Le Maschere della Montagna

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    Era già buio quando la città multicolore di Catima era affogata nell'orizzonte piatto. La notte in quelle pianure aveva un odore strano, di fumo e di origano, e di piante selvatiche. In quella coltre scura, abbandonata persino dalle stelle non potevo far altro che porre fede solo nella mia cavalcatura, e ciò era pur difficile poiché questa era una bestia straniera di un luogo lontano, regalatami a Catima dal re Tesso che a sua volta la comprò da un mercante di Polisia ansioso di sbarazzarsene poiché troppo vistosa per uno come lui che per ciò che trafficava doveva nascondersi nell'ombra e passare non visto. Ebbene la bestia non era certo vecchia o malata, o tantomeno lenta o scomoda, eppure il suo ondeggiare in avanti e indietro annegava il mio cuore di ansia. Ad ogni passo temevo la caduta ed essendo l'animale molto alto probabilmente una grave ferita, per non parlare dei momenti in cui, quando questo poneva le zampe artigliate su sassi e declivi, chiudevo gli occhi di forza e distoglievo i pensieri, come un giovane che attende sulla ferita il sale o il coltello rovente portato da mani più sagge ed esperte ma non per questo meno dolorose. Sì perché a dirla tutta quella bestia era saggia, saggia come poche altre e a tratti più simile a una guida che a una cavalcatura. Uno dei motivi per cui mi era stata donata dal re, oltre al fatto che egli di certo non voleva servirsene essendo impegnato con gli affari del regno, e alla proverbiale generosità dei regnanti delle isole, era difatti che l'animale sembrava conoscere alla perfezione le strade del sud. Non necessitava di spinte sui reni o ferri e da solo, come seguendo l'odore del vento, filava dritto a destinazione. Mentre tuttavia ero assorto nella contemplazione dell'animale, nonché nella paura che quell'ondeggiare folle mi causava, un brillìo catturò la mia attenzione, lì tra le rocce, una figura che nella notte appariva blu, illuminata appena dalla luce della mia curiosità.
    Tirai le piume della bestia, arrestandone il movimento e mi avvicinai, sperimentando quanto impervio e pieno di rocce fosse quel terreno ignobile. Dovetti camminare quasi acquattato per paura di scivolare ma nonostante questo mantenni la mano destra salda sul fianco dove tenevo il coltello ricurvo donatomi dallo stesso re di quella lontana città.
    Passai due metri per trovarmi di fronte a quello che sembrava un uomo ma non si muoveva, né tantomeno pareva respirare come tale.
    Indossava una maschera, rozza e lucente ma pregna del segno di tempi antichi e di usanze sconosciute.
    «Chi sei tu?»
    Chiesi guardingo in un frusciante ma convincente Catimano. Ma l'uomo non rispose. Non un sussulto, non un accenno di quella corona brillante che gli circondava la testa apparve ai miei occhi. Ma egli rimase lì, immobile come guardiano dei sassi stringendo nella destra irsuta la lunga lancia per la quale non mi ero preoccupato; poiché troppo lunga per trafiggermi a quella distanza senza richiedere un lento movimento preparatorio. Mi sovvenne sollo allora il pensiero che quella fosse una statua di incredibile fattura eppure, nonostante la grande varietà artistica a cui Catima mi aveva abituato, quella non sembrava ricordare alcuno degli stili che mi era parso di vedere, forse l'opera di uno scultore fuggitivo. E nell'immaginare questo passai la mano sulla lancia e sulla maschera, e sul braccio e sul petto villoso per scoprire che quello non era marmo ma carne vera ricoperta da autentica peluria, e allora ancora una volta chiesi chi fosse a quel tremendo uomo che li stava e fissava il vuoto e le rocce, e i declivi scoscesi e irregolari, ma nessuna risposta ebbi in cambio.
