L'ombra

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    #1

    La febbre a metà agosto. E proprio nel mezzo delle ferie, poi. La cosa lo rendeva nervoso: proprio non gli andava giù di aver pagato, tra lui e sua moglie, trecento euro per i voli e altri trecento per l'alloggio nell'albergo a quattro stelle per poi passare la vacanza a letto. Senza contare i soldi per mangiare e quelli che avrebbe speso in medicine. Steso sul letto, colpì con un pugno fiacco il materasso sotto di lui.
    Già quella mattina, quando si era svegliato, Luca non si sentiva tanto bene. Si era alzato con i muscoli delle braccia e delle gambe sfibrati e con dei brividi gelidi e continui che gli attraversavano la schiena. La cosa era strana, aveva riconosciuto: nonostante si trovassero a Vienna, la temperatura oscillava sempre tra i venticinque e i trenta gradi. Aveva però ignorato l'allarme - e adesso se ne pentiva amaramente: se avesse passato la mattinata a letto, forse la situazione sarebbe migliorata - e aveva deciso di affrontare la mattinata in città, camminando sotto il sole che si faceva man mano più cocente. I brividi erano aumentati e adesso, invece che gelidi, gli mettevano addosso una sensazione di caldo che gli si appiccicava alla pelle. Lo sguardo si andava appesantendo, sempre più spesso nelle sue pupille scorrevano immagini nere e brumose. E il peggio era che a metà giornata, vinto dalla spossatezza dei muscoli che sembravano pezzi di mattone secco, aveva chiesto a Ester di tornare per qualche ora in albergo e riposare almeno un poco. Si concedeva solo due settimane di ferie all'anno, una d'estate e una d'inverno, e il fatto di dover passare anche solo poche ore in albergo, sprecando il suo tempo e i suoi soldi, accresceva il suo nervosismo.
    E adesso eccolo lì, abbandonato sul letto senza forze, con i muscoli che, nonostante le due ore di riposo, non accennavano a sciogliersi. Da qualche minuto un mal di testa non troppo doloroso, ma decisamente fastidioso, gli martellava nel cranio. Era come se grattasse le ossa con l'estremità di un pezzo di ferro. L'ambiente della camera da letto era confortevole: la carta da parati color ocra, i copriletto rossi, la sedia di legno tenuta vicino al piccolo scrittoio. Sopra la sua testa pendeva un quadro di un paesaggio fluviale dai contorni un po' confusi. O almeno gli parevano confusi: in quel momento non portava gli occhiali per la miopia e osservava il dipinto dal riflesso nello specchio a muro di fronte al letto. Regnavano un ordine e una pulizia perfetti. Avrebbe quasi apprezzato quella stanza, se non fosse stato per l'odore: un misto di spirito per lavare a terra e varichina che dava la nausea. E poi qualcos'altro, un tanfo più sottile, come... no, non riusciva proprio a paragonare quell'odore strano a niente. Forse, ma proprio a volersi allargare, avrebbe detto che assomigliava al misto di spezie che si diffondeva al mercato rionale nella sua città. Piacevole all'inizio, ma sempre più stucchevole con il passare dei minuti.
    Aveva già letto e riletto giornali che si era portato dall'Italia - e per forza, si disse: non era previsto un periodo di malattia -, la televisione in stanza passava solo programmi in tedesco e il cellulare era a caricare a qualche metro di distanza. L'unica alternativa per trascorrere quel tempo morto, quindi, era leggere l'ultimo romanzo di Jessica Horsing, l'autrice preferita di Ester. Ma erano già dieci interminabili minuti che cercava di andare avanti con la lettura e qualche sbadiglio iniziò a spalancarsi sulla sua bocca. Lo scroscio della doccia che lavava il corpo di sua moglie stava assumendo i contorni di una ninna nanna e il suo sguardo stava perdendo la lucidità.
    Che noia, cazzo. Luca non era un assiduo lettore, se poi era costretto a leggere quel genere di romanzi smielati che gli facevano rivoltare lo stomaco... No, no, meglio fare qualcos'altro. Gettò a lato il libro, che piombò sul materasso e lo fece stridere. Poi si domandò se avrebbe dovuto dire a Ester della febbre. Era orientato verso il no. La conosceva bene: se gliel'avesse detto, Ester l'avrebbe obbligato a letto per tutta la vacanza. Un incubo. Non aveva portato con sé un termometro e quindi non poteva nemmeno misurarsi la temperatura. Però la sentiva, come una presenza fisica nel mezzo delle tempie, lì dove da qualche minuto batteva quella fastidiosa emicrania. Si augurava che fosse ancora bassa, non più di qualche decimo, così almeno sarebbe stato capace di uscire e godersi la visita alla città invece di restare a marcire in quell'hotel. Ma non ci avrebbe giurato e anzi quel calore esagerato nel petto gli suggeriva che la febbre era altissima. Alta così come non poteva nemmeno immaginare.
    Sbuffò verso l'alto e cacciò una risata nervosa. Devo darmi una calmata, si disse ancora ridendo, questa volta a voce più bassa. Probabilmente erano solo pochi decimi e le membra imballate erano solo colpa del viaggio del giorno prima. Gettò un'occhiata all'orologio: le tre e quattordici. All'improvviso ebbe voglia di lasciare la stanza, ma le sue gambe rimasero immobili, più dure che mai. Lo scroscio della doccia procedeva incessante, sempre con quell'effetto soporifero. Luca si tirò su a sedere contro lo schienale del letto e agitò la testa per scrollare via quel sonno.
    Fu allora che vide l'ombra.

