I Marinai e il Gigante

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    Per le genti delle isole è sacra la legge dell'ospitalità, ed ancor di più la è per chi ha storie da raccontare giacché per uomini imprigionati dal mare nulla è più caro e dolce di una storia da lontano, e in tal modo nelle corti marinai e pescatori sono persone gradite, poiché di storie ne hanno da raccontare e hanno avuto come insegnante il mare, che nessun altro eguaglia nel racconto. Forti di questa convinzione mai in terre di cui potessimo vedere i bordi circondati e bagnati dalle acque sempre care ebbimo paura, né angoscia di trovare a noi strada violenta. Ci sbagliavamo quella volta, quell'unica sola volta quando affamati e sfiancati dalla bonaccia attraccammo in terra straniera e sconosciuta. Scendemmo io e altri dieci compagni in cerca di uomini umani, che quel posto sembrava, a dirla tutta disabitato tanto non c'erano né campi arati per tutta la lunghezza che i nostri occhi poterono vedere, né porti né case, o giacigli all'aperto come quelli che usano nelle terre del Gerte, dove il sole batte caldo e la natura è tanto gentile che gli uomini non hanno bisogno di case e dormono in giacigli all'ombra degli alberi senza pensiero alcuno.
    Allungando il passo intravedemmo sulla collina distante bianche figure, di vello coperte: "Capre" pensammo, ma troppo grandi sembravano e a meno che gli occhi nostri di uomini di mare non ci tradissero dovevano certamente essere altro.
    Procedemmo in avanti giungendo a una maestosa caverna. Grande e come bestia, irsuta di spigoli enormi. Passammo l'entrata che era dieci volte i nostri piccoli corpi in altezza, e altrettanti in larghezza.
    Dentro mai avremmo potuto immaginare di trovare, e pertanto più volte ci sfregammo gli occhi e ci chiedevamo tra noi se fosse un sogno, quello che trovammo.
    Appesi ai muri, su ganci enormi carne e formaggio in forme e dimensioni smisurate, che una sola di quelle porzioni sarebbe bastata all'intero equipaggio per un intero anno.
    Ci fermammo ad ammirare alla luce riflessa dalle pietre all'entrata della caverna: lame e coltelli, sciabole barbare infoderate di pelliccia, seghettate e brutali, e ancora legni profumati di cipresso e nero corviccio. Gabbie enormi come in sogni di metallo splendevano in ruvido rame al termine della caverna e di fianco un giaciglio da eremita lungo quanto l'entrata della caverna e largo altrettanto.
    Decidemmo ancora increduli di attendere lì, ancora forti delle nostre credenze, speranzosi che ci offrisse il padrone di quella casa in cambio di ciò che gli avremmo raccontato, una fetta di quella vastità e ci permettesse di riposare da uomini civili indisturbati sulle spiagge dell'isola dove pareva vivere solo.
    Enormi passi ci fecero tremare le schiene a lungo forzate dai remi. Io per primo mi feci avanti nel mezzo della caverna e porsi ai compagni la sciabola che portavo alla cintola, mostrandomi disarmato.
    Nella notte fuori, giacché nell'attesa ella aveva macchiato l'azzurro splendente e solo la luna saggiamente riflessa illuminava l'alta grotta, vidi la lunga forma di umano, alta dieci uomini e larga altrettanto, che a lunghe falcate conquistava il suo speco.
    Passato il confine della grotta si mostrò allora in tutta la sua bruttura.
    Un occhio solo solcava la fronte, largo e schiacciato come una pustola infetta, senza ciglia né palpebre fissava attorno a sé.
    Nudo era coperto solo dal vello nero, e dietro di lui gli enormi caproni, ai quali i compagni speranzosi si scambiarono occhiate d'intesa sollevati nel sapere che un uomo pur tanto infausto d'aspetto praticasse come uomini civili per provvedere a sé. Si sarebbe tanto potuto dire e pensare dopotutto dalle lame appese alle pareti che egli era omicida di qualche tipo, mercenario o pirata, che non rispetta le leggi degli uomini.