    E allora quello sguardo fisso e nero, poiché alcun occhio traspariva da quel metallo arcaico, riuscivo a sentire dentro di me, scrutarmi l'animo. Chiesi furioso e impaurito, tenero e comprensivo, dalle lingue del nord, alle antiche lingue dei morti, dalle lingue dei canti al dialetto di casa, chi fosse. Ma nulla in cambio la sua bocca squadrata nel metallo come di una bambola di pezza mi diede. Allora, pensando di trovarmi in un sogno di droga, di non essere mai uscito da quelle dolci case dell'arte e del piacere che han posto a Catima, mossi la mano verso l'alto afferrando il metallo freddo e tagliente della maschera, ed ecco che il guardiano di sassi mosse il sinistro per fermare il mio destro. La stretta possente sul mio polso mi fece capire che quello non era un sogno di droga in cui tutto era etereo. Egli portò con tranquillità la mia mano verso il basso e tornò nella sua posizione.
    Ero intrigato, di quell'intrigo che mi colpì tante volte e per il quale fuggii dalla casa natìa per cantare storie di viaggio. Ma da quell'uomo, sapevo, non avrei avuto risposta alcuna. Mossi i miei passi oltre le rocce, scavalcano le mura immaginarie dalle quali fissava il nulla, e attraversai un alto declivo che saliva in un sentiero roccioso. Chiamai la mia bestia con il fischio misurato che mi era stato insegnato dal padrone, e insieme salimmo per quel sentiero. Scorsi nella notte altri uomini, guardiani di rocce, alcuni fissavano il vuoto come il primo che vidi, mentre altri fissavano alberi o piccoli fiumi insignificanti. Alcuni sembravano fissarsi l'un l'altro ed altri, ma erano rari, si davano le spalle l'un l'altro.
    Accesi il fuoco in una piccola caverna, confidando che quegli uomini non si sarebbero mossi contro di me prima di farmi domande, se avevano bocca per farne.
    La caverna dove avevo preso posto era perfetta, una bolla di roccia che pareva scavata, senza buchi né tane di craddi. Legno e fiamma pura erano nella mia borsa, e mangiai poca della carne che mi ero portato da Catima,
    E fu quando mi apprestavo a cuocere la carne che mi accorsi, alla luce del fuoco, dei segni neri che le dita dell'uomo avevano scavato nel mio polso. Al momento la presa non mi era sembrata tanto violenta poiché io stesso, per la paura e la sorpresa mi ero lasciato trasportare verso il basso senza opporre resistenza, ma a quella vista strabuzzai gli occhi, poiché un uomo tanto forte avrebbe sicuramete potuto sbarazzarsi in poco tempo di un viaggiatore fastidioso che lo importunava. O forse osservava le leggi di Catima sui viaggiatori e i pellegrini e in tal caso sarebbe dovuto essere un uomo dotato d'ingegno e dunque era inspiegabile il suo rifiuto a parlare.
    La curiosità mi torturava e quasi non mangiai quella notte. Feci accovacciare la bestia sul fondo della bolla e la usai come cuscino poiché il suo piumaggio era al pari morbido e soffice. Avevo spento il fuoco poiché la notte era abbastanza calda e l'odore del fumo mi disturbava quasi quanto i miei pensieri. Potrei passare ore a spiegarvi quanto fossero belle le notti in quella regione, ma il fatto che molti Catimani abbiano i letti sul tetto delle case può bastare a convincervi di che sonno beato dormii quella notte ricordando già con nostalgia la città dell'arte e dell'amore che mi lasciavo dietro.
    Quando mi svegliai al mattino successivo il sole era alto dietro la montagna e lasciava in ombra l'entrata della bolla. Uscii fuori per scoprire che l'uomo della notte prima era sparito e con lui tutti gli altri. Ma non doveva essere un sogno, non poteva essere un sogno poiché ancora portavo e sentivo sul polso i segni di quella stretta poderosa. Raccolsi le poche cose che portavo con me e iniziai ad inoltrarmi per il sentiero montagnoso e impervio. Scirocco, questo il nome che avevo dato alla bestia, non conoscendo nomi della sua terra, mi seguiva docilmente senza bisogno alcuno di comandi o legamenti. I declivi lasciavano spazio a spiazzi rocciosi e impervi e poi ancora ad altri declivi, fino a che, guardando in basso il suolo sembrava un riflesso in uno specchio di acqua torbida. Rivolsi il mio sguardo in alto per incontrare un punto nero nella roccia scura, più grande delle insenature e delle piccole caverne, simili alla bolla dove avevo passato la notte, che avevo incontrato poco prima. Il passaggio fino a quel punto non era stato facile. Avevo dovuto ricorrere a tutte le mie forze per scalare i punti più alti e attraversare a quattro zampe i declivi più scoscesi e le zone più irregolari, ma la strada per arrivare a quel punto fu ancora più faticosa quando mi accorsi del debole lucore di una maschera dentro quell'enorme bocca di demone. Fissavano, lo sapevo bene, e dal loro fissare sembrava scaturire qualche specie di magia poiché più volte mi ritrovai a voler senza motivo tornare indietro, io che in tutta la mia vita mai mi ero sottratto a soddisfare la mia curiosità.