    #2


    Fu allora che vide l'ombra.
    Anzi, a dire il vero non vide l'ombra. Ne vide il riflesso.
    All'inizio non fu in grado di definire cosa fosse. Un tocchetto nero e affusolato che spuntava dall'angolo del soffitto e si dirigeva verso il centro, orientato in diagonale. La direzione che prendeva, notò, era quella verso il quadro sopra la sua testa, quello con il paesaggio fluviale, esattamente a metà del letto matrimoniale. Doveva essere spesso un paio di centimetri e lungo tre, ma non seppe dirlo con precisione: gli sembrava che quella cosa oscillasse, come mossa da un vento che non c'era.
    Un insetto, pensò dopo qualche secondo, nonostante sapesse benissimo che non si trattava di quello. La cosa era troppo grande per essere una mosca o una zanzara e dalle forme troppo irregolare perché fosse di uno scarafaggio. Ma che cosa, allora, se non un insetto? Non gli veniva in mente nulla. Intanto rimase fermo sul letto con lo sguardo fisso sul riflesso della cosa e sul suo ondeggiare perpetuo.
    Solo allora si rese conto del colore della cosa. Nero, certo. Ma non si trattava un nero normale: era un nero profondo come l'abisso che catturava subito lo sguardo. Sembrava quasi uno squarcio buio nella parete. Non poté far altro che rimanere ipnotizzato da quella tonalità mai vista e rimase paralizzato per qualche secondo, la schiena tesa in avanti e la bocca un po' dischiusa. Un brivido violento gli scosse la schiena e lui rannicchiò un pochino le gambe verso il petto.
    Per un attimo un'idea assurda gli attraversò la mente. Quella cosa era davvero uno squarcio, un portale che si apriva su un mondo o un universo di cui non conosceva l'esistenza. O qualcosa del genere, insomma: non riusciva ad articolare quel pensiero e l'unica cosa che aveva in testa era il rumore del ferro che grattava contro il cranio. Frr frr.
    Avrebbe controllato subito, comunque. Strisciò verso il bordo del letto adagio, con lo sguardo fisso su quella cosa e i muscoli dolenti e tesi pronti a scattare. Si arrestò quando giunse al momento di balzare giù dal letto. Aveva una sensazione angosciante nel petto che non gli dava tregua.
    Non poteva perdere di vista la cosa. O almeno non poteva perdere di vista il riflesso della cosa. L'avrebbe aggredito e lui, indolenzito e spossato dalla febbre com'era, non avrebbe avuto la forza di reagire. Si alzò piano, si defilò man mano dallo specchio e poi con un balzo si voltò.
    All'angolo del soffitto non c'era niente. La carta da parati color ocra, pulita e priva di qualsiasi macchia. Quello e basta. Luca esaminò meglio lo spazio circostante, arricciò gli occhi, fece qualche passo avanti per mettere a fuoco: niente.
    Si liberò in una risata stridula e sottile. Uno squarcio verso un altro mondo: che stupido che era stato, pensò ancora ridendo. Poi la risata si tramutò in un violento accesso di tosse e Luca si ritrovò piegato in due con le mani intrecciate sulla pancia, un dolore scoppiettante nell'addome e la sensazione che gli organi volessero scappare dalla bocca. Il ferro che aveva in testa non grattava più: ora spingeva nel tentativo di perforargli il cranio.
    Dopo un minuto buono si calmò. Lacrime miste di riso e tosse si andavano seccando sulle guance, lasciando una scia appiccicosa, e i muscoli delle gambe si afflosciarono come nodi troppo molli.
    Si gettò di nuovo sul letto con la pancia all'ingiù e strisciò verso il cuscino. Dopo un po' si girò e guardò lo specchio.
    La cosa era di nuovo lì, nell'angolo tra la parete e il soffitto alla sua sinistra. Ondeggiante come prima, con quel nero infinito e duro che sembrava assorbire tutta la luce circostante. Le irregolarità dei contorni ora erano più marcate, ma la cosa più spaventosa era un'altra: la cosa si era allungata almeno di un paio di centimetri. Ora la sproporzione tra la lunghezza e lo spessore era evidente e la distanza che la separava dal quadro con il paesaggio fluviale era diminuita.
    Luca rabbrividì.
    Che cazzo è? Perché prima non l'ho vista? Senza accorgersene scalciò e colpì il romanzo di Jessica Horsing, che cadde a terra con un colpo. Si rotolò sul letto e scattò verso destra, lì dove c'era la porta. Voltò le spalle per un momento solo allo specchio e per quell'attimo fu convinto che quella cosa che doveva essere per forza un mostro sarebbe fuoriuscita dalla parete e gli sarebbe saltata addosso, divorandolo con denti aguzzi e neri. Ma riuscì a raggiungere l'angolo tra la porta e la parete e si voltò verso lo specchio, le gambe tremanti, le spalle strette, gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite.
    La cosa non si era mossa. Anzi, si disse in quel momento: l'ombra non si era mossa. Come poteva chiamare una cosa che spuntava apparentemente dal nulla, con una forma insensata e che poteva vedere solo tramite lo specchio? Forse ombra non era la parola esatta, ma era l'unica che gli veniva in mente e quello bastava. Non aveva voglia di arrovellarsi sulle parole quando aveva una cosa - un'ombra - nera che gli pendeva sulla testa e prometteva di aggredirlo da un momento all'altro.
    Bene, dunque. Dopo la discussione linguistica posso dirlo: l'ombra è ancora qui. Il pensiero gli strappò un'altra risata nervosa che durò pochi secondi e poi gli morì in gola. I muscoli sofferenti delle gambe minacciarono di cedere e Luca dovette ricorrere a chissà quale forza per reggersi in piedi; il corpo era tutto un fremito nervoso e inarrestabile. Il cuore gli batteva forte nel petto e le tempie pulsavano. In testa, il frusciare del ferro che grattava era aumentato di volume. Frr frr.
    In quel momento Ester si affacciò dal bagno con i capelli ancora bagnati raccolti in un asciugamano. Gocce d'acqua le scorrevano sulla pelle olivastra e sulle curve del corpo nudo. «Che sta succedendo? Cos'è tutto 'sto casino?» Le sopracciglia le si aggrottarono quando vide Luca rannicchiato in quell'angolo.
    «Niente. Pensavo avessero bussato alla porta e mi sono alzato di corsa per andare ad aprire, ma non c'è nessuno. Forse l'ho immaginato» disse Luca. Fu sorpreso dalla sua stessa abilità nel mentire e si lasciò andare in un sorriso che a lui stesso, sebbene non potesse vederlo, parve rassicurante.
    Ester lo squadrò per un attimo. «Sei sicuro di stare bene? Sei pallido».
    «Sto benissimo, amore. Dev'essere il caldo».
    «Ma non fa caldo qui!» disse lei ridendo. Luca ne fu sollevato: era riuscito a eludere le domande di sua moglie. Non avrebbe mai voluto confessarle che vedeva un'ombra che veniva fuori da una parete senza motivo.
    «Lo so, ma sai, a camminare sotto il sole... Hai finito col bagno, così vado a lavarmi?» Era stato lui a voler tornare in hotel per il pomeriggio, ma adesso non vedeva l'ora di uscire da quella stanza.
    «Devo asciugarmi i capelli, ma lo faccio fuori. Puoi andare» disse Ester uscendo dal bagno ancora nuda. Camminando verso il letto, passò una mano sulla patta dei pantaloni di Luca, strizzò un poco e ammiccò. Lui fece un sorriso forzato e corse in bagno. Una volta dentro, si accasciò sul lavandino reggendosi con le mani e respirando con la bocca aperta. Le gambe erano logorate e spasmi continui attraversavano i muscoli, causandogli saette di dolore.
    Fingere costava fatica.
    Si fermò per un momento ad ascoltare il suo cervello. Frr frr.

