Tulpa

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  1. ~ WithinYouWithoutYou;
         
     
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    Questa pasta è praticamente un classico sia su /x/ che sulla Wiki, mi domando come mai nessuno l'avesse mai tradotta prima d'ora :P

    Fonte: www.creepypasta.com/tulpa/


    L'anno scorso passai sei mesi a partecipare a ciò che mi presentarono come un esperimento psicologico. Trovai un annuncio sul mio giornale locale che cercava persone ricche d'immaginazione che volevano guadagnarsi qualcosa: poiché quella settimana era l'unico annuncio per il quale fossi lontanamente qualificato, li chiamai e pianificammo un colloquio.

    Mi dissero che tutto ciò che dovevo fare era restare in una camera, da solo, con dei sensori attaccati alla testa per leggere la mia attività cerebrale; mentre stavo lì, avrei potuto vedere un doppio di me stesso. Lo chiamavano il mio "tulpa".

    Sembrava abbastanza facile, e accettai di farlo non appena mi dissero quanto sarei stato pagato; così, il giorno successivo cominciai. Mi condussero in una semplice stanza e mi diedero un letto, dopodiché mi attaccarono dei sensori in testa e li collegarono ad una piccola scatola nera sul tavolo accanto a me. Mi parlarono nuovamente durante il processo di visualizzazione del mio doppio, e mi spiegarono che, se mi fossi annoiato o agitato, invece di girare qua e là avrei dovuto visualizzare il mio doppio, oppure provare ad interagire con lui, e così via. L'idea era di tenerlo con me per tutto il tempo che avrei trascorso nella stanza.

    Mi ci trovai in difficoltà i primi giorni. Era più controllato di qualsiasi tipo di sogno ad occhi aperti che avessi mai fatto prima. Immaginavo il mio doppio per pochi minuti, per poi distrarmi. Il quarto giorno, tuttavia, riuscì a tenerlo presente per sei ore intere. Mi dissero che stavo andando molto bene.

    Alla seconda settimana, mi diedero un'altra stanza, con degli altoparlanti da parete. Mi dissero che volevano verificare se sarei riuscito a tenere il tulpa con me nonostante alcuni stimoli di distrazione. La musica era dissonante, sgradevole ed inquietante, e rese il processo un po' più difficoltoso, nondimeno riuscii a portarlo a termine. La settimana successiva fecero suonare musica ancora più inquietante, accentuata da urla, feedback continuo, ciò che sembrava essere un vecchio modem che si connetteva, nonché alcune voci gutturali che parlavano una lingua estranea. Non presi nemmeno la cosa sul serio: sapevo già il fatto mio.

    Passato circa un mese, cominciai ad annoiarmi. Per ravvivare le cose, cominciai ad interagire col mio sosia. Intraprendevamo delle conversazioni, o giocavamo a "carta-sasso-forbici", oppure lo immaginavo a fare il giocoliere, fare la breakdance, o qualsiasi cosa mi passasse per la testa. Domandai ai ricercatori se la mia idiozia avrebbe potuto ostacolare il loro studio, ma m'incoraggiarono.

    Così giocammo insieme, e comunicammo: fu divertente per un po', poi la cosa si fece un po' strana. Un giorno gli stavo parlando del mio primo appuntamento, e lui mi corresse. Gli dissi che la mia ragazza indossava un top giallo, e lui mi disse che ne indossava uno verde. Ci pensai su per un attimo, e mi resi conto che aveva ragione. Mi diede i brividi, e dopo il mio turno ne parlai con i ricercatori. "Stai agendo sotto forma di pensiero per accedere al tuo subconscio", mi spiegarono. "Sapevi in qualche modo di avere torto, e ti sei subconsciamente corretto da solo".

    Ciò che prima era inquietante diventava improvvisamente forte. Stavo parlando al mio subconscio! Ci volle un po' di pratica, ma scoprii che potevo interrogare il mio tulpa e accedere a qualsiasi tipo di ricordi. Potevo fargli citare intere pagine di libri che avevo letto una sola volta, anni prima, o cose che mi erano state insegnate al liceo e che avevo immediatamente dimenticato. Era fantastico.