    Scirocco era rimasto sotto, vicino a una zona erbosa dove sarebbe stato al sicuro. Sembrava capire, stranamente, come quegli uccelli Pinbu che capiscono l'addestratore dai movimenti dei suoi occhi.
    Due uomini, o maschere come le chiamavo allora quando vi pensavo, visto che al tempo mai avrei detto fossero uomini, mi aspettavano all'entrata, o meglio, erano fermi all'entrata.
    Entrai tenendo lo sguardo dritto e temendo le occhiate vuote e intraducibili di quegli esseri. La caverna era ben illuminata con torce incastonate nella pietra grezza, e a lungo si stendeva quasi a imitare il corridoio di un palazzo. Per tutta la sua lunghezza, maschere sedevano in piccoli gruppi di tre o di quattro come a parlarsi, ma da quei rettangoli neri non usciva rumore. Nonostante fossero diversi nel fisico le maschere li facevano apparire tutti uguali. Facce dalla forma più arcaica e semplice possibile, bronzo dorato modellato a foggia di volto in qualcosa che risultava insieme preistorico e nuovo.
    Inoltre, cosa ancora più strana che attirò la mia attenzione, ognuno di loro sembrava avere almeno una cicatrice, e tutti presentavano muscoli tonici e ben saldi.
    Riconobbi fra loro qualche corpo femminile ma non erano molti, e la loro presenza, nonostante queste creature vivessero nella nudità non provocava alcuna reazione né tanto meno era in grado di smuoverli dal silenzio tombale nel quale erano caduti.
    Per più volte mi aggirai per la grotta domandando risposte: chi fossero, che lingua parlassero, quali fossero i loro nomi, perché si trovassero lì, in quella montagna dimenticata dall'uomo. Ma alcun suono in cambio mi donarono.
    Tentai, e forse ora me ne vergogno, ora che so i motivi dietro quel silenzio di tomba, la strada della violenza. Uno ne minacciai col coltello ricurvo senza ottenere risultati, mentre un'altra afferrai per le spalle e provai a privare della maschera, per poi vederla fuggire via. Fu allora che mi sovvenne l'idea più folle. Mi sedetti a gambe incrociate sul pavimento e feci chiaro che da allora in poi avrei vissuto lì, con loro, e così feci. Venne un momento poi in cui dall'apertura della caverna due maschere avanzarono in fila, tenendo su dei bastoni un grosso capro che da quelle parti era bestia comune. Dai loro fianchi pendevano cinture di striscie di pelle che servivano appena per coprire le nudità e per tenere un corto coltello di bronzo. Fui sollevato nello scoprire che queste maschere si nutrivano e sorpreso nel vedere che i due non condivisero il cibo con gli altri ma si chiusero in una delle stanze per mangiarlo a turno, mentre uno dei due bloccava la strada tenendo le spalle al compagno. Non vi erano né fuoco ne braci, né erbe per condire la carne, e questo lo sapevo perché in quella stanza ero stato in precedenza e sapevo che era vuota quanto la grotta in cui avevo passato la notte e simile in forma e dimensione.