    #3

    La febbre peggiorò nel pomeriggio. Non poté misurarla, ma sentiva il corpo accaldato e il cervello bollente. Per contrasto, l'aria frizzante della città gli provocava brividi di freddo.
    Si sentiva stanco. Stanco come non poteva nemmeno immaginare. Aveva la sensazione che le sue gambe dovessero cedere da un momento all'altro, i muscoli delle cosce erano anchilosati e anche solo tastarli gli stringeva morse doloranti in profondità. Non voleva mostrare a sua moglie che aveva la febbre, perché Ester l'avrebbe costretto a passare la vacanza in camera e non c'era nulla di peggio in quel momento. Per questo cesellò i momenti in cui chiedere di riposare un poco, tenne a bada l'arsura della bocca che gli faceva venire voglia di scolarsi litri e litri d'acqua e soprattutto evitò di far trasparire quel groppo d'ansia che si era bloccato all'inizio della gola, come un gomitolo di lana che mozzava il respiro e soffocava.
    Però, notò con piacere, da quando era uscito dall'hotel quella sensazione si stava pian piano acquietando. Arrivò alla conclusione che non c'era nessun'ombra che spuntava dalla parete: doveva averla immaginata. Forse era solo una macchia sullo specchio, oppure una crepa nel muro che da quell'angolazione non era riuscito a individuare. La spiegazione non lo persuadeva per niente: una macchia non era visibile solo allo specchio, non si muoveva e soprattutto non si allungava nel giro di trenta secondi.
    Probabilmente si era trattato di un'allucinazione. Era stata la febbre a provocarla, si disse, e la stanchezza e la calura accumulata nella mattina. Quest'idea era più convincente, ma la prospettiva di soffrire di allucinazioni, anche se per un solo momento di debolezza, non era rassicurante. Proprio per niente. Già sentiva nelle narici l'odore spiritato dei manicomi e non serviva a nulla ripetersi che i manicomi ormai non esistevano nemmeno. E, insieme a quello, gli effluvi nella stanza, quel miscuglio rivoltante e strano di spezie. Chissà se aveva immaginato anche quello. Ricordava di aver letto da qualche parte che le allucinazioni erano i primi sintomi di qualche malattia, ma ora non ricordava di preciso quale. La sua mente suggeriva Alzheimer, ma forse la soluzione era cancro al cervello. Credeva però di essere arrivato a quelle due patologie perché erano quelle che lo spaventavano di più e, rincorso da quell'ombra di cui non riusciva a spiegarsi l'origine, la sua mente riusciva a evocare solo pensieri terrificanti.
    Però il segnale d'allarme nella sua testa cinguettava debolmente, il gomitolo in gola si andava dipanando con lo scorrere del pomeriggio. Anche il frusciare del ferro nella testa perse d'intensità e si ritrovò a udirlo solo un paio di volte nel pomeriggio, più irritante di prima. Frr frr.

    #4


    La sera si sedettero al tavolo di un fast food in pieno centro. Di lì potevano vedere il punto in cui Brandstätte si incrociava con Stephanspaltz e il campanile della chiesa che avevano visitato appena mezz'ora prima, ma di cui Luca aveva già dimenticato il nome. C'era un bel movimento in città, con ragazzi e famiglie che sfilavano sul corso e qualche uomo in vestiti da teatro che pubblicizzava l'opera della sua compagnia spargendo volantini. Luca sentì i muscoli che si scioglievano e formicolavano, come se il sangue fosse tornato a scorrervi. Aveva lo stomaco chiuso e ribollente di un liquido acido, ma ordinò lo stesso un panino col merluzzo per non insinuare sospetti nella mente di sua moglie. Ester era così apprensiva.
    Si erano conosciuti al liceo, ma non si erano mai considerati più di tanto e avevano finito per perdersi di vista dopo la maturità. Poi a ventisei anni si erano rincontrati in una discoteca, dove avevano ballato insieme ed erano finiti a letto, troppo ubriachi per riconoscersi a vicenda. Era uno dei tre ricordi più dolci che Luca conservava di quei pochi anni di vita insieme: il motivo dei gemiti di Ester alla loro prima volta, quella sensazione sconosciuta che l'aveva preso al petto e non l'avrebbe lasciato mai più. Era come se una boccetta, in equilibrio su qualche coronaria a pochi centimetri dal suo cuore, si fosse riversata in quei momenti, spargendo il suo liquido misterioso ma magnifico nel sangue. Poi il giorno dopo Luca le aveva scritto - erano i tempi dei primi sms e lui era riuscito a ricavare il suo numero da amici in comune. Una settimana dopo Ester non aveva ancora risposto e, più tardi, Luca avrebbe detto di aver avuto la sensazione che quel liquido che scorreva nelle vene si stesse rinsecchendo. Ricordava ancora quella tristezza pesante che lo aveva preso in quei giorni e ricordava anche che non era stato capace di spiegarsi perché ci teneva tanto a rivederla. L'aveva capito solo quando lei gli aveva risposto, perché delle scosse elettriche l'avevano preso ai polsi e avevano rinvigorito lo scorrere di quel liquido.
    Arrivò un cameriere alto e con i capelli di paglia che trasportava un vassoio. Posò due piatti sul tavolo senza parlare, fece lo stesso con i bicchieri e poi si voltò e tornò verso il bancone, sempre muto. Ester lo seguì con lo sguardo, la bocca arricciata, e quando quello scomparve dalla loro vista si voltò verso Luca e ridacchiò. «Mah, che cortesia...»
    Luca si sforzò di ridere a sua volta. «Questi nordici son così».
    «Ti sta piacendo Vienna? Sei muto come un pesce in questa vacanza. Quasi penso che ti stia stancando di me». Rise ancora, questa volta con un suono pieno e contagioso. Anche Luca scoppiò a ridere, ma sentì lui stesso come i muscoli si tendevano e rivelavano un volto smunto e tormentato. Un volto da pazzo.
    La bocca di Ester, arricciatasi di nuovo, si dischiuse in poco. Le sopracciglia si aggrottarono e gli occhi tra il marrone e il grigiastro si fissarono in quelli di Luca. «Secondo me non stai bene. Sei pallido, te l'ho già detto». Si allungò sul tavolo e allungò una mano verso la fronte di Luca.
    Lui gettò la testa all'indietro e si lasciò sfuggire un: «No!» mormorato appena. Quel movimento improvviso gli lanciò una fitta di dolore nel cranio, ancora una volta come se quel ferro stesse cercando di traforargli le ossa.
    «Fammi toccare la fronte». Le sopracciglia erano sempre più rivolte verso il basso.
    Luca si arrese. Non poteva fare altro, perché ogni mossa avrebbe acuito il senso di pericolo di sua moglie. Mi conosce troppo bene, non sarei mai riuscito a nasconderglielo. Il pensiero gli accese una scintilla di nervosismo, ma fu anche una carezza dolce al cuore e contribuì ad affievolire la fitta nella testa.
    Ester poggiò il dorso della mano sulla sua fronte. «Scotti un poco. Come ti senti?»
    «Non granché bene. Sono un po' stanco, forse». Ester poteva leggere i suoi dolori, ma mai avrebbe intuito nulla riguardo la faccenda dell'ombra e non sarebbe certo stato lui a rivelarle i dettagli.
    «Perché non me l'hai detto prima?»
    Ebbe paura. E se Ester gli avesse strappato via anche quel pensiero? Cazzo, l'avrebbe preso per pazzo. Non poteva permetterlo. Corrugò la fronte, come se le rughe che si formavano potessero trattenere il segreto. «Non volevo passare la vacanza a letto, quindi non te l'ho detto».
    «Eh sì, perché io sono la rompiscatole che non ti fa uscire se hai la febbre!» Parlò con tono duro, ma le sue labbra trattenevano a stento un sorriso.
    Luca fece un sorriso stanco, poi si passò una mano tra i capelli. «Ho un mal di testa di quelli...»
    «Piccolino...» disse Ester, allungando le vocali e con una sfumatura ironica. Sorrise. «Poi misuriamo la febbre. Se hai più di trentasette e mezzo chiamiamo direttamente le pompe funebri, no?»
    «Molto simpatica». Il siparietto comunque spense quell'ultima fiammella di preoccupazione che era rimasta accesa nella mente a causa dell'ombra. Ora sentiva solo la pesantezza della testa, lo sguardo sfocato ai lati e i nodi delle gambe che si scioglievano, ma senza mai alleviare del tutto quel dolore. Accusò un grande bisogno di mettersi a letto e dormire.
    Finì il panino con il merluzzo, che si rivelò surgelato e di qualità pessima. Poi pagò il conto e si avviarono mano nella mano verso l'albergo. Li aspettavano trenta minuti buoni di camminata, ma quelle dita che si incrociavano alle sue ebbero un effetto corroborante e sentì almeno un poco di energia nelle gambe.