    Questo fu intorno al periodo che cominciai a chiamare il mio doppio fuori dal laboratorio di ricerca; all'inizio non lo facevo spesso, ma poi divenni così abituato a vederlo che ormai faceva quasi strano non averlo intorno. Così, ogni volta che mi annoiavo, visualizzavo il mio doppione. Alla fine cominciai a farlo quasi sempre. Era divertente portarselo in giro come un amico invisibile. Lo immaginavo mentre ero fuori con gli amici, o visitavo mia mamma; lo portai addirittura ad un appuntamento una volta. Non avevo bisogno di parlare ad alta voce con lui, per cui ero capace di farci intere conversazioni, e nessuno era più saggio dell'altro.

    So che sembra strano, ma era divertente. Non solo era un ripostiglio ambulante di tutto ciò che conoscevo e tutto ciò che avevo dimenticato, ma a volte sembrava anche più in contatto con me di quanto non lo fossi io stesso. Aveva l'inspiegabile abilità di cogliere i dettagli insignificanti del linguaggio corporeo che nemmeno io mi rendevo conto di stare cogliendo. Ad esempio, credevo che l'appuntamento al quale lo avevo portato stesse andando male, ma mi fece notare che lei rideva un po' troppo alle mie battute, si avvicinava a me quando parlavo, e un sacco di altri subdoli indizi che non percepivo deliberatamente. Lo ascoltai, e diciamo soltanto che l'appuntamento andò molto bene.

    Nel periodo in cui ero al centro di ricerche da quattro mesi, era con me continuamente. I ricercatori mi avvicinarono un giorno dopo il mio turno, e mi chiesero se avessi smesso di visualizzarlo. Risposi di no, e sembrarono soddisfatti. Chiesi silenziosamente al mio doppio se sapeva cosa li avesse spinti a fare questa domanda, ma lui trascurò la faccenda, e così feci anch'io.

    Mi isolai un po' dal mondo a quel punto. Stavo avendo delle difficoltà nel relazionarmi con gli altri. Mi sembrava fossero così confusi e insicuri di sé stessi, mentre io avevo una vera e propria manifestazione di me stesso con la quale consultarmi. Rese il socializzare imbarazzante. Nessun altro sembrava al corrente delle ragioni dietro le proprie azioni, perché alcune cose li facevano incazzare ed altre ridere. Non sapevano cosa li muovesse. Io lo sapevo; o almeno, potevo chiedere al mio doppio e ottenere una risposta.

    Un amico mi affrontò, una sera. Batté alla porta fino a che non gli aprii, ed entrò furioso e facendo casino. "Non mi hai risposto mai in queste fottute settimane che ti ho chiamato, coglione!", urlò; "Che cazzo di problema hai?!".

    Stavo per scusarmi con lui, e gli avrei probabilmente offerto di andarcene in giro per bar quella notte, ma il mio tulpa improvvisamente s'infuriò. "Colpiscilo", disse; prima che sapessi cosa stessi facendo, lo feci davvero. Sentii il suo naso rompersi. Cadde sul pavimento e si rialzò agitandosi; ci picchiammo su e giù per tutto il mio appartamento.

    Ero più furioso di quanto non lo fossi mai stato, e non fui affatto misericordioso. Lo sbattei a terra e gli diedi due violenti calci alle costole: fu a quel punto che fuggì, a testa bassa e singhiozzante.

    La polizia arrivò pochi minuti dopo, ma dissi loro che l'avevo istigato io; dato che il mio amico non era lì per smentirmi, mi lasciarono andare con un avvertimento. Il mio tulpa non la smetteva di sorridere. Passammo l'intera notte a vantarci della mia vittoria e scherzando su quanto furiosamente avessi picchiato il mio amico.

    Fu il mattino dopo, mentre davo uno sguardo al mio occhio nero e il mio labbro tagliato, che ricordai cosa mi aveva fatto alterare. Era il mio doppio quello ad essersi infuriato, non io. Io mi sentivo in colpa e un po' imbarazzato, ma lui per tutta risposta mi aveva spinto ad un combattimento feroce con un amico in pensiero; era presente, ovviamente, e conosceva i miei pensieri. "Non hai più bisogno di lui. Non hai più bisogno di nessun altro", disse, e mi fece accapponare la pelle.