    Un suono poi ci distolse dalla nostra sollevatezza:
    «LADRI!» gridò puntando a noi il bastone e l'occhio da guardare ugualmente doloroso.
    Allorché io, inghiottendo coraggio passai in avanti e con la voce più forte del mio petto dissi: «Nessun ladro c'è qui. Siamo uomini del mare che per tanto hanno sofferto bonaccia e ora vengon da te a chiedere provviste.»
    E vedendo che alcuna di queste parole lo calmava continuai:
    «Portiamo con noi storie di paesi ricchi e lontani quanto stupefacenti. Ognuna potrai ascoltare se solo ci lascerai prendere il cibo che ci basta e ci lascerai dormire senza paura sulla spiaggia.»
    Egli abbassò allora il bastone e un suono lugubre allora attraversò l'intera grotta e nel buio la pustola enorme parve ritrarsi e contrarsi in spasmi malati. Risa schizofreniche, da pazzo, che scuotevano e squassavano il ventre pieno facendolo ondeggiare come una vela al vento si dipanarono dentro e fuori nella notte.
    «Mai ho sentito di ladro più stolto di colui che pretende di pagare in parole il sudore della fronte.»
    Fece tra i denti massicci che avrebbero schiacciato una nave come un acino d'uva.
    Fermato il suo ridere si fece serio e si abbassò sulle ginocchia come a parlarmi più da vicino.
    «In vero sei sincero a ritenermi tanto stupido? Sei forse cieco per non vedere quanto io sia grande? Sei forse sordo per non sentire quanto possente sia la mia voce? Che squassa castelli e assorda draghi? Sei forse tu stolto più di quanto tu mi credi per cercare la morte?»
    Vedendomi impietrito davanti a quelle parole schiantò ancora una volta una risata fragorosa tenendosi il ventre grottesco, e ancora una volta parlò:
    «Sfortunato demente sei tu! E sfortunati i compagni tuoi ad aver tratto te a rappresentarli.
    Giacché tanto infausto è il tuo vivere mangerò te per ultimo!»
    E terminato di parlare mosse la mano enorme sorpassandomi e inombrandomi della luce col suo braccio enorme. Di dietro urla e schiamazzi, qualcuno sguainò la spada ma non servì a niente.
    Afferrò uno e lo tirò a sé, e poi rigirandoselo tra le mani lo tenne per una sola gamba e lo fece ballare a tal guisa come un giullare da circo, e questo gridava e piangeva in modo tanto orrendo e pietoso che non riuscivo a guardare oltre.
    Poi il mostro lo calò, come un grappolo tenuto per il ramo dentro la bocca e schiacciò pian piano tutto il povero uomo, e nel far questo intanto si lasciava andare in disgustosi rumoreggiamenti.
    Oltraggiato e orripilato da quello spettacolo presi ancora una volta coraggio e parlai, non senza tremore nella voce o pianto nella gola:
    «Dimmi allora giacché la nostra moneta non ti aggrada come possiamo comprare la tua ospitalità? Noi poveri marinai di...»
    «Non è ospitalità che dovreste ambire...» disse scoprendo in bocca aguzzi rossicci.
    «Ma celere morte... Dimenticate inoltre i vostri nomi di uomini, giacché io non do nomi ai miei capri più forti e potenti di voi e sicuramente più degni di venditori di parole. Da oggi siete nessuni e "nessuno" vi chiamerete tra voi.»
    Così dicendo afferrò un altro allo stesso modo, e come un pesce lo lasciò a dibattersi tra le mani urlando e straziando e ancora una volta lo trangugiò.
    Poi, senza curarsi di noi chiuse dietro di sé l'enorme entrata con il masso che giaceva al suolo e ancora nel buio a tentoni sentimmo le sue mani allungarsi e cercare. Urlammo e ci accalcammo ai piedi del giaciglio e ai muri dello speco mentre egli rideva sommesso e continuava a tastare con mani: piovre giganti in un buio abisso.
    Poi una luce enorme come di un sole si sparse per tutta la camera.
    Voltandoci vedemmo ch'egli aveva tirato fuori da una gran sacca un sasso luminoso che ora dipanava ovunque i raggi ed era tanto forte da non poterlo guardare troppo.
