In mezzo al mais

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    Sto scrivendo questa cosa per il trattamento. “Aiuterà il trattamento”, dicono. Cercherò di fare questa cosa nel miglior modo possibile, anche perché non sono abituato a scrivere cose, tantomeno su me stesso.
    Comunque.

    Era l’inizio di settembre, e dovevamo bagnare il mais. Probabilmente i dottori non lo sanno, ma per “bagnare” si intende irrigare un campo. È un termine che usiamo noi. Il mais lo si batte in ottobre comunque.
    Ricordo che faceva un caldo pazzesco, sarà stato il 3 o il 4 settembre non so. Comunque per irrigare bisogna scavare dei fossi, dei canali col trattore, e poi si creano delle piccole “dighe” con bastoni di legno e teli in plastica. Di nuovo, non so i termini esatti. Fatto sta che la cosa richiede un certo tempo, nonché lo stare spesso da soli nel bel mezzo del campo, con le piante di mais che ti impediscono di veder nulla tranne altro mais. Non che la cosa mi disturbi, visto che lo faccio da anni, anche se quello che è capitato mi ha fatto ricredere, almeno un po’. Comunque c’è mio cognato ad aiutarmi e a volte anche suo figlio. Mia moglie vuole sempre che mi faccia aiutare, ha paura che un giorno o l’altro ci lasci le penne in mezzo al mais. Ho sempre trovato la cosa un po’ ridicola.

    Comunque. Era il 4 o forse il 3, come ho detto. Ero lì nel bel mezzo del nulla, preoccupato di pulire i fossi in cui sarebbe passata l’acqua. Saranno state le 3 del pomeriggio, credo, il sole picchiava forte, la fronte mi colava copiosamente, il terreno sotto di me era duro e secco. Il ronzare degli insetti riempiva l’aria, cavallette che frinivano, mosche che non facevano che posarsi sulla mia faccia. Poi sento qualcuno che borbotta alla mia sinistra, oltre le file di piante che mi impediscono la vista. È Gepe, il mio vicino. “Gepe” vuol dire Giuseppe, è un diminutivo. È lì che si sta facendo i fatti suoi nel campo di mais confinante il mio.

    “Di un po’, hai mica visto il mio cane?” mi dice. “Sai no, Toby, il mio cagnolino piccolo e rosso, quello che mi accompagna sempre”. Gli rispondo di no. “È sparito”, mi dice. “Ieri sera” continua lui “ieri notte si è messo ad abbaiare come un pazzo. Poi questa mattina era tutto spaventato, non voleva uscire dalla cuccia. Dopo pranzo non c’era più” A quel punto esce fuori dal campo mio cognato, che mi stava aiutando. Gli spiego la faccenda, ma anche lui non ha visto Toby. “Va be', dai, io do ancora un’occhiata qua intorno, magari lo trovo” mi dice Gepe. A questo punto lo saluto e ci separiamo.
    La cosa non mi diede da pensare. Capita che cani o gatti ogni tanto non si trovano, perché sono in amore. Oppure perché sono stati mangiati da altri cani o da qualche volpe. Finito il lavoro me ne tornai a casa e niente di strano accadde.

    Il giorno seguente andai di nuovo dal mio vicino per chiedergli se aveva trovato il suo cane. Gli parlai sul limitare del suo terreno, quando lo vidi dopo colazione. Mi disse che non l’aveva trovato. E mi disse anche altro: che alcuni giorni prima, mentre si trovava anche lui nel suo campo per gli stessi motivi per cui ci andavo io, aveva sentito qualcosa, come qualcuno che parlava dietro di lui. Non era riuscito a capire cosa dicesse, però, di sicuro non era italiano. Si era quindi girato ed era andato verso il mais, da dove aveva sentito provenire le parole, ma quando lo fece le piante si mossero vistosamente, come se qualcuno stesse scappando via. Aveva pensato a dei ladri, e forse era per quello che Toby aveva abbaiato tutta la notte. “C’è qualcosa di strano qui”, fu la sua conclusione.

