Vademecum Grammaticale

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  1. Kalinicta
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    Cos'è un vademecum? La parola viene dal latino ed è la pseudo crasi di una frase, vade me cum, ossia vieni con me con il significato figurato di ti do un aiuto; il vademecum nient'altro è che un corollario delle nozioni principali di un dato argomento (es. il Bignami è un vademecum), è quindi utile per avere risposte rapide e concise. Il vademecum, nella storia, era particolarmente usato nella forma di libro tascabile.

    Indice dei paragrafi



    N.B. Le sezioni con [Avanzato] stanno ad indicare quegli espedienti letterari di un grado superiore a quello elementare.

    1.0 Troncamento o apocope
    1.1 Elisione
    1.2 I segni d'interpunzione
    1.3 Usare la punteggiatura adeguatamente

    2.0 Il periodo
    2.1 La coordinazione (paratassi)
    2.2 La subordinazione (ipotassi)
    2.3 La correlazione dei tempi (Consecutio Temporum)
    2.4 Il periodo ipotetico

    3.0 [Avanzato] Le figure grammaticali
    3.1 [Avanzato] L'uso della D eufonica



    1.0 Il troncamento o apocope



    Consiste nell'eliminazione di una vocale o di una sillaba finale di una parola davanti ad un'altra parola che cominci per vocale o consonante.

    E' possibile quando:
    - La parola da troncare è di numero singolare;
    - Davanti alla vocale finale c'è una delle seguenti consonanti: L, N, R e, raramente, M. (es. bel bambino, buon giorno)
    - La parola seguente non comincia con S impura, Z, X, GN, PS. (da evitare le forme un psicologo, quel zio, gran schiaffo)
    - La vocale finale è una E o una O; se è una A, la parola si tronca solo in ora, suora e nei composti di allora e ancora.

    Obbligatorio:
    - Con uno e composti (alcuno, nessuno, ciascuno, etc.) davanti a parole maschili iniziati per vocale o consonante.
    - Con buono davanti a vocale o consonante.
    - Con bello e quello solo davanti a consonante (eccetto S impura, Z, GN, PS).

    1.1 Elisione



    L' elisione è la caduta della vocale finale di una parola dinanzi alla vocale iniziale di un'altra: tale caduta è indicata dal segno dell'apostrofo.

    E' possibile quando:
    - La parola da elidere non termina con vocale accentata. (es. tutt'altro)
    - L'elisione non determina confusione di numero (es. le età e non l'età)

    E' obbligatoria:
    - con gli articoli lo, la, una e con le preposizioni articolate composte da lo, la.
    - con questo-a, quello-a, bello-a, grande, buona, santo-a davanti a nomi inizianti con vocale.
    - con le particelle mi, ti, si, vi, ne, lo, la.

    Facoltativa:
    - con la preposizione di.
    - la particella pronominale ci si elide solamente davanti a e ed i.
    - gli (pronome e articolo) si elide soltanto davanti a parola cominciante per i.
    - la preposizione da si elide solo in poche locuzioni avverbiali: d'altronde, d'altra parte, d'ora in poi (sono senz'altro sgrammaticate le seguenti forme: casa d'affittare, merce d'asportare che vanno corrette così: da affittare, da asportare).
    - questo, cotesto, quello davanti a sostantivo che comincia per vocale fanno elisione (es. quest'ombrello, cotest'albero, quell'imbroglione).
    - sebbene sia parola accentata, si può elidere anche ché con i suoi composti perché, benché. (esempio, perch'io, bench'io.)


    1.2 I segni d'interpunzione



    Essi si adoperano per indicare le varie pause del discorso e per renderlo più chiaro e colorito.

    La virgola si adopera:
    - per separare un vocativo.
    - nelle enumerazioni, dinanzi a ogni termine che non sia unito agli altri con una congiunzione, oppure quando le congiunzioni sono ripetute a ogni termine.
    - nelle apposizioni, negli incisi, nelle interiezioni.
    - dopo alcuni avverbi, quando hanno valore di un'intera proposizione.
    - nelle proposizioni in cui non si ripeta il verbo già espresso in una frase precedente.
    - davanti a sebbene, affinché, che consecutivo, se condizionale, ma, però, anzi e nelle proposizioni correlative.
    - per dividere le proposizioni coordinate per asindeto.
    - per distinguere le varie proposizioni che compongono il periodo.