    Il mostro posò lì a terra il sasso suo e fece una ad una accorrere le capre che intanto erano rimaste dietro di lui, incantate, dentro le gabbie. Fatto questo si sedette dietro la luce e sorridendoci lugubre disse.
    «Ditemi dunque che storie portate tanto incredibili da esser scambiate com'oro?»
    A quelle parole io e i miei compagni ci radunammo intimoriti e insieme scegliemmo la storia da raccontare al gigante. Io come al solito avrei raccontato mentre un altro compagno avrebbe simulato i suoni della storia giacché questo era il modo nostro di raccontare.
    Il compagno fedele il cui nome era Laale, di terra lontana anche lui, iniziò a soffiare tra le mani lunghe folate di vento. E io alzando le mani e chiudendo gli occhi per affogare il mio tremore ripetevo a memoria quei passi sì cari che tante volte avevo già mimato e raccontato.
    Raccontammo di quando s'alzava il vento del sud, il vento caldo. Calda era l'acqua e il sorriso degli astanti quando la nave prese il largo. Arpioni aguzzati e vele spiegate s'allontanavano per spargere sangue di bestia.
    E Laale aumentava di voce e il vento s'era fatto canti di uomini e scialacquio di mare.
    L'isola distante si fa sempre più lontana e in pochi hanno il coraggio di guardarla sparire.
    Cantammo allora del vento e della malinconia, della notte in bonaccia e della pioggia in tempesta e Laale saliva e saliva, quasi urlava il vento al gigante.
    Qualcosa emerse allora dal nero del lenzuolo di mare: un occhio. Urla di gioia e di paura.
    Di tutti gli uomini, Amilo solo scende con la piccola barca e la lancia fedele. Il più valente tra loro, piantato e imponenete.
    La paura allora si era fatta pazzia e non tremavo più io ma i miei occhi vacillavano e in ogni momento avrei potuto sbagliare, ma non accadde.
    Amilo scese allora tra le onde feroci e ciò nonostante Laale pareva quietarsi, sempre più piano, sempre più piano, fino a che, sguainata la spada la infranse sulla roccia in mille pezzi, e la bestia aveva alzato il collo dall'acqua nella nave, e ancora una volta lo aveva immerso trascinando con sé il relitto e gli uomini tutti.
    Non un grido macchiò la bocca di Amilo o il mormorare dei tuoni, ma una sola lacrima nascosta dalla pioggia ne solcò il viso.
    E ancora una volta silenzio, si erano uniti al tuonar e allo squassar delle onde i compagni mentre Laale preparava in silenzio.
    Io ancora non da meno, sostenuto da tutti di dietro di me, pronto al mostro che usciva dalla tempesta, pronto alla lancia che ne trafiggeva occhio e mandibola. Un suono crudele dietro di me, alzai le mani pronto a procedere quando udii le urla dei compagni. Mi voltai aprendo gli occhi. Il braccio del gigante, un albero e la mano e le dita radici avvinghiate al povero Laale ormai un fiore rossastro.
    Ancora una volta il gigante riservò all'uomo quel trattamento animale e ancora una volta ci sorrise:
    «La vostra storia non mi è piaciuta» sogghignò accarezzandosi ancora la pancia.
    «Raccontamene un'altra.»
    Ancora mi consultai coi compagni e gli chiesi stavolta di fidarsi di me, poi da solo mi feci avanti e forte del coraggio che dà la rabbia parlai:
    «Racconterò per te una storia di donne dunque. Ma per far sì che questa ti appaghi al meglio ti chiedo di distogliere il tuo sguardo da noi uomini e distenderti sul tuo giaciglio.»
    Un silenzio pauroso intercorse tra le mie parole e la ghignante risposta:
    «Ebbene lo farò, e se anche credete di volermi imbrogliare vi dico che mai riuscirete a divellere dal muro quelle spade che mi furon donate da Bhara mio padre e non possono esser toccate da mani di uomo.»
    Così dicendo mosse il corpo imponente e si distese sul giaciglio.