    Spiegai tutto ai ricercatori che mi avevano assunto, ma non fecero altro che scherzarci su. "Non puoi avere paura di qualcosa che stai immaginando", mi disse uno. Il mio doppio stava dietro di lui, fece un cenno con la testa e poi mi sorrise.

    Provai a fare tesoro delle loro parole, ma nei giorni immediatamente successivi mi trovai ad essere sempre più ansioso sul mio tulpa: sembrava stesse cambiando. Sembrava più alto, e più minaccioso. I suoi occhi brillavano dispettosi, e vedevo malizia nel suo costante sorriso. Decisi che per nessun lavoro valeva la pena perdere la testa. Se fosse andato fuori controllo, me ne sarei sbarazzato. Ero così abituato a lui che a quel punto visualizzarlo era un processo automatico, così cominciai a provare l'impossibile per non farlo. Ci vollero un po' di giorni, ma cominciò in qualche modo a funzionare. Riuscivo a liberarmi di lui per un po' di ore per volta, ma ogni volta che tornava sembrava sempre peggio. La sua pelle sembrava cinerea, i suoi denti più aguzzi. Fischiava, farfugliava, minacciava, imprecava. La musica dissonante che avevo ascoltato per mesi sembrava accompagnarlo ovunque. Persino quand'ero a casa. Mi rilassavo, e commettevo un errore non concentrandomi a non vederlo; ed eccolo apparire, con quel rumore ululante.

    Frequentavo ancora il centro di ricerche per impiegarvi le mie consuete sei ore. Avevo bisogno di soldi, e credevo non fossero al corrente del fatto che non stavo più visualizzando il mio tulpa. Mi sbagliavo. Un giorno, dopo il mio turno, a circa cinque mesi e mezzo, due uomini mi presero da parte e mi trattennero, dopodiché qualcuno con un camice da laboratorio m'iniettò qualcosa con un ago ipodermico.

    Mi svegliai con stupore di nuovo nella stanza, legato al letto, musica a massimo volume, col mio sosia che mi sovrastava, ridendo sonoramente. Ormai non sembrava quasi più umano. I suoi lineamenti erano contorti. I suoi occhi erano incavati come quelli di un cadavere. Era molto più alto di me, ma era curvo su di sé. Le sue mani erano attorcigliate, e le unghie erano come artigli. Era, in parole povere, fottutamente terrificante. Provai a scacciarlo, ma a quanto pare non riuscivo a concentrarmi. Sghignazzò, e mi ficcò l’ago nel braccio. Mi dimenai più che potevo per cercare di sfuggirgli, ma riuscivo a malapena a muovermi.

    “Mi sa che ti stanno facendo fare il pieno di roba buona. Come stai con la testa? Vedi tutto sfocato?”. Si avvicinava sempre più mentre parlava. Soffocai; il suo alito puzzava di carne avariata. Provai a mettere a fuoco, ma non potevo allontanarlo.

    Le settimane successive furono terribili. Ad intervalli regolari, qualcuno con un camice da dottore veniva ad iniettarmi qualcosa, o a farmi prendere una pillola. Mi tenevano stordito e frastornato, e a volte mi lasciavano in preda alle allucinazioni o delirante. L’essere generato dal mio pensiero era ancora lì, che si prendeva continuamente gioco di me. Interagiva coi miei deliri, o forse li causava. Ebbi le allucinazioni immaginando che mia madre fosse lì a rimproverarmi, e tutto d’un tratto si tagliava la gola, e il suo sangue m’inondava. Era così reale che potevo sentirlo.

    I dottori non mi parlavano mai. Alle volte supplicavo, scagliavo invettive, chiedevo risposte, ma niente. Forse parlarono col mio tulpa, il mio mostro personale; non ne sono sicuro. Ero così drogato e confuso che potrebbe essere stato soltanto un altro delirio, ma li vidi che gli rivolgevano la parola. Mi convinsi sempre più che lui era quello vero, ed io il frutto della sua mente. A volte mi diede ragione, prendendomi in giro.

    Un’altra cosa che prego fosse un’allucinazione: poteva toccami. Oltre questo, poteva ferirmi. Mi dava colpetti con le dita e mi punzecchiava se notava che non gli stavo prestando abbastanza attenzione. Una volta prese i miei testicoli e li strizzò fino a che non dissi che lo amavo. Un’altra volta, mi fece un taglio sull’avambraccio con uno dei suoi artigli. Ho ancora una cicatrice: la maggior parte delle volte, mi convinco che me la sono procurata da solo, e mi sono solo immaginato che lui fosse il responsabile. La maggior parte delle volte.

