Un ragazzo forte - 5

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    Il giorno dopo la febbre l'aveva davvero. Non ebbe la forza di alzarsi dal letto e dovette chiedere a sua madre di portargli il termometro.
    Mentre misurava la temperatura, sentiva la sua stanza vorticare. Erano gli stessi turbini che aveva visto la notte prima, quando, in piedi sul tetto, s'era sentito volare giù. Erano come morsi allo stomaco.
    Se chiudeva gli occhi la situazione non migliorava. Anche il buio turbinava. Così, però, lo prendeva una sensazione di nausea più profonda e sentiva il suo respiro come pesante, affannato. A tratti, poi, vedeva quell'immagine che gli s'era fissata in testa la notte prima.
    Ferraglie, balla di fieno, roveto.
    Tutto catturato da quei vortici.
    Controllò il termometro. Trentotto e mezzo.

    Trascorse tutta la giornata a casa e si annoiò. Fino al primo pomeriggio rimase nel letto, poi trovò la forza di alzarsi.
    Le stanze vuote erano fredde e l'eco del suo respiro rimbalzava sulle pareti. Lo percepiva farraginoso e si preoccupò. Poi, mettendosi in ascolto, gli parve che ad ogni suo ansito corrispondesse un fischio. Poteva essersi aperto uno spiraglio nei suoi polmoni, si disse. Urlò forte il suo nome, ma questa volta non udì il rimbombo. Per qualche motivo si sentì uno stupido.
    Cominciò a vagare per le camere, come in cerca di qualcosa. Una vaga inquietudine lo disturbava nel petto.
    E intanto il tempo non scorreva mai. Non aveva voglia di mettersi al computer, si sentiva accaldato e continuare a camminare senza senso nella casa lo stava stancando. Allora iniziò a fissare la lancetta dei secondi dell'orologio a muro del salotto. Ne ascoltava i battiti scanditi e snervanti. A volte gli pareva che questi fossero irregolari e la cosa gli dava fastidio, quindi batteva con i polpastrelli sul ginocchio, in una specie di tentativo insensato di riequilibrare quella difformità.
    A un certo punto lo prese un freddo serrato alle gambe. Si sdraiò, ma allora quello risalì nello stomaco. Cominciava a preoccuparsi. Cercò sul cellulare quale poteva essere la causa, ma i caratteri degli articoli che apriva si confondevano tra loro e gli fecero male agli occhi.
    A un tratto, mentre era in cucina, il suo sguardo cadde su un pacchetto di sigarette poggiato sul tavolo. Suo padre l'aveva dimenticato a casa.
    Non aveva mai fumato, né aveva mai desiderato farlo. Da bambino l'odore del fumo l'aveva sempre disturbato e ora gli era rimasto il ricordo delle nausee che avvertiva ogni volta che suo padre accendeva una sigaretta in macchina. Però in quel momento lo colse una voglia sconsiderata di dare due boccate. Suo padre diceva che lo rilassava e Armando in quel momento avrebbe proprio avuto bisogno di una calmata. Così si alzò, prese in mano il pacchetto e lo agitò per saggiare che non fosse vuoto. Intuì la presenza di almeno tre o quattro sigarette.
    Suo padre non aveva lasciato l'accendino lì. Però dovevano esserci dei fiammiferi, da qualche parte. Iniziò a rovistare nei vari cassetti. Trovò qualche accendisigaro vecchio, ma nessuno che funzionava. Alla fine, sotterrato in un viluppo di attrezzi da cucito, scovò un pacco di fiammiferi quasi finito.
    E se i suoi l'avessero scoperto?
    No, non era una buona idea. Il pacchetto era quasi finito e la differenza di quell'unica sigaretta mancante sarebbe spiccata di più. E poi per calmarsi poteva farsi una tisana o una camomilla, non c'era bisogno di fumare.