    Dietro di me riprese a cantare ancora tremante un altro degli uomini, e come prima soffiava tra le mani, non tanto bene quanto Laale né con la stessa potenza, ma questa in fondo era brezza mattutina, brezza tra i rami e le foglie, brezza che increspa i laghi.
    La pustola del gigante ora si trovava dinanzi a me, guizzante, inquieta, e mi fissava con la pupilla nerigna.
    L'acqua dove si bagnano le donne Volderie, accarezzandosi e sussurrandosi segreti. Iniziai a parlare allora a squarciagola degli amori Volderi, come avevo già fatto in corti più slacciate e al lungo lo intrattenni parlandogli dei giochi infantili dei giardini e di come lì si vivesse in un'eterna quiete. Vidi con immenso disgusto, nonostante dovetti trattenermi per non alterarmi nella voce, che il gigante sorrideva, e nel suo sorriso colavano di sotto dal labbro bava rossa e insieme pezzi di uomini, alla cui vista ebbi un sussulto che tuttavia non lo turbò. Parlai delle donne Volderie e di come la loro pelle è liscia e candida, di come in quelle terre fosse possibile trovare arrivate dal mare donne brune e bianche, dall'est e dall'ovest, delicate e ricche, poiché quella era terra di mare e come in nessun'altra uomini e donne convergevano da ogni parte del mondo, e parole dolci in ogni suono venivano sussurrate dai suoi abitanti.
    Vidi infine con piacere che pustola si annebbiava in un sonno ubriaco e il compagno fedele acquistato coraggio gli sussurrava nell'orecchio parole d'amore che lo mantenessero appaciato.
    Intanto feci segno agli altri compagni che tolsero dal muro uno dei lunghi pali di corviccio, nero come l'animo del gigante, e acuminammo con le spade il morbido legno che tanto è usato nel nord per costruire solide e celeri navi. Intanto io sminuivo il racconto, lo rendevo leggero e sussurrato fino a che mi accorsi che la bestia russava.
    Mi misi allora in capo ai compagni che avevano puntato al mostro il palo color della tempesta e urlando mi lanciai con loro impattando la pustola orrenda.
    Affondammo e torcemmo con tutto il gusto che deriva da quel gesto che nessun dio potrà mai dirmi ingiusto.
    Urlava la bestia e noi ridevamo e ridevamo, e lui scalciava come un coniglio che viene sbudellato.
    «DANNATI!» gridava.
    Si alzò allora in piedi e noi rifuggimmo da lui, infilandoci nelle gabbie dei capri mentre lui ancora ingiuriava e bestemmiava nella lingua dei folli e degli dei.
    Lo sentimmo allora spostare il grande masso e parlare ai suoi compagni vicini, le cui voci risuonavano come tuoni nella notte solenne.
    «Dicci o Giailo, perché urli a sì modo? Qualcuno ti fa violenza o ti deruba dei tuoi bene?» facevano in echi.
    «Bestie di niente mi fanno violenza, nessuni mi derubano e m'accecano.» faceva lui di rimando e io più di tutti mi torcevo ridendo al suolo giacché lo stolto si tradiva con le sue stesse parole.
    «Perché ti lamenti a tal modo dunque? Forse tuo padre Bhara ti porta sventura e dolore! In tal caso nulla possiamo noi altri e tu solo puoi pregarlo di alleviare la tua sofferenza.»
    Io e pochi altri sgusciammo fuori dalle gabbie e con noi portammo la pietra luminosa e insieme fuggendo lo speco buio e la bestia ululante. Corsi alla nave salpammo attendendo la calma del mare per raccontare ai compagni rimasti l'accaduto, guidati da quel pezzo di sole rubato a chi non lo meritava e oramai non ne aveva più bisogno.

    Edited by DarknessAwaits - 15/2/2018, 19:37
     
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    CITAZIONE (Girl Killer @ 17/2/2018, 19:34) 
    Ma è la copia dell'odissea

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    Voleva essere più che altro una specie di reinterpretazione, un tentativo di raccontarla in un altro modo mantenendo comunque le caratteristiche principali dell'episodio di Polifemo.
     
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