    Rimasi attonito a osservare quella assoluta mancanza di generosità nonché di rispetto nel nascondersi agli altri per mangiare. Quando i due ebbero finito lasciarono la camera e tesero le armi e i cinturini ad altre due maschere, stavolta un uomo e una donna che a loro volta uscirono dalla grotta. La ricorrenza andò avanti più volte nel giorno tanto che contai, lì seduto e attento, ben cinque paia di cinturini che vennero dati quel giorno a venti coppie di uomini, dieci dei quali erano già usciti prima che arrivassi io. Quando iniziai ad avere fame posi il mio fuoco fuori dalla caverna e andai a prendere il cibo che tenevo conservato nella bisaccia di Scirocco, e mentre a differenza di quegli uomini bruti cuocevo e condivo il mio cibo vidi che in massa si recavano fuori dalla caverna, come una processione di folli, ed erano armati con lunghe lance. E come guardie sul fronte presero posizione tra le rocce e in fondo ai declivi, sulla pianura e dietro gli alberi e in poco tempo riempirono la valle di figuri. Li guardai mentre mangiavo con calma, senza paura di quegli uomini che ormai pensavo più bizzarri e pazzi che inquietanti e pericolosi. E da quell'altezza su quella valle il lucore delle loro maschere creava sul fondo blu di buio un cielo stellato in terra, laddove il cielo più in alto non aveva stelle.
    Dovetti tirarmi via a forza da quello spettacolo per convincermi a mettermi a lavoro. Tirai Scirocco su per il declivo fin fuori l'entrata della caverna e lo lasciai lì vicino, fiducioso che nessuno avrebbe provato a rubare lui, né tantomeno sarebbe scappato visto che lì scorreva in piccoli fiotti acqua pulita e fredda e cresceva abbastanza erba per poterlo sostenere. Mi spogliai e riposi i miei averi nella bisaccia di Scirocco per poi addentrarmi nella caverna buia. Trovai le maschere in una stanza, sistemate in un punto come sedie in un angolo. Ne presi una e la legai intorno alla testa. Ora non mi rimaneva da fare altro che aspettare il mattino successivo.
    Dovetti farmi forza per non cadere vittima del sonno che volevano gettare su di me il cielo limpido e chiaro e il calore confortevole della caverna poiché non sapevo che cosa avrebbero potuto pensare di me le maschere a vedermi conciato a quel modo come uno di loro, e semmai lo avessero preso come un'offesa gravissima,
    Rientrarono al sorgere del sole e parvero non far caso a me, posarono le lance in file ordinate in una delle tante stanze e come sempre andarono a sedersi in piccoli gruppi, fui sorpreso e in un certo senso irritato dalla loro indifferenza ma non lo diedi a vedere. Mi misi a sedere con tre di loro. Ci scrutammo senza guardarci e gli occhi degli altri erano persi in pensieri meditabondi tanté che meditai se fosse saggio in quel momento abbassare la guardia e lasciarmi andare ai pensieri piacevoli che tanto affollavano la mia mente, come quando si cade vittima del sonno del pirrio rosso che addormenta per giorni e giorni, lasciando divagare la mente per quanto è capace prima di svegliarsi intontiti e più stanchi di prima, ma liberi dai pensieri molesti.
    Attesi a lungo quando la maschera innanzi a me si alzò e mi fece un muto cenno intimandomi di girarmi. Dietro di me due maschere avevano terminato di mangiare e offrivano i loro cinturini. Ne afferrai uno con la stessa calma con cui avevo visto fare, e con cui ora si accingeva quello che sarebbe stato il mio compagno.
    Fui quasi accecato quando uscimmo dalla grotta, dal sole che rifulgeva sul metallo della mia maschera, eppure nessuno degli altri sembrava farci caso. Trattenni dunque il mio lamento e seguii il mio compagno che intanto si era avviato per una strada che non conoscevo.
    Una discesa nascosta dalle rocce portava ad una piccola zona boscosa dietro la montagna. Fui a quel punto sollevato nell'udire per la prima volta dopo molto tempo creature parlare anche se nel linguaggio sconosciuto e confuso delle bestie del bosco.
    Il mio compagno mi indicò un capro con un gesto preciso e in poco tempo lo avevamo intrappolato, io dal davanti, l'altro dal dietro della bestia, e senza parole né segni ci lanciammo insieme tirando coltellate furiose, una cornata mi colpì in pieno petto mentre l'animale moriva, e allora credetti di aver visto il mio compango rialzarsi dopo calci che avrebbero atterrato il più possente dei guerrieri.
    Tornammo alla caverna sporchi di sangue e come tutti mangiammo uno alla volta e scambiammo i coltelli con le altre maschere. E in quel mometo ebbi la sensazione di tradirmi poiché non ebbi il coraggio di guardare, mentre mangiavamo, quell'altro uomo che si era tolto la maschera.