    Quel che mi aveva detto non mi fecero stare tranquillo, mentre rientravo di nuovo nel labirinto di mais. Feci il mio lavoro come al solito, tutto orecchie e pronto a qualsiasi evenienza. Ma non accadde nulla, l’unica cosa che sentii furono i cinguetti degli storni che volavano sul campo per acchiappare le mosche. Pensai che, in fondo, Gepe poteva anche essersi sbagliato. Per fugare ogni dubbio, prima di tornare a casa, andai al confine tra i due campi. Attraversai varie file di mais, il che è un po’ complicato perché le foglie di questa pianta tagliano. Dopo un po’ il mare di mais finì e sbucai davanti al campo del mio vicino, separato dal mio da una sottile striscia di terreno. Mi fermai lì, ad aspettare chissà cosa. Mi girai e andai avanti, percorrendo il terreno che separava i due campi. Andai avanti per un po’, senza trovare nulla di importante. Feci dietro front per tornarmene a casa, ma ecco che noto qualcosa di inaspettato: in un angolino di fango, mantenuto fresco dall’ombra quasi perenne che c’era in quella striscia di terreno, c’era un’orma. Un’orma umana, come di scarpa, rivolta verso casa mia. Misi il mio piede vicino all’impronta, che era un po’ più piccola del mio piede. Quindi c’era proprio qualcuno.

    Andai a casa, e la sera a cena parlai a mia moglie e a mio cognato di quanto avevo visto. La discussione fu un po’ accesa, mia moglie cercava di tranquillizzarmi ma io ero abbastanza preoccupato, temevo seriamente che qualche ladro o peggio si nascondesse nei campi limitrofi. Quando il mais è cresciuto diventa bello alto, e qualcuno si potrebbe facilmente nascondere in mezzo alle piante. Alla fine mia moglie e mio cognato riuscirono a tranquillizzarmi. Andai quindi a letto, ma il mio riposo doveva durare poco. Verso le 3.30 di notte più o meno, mi svegliai. Tentai di prendere sonno ma senza successo. Ero lì che mi giravo di qua e di là nel letto, con mia moglie che mi ronfava beatamente a fianco, quando sentii un rumore. All’inizio non ci feci caso, credevo fosse solo la mia immaginazione, finché non lo risentii di nuovo. E poi di nuovo ancora. Erano dei passi. Erano dei passi di qualcuno che cammina sulla ghiaia, cercando di fare poco rumore. All’inizio stetti ad ascoltare senza muovermi, immobilizzato dalla paura. I passi continuavano, pareva che qualcuno o qualcosa stesse ispezionando la casa. Scesi lentissimamente dal letto, per non far rumore. Mia moglie continuava a dormire. Mi diressi alla finestra, senza accendere la luce, senza fare un solo rumore. Andai fino ad una grossa porta finestra che dà sul cortile, mi fermai contro il muro, protendendomi un poco per vedere fuori, cercando di non essere visto a mia volta. Fuori la luna gettava una luce che illuminava a giorno il cortile. Non vidi nulla. I passi non si sentivano più. Per un po’ pensai di essermeli sognati. “Che idiozia”, pensai, “Fa pure fresco, tornatene a dormire!”. Ma ecco che i passi riprendono. Cerco di rendermi invisibile al di là del vetro e aguzzo la vista per cercare il colpevole. Nulla. I passi continuano. Poi sento i miei due cani, Castore e Polluce, che esplodono in un moto di rabbia e di ferocia. Dal piccolo portico davanti a casa, dove dormono, li vedo correre eccitati in un punto che è oltre la mia vista. Li sento ringhiare e ho l’impressione che stiano combattendo contro qualcosa. Poi i due cani ritornano nel mio spettro visivo: appena illuminati dalla luna, stanno inseguendo qualcosa che è immerso nell’oscurità e che non riesco a vedere. La corsa dei cani ha fine davanti al campo di mais, dove Castore e Polluce si fermano. La scena ha svegliato mia moglie e mio cognato, che mi raggiungono. Spiego loro la scena e nel mentre faccio entrare in casa i cani. “Sarà stato un cinghiale”, dice mia moglie, ma io non sono così convinto.