    #5


    Fu durante il cammino che il pensiero dell'ombra tornò a farsi spazio nella sua mente.
    La vedeva. Era enorme, nera, gli incombeva addosso. Quelle irregolarità erano denti aguzzi che l'avrebbero divorato e il nero infinito l'avrebbe trascinato in chissà quale altro mondo disumano.
    E ne sentiva il peso sulle spalle. Iniziò a camminare curvo, il respiro si fece greve e mozzato. Dovette sforzare i polpacci fino a sentire le vene che pulsavano e si ingrossavano per non caracollare.
    Adesso non era più così sicuro che si fosse trattato di un'allucinazione. Anzi, si era quasi persuaso che non fosse stata una visione. E, per quanto un'allucinazione non fosse sintomo di una salute scoppiettante, si trattava di qualcosa che riusciva a capire.
    Non riusciva a capire quell'ombra, invece. Si sforzava, spremeva le meningi fino a sentire quel rumore ferroso nel cranio: nulla. Le solite due ipotesi: un insetto o un'allucinazione. E la consapevolezza che non si trattava né dell'uno né dell'altra.
    «Ti piace l'hotel?» chiese a un tratto Ester.
    O Dio. Ti prego, fa che non l'abbia visto anche lei. «Perché me lo chiedi?» chiese Luca con la voce che era un tremito.
    «No, così... me l'aspettavo più bello. E tu?»
    Tacque per un attimo. Non aveva per nulla preso in considerazione quell'eventualità e ora l'idea gli sferzava il cuore come una tempesta di sabbia su un vetro. Una morsa gli strinse il petto, lo sguardo si velò di nero. Mosse il braccio libero in modo meccanico, cercando un appiglio che non trovò, e stirò i muscoli delle cosce: aveva sentito qualcosa di freddo che si insinuava lì dentro.
    «Ehi, allora? La febbre ti sta facendo diventare anche scemo?» insisté Ester. La voce gli arrivò lontana, sfocata.
    «Ehm... sì, bello, bello. Però quello del viaggio di nozze era più bello» farfugliò.
    «Sì, lo penso anch'io. Senti, ho portato delle medicine con me, in hotel ti prendi qualcosa». C'era una nota di apprensione nella sua voce.
    Luca emise un mugolo d'assenso, ancora terrorizzato dall'idea che anche sua moglie avesse visto l'ombra. Sentiva lamelle in testa che sfregavano e scintillavano e lanciavano scosse elettriche mandando in corto circuito la sua mente. Il gomitolo d'ansia in gola si fece più spesso e gli prosciugava la gola.
    Calma, si disse. Cerca di ragionare. Non può averla vista. Te ne saresti accorto prima. Ma non ne era convinto: se sua moglie poteva frugargli tra i pensieri a piacimento, lo stesso non valeva per lui. Si ritrovò a scrutare il viso di Ester, le sue sopracciglia aggrottate, la bocca come un bocciolo di rosa. Sentì il nodo in gola sciogliersi e credette di capire.
    No, Ester non sapeva. Era un bene, perché questo rafforzava l'ipotesi - nonostante tutto sempre meno credibile - che si potesse essere trattato di una visione momentanea. E poi, qualunque cosa fosse, non gli sarebbe piaciuto condividere il peso dell'ombra con Ester.
    Ma c'era qualcosa in petto che lo faceva tremare e lo riempiva di panico, impedendogli di ragionare con lucidità. Era come... come un presentimento, forse? Non riusciva a definirlo e gli pareva una sensazione mai provata prima. Quel che sapeva era che non gli piaceva. Non gli piaceva per niente.
    Man mano che si avvicinavano all'albergo i muscoli si facevano più rigidi: gli sembrava di camminare su dei trampoli di legno. Anche lo sferragliare dei ferri nel cranio aumentò di frequenza, questa volta con una nota più stridula. Si accorse di sudare dalle mani, una cosa che non gli succedeva da quando, adolescente, tentava di adescare le prime ragazzine.
    Due dubbi grossi e rumorosi gli riempivano la testa. Primo: cos'era quell'ombra, perché l'aveva vista e perché si stava preoccupando così tanto? Secondo: c'entrava qualcosa sua moglie con quella storia assurda? Era quest'ultima domanda che lo faceva tremare. Se qualcosa... qualcosa di neanche lontanamente immaginabile si fosse intrufolata nella loro stanza?
    L'idea era folle, lo sapeva, e si maledisse per aver solo immaginato una cosa del genere. Ecco, ora inizio a credere nei mostri, si disse e soffocò una risatina che partiva dallo stomaco. Però la possibilità che potesse accadere qualcosa a Ester era angosciante più dell'ombra sconosciuta e del mondo parallelo che si apriva oltre quel nero profondo.
    Quando Ester aveva risposto a quel dannato sms, otto anni prima, si era sentito ribollire. Si erano dati appuntamento per qualche sera più tardi e le cose erano filate lisce, naturali. Come se il destino avesse prestabilito la loro storia e loro si fossero solo limitati a seguire i suoi dettami. Nel giro di un anno lui le aveva presentato i genitori e lei aveva fatto altrettanto; in tre anni avevano programmato il matrimonio.
    Già, il matrimonio. Il secondo dei ricordi più dolci che avvolgevano come un tessuto di seta il suo cuore. Ogni attimo di quella giornata gli appariva nitido nonostante fossero passati quasi cinque anni, e così probabilmente sarebbe stato per sempre. Il velo di sudore sulle labbra di Ester, il ciuffo di capelli che si scompigliava di continuo e che lei ravviava con cura maniacale. Il modo in cui lei aveva detto: «Sì, lo voglio», con le labbra che si muovevano al rallentatore. In quel momento, ricordava ancora, aveva provato l'impulso irrefrenabile di gettarcisi, su quelle labbra, e divorarle di baci prima che qualcuno provasse a portargliele via. Ma aveva aspettato, aveva ripetuto anche lui quel Sì, lo voglio con la voce che era un filo sottile e tremolante. La notte avevano fatto l'amore quattro volte, un record a cui non sarebbero mai più arrivati nel resto della loro vita coniugale. E per fortuna, si diceva sempre: a quei ritmi, ci sarebbe rimasto secco nel giro di una settimana.
    Si risvegliò dai pensieri quando un soffio di vento fetido di benzina gli alitò in faccia e un clacson strombazzò a pochi passi da lui. La mano di Ester strinse forte la sua. Luca barcollò un po' all'indietro e si aggrappò al palo di un semaforo, poi osservò l'autista della macchina che l'aveva quasi investito lanciargli chissà quale imprecazione. Lontano, perso nell'eco, gli arrivò alle orecchio la voce di sua moglie che urlava.
    «Che cazzo fai? Che cazzo ti è preso?» gridò Ester dopo qualche momento. Il suo viso era sbiancato, se non per due macchie rosse e rotonde come una monetina stampate al centro della guance. Aveva ancora le sue unghie conficcate nella mani di Luca e lui avvertì un bruciore tenue, anche questo lontano.
    «Scusami, amore... Ero distratto. Sono un po' assonnato». Non era vero. Stanco, sì. Forse stremato era più corretto. Non sapeva nemmeno quale forza lo tenesse ancora in piedi. Però ciò che gli si parava davanti agli occhi lo rendeva vigile, lo sfregare dei ferri nel cranio si fece più violento e assomigliava a un codice d'allarme. Frr frr.
    Erano appena arrivati di fronte al loro hotel.