    Però l'idea della tisana non lo attraeva quanto quella del fumo. Non era solo per calmarsi che ne aveva voglia, no. C'era qualcos'altro, ma non riusciva a capire cosa. Era come...
    Mentre cercava la parola adatta, sentì un campanello trillare. Sbuffò, s'incamminò strisciando verso la porta e l'aprì.
    Fuori non c'era nessuno. E - solo allora ricordò - loro non avevano il campanello: c'era il battente.
    Un brivido freddo gli fece rizzare i peli. Si sporse fuori con la testa, arricciò gli occhi per mettere a fuoco delle macchie indistinte, ma niente. Non capiva neanche lui cosa stava cercando.
    Poi però il suono si ripeté e Armando ne capì la provenienza. Non era un trillo, era un guaito. In fondo al giardino doveva esserci un cane.
    Armando si avviò, facendo attenzione a non chiudere la porta: non aveva le chiavi. Indossava solo il pigiama e un paio di ciabatte, trapassate di continuo da spine che gli graffiavano i piedi.
    Il cane era rimasto incastrato in un cespuglio di rose. Era un bastardino di piccola taglia, dal pelo arancione e con la coda lunga. Si dimenava e il suo corpo faceva frusciare le fronde che lo imprigionavano. Ogni tanto mugolava, ma sempre più piano, come stesse perdendo le energie anche per quello.
    Armando s'inginocchiò, studiando una via per liberare l'animale. Adesso che era più vicino, poteva sentire il rumore delle spine delle rose che incidevano la pelle del cane. Doveva fargli male.
    In quel continuo dimenarsi, però, il cane era riuscito a crearsi un pertugio attraverso cui passare. Armando aspettò, credendo che sarebbe riuscito a liberarsi da solo. Però notò che l'animale s'era fermato. Il muso sporco di sangue abbandonato appena fuori dal roseto, il corpo teso in una posizione innaturale. Il ragazzo allora intervenne: afferrò il cane per il collo e lo tirò all'indietro.
    Fu costretto a sconfiggere l'attrito delle spine e le udì ancora strisciare sulla pelle dell'animale. Una potente folata di vento gli sbatté sulla nuca. Ancora un'altra spinta e lo liberò.
    Il cane si sdraiò a terra. Gli occhi semichiusi iniettati di sangue, la lingua all'infuori, come a catturare aria dopo lo sforzo. Armando notò che alcuni aculei si erano conficcati nel suo pelo. Guaì ancora, fece un verso strano che assomigliava alla tosse. Poi si sollevò piano, indietreggiando e abbassandosi sulle zampe. Digrignò i denti. E fu allora che scattò verso Armando.
    Sentì prima i suoi denti che gli affondavano nella coscia. Poi il sangue che sgorgava e un bruciore violento. Una coltre nera gli scese davanti agli occhi.
    Lo colpì prima alla schiena. Udì a malapena il lamento del cane, soffocato dalla sua rabbia pastosa. Poi scagliò un secondo calcio sulla pancia e un terzo ancora alla schiena.
    Vide la luminescenza di un fulmine che era caduto dietro di lui riflettersi nell'aria. Il cane era a terra, racchiuso in una posizione fetale. Il rombo di un tuono. Armando sentì la bocca impastata di saliva e sputò addosso alla bestia, che trovò la forza di rialzarsi e zoppicare via.
    Rimase ad osservarlo per qualche istante. Il cane era lento e l'avrebbe preso, se avesse voluto. Ma non lo rincorse. Lo vide sparire oltre il cancello dell'abitazione e poi si avviò verso la porta. Iniziò a piovere a grosse gocce.

