L'esplorazione - 1

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    Guardavano tutti dall’oblò col fiato sospeso. Terra si avvicinava velocemente. Pochi istanti prima potevano distinguere dall’alto i lineamenti dell’Africa, con i suoi mari neri e fermi e la terra invasa da vegetazione scura. Adesso l’astronave correva verso l’obiettivo prefissato sul navigatore e davanti ai loro occhi cominciava ad aprirsi una zona arida e brulla. Lì la vegetazione era meno fitta e inaccessibile. Più controllata.
    Ancora qualche attimo e la navicella si posò dolcemente sul suolo. Il motore si spense, il navigatore spaziale annunciò: «Arrivo». Il sistema centrale li mise in contatto con la base su Kepler.
    Si susseguirono tre o quattro scariche audio. Poi la voce emerse dai ronzii. «Astronauti, qui Kepler. Siete atterrati?»
    Fu Trent a rispondere. «Ci siamo. Siamo atterrati adesso». Attese un attimo. «Tutto bene. O almeno sembra».
    Un sospiro filtrò attraverso la radio dell’astronave. Trent riuscì a immaginare il sorriso sollevato dell’uomo che li seguiva da Kepler.
    «Bene» disse quello. «Sapete cosa fare. Ricordate di comunicarci qualsiasi scoperta che riterrete utile».
    «Certo. Procediamo con i controlli e vi facciamo subito sapere».
    Trent attaccò la comunicazione e scambiò uno sguardo con i due compagni di viaggio.
    «Ce l’abbiamo fatta» mormorò Cody.
    «Già» dissero Trent e Maria, insieme. Risero tutti e tre per qualche secondo. L’ansia li aveva stremati.
    «È da qui che veniamo, quindi» disse Trent. Erano i primi umani a mettere piede sul pianeta da duecento anni.
    Il luogo gli pareva vuoto e inospitale. Colpa delle radiazioni. Dall’alto, aveva visto resti di città e di villaggi, vecchi stabilimenti di metallo abbandonati, felci scure e folte che incombevano su ogni cosa. Eppure sembrava che, anche senza l’uomo, la natura avesse continuato a seguire la sua strada. Certo, le cose dovevano essere cambiate molto da quando gli umani avevano abbandonato il pianeta… ma non era tutto morto, lì sopra. I boschi folti sembravano pullulare di vita.
    L’ambiente intorno a lui però era più rassicurante. Si innalzavano ancora foreste scure, ma la natura pareva aver messo un freno alla sua espansione. Le erbacce si insinuavano nella strada arida, ma non la pervadevano del tutto. Soprattutto, Trent non aveva l’impressione che qualcosa di strano e mutato si celasse nel folto della natura.
    Cody e Maria stavano preparando l’attrezzatura. Sonde per misurare la radioattività, filtri per respirare l’aria infetta del pianeta. Buste e contenitori in cui conservare eventuali reperti. Trent aveva le labbra secche e mandò giù un sorso d’acqua prima di lasciare l’astronave.
    Le gambe gli tremarono, non appena poggiò i piedi a terra. La storia dell’uomo era perduta e toccava a lui ristabilire i contatti con il passato. Era emozionato e spaventato. L’aria sembrava pesare quintali e l’atmosfera lo spingeva verso il basso, come se il cuore del pianeta lo tirasse a sé afferrandolo per i piedi. Era normale, dopo tre mesi trascorsi nello spazio. Ma la gravità su Terra era addirittura maggiore di quella su Kepler. Camminare era faticoso come muovere passi nell’acqua.
    Si divisero e cominciarono a misurare i valori dell’aria. Trent si guardò intorno. Regnava un silenzio assoluto e spettrale. Il sole terrestre era una sfera viva e pulsante. La sua luce era più abbagliante di quella del sole kepleriano – faceva male agli occhi anche solo alzare per un attimo lo sguardo dal terreno.
    Decise di provare le ricetrasmittenti. Si sarebbero dovuti allontanare, prima o poi: era necessario per studiare a fondo l’ecosistema. L’idea di inoltrarsi in quei boschi da solo non gli piaceva. Sganciò la sua radiolina e disse: «Cody? Maria? Mi sentite?»
    Le voci di entrambi frusciarono tra le scariche audio. Bene, le ricetrasmittenti funzionavano.
    La sua sonda trillò: l’analisi dell’aria circostante era terminata. Si diresse all’astronave per confrontarsi con i compagni.
    Cody e Maria erano già lì, a scrutare i risultati con aria soddisfatta. Il metallo della navicella rifletteva la luce del sole e la frantumava in mille lamine. Gli occhi gli dolevano sempre più.
    «Direi che i valori sono buoni» disse Maria. «Ben al di sotto della soglia massima».
    «Anche i miei» disse Cody. «Potremmo toglierci i caschi e i filtri per l’aria senza ripercussioni, almeno per qualche giorno».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Trent stava riflettendo. Non riusciva ad essere così ottimista.
    «Trent?»
    «Sì, anche i miei valori sono buoni» disse cupo.
    «Ma…» disse Cody.
    «Ma io sarei cauto. Quando l’uomo ha abbandonato Terra, questa era l’unica area immune alle radiazioni. È per questo che siamo atterrati qui. Penso che anche solo inoltrandoci tra quegli alberi…» Fece un cenno con la testa, ma non continuò.
    «Hai ragione. Ma questo è un buon inizio, no?» disse Cody.
    Trent annuì lentamente. Un’inquietudine vaga cominciava ad allargarsi nel suo petto.
