sicura che, se mai l'avesse fatto, avrebbe rivisto le orme di quel mostro nella neve fresca, prima di cadere a terra, paralizzata.

    La madre era ancora sveglia e, sistemandosi i boccoli, le disse che conosceva il segreto per non addormentarsi:

    -Prova a contare le pecorelle, così non ti distrai e rimani sveglia!-

    Il marito, svegliato dal trambusto, squadrò la donna, che a sua volta osservava il sottile visino della figlia, con sguardo amorevole.

    La sua pelle profumava di cannella.

    -Se conti non stai dormendo, altrimenti non staresti più contando, è così che faccio io:

    conto le pecorelle e non dormo.-

    Era troppo piccola ed esausta per capire le sue vere intenzioni:

    di chi avrebbe potuto fidarsi, nel terrore del suo incubo, se non di sua madre?

    -Le pecorelle?- chiese la bambina, asciugandosi le guance rosse e umide e tirando su col naso.

    I piedini e le manine le sembravano essersi congelati e gli occhietti marroni, splendenti con il sole, come i boccoli biondi che le solleticavano la fronte e le orecchie, erano spalancati, nella tenue luce dell'abat-jour che si mischiava a quella lunare.

    Nel petto aveva caldo e il cuore le batteva fortissimo al pensiero che il lupo potesse ancora aggredirla, nonostante fosse lì, con la sua famiglia.

    La notte era immobile, tiepida, rattoppata da ombre e dai pali della luce, per chi ancora si aggirava per le strade.

    -Spegni la luce, sdraiati a letto e immagina delle percorelle che saltano uno steccato.

    Tieni gli occhi chiusi e contale a mente, così ti concentri.

    Uno, due, tre...- le spiegò la madre, sorridendo della sua innocenza da bambina.

    Era così orgogliosa che non volle mai dormire insieme a loro, bensì nel proprio letto, da sola.

    "Come i grandi".

    Carmen corse nella sua cameretta e si sdraiò comodamente, prese a contare le pecorelle, a occhi chiusi, immaginando che saltassero davanti a lei e che belassero ogni volta che atterravano dall'altra parte.

    Una pecorella, due pecorelle, tre pecorelle.

    Funzionava.

    Rimaneva sveglia e si stava già dimenticando di quel brutto incubo.

    Sentiva la rugiada solleticarle i piedi e la lana, morbidissima, avvolgere le mani che affondavano nel pelo delle tre pecore che avevano già fatto il loro salto.

    Quattro pecorelle, cinque pecorelle, sei pecorelle.

    Un’infinita distesa di erbetta rasa e fiori, dove brucavano.

    Carmen non avrebbe più voluto andarsene da lì.

    Le palpebre si fecero pesanti e prese a sbadigliare.

    Si concentrò ancora di più, così da rimanere sveglia, e continuò con la sua strana conta.

    Sette pecorelle, otto pecorelle, nove pecorelle…

    Si fermò.

    Cosa veniva dopo il nove?

    Nessuna maestra gliel'aveva spiegato.

    La sua si era fermata al nove, perché diceva che gli altri numeri si formavano con quelli che già conoscevano.

    Ma lei non sapeva ancora come.

    Spalancò gli occhi.

    Non sapeva come andare avanti.

    Li richiuse per controllare cosa stesse accadendo, ma la prateria stava lasciando spazio a muri neri che si avvicinavano dall'orizzonte.

    Cominciava a far freddo.

    Aveva i brividi.

    Non riusciva più a riaprire gli occhi.

    Che numero veniva? Che cosa c'è dopo? Come si chiama quel numero?

    Le pecore iniziarono a lasciare il gregge e a correre via.

    Sentiva il loro belato sereno tramutarsi in versi agonizzanti, puro terrore, e i campanacci tintinnare, mentre scappavano via, lasciandola sola.

    C’era odore di carne che marciva.

    Al posto dell'erba e delle colline, una distesa di neve fresca.

    Quando riuscì a riaprire gli occhi, si ritrovò nella sua stanza, ma con orrore si rese conto che ora non riusciva più a richiuderli.

    Era come se non le avesse più, quelle pesanti palpebre.

    Eccola là, fuori dalla finestra:

    la neve che scendeva copiosa dal cielo.

    Le coperte erano diventate pesantissime.

    Urlò, ma ancora una volta, nessun suono le uscì dalla gola.

    L’anta dell’armadio sulla sinistra si aprì cigolando, lenta, invitandola a guardare i due occhi gialli che galleggiavano nel buio, accompagnati da un latrato, sporco e affannoso.

    La porta spalancata, e mamma e papà che la guardavano, sulla destra.

    Il sorriso che con gli angoli quasi raggiungeva le orecchie, gli occhi piccolissimi, anch’essi gialli.

    Indossavano entrambi abiti molto eleganti.

    Il padre uno smoking, la madre un vestito nero.

    Carmen si voltava agonizzante a destra e a sinistra.

    I genitori rimasero immobili sullo stipite della porta, così alti da sfiorarne l’architrave mentre quel mostro aveva già poggiato un’orrenda zampa verso l’esterno.

    Ma poi, la madre parlò.

    Sussurrava, ma le parole le sentiva dietro il collo.

    -Avresti dovuto contarle meglio, quelle pecore, così il lupo non sarebbe tornato!-

    E prima che potesse rispondere, quel latrato divenne un ululato, e la nuca si bagnò di saliva.

    Quello fu il primo e ultimo incubo, per Carmen, che ora piangeva a dirotto con la faccia dentro il cuscino, non ancora sicura di essere sveglia.

    Fu il primo, perché prima d’allora non aveva conosciuto la paura.

    Fu l’ultimo, perché tutti gli altri incubi da lì in poi li avrebbe chiamati semplicemente brutti sogni.

    Non contare le pecore prima di andare a dormire.

    O se vuoi farlo, assicurati che stiano in silenzio.



    Edited by Giophena - 10/4/2020, 21:00
     
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