    #6

    L'ombra c'era.
    E come poteva essere altrimenti? C'era sempre stata, l'aveva seguito passo passo in quella giornata stremante. Come un germe freddo che rosicchiava le gambe; un essere ignoto che lo pedinava a distanza e si burlava di lui, ghignando con quei denti aguzzi e neri.
    La vide appena entrato in camera, di sguincio nello specchio di fronte al letto. C'era prima una parte lunga, quasi rettangolare, i cui margini brulicavano di particelle nere indefinite. Poi si apriva una zona più affusolata, il nero si diramava verso il basso aprendosi in mille tocchetti appuntiti. O in mille denti aguzzi. Si ritrovò di nuovo a fissare quel colore per qualche secondo: ci aveva pensato per tutta la giornata, l'immagine gli era rimasta incastrata negli occhi e si era ripresentata ora per ora. Ma adesso, a vederla dal vivo... Era diversa. Era viva. Come se quel brulicare che individuava ai lati fosse il rimestare di qualche mostro nascosto appena oltre quel nero incommensurabile, quella coltre scura che divideva il mondo da chissà quale inferno.
    Si sentì mancare. Lo sferragliare in testa si fece violento e insopportabile: si portò le mani alle tempie e contrasse il viso in una smorfia di dolore. Altre ombre informi si allungavano sulla sua retina, mutavano forma continuamente, stringevano la morsa sui suoi occhi. Poi, quando lo sballottamento passò, notò un altro particolare che lo fece rabbrividire. L'ombra, che al pomeriggio non era che un frammento di pochi centimetri, ora si estendeva in diagonale per almeno un metro. A separarla dal quadro che pendeva al centro del letto matrimoniale, quello raffigurante il paesaggio fluviale, era rimasto un altro metro. Forse anche meno.
    Ester era avanzata di qualche passo. Luca invece era rimasto sulla porta, la spalla poggiata alla parete, le gambe di cemento. Un dolore improvviso gli artigliava lo spazio appena sotto la nuca. Si sforzò di trascinare avanti le gambe e si avvicinò al letto matrimoniale, con lo sguardo rivolto verso lo specchio. Gli passò per la mente di controllare se l'ombra esistesse ancora solo nel suo riflesso nello specchio oppure si estendesse anche sul muro, ma pensava di sapere già la risposta ed evitò di voltarsi. Non voleva concedere nemmeno un secondo di disattenzione a quel... a quel mostro.
    «Ecco qui, prendi» disse Ester, ancora chinata sulla valigia. Si rialzò e gli tese una bustina di Oki. Lui la afferrò tra le dita tremanti.
    Si sdraiò sulla sua parte di letto e sentì subito gli occhi pesanti. No, ti prego, no. Non posso addormentarmi. Non con quella cosa sul muro che può divorarmi da un momento all'altro.
    «Misura la febbre, tieni» disse Ester passandogli il termometro. Luca strappò l'estremità della bustina di Oki e si versò il contenuto nella bocca, diluendo poi la polvere mandando giù una sorsata d'acqua. Si spogliarono, si infilarono il pigiama. Luca sentiva brividi gelidi che gli attraversavano il corpo.