    Il mattino dopo sono di nuovo nel campo. Mi ero convinto che ciò che aveva causato i passi la notte prima non fosse altro che un animale, e che non aveva quindi nulla a che fare con l’impronta che avevo visto e con la storia vera o meno del mio vicino. Certo, i cani quella mattina erano impauriti e se ne erano stati a piagnucolare davanti a casa senza volersi muovere, ma non voleva dire nulla. “Avranno visto proprio un cinghiale, per quello hanno paura” ripeté mia moglie, e io accettai quella versione. In fondo ho fatto l’agricoltore per tanto tempo, sono andato su e giù e per i campi e nulla di male mi è mai capitato.

    Quindi quel pomeriggio ero di nuovo nel campo a irrigare il mais. È una cosa un po’ complicata, bisogna controllare che l’acqua bagni tutto il terreno. Se qualche pezzetto rimane all’asciutto, si cerca di modificare il suo corso scavando qualche piccolo canale con la vanga, oppure si usano altri mezzi. A volte il terreno è in pendenza e allora l’acqua va a finire tutta da una parte, e non c’è verso per modificarne il corso. È complicato, come ho detto.

    Comunque ero lì che facevo il mio lavoro, quasi senza più pensare a tutto quello che era accaduto. Erano oramai le 12.30, più o meno, l’ora verso cui smetto di lavorare per tornarmene a casa a pranzo. Dopo in genere si riprende ad irrigare il pomeriggio.
    Ero in mezzo al campo, dicevo, quando alzo la testa di scatto. Mi guardo in torno preoccupato, mi giro verso il mais che mi circonda. No, questa volta non può essere stata la mia immaginazione, né un cinghiale. Avevo sentito un suono indecifrabile eppure famigliare, come una parola pronunciata in una lingua sconosciuta, pronunciata a bassa voce. Mi guardo attorno nervosamente, brandisco la vanga come se fosse un’arma, la fronte è imbevuta di sudore data dal caldo e dalla tensione. Indietreggio di un passo, ma inciampo in una pietra e cado all’indietro. Batto la schiena contro il terreno secco, con la vaga ancora in pugno. Avevo appena capito cosa mi era successo quando sento il mais davanti a me che si muove, come se qualcosa fosse sul punto di uscirvi ed attaccarmi. Era troppo, mi sono rialzato e, lo ammetto, me la sono data a gambe, con la vanga ancora fra le mani. Inizio a correre tra le piante, il cuore mi batte all’impazzata. Dietro di me le piante si agitano come se fossero indemoniate, qualunque cosa fosse quella che mi stava spiando non voleva farmi uscire vivo dal campo, e ringrazio Dio per esserci riuscito. Sono quasi giunto alla fine del maledetto labirinto di mais quando sento un urlo come di donna provenire da casa. L’urlo non fa che rendermi più veloce e poco dopo sono in casa.