    Poi, un giorno, mentre stava raccontandomi una storia su come avrebbe sviscerato tutte le persone che amavo, a cominciare da mia sorella, si fermò. Uno sguardo accorato gli attraversò il viso, poi distese il braccio e mi toccò la testa, come faceva mia madre quando ero febbricitante. Restò così per un lungo istante, dopodiché sorrise. “Tutti i pensieri sono creativi”, mi disse. Poi uscì dalla stanza.

    Tre ore dopo, mi fecero un’iniezione, e svenni. Mi svegliai che ero libero. Tremando, mi feci strada fino alla porta e la trovai aperta. Mi trovai a passare per il corridoio vuoto, e poi fuggii. Inciampai più di una volta, ma riuscii ad arrivare giù alle scale e poi fuori, nel parcheggio alle spalle dell’edificio. Lì collassai, piangendo come un bambino. Sapevo che non dovevo fermarmi, ma non ci riuscivo.

    Alla fine giunsi a casa, non ricordo come. Chiusi la porta a chiave, ci spinsi contro un comò, mi feci una lunga doccia, e dormii per un giorno e mezzo. Nessuno venne a cercarmi durante la notte, né tantomeno il giorno dopo, o quello dopo ancora. Era finita. Avrò speso una settimana chiuso in quella stanza, ma è sembrata come un secolo. Mi ero isolato tanto dalla mia vita prima che nessuno si era accorto che non ci fossi.

    La polizia non rinvenne nulla. Il centro di ricerca era vuoto quando andarono a perquisirlo. Le tracce sui documenti erano andate in pezzi. I nomi che mi avevano dato erano alias. Anche i soldi che mi avevano dato erano apparentemente irrintracciabili.

    Mi sono ripreso almeno quanto chiunque riuscirebbe a fare. Non lascio casa molto spesso, e quando lo faccio ho gli attacchi di panico. Piango molto; non dormo abbastanza, e i miei incubi sono terribili. È finita, continuo a ripetermi. Sono sopravvissuto. Uso la concentrazione che mi hanno insegnato quei bastardi per autoconvincermi. Funziona, a volte.

    Non oggi, però. Tre giorni fa, ho avuto una chiamata da mia madre. C’è stata una tragedia. Stando a quanto dice la polizia, mia sorella è stata l’ultima vittima di una scia di omicidi. Il colpevole aggredisce le sue vittime, per poi sviscerarle.

    Il funerale si è tenuto questo pomeriggio. Credo sia stato tutto organizzato bene. Io però ero un po’ distratto. Tutto ciò che riuscivo a sentire era musica proveniente da lontano. Dissonante e inquietante, che sembrava come un sibilo, assieme a delle urla, e un modem che cercava di connettersi. La sento ancora, adesso un po’ più insistente.

    Nota: questa storia ha un fondo di veridicità. I tulpa sono infatti delle entità incorporee create attraverso la meditazione, la cui tradizione è stata perpetrata fin dagli antichi monaci tibetani. I tulpa possono, appunto, fornire una specie di "subconscio mobile": attraverso di essi è possibile infatti accedere a tutte le cose che credevamo dimenticate col tempo, e non solo. Ci sono diverse guide su internet che spiegano come creare un proprio tulpa: ciò richiede però ferrea concetrazione e perseveranza. Maggiori informazioni qui: http://tulpa.info/index.html


    Edited by ~ WithinYouWithoutYou; - 30/1/2013, 14:00
     
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    Bella, l'avevo letta in lingua originale. Mi sembra ben tradotta. Non so se è da AC o HS.
     
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    In realtà non è certo che i tulpa possano realmente essere "evocati"? Non saprei che termine usare. Io stesso conosco persone che ci credono, e altre che non lo fanno, pur essendo entrambe molto legate alle dottrine orientali, anche se è un termine decisamente improprio. Io personalmente conservo il mio scetticismo, pur rimanendone affascinato.


    Fatto sta che l'hai tradotta in modo più che ottimo, e la storia mi è piaciuta assai. Direi HS.
     
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    Ok, HS va bene. Smisto!
     
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