    #7

    Ester gli si avvicinò piano, si sedette al fianco, poggiò una mano sul suo petto. Risalì verso i capelli solleticando la pelle, indugiò qualche secondo sulle labbra, accarezzandole e tirandole. Poi passò qualche minuto a scompigliargli i capelli, con le labbra arricciate e una ruga verticale al centro della fronte. Luca cercò di ricambiare quelle tenerezze con qualche sorriso, ma si accorse di non avere la forza per essere convincente. Gli venivano fuori solo facce macilente e ghigni pallidi, notò, e la ruga sulla fronte di sua moglie divenne più profonda. E poi non poteva perdere di vista l'ombra. Gli parve quasi che si fosse allungata di un altro centimetro, accompagnata da qualche gorgoglio che non parlava alle orecchie ma all'anima, ma non poteva esserne sicuro con tutti quei movimenti turbolenti e indefiniti lì intorno.
    Poi Ester gli sfilò il termometro e controllò la temperatura. «36.7. Ancora non sei moribondo» scherzò Ester. Il suo viso si era un po' disteso, sulla sua bocca si stava abbozzando un sorriso.
    Luca si sforzò di sorridere a sua volta. «Certo che sei di una simpatia...»
    «Lo so!» esclamò Ester, chinandosi su di lui e baciandogli l'angolo della bocca. Si tirò giù fino a stendersi e con una mano continuò a scompigliare i capelli del marito, accennando di quando in quando una tiratina violenta. Con l'altra mano scese giù, all'inizio della sua coscia, e prese a solleticare e stringere.
    Luca rimase fermo, le braccia paralizzate e strette lungo i fianchi. Le irregolarità dell'ombra ora si stavano allargando e prendendo forma. Prima li aveva scambiati per denti aguzzi e taglienti, ma ora ne riconosceva l'identità. Non erano denti.
    Erano artigli. Lunghi, con il segno netto e distinto della nocca al centro. E si tendevano e si arricciavano, fendevano l'aria, bramavano già il succo della loro preda. Luca lo sapeva: era lui che cercavano. E non aveva nessun'idea su come difendersi.
    Intanto i baci di Ester si fecero più arditi. Le loro lingue si incrociarono, la mano di lei passò all'interno coscia. La sua bocca emetteva mugolii gravi.
    Luca se ne stava immobile. Lo sguardo sempre fisso sullo specchio, il cuore che si dimenava nel petto. Graffiò il copriletto sotto di lui, che stridette. Qualcosa di freddo cominciò a formicolargli all'altezza dei polsi e delle caviglie.
    La mano di Ester salì verso l'alto, si intrufolò nei pantaloni di Luca, scostò per un attimo le mutande. Poi tornò fuori e lei salì a cavalcioni sul marito, staccandosi dalle sue labbra. Aveva il viso un po' arrossato, i capelli arruffati, un sorriso mangiucchiato sulla bocca. Si passava la lingua sulle labbra e ogni tanto se le mordicchiava.
    Luca conosceva bene quell'espressione e, in qualsiasi altro momento, avrebbe provato il solito solletico che iniziava a prender forma nei suoi pantaloni.
    Non quella sera, però. Accusò una stretta forte allo stomaco, come di qualcosa che si torceva.
    «Cos'hai?» chiese lei con la voce arrochita. Una goccia di sudore sulle sue labbra tremolò e poi cadde sul petto di lui.
    «Te l'ho detto, sono stanco. Non ho voglia adesso».
    Lei annuì, sorridendo con gli occhi un po' vuoti. Poi si accasciò sul suo viso e gli baciò la guancia.
    Fu allora che il terrore lo prese al petto e gli causò uno spasmo alle gambe.
    L'ombra. Così non posso vedere l'ombra. Fece uno sforzo per spostare sua moglie dall'altra parte del letto, ma aveva le gambe stanche e riuscì a produrre solo uno sbalzo con il ventre.
    «Puoi... puoi spostarti? Ho dolore ovunque» sussurrò lui. Fece due colpi di tosse e si schiarì la voce.
    Ester rotolò verso l'altra parte del letto, baciandogli un'altra volta la guancia. «Hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male?»
    «Non credo» disse Luca. L'ombra non si era mossa e soprattutto non l'aveva aggredito mentre lui non poteva vederla. Un po' della tensione accumulata in quei secondi sbollì e i muscoli del suo viso si rilassarono... ma solo un poco. Il pericolo non era scomparso.
    «Mh... Ma da quando non ti senti bene?»
    Si accorse di non ricordarlo. «Da... da stamattina, più o meno. O forse all'inizio del pomeriggio». Però gli sembrava già passata un'eternità.
    «Ma cosa ti senti? Ti fa male da qualche parte?»
    «Le gambe. Sarà perché ho camminato troppo. E poi...» E poi ho dei ferri in testa che sfregano e fanno rumore. Frr frr. «E poi un po' di mal di testa. Ma ho preso l'Oki, vedrai che domani sto meglio».
    «Va bene. Io ho un po' sonno. Ti va bene se spengo la luce?»
    No che non gli andava bene. Non gli andava bene per niente. Però non poteva creare altri sospetti, quindi rispose: «Certo, fai pure. Mi metto a dormire anch'io».
    Lei gli sorrise, qualche ruga si formò intorno alle sue labbra. Si girò su un fianco, cliccò l'interruttore e nella stanza scese il buio. Dopo qualche minuto dalla sua bocca cominciarono a venir fuori ronfi scostanti e Luca fu sicuro che stesse dormendo.