    La notte presi posto in quella stessa caverna dove avevo dormito la prima volta e, lancia nella mano, mi fermai ad osservare e a riflettere. Tutti quegli uomini agivano come uomini tristi, e si muovevano come in tanti luoghi avevo visto fare a mendicanti rassegnati e perduti, decisi e senza tremore, con forza ma senza rabbia o risolutezza, e allo stesso tempo quelle guardie e quelle cacce ricordavano soldati addestrati, così come il maneggiare le armi, e i muscoli e i segni che portavano sul corpo. Ancora una volta assillato dai dubbi venni preso dal sonno, insonnolito dalla notte senza sonno che aveva preceduto quella e mi addormentai ancora una volta nella calda bolla di pietra.
    L'alba aveva steso le dita e il palmo del giorno era già alto nel cielo quando mi svegliai, la maschera mi era scivolata ma non ci feci caso finché, senza motivo alcuno mi misi a correre come un forsennato per i declivi della montagna per raggiungere quella grotta dannata dove tutte le altre maschere si erano probabilmente già recate.
    Non so se definire un regalo il mio sonno di quella notte, poiché se fossi arrivato prima e fossi entrato nella caverna sarei probabilmente ancora lì, tra quelle maschere, anime dannate.
    Poco vicino all'entrata della caverna stava una ragazza infatti, vestita alla moda Catimana che pensavo ormai di aver dimenticato. Piangeva osservando la grotta di lato e gli uomini che vi facevano la guardia. Scosso e speranzoso di una risposta ai miei dubbi la afferrai per le spalle e le chiesi cosa le turbasse tanto e perché si trovasse lì, quel luogo sperduto.
    Singhiozzando lei mi rispose che il padre si era unito a quelle maschere quel giorno stesso e che lei era lì per dirgli addio. Riconobbe allora che non ero a conoscenza del segreto delle maschere e senza domandarsi riguardo il fatto che me ne pendesse una dal collo mi disse con voce rotta dal pianto: «Quegli uomini sono sì dotati d'ingegno ma tristi e disperati, e nei muscoli e nei tagli gli si leggono non ferite di caccia ma cicatrici di guerra.
    In quel mondo di uomini uguali e ugualmente tristi, senza re, senza fuochi, né amori, senza arte né lingue, in quel fermo di pace e vuoto, di calmo nulla sono andati a vivere dimentichi di tutto.»
    Poi, riprendendosi come pentita di avermi rivolto quelle parole si raccolse e si allontanò rivolgendomi un saluto veloce.

    Lasciai quel luogo quella notte stessa e non vi tornai mai più, pieno di vergogna per essermi unito a coloro nei quali non avevo diritto di unirmi, e impietosito e rattristato per quelle maschere di uomini che mi lasciavo dietro.

    Edited by Swaky - 26/12/2017, 17:48
     
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    Happy Urepi Yoropiku ne~

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    "Dal multiforme ingegno"

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    Devo dire che è un bel racconto veramente. Stimolante, direi, è... particolare, c'è un'immersione veramente forte, e la reazione del protagonista di fronte a questa società l'ho trovata non tanto credibile quanto meravigliosa. Sono le pippe mentali che mi farei se pensassi di incontrare, in un qualche viaggio solitario (magari indietro nel tempo), un gruppo di individui dalle usanze, cultura sconosciute.

    Il tutto è contestualmente soddisfacente, il racconto lascia una sensazione concreta per poi condurti verso la via delle interpretazioni POSSIBILI su chi sono questi individui, cosa rappresentano. Così come di interpretazioni possono non esserci, e tutto può essere visto come un semplice, ma affascinante, racconto di avventura, un diario di esplorazione dopo le affascinanti esperienze nella civiltà fantasy che hai architettato molto verosimilmente. Scritto bene, come al solito, chiaro, con una membratura narrativa che dall'inizio (che serve ad introdurre il contesto dell'ambientazione) fino all'incontro, allo studio di questi individui e il finale soddisfacente.
    Sento che c'è altro da dire ma non mi viene in mente, così ti lascio con queste semplici impressioni. Complimenti, cuscino!
     
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2 replies since 25/12/2017, 23:11   161 views
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