    Mia moglie, in ginocchio nel salotto, con il viso fra le mani che piange, del sangue sul pavimento. Viene da una ferita che si è fatta sul ginocchio. Vicino, mio cognato in piedi tenta di calmarla. “Era nell’orto”, mi dice lui, “quando ha lanciato quell’urlo, poi è fuggita verso casa ma nel mentre è caduta è si è fatta male”. “Dai su, non è successo nulla…” Mi abbasso verso mia moglie, provo a parlare, ma continua a piangere e i suoi singhiozzi rendono difficile capire quello che dice. Dopo poco si calma e questo è più o meno quello che mi disse: “Nell’orto… ero nell’orto che raccoglievo delle zucchine. Poi ho alzato la testa verso il campo e… e ho visto qualcuno, o qualcosa, non so cosa fosse di preciso. Mi osservava, mi stava spiando attraverso il mais. Era piccolo come un bambino, era come una persona ma non so se fosse proprio una persona, non so cosa fosse…. Sono stata immobile, il terrore mi aveva immobilizzato, poi quella cosa ha aperto la bocca e la bocca era rossa, all’interno voglio dire, ha aperto la bocca ma non ha detto nulla, era rossa come un peperone dentro e gli occhi erano fissi, come un pupazzo, mi sono sentita tornare le gambe e sono fuggita.” A questo punto mettetevi nei miei panni, non sapevo più cosa pensare. Mi misi alla finestra e guardai fuori. Qualcosa mancava. I cani non c’erano più. Feci per chiamarli ma nessuno rispose. Poi non so con che coraggio o con che incoscienza, presi in mano la vanga di prima e mi rimmersi nel campo.

    Avevo i nervi a fior di pelle, capitemi, ma non so bene cosa me lo stesse facendo fare, forse la volontà di proteggere i miei famigliari, o quella di scoprire cosa stava succedendo, forse il desiderio di liberare il mio terreno da ospiti indesiderati, forse tutte queste cose assieme, forse nessuna di esse. Feci in fretta il tragitto che avevo percorso poco prima, quando mi ritrovai nel punto esatto in cui stavo per essere assalito da non so cosa. Strinsi con forza la vanga come se fosse un’ascia o una spada e mi immersi nel verde. Attraversai le file di mais con le foglie taglienti che mi si strusciavano sul volto (per chi non lo sapesse, le foglie di mais sono pelose e tagliano, ma forse l’ho già scritto), guardandomi nervosamente ai lati per evitare pericoli. Raggiunsi infine il limitare del campo, che confinava con un piccolo boschetto di proprietà di un vicino, ed è lì, nascosto in mezzo al mais che vidi una scena che vorrei dimenticare. Al limitare della macchia, all’ombra degli alberi, c’erano due di quei cosi, non saprei neanche come definirli, e non erano da soli. Erano due esseri non direi umani ma qualcosa che ci andava vicino, grandi come un ragazzino di dieci anni, di un colore uniforme, nel senso che dalla testa ai piedi erano di un colorito giallognolo, come una pianta che sta seccando, il che doveva evidentemente aiutarli a nasconderli da occhi indiscreti mentre si trovavano in mezzo ai campi. Non so se portassero vestiti, o meglio, non si vedevano genitali o cose simili, quindi penso che fossero vestiti ma dovevano portare qualcosa di attillato e che si confondeva con la pelle, per cui non si capiva quando iniziasse il vestito e quando la pelle. La testa era come quella di un uomo calvo, senza capelli o sopracciglia. Avevano un che di malaticcio e deforme, ma non so da cosa mi venga questa idea. Uno era chino su uno dei miei cani, Polluce, morto, mentre lo tagliuzzava con un sasso affilato. Vicino, scritto col sangue sul terreno, c’erano delle lettere o forse degli ideogrammi tipo geroglifici che quel coso orrendo doveva aver scritto chissà per quale motivo. Qualcosa di come fossero fatti quei simboli me lo ricordo, li potete vedere nella relazione che ho fatto, ma se serve li ho riscritti più sotto.

    20170622_222828
    I simboli visti sul terreno, così come li ricordo



    Poco più indietro c’era l’altro essere, che andava avanti ed indietro osservando i dintorni. Accanto all’umanoide chino su Polluce c’era una bambina stesa supina sul terreno. La bambina pareva avere 7-8 anni, i capelli erano rossi ed era vestita con un vestito blu scuro a macchie rosa con gonna. Aveva gli occhi chiusi e respirava, ma più che dormire credo fosse in uno stato di paralisi. Non diede mai segni di coscienza per quel poco che la vidi. Mi sono state mostrate molte foto di bambine scomparse, ma non era nessuna di esse. Come ho già spiegato, mi dava anch’essa un’idea di estraneità, i suoi vestiti non mi parvero quelli tipici che portano le bambine da noi, ma non saprei spiegare meglio questa cosa. Di Castore non c’era traccia.