    #8

    L'ombra si vedeva anche senza luce. Era stato stupido a non pensarci prima: era così scontato.
    Era nera più del buio e per questo le sue forme risaltavano. Luca osservò la parte iniziale, sempre con quel brulicare ai lati. Di cosa si trattava? Sembravano mosche che banchettavano su un cadavere. Cercò di mettere a fuoco per individuare qualcosa di sensato, ma dopo pochi secondi quel movimento turbolento e sconclusionato gli diede la nausea. Fu costretto a girare lo sguardo per non vomitare. Più avanti, gli artigli. Adesso gli pareva di distinguere la curva di demarcazione tra il dito e l'unghia, che, pur se sepolta in quell'oscurità, era stranamente lucida. Come una lama che scintilla al sole.
    Passò ore intere supino sul letto con gli occhi fissi sull'ombra. Il russare di Ester, il ticchettio dell'orologio da polso che aveva dimenticato di sfilare. Fuori ogni tanto sfrecciava qualche macchina e una volta un gruppo di ragazzi, probabilmente ubriachi, intonò una canzone in tedesco. E poi, in testa, sempre quel rumore di ferri. Frr frr.
    Osservò come quegli artigli diventavano sempre più lunghi. Si appiattirono, presero la forma di spiedini di ferro appuntiti. A separarli dal quadro al centro del letto, poco più di mezzo metro. Anche intorno a quelli, adesso, si era formato quel pullulare insensato. O forse il pullulare c'era già prima e lui lo stava notando solo adesso: il terrore gli inibiva il ricordo. Gli sembrava quasi che i suoi muscoli si stessero ritirando, la sua pelle avvizzendo. L'effetto dell'Oki lo faceva sudare, ma erano gocce gelide che si seccavano subito e lasciavano la pelle appiccicaticcia, sporca.
    A un certo punto gli occhi tornarono a farsi pesanti. I muscoli delle cosce, sempre in tensione fino a quel momento, si rilasciarono, spargendo nel sangue come un liquido anestetico. Provò a dare un'occhiata all'orologio, ma aveva il polso paralizzato e da lì non riusciva a distinguere l'orario. Dio, fa che questa notte passi in fretta.
    A restituirgli vigore fu un gemito di Ester, che nel frattempo si era messa supina. Il terrore si riaccese, lo sferragliare in testa tornò a farsi sentire. Ester: doveva proteggerla. Avvicinò una mano alla sua pancia e cominciò ad accarezzarla, tentando di cogliere con i polpastrelli il primo pulsare di quella vita che si stava formando.
    Ecco, il terzo ricordo più dolce. Solo a pensarci il cuore si scioglieva, la paura diventava solo un segnale d'allarme lontano e sfocato. Avrebbero avuto un bambino. Ester era al secondo mese di gravidanza e la protuberanza sulla pancia ancora non si notava, ma ogni tanto, poggiando l'orecchio al suo ombelico, Luca udiva qualcosa. Non era ancora né il battito del cuore né lo scalciare del bambino, ma qualcosa - una sorta di segnale che gli sussurrava nell'orecchio - annunciava la presenza di un essere nuovo. L'avevano scoperto un mese prima, durante uno dei controlli di routine a cui lei si sottoponeva, ed era stato per quello che si erano concessi quel viaggio imprevisto. Ancora gli risuonavano nella mente le parole di Ester quando, di ritorno dall'ospedale, gli aveva detto, con la voce che era un filo a un passo dallo spezzarsi: «Amore, sono incinta». E a riecheggiare nella mente era pure il pianto di felicità in cui erano scoppiati entrambi, i singhiozzi ripetuti e alternati di entrambi... il suono dei loro gemiti e dei loro ansiti a letto, mezz'ora dopo l'annuncio.
    Ma adesso c'era qualcosa di più incombente a cui pensare. Nei giorni precedenti avevano fantasticato insieme per ore sulla futura vita del loro figlio. Sarebbe stato maschio o femmina? E avrebbe avuto gli occhi marrone-grigio di lei o quelli neri di lui? Cosa sarebbe diventato da grande? Ora tutte quelle domande soffocavano: doveva prima di tutto assicurarsi che quel bambino avesse un padre pronto ad abbracciarlo.
    E, con il passare dei minuti, con l'ombra che si allungava senza sosta sopra la sua testa, la prospettiva di arrivare vivo di lì a sette mesi gli pareva remota. Due lacrime grosse si affacciarono sui suoi occhi e tremolarono per qualche secondo insieme alle palpebre. «Ti prego, risparmiami... fallo per mio figlio» mormorò. Non parlava con Dio, che in quel momento gli pareva un'entità distante e senza vita: parlava all'ombra.
    Ma quella non gli avrebbe dato retta. Luca lo capiva dall'avanzare spietato e senza ostacoli dei suoi artigli, dal modo in cui quel brulicare si faceva folto e rivoltante. L'ombra non l'avrebbe risparmiato: era lui a dover scappare. Ma si sentiva legato con delle cinghie a quel letto e in ogni caso non sarebbe potuto fuggire via così, lasciando sua moglie in hotel. No, avrebbe aspettato la mattina. Allora avrebbe ragionato sul da farsi... be', se ci fosse arrivato, naturalmente. Per ora doveva limitarsi solo a stringere i denti e sopravvivere.
    Il sole arrivò prima del previsto. Scorse il primo rossore al di là delle tende della finestra, quando gli artigli dell'ombra si tendevano a una ventina di centimetri dal quadro. Un'emicrania selvaggia gli martellava nel cranio e i muscoli delle braccia e delle gambe formicolavano, come addormentati. Però era felice: nel sonno, la soluzione gli era balzata agli occhi senza che ci stesse pensando. Ed era una cosa così ovvia che si stupiva per non esserci arrivato prima.
    Una volta che i suoi muscoli si furono sciolti, si alzò. Baciò sua moglie prima sulle labbra, poi sulla pancia. Tese l'orecchio e udì la vita nel corpo di lei. Fu tentato di scendere più giù, ma non era il caso. Non con quell'ombra ancora sulle loro teste; più tardi, magari. Camminò con passo felpato fino alla porta e uscì.
    Quando tornò, cinque minuti dopo, fu assalito dall'idea che, mentre lui era via, l'ombra avesse preso sua moglie. Temette di averla persa per sempre e il cuore gli si strinse. Ma poi aprì la porta ed Ester era ancora lì, che stiracchiava le gambe e sbadigliava, inarcando la schiena.
    «Mi hanno chiamato dalla reception» disse lui.
    «Perché?» chiese lei. La frase morì in uno sbadiglio.
    «Dobbiamo cambiare stanza. Dicono che è arrivata una prenotazione sbagliata... una coppia che aveva prenotato per una doppia, ma si è portata dietro il figlio, se non ho capito male. Le triple sono finite e questa stanza è l'unica abbastanza grande per metterci un altro letto».
    «Ah. E da quando tu capisci così bene l'inglese?» rise lei.
    Luca si sentì arrossire. Sperava che lei non intuisse la bugia e rise a sua volta. «Dai, prepara le valigie. Dobbiamo andare al piano di sopra».
    «Ancora cinque minuti» si lagnò lei, infilandosi di nuovo sotto il lenzuolo.
    «Va bene. Le valigie le faccio io, dai» disse Luca. Si chinò e iniziò a prepararle. Aveva ancora un po' le gambe indolenzite, ma il frusciare in testa era scomparso.
    In dieci minuti furono pronti. Prima di lasciare la stanza, Luca lanciò un'ultima occhiata all'ombra. Hai finito di perseguitarmi, stronza. Gli artigli di quella si piegarono all'indietro, poi di lato, in qualcosa che assomigliava a un sorriso.