    Si sentiva più ansioso di prima. Tra mezz'ora i suoi sarebbero tornati a casa: non sapeva se fumare sarebbe stata una bella idea. Chissà, magari ci sarebbe stato un imprevisto e sarebbero rincasati più presto.
    Cosa gli era preso? Non poteva essere stato lui a picchiare quel cane. Lui amava gli animali, non poteva far loro del male.
    Però l'aveva fatto. Sentì i suoi occhi riempirsi di lacrime e la sua gola riempirsi di un liquido acido. Non era l'episodio in sé. Per quello si sentiva in colpa, ma non tanto da mettersi a piangere.
    Era che sentiva una vocina in testa che gli ripeteva da tempo le stesse parole.
    Sei pazzo.
    Quando andava tutto bene riusciva a tenerla sopita. Se però gli accadeva qualcosa di strano, qualcosa che gli provocava emozioni forti, ecco che la vocina tornava a farsi sentire. E questa violenza improvvisa non gli sembrava che l'ennesima prova della sua follia.
    Sei pazzo.
    Aprì il pacchetto di sigarette. Ce n'erano sette: prenderne una non sarebbe balzato all'occhio più di tanto. L'accese con il fiammifero e iniziò a tirare boccate incerte.
    Era strano. Non nauseante come si aspettava, ma nemmeno così buono da giustificare l'uso che ne faceva suo padre. Aveva un gusto amarognolo cattivo da sentirsi in bocca.
    Continuò a boccheggiare. Magari sarebbe migliorato. Iniziò a tirare con più forza e il fumo nei polmoni lo fece tossire fino a lacrimare. Però così gli piaceva di più, quindi continuò, nonostante gli desse fastidio. Si sentiva già sgravato di quell'apprensione di prima.
    Subito però lo prese un malessere diverso. Gli faceva girare la testa e gli fece ricordare che aveva la febbre. Sentì le sue guance incendiarsi e il sudore colare dalla sua fronte. Spense la sigaretta nel posacenere e si mise a sedere, ancora tossendo.
    Trascorse la serata perso in un mondo nebuloso, in cui tutto gli girava attorno e la nausea gli rosicchiava lo stomaco.

    Passarono diversi giorni dall'episodio del cane. Le cose si stabilizzarono, il curatore divenne meno insistente e anche Alessandro era tornato a farsi sentire.
    Ehi, Armando! So che è tanto che non ci sentiamo, ma siamo stati indaffarati a lavoro. Stai continuando a seguire le istruzioni del curatore?
    Sì, certo.
    Voleva chiedere anche a che punto fossero arrivati con le indagini, ma non lo fece: gli sembrò una domanda indesiderata.
    Va bene. Volevo ringraziarti per quanto hai fatto finora, ma devo chiederti di smettere. Sono passate diverse settimane da quando ti abbiamo chiesto di iniziare e ancora non arriviamo a una soluzione. Sei ancora un ragazzo e crediamo sia difficile andare avanti, per te. Non prendertela.
    Va bene. Non fa niente.

    Già da qualche giorno, in realtà, nella mente di Armando s'era insinuato un sospetto. Alessandro era il curatore. Gli era venuto in mente fantasticando per l'ennesima volta sull'arresto del colpevole. Da allora, aveva cominciato a collegare i messaggi ricevuti, gli indizi raccolti, e la sua intuizione s'era fatta più ferma. Gli pareva che tutto combaciasse e se mancava qualche tassello lui lo riempiva con ipotesi arrovellate.
    Però, dopo questo messaggio, cominciò a ricredersi. La sensazione rimaneva, come un martello che batteva senza sosta sulla cima del suo cervello. Però riconosceva che c'era qualcosa che non andava. Insomma, perché lo stesso curatore avrebbe dovuto chiedergli di smettere?
    I suoi dubbi furono confermati quando, il pomeriggio stesso, il curatore gli comunicò la prova da affrontare. Negli ultimi giorni la sfida era sempre la stessa: svegliarsi alle quattro di notte e vedere i video inviati dal curatore. Si stava quasi abituando a quei ritmi. Comunque, quel messaggio gli dette la prova che Alessandro non era il curatore, perché altrimenti non avrebbe scritto quelle parole, o avrebbe potuto inviato un messaggio incitandolo a smettere. Si convinse, ma quel martello che gli batteva in testa non si fermò mai.
    Decise però di non ascoltare l'agente. Lui era un ragazzo forte: era per questo che il curatore lo sfidava ogni giorno. Non poteva arrendersi adesso, alla fine del percorso. Doveva portare a termine la sfida.

    Edited by Tommas02 - 19/6/2017, 11:37
     
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