    Stetti per un po’ lì, immobilizzato come mia moglie poco prima da quella visione. Ricordo che strinsi talmente tanto la vanga da sentir male alle mani. Poi l’essere chino su Polluce si alzò. Incrocia i miei occhi umani con i suoi, fissi, come aveva detto mia moglie, come quelli di un manichino mal fatto, non so come dire. La cosa aprì la bocca, rossa come il sipario del teatro, ma non emise alcun suono e puntò il suo dito contro di me. L’altro essere si voltò di scatto, e subito si lanciarono verso di me. La paura fu tale che lasciai cadere la vanga. Mi voltai e per la seconda volta in una giornata corsi verso casa come se avessi avuto il diavolo al culo (e chissà che non fosse proprio così).
    Al mio ritorno, sfinito e terrorizzato, raccontai quello che avevo visto. Ci decidemmo a chiamare la polizia e anche il mio vicino, Gepe. All’inizio né lui né gli agenti vollero credermi, ma poi, convinti forse dallo stato mio e di mia moglie, rientrammo nel campo. Ma sul luogo dell’accaduto non c’era più niente, né mostri, né Polluce né bambina. Rimaneva solo la scritta sul terreno, che però era stata parzialmente cancellata, come se i suoi autori non avessero voluto farcene sapere il contenuto. La vanga era ancora a terra, ma non nella posizione in cui si trovava quando cadde. Gli esseri dovevano aver toccato e forse preso in mano l’attrezzo.

    Come sapete scrissi una lunga relazione sul fatto per la polizia. Le autorità presero molto sul serio la cosa, e non mi considerarono mai pazzo o bugiardo. Anche altri vennero a farmi visita, qualche giornalista e un giorno persino un tizio strambo che diceva di essere un ufologo. Non mi lasciava parlare che già sembrava aver deciso cosa avessi visto, disse che quei mostri erano “grigi”, che venivano da una qualche costellazione, che la bambina era stata rapita per farci degli esperimenti eccetera. La cosa mi sembra assurda. A parte che non vidi astronavi o altro, mi sembra ridicolo che esseri avanzati si mettano a tagliuzzare un cane morto con un sasso appuntito. Mia moglie, visto che non poteva più incolpare i cinghiali, disse che erano dei folletti, o qualcosa del genere. Io non so cosa fossero, sinceramente.
    Credo però che questo mondo abbia ancora dei segreti e ogni tanto capita che a gente come me ne venga data la prova.


    20170622_214331
    L'aspetto degli esseri


    Edited by RàpsøÐy - 6/7/2017, 13:20
     
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    Happy Urepi Yoropiku ne~

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    Mi piace il racconto, mi ricorda in qualche modo il film Signs, anche se non mi fa paura. Lo vedrei bene in Fantastico (che comprende anche la fantascienza)

    Edited by InKubus - 6/7/2017, 18:03
     
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    Uhm... sebbene siano presenti elementi horror all'interno del racconto, la componente principale è quella fantastica (intesa come sezione, che racchiude quindi anche la fantascienza).
    Dunque voto per quest'ultima scelta.
    Mi è piaciuto molto il tuo racconto, davvero interessante e che tiene il lettore incollato fino alla fine.
    Nel finale mi sarei aspettato il protagonista creduto matto, rinchiuso in un manicomio o rapito dagli alieni, ma così non è stato.

    Edited by InKubus - 6/7/2017, 18:03
     
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    "Il solo immaginare che ti sto uccidendo mi ha fatto venire un sorriso in volto "

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    Grazie ;), contento che ti sia piaciuta
     
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