    #9

    Giornata fantastica, pensò Luca per tutto quel pomeriggio. Avevano passato la mattina a dormire e a fare l'amore nella nuova stanza. Poi verso ora di pranzo erano usciti, avevano pranzato in un McDonald's nella zona dell'albergo e dopo si erano mossi verso il centro.
    Si sentiva felice per la prima volta durante quella vacanza. Prima c'era stata quella fiacchezza che preannunciava la febbre, poi l'ossessione e la notte insonne a causa di quel... di quell'ombra.
    Ecco, l'ombra. Il ricordo ancora lo turbava. Non riusciva a darsi una spiegazione e, per quanto si sforzasse di trovarne una almeno credibile, il tutto sfociava nella solita ipotesi: era stata un'allucinazione dovuta a una follia momentanea.
    Niente di reale, quindi.
    Ma ricordava benissimo come aveva creduto reali quegli artigli che si tendevano verso la sua testa e il colore profondo dell'ombra. Ogni tanto il terrore, come una presenza fisica - un groviglio di serpenti che strisciava nelle vene -, lanciava un'altra sferzata, a ricordare la sua debole ma continua presenza. E nella sua testa era stampata pure l'ultima immagine dell'ombra, la maniera tremenda in cui gli artigli si erano ritirati in quel sorriso sghembo.
    A parte che per quei ricordi troppo nitidi, la giornata trascorse tranquilla. Nessun dolore alle gambe, le braccia libere dall'indolenzimento. Anche la febbre era scomparsa - o almeno erano spariti tutti i suoi sintomi. E soprattutto non udiva più il rumore di ferri in testa: solo adesso si rendeva conto di quanto fosse stato fastidioso. Ancora qualche ora con quel frusciare terribile nel cervello e sarebbe impazzito, ne era sicuro.
    Fu con una condiscendenza che pensava di non aver mai avuto fino ad allora che accettò la scelta di Ester per quanto riguardava il posto in cui cenare. Era un ristorante di quelli costosissimi e con piatti probabilmente pessimi, con l'insegna in bella vista in una strada a pochi metri dalla piazza centrale, da cui potevano guardare uno scorcio della facciata del palazzo municipale. Luca non sapeva perché, ma l'imponenza di quell'edificio così cupo gli mise addosso un po' d'inquietudine. Il sole calante entrava di sguincio nella strada e illuminava di rosso solo una striscia sul muro. Mangiarono di fretta: Luca non vedeva l'ora di tornare in albergo e, a giudicare dagli sguardi che ogni tanto gli lanciava sua moglie, con gli occhi un poco lampeggianti e il movimento della lingua sulle labbra, anche per Ester valeva lo stesso. Felice com'era, anche al pensiero di ciò che lo aspettava di lì a poco, anche il cibo gli piacque.
    Camminarono mano nella mano, ogni tanto in diagonale senza rendersene conto, sospinti dal vento. Una volta deviarono in una strada sbagliata e poi, da quel punto, girarono per tre volte in tondo prima di ritrovare la via giusta. Luca aveva l'odore acre della pelle di Ester nelle narici, raffiche di desiderio che solleticavano appena sotto l'ombelico e si allungavano verso il basso. Contorceva le mani sudanti e con quella destra stringeva convulsamente le dita di Ester, che ricambiava quei movimenti, aumentando il vigore di quel solletico.
    Quando entrarono nella hall dell'albergo il desiderio aveva consumato il viso di Ester. Luca la conosceva, conosceva quegli occhi lucidi come sul punto di piangere. Sapeva il significato della bocca dischiusa in cui si intravedevano dei denti piccoli e candidi, riconosceva i colpetti che la lingua dava sulle labbra. Persino il profumo, in quei momenti, si faceva riconoscibile: prendeva una nota particolare, di frutta aspra e qualcos'altro insieme, qualcosa di indefinito e senza nome, che assumeva forma solo sotto le sue narici. Un odore inebriante, che smuoveva il sangue.
    Si ritrovò ad osservarla. Il viso arrossato, una goccia di sudore in precario equilibrio sul labbro. La lingua scorse in quel punto e la portò via. La pelle era perfettamente levigata, se non per il solco creato da una vena sul collo che pulsava frenetica. Un neo al centro del naso, che di solito passava inosservato, in quel momento richiamava l'attenzione: era un particolare che lo faceva impazzire.
    E poi il desiderio che prendeva forma come una stella lampeggiante nel fondo dei suoi occhi.
    Era troppo per sopportare ancora. La trascinò di forza verso la camera, lei cacciò una risata arrochita. Arrivati di fronte alla porta, tirò fuori la chiave magnetica dal portafogli. Prima di entrare, Luca afferrò Ester da dietro, cingendole i fianchi, e la strinse a sé, poggiandole un bacio umido tra il collo e la spalla. La sentì fremere nel suo abbraccio.
    Lei spinse la porta ed entrò nella stanza. C'era un buio fitto, le tende erano chiuse e conferivano all'ambiente un'aria soffocante. Luca armeggiò con la chiave magnetica, tentando di infilarla nello spazio apposito con il solo aiuto della luce nel corridoio. Quando ci riuscì, le luci della camera si accesero tutte insieme, costringendolo a strizzare gli occhi. Ester lo stava aspettando seduta sul bordo del letto, con le gambe un po' tremanti, il sudore del viso che scintillava sotto la luce improvvisa. La pelle olivastra nella luce abbacinante. Luca si avvicinò, si inginocchiò e le baciò le labbra. Poi si allontanò dal suo viso, le rivolse un sorriso e vi si avvicinò di nuovo. Qualcosa di nero - troppo nero - svolazzò nell'angolo dell'occhio destro.
    Il secondo bacio fu freddo, inanimato. Ester gli morse il labbro e gemette, lui rimase immobile con gli occhi sbarrati.
    Sbarrati e rivolti all'angolo sinistro dello specchio, dove a scrutarli c'era un'ospite indesiderata.

    Edited by DamaXion - 13/10/2017, 15:06
     
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    CITAZIONE (SkeleKarp @ 25/9/2017, 22:42) 
    Racconto interessante e ben scritto. Sono curioso di vedere come procede

    Contento che ti piaccia. :)
     
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    EH ma quest'ombra é proprio una rottura di scatole
     
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