    «No. Va bene. Senti, Trent, io vado a comunicare a Kepler questi primi risultati. Poi decidiamo cosa fare». Cody filò nell’astronave e Maria lo seguì. Trent sedette sugli scalini di metallo che conducevano all’ingresso della navicella. Il sole li aveva riscaldati e Trent sentiva il calore premere sulla sua tuta. Erano passati pochi minuti, ma qualche crampo già mordeva i muscoli delle spalle. Camminare a lungo sul pianeta sarebbe stato insopportabile.
    Cosa lo inquietava? Perché quel senso di apprensione? Non riusciva a spiegarselo.
    C’era un silenzio tale, intorno a loro, da dubitare che su Terra fosse mai esistito qualcosa di vivo. Il vento era fermo, le foglie degli alberi immobili. Ma, se i valori erano positivi in quella zona, allora doveva esserci qualcosa di vegeto. Non uomini, certo, né specie particolarmente evolute. Ma rettili? Insetti?
    Nulla. Doveva esserci qualche motivo… qualcosa che era sfuggito alle loro considerazioni, o a quelle di chi li aveva mandati su Terra. Un ambiente almeno parzialmente favorevole per gli umani, adatto per lo sviluppo di altre forme di vita. Dovevano esserci ruscelli nel giro di pochi chilometri, e con tutti quegli alberi il cibo sicuramente non mancava. Atterrando, Trent aveva avuto la sensazione che quella natura folta e umida fosse rigogliosa di vita – fosse anche vita sconosciuta agli uomini. Esseri che si erano adattati alle nuove condizioni ambientali e ne avevano fatto un habitat favorevole.
    Il destino dell’umanità gravava sulle sue spalle e lui percepiva qualcosa di mancante nel quadro che gli si parava davanti.
    Il Governo aveva giustificato il denaro speso con la spedizione sostenendo che l’uomo si sarebbe riappropriato delle proprie radici, avrebbe recuperato finalmente quei pezzi della propria storia che erano rimasti su Terra quando il pianeta era stato abbandonato. La realtà era un’altra, più scomoda: quella sarebbe stata la prima di una lunga serie di spedizioni, con lo scopo di verificare la vivibilità di Terra. Duecento anni prima, a lasciare il pianeta erano state tre miliardi di persone: tutti gli abitanti dell’Europa, dell’America e dell’Oceania, insieme agli asiatici e gli africani in grado di pagarsi il viaggio per Kepler. Gli altri erano morti e quelli rimasti su Terra si erano rifugiati in quella zona dell’Africa. Lì le radiazioni non avevano ancora annientato la natura ed era stato possibile sopravvivere per qualche tempo ancora. Ma nel giro di pochi anni l’uomo era scomparso da Terra.
    Adesso però la popolazione stava arrivando ai sei miliardi e Kepler era troppo piccolo per contenere tutta quella gente. Serviva un nuovo pianeta abitabile. Terra era l’unico conosciuto. Quella spedizione era cruciale per la sopravvivenza dell’umanità.
    Cody e Maria uscirono dall’astronave e quasi inciamparono sulla sua figura. Trent si rialzò e le gambe gemettero per lo sforzo. «Allora?»
    «Sono contenti di questi primi risultati. Ci dicono di continuare a esaminare l’area».
    Trent annuì guardando fisso la terra secca di fronte a sé.
    «Trent, ti va di dirci cos’hai?» chiese Maria.
    «Niente di che. Mi sembra strano che il pianeta sia del tutto privo di vita. Pensavo che almeno qualche animale si fosse adattato al cambiamento, e invece niente. Però magari si sono tutti estinti con le bombe e le radiazioni, e adesso il pianeta sarebbe vivibile… se ci fosse qualcuno che lo abitasse».
    «Capisco» disse Cody. «Guarda, non so perché, ma ho la sensazione che non sia del tutto privo di vita. Hai visto tutti quei boschi? Qualcosa dev’esserci».
    «Sì. Ma perché qui non c’è niente? Eppure duecento anni fa questa era l’unica area immune alle radiazioni».
    Cody attese. «Non lo so. Però secondo me è troppo presto per trarre delle conclusioni. Ora esploriamo il resto della zona».
    Trent si guardò intorno. Davanti a lui si stendeva una distesa arida e senza fine. Dune sabbiose si susseguivano all’infinito. Dietro di lui, i boschi. Passarci attraverso sarebbe stato un problema: rami si arrampicavano ovunque, foglie grosse come palmi ciondolavano e impedivano di vedere oltre qualche metro. Se il sole nei pressi dell’astronave era secco e forte, nei boschi moriva, soffocato dalla vegetazione.
    Eppure l’Africa era stato un continente sterile e infecondo, in passato. L’aveva studiato in previsione di quella spedizione. Forse erano state le radiazioni a cambiare il clima, a renderlo così inusuale: ecco perché tutti quegli alberi in un paesaggio desertico.
    «Ci dobbiamo dividere, giusto?» chiese Trent.
    «Sì» rispose Maria. «Due di noi vanno nei boschi, l’altro esplora il deserto».
    «Meglio se io e Trent andiamo nel bosco. Potrebbe esserci qualsiasi cosa, lì dentro. Può essere pericoloso» disse Cody.
    «Va bene. Facciamo che tra tre ore ci vediamo qui?» chiese Maria.
    «Va bene» disse Trent regolando il suo timer. «Tenete d’occhio le ricetrasmittenti. E se avete paura di perdervi, avvisate. Facciamo in modo che vada tutto bene».
    Si salutarono e si separarono. Trent cercò un punto d’accesso da un lato del bosco, Cody dall’altro: era necessario esplorare un’area il più vasta possibile. Trovò uno spiraglio in cui infilarsi senza troppi problemi. Afferrò la sua pistola a impulsi magnetici, strappò qualche ramo per agevolarsi il passaggio e si introdusse nel bosco.
     
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    Ripulisco e smisto :P
     
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