    La virgola si omette:
    a) quando sono usate le congiunzioni e, o, ovvero, né, tranne quando si vogliono ottenere effetti speciali con più frequenti pause nel discorso.
    b) quando la proposizione subordinata svolge la funzione di soggetto o di complemento oggetto, salvo che sia invertito l'ordine naturale.

    Il punto e virgola (; ) indica una pausa più lunga della virgola e serve a separare due parti di uno stesso periodo o per segnare che tra due ordini di circostanze c'è una differenza o addirittura un'opposizione.

    I due punti (: ) si adoperano:
    a) per introdurre una frase esplicativa (ad esempio, L'anima dell'astuto è come la serpe: liscia, lucente, lubrica e fredda (Tommaseo)).
    b) quando si riportano parole o discorsi altrui. In questo caso, i due punti sono seguiti da una lineetta o da virgolette e dall'iniziale maiuscola (ad esempio, Il sapiente Socrate ebbe a dire: "Questo solamente io so, di non saper nulla").
    c) quando segue un elenco, una enumerazione (ad esempio, Le proposizioni subordinate possono essere di vario tipo: interrogative, oggettive, finali, ecc.).


    Il punto fermo (.) segna la pausa più lunga e si adopera alla fine di un periodo (ad esempio, E' mia vecchia abitudine dare udienza, ogni domenica mattina, ai personaggi delle mie future novelle (Pirandello).
    Il punto si pone anche al termine delle abbreviazioni (ecc., part., sm., avv.) o tra le lettere di una sigla (O.N.U., C.G.I.L.) e - in questo caso - l'ultimo punto non è seguito da lettera maiuscola.

    Il punto interrogativo
    segna una frase interrogativa diretta. Se l'interrogazione è indiretta non si pone il punto interrogativo (ad esempio, Cosa dice?; Dimmi cosa dice; Dimmi: Cosa dice?). Il terzo esempio indica una interrogazione diretta, dipendente da un verbo asseverativo.
    Se il punto interrogativo chiude un periodo, la parola seguente si scrive con la maiuscola; se invece si succedono più interrogazioni, dopo ogni punto interrogativo potrà seguire la lettera minuscola (ad esempio, Dove sei stato? Ti ho cercato tutto il giorno; Chi è stato? chi ha rotto il vetro?).
    Il punto interrogativo si scrive dopo gli incisi racchiusi entro parentesi, mentre si omette talora dopo gli incisi racchiusi tra due virgole (ad esempio, Il capo non sapeva (e chi avrebbe dovuto dirglielo?) che alcuni avevano tradito; Un giorno, chi sa, potremo incontrarci ancora.)
    Il punto interrogativo si pone anche tra parentesi dopo una frase o una parola, specie di altro autore, per indicare ironia o incredulità (ad esempio, Il professor Alessi sostiene il contrario.
    ).
    Il punto esclamativo (!) si pone alla fine di una frase per esprimere stupore, meraviglia, dolore ovvero uno stato d'animo eccitato( ed esempio, Com'era bello!; Chi l'avrebbe sperato!).
    Si pone anche nel mezzo della frase creando una pausa qualitativa(ad esempio, Quando ti vidi, ahime!, mi sentii mancare.).
    Il punto esclamativo si pone anche tra parentesi dopo una frase o una parola riferite da altro autore, quasi come lapidario commento (ad esempio, La nostra proposta fu giudicata "paradossale" (!).)

    Il punto misto (!?), formato dal segno esclamativo e da quello interrogativo, esprime sorpresa, meraviglia, incredulità (ad esempio, Ha mentito. Possibile!?) La parola seguente si scrive con la maiuscola.

    I puntini sospensivi
    (...) indicano una interruzione del discorso, una pausa eloquente, una reticenza ( ad esempio, Cominciò: se io... ma non finì; Non vorrei che...; Se posso... Se non le dispiace... (Pirandello)).
    I puntini di sospensione si usano:
    1) per preparare il lettore a una metafora ardita (ad esempio, Direi quasi che cantava... in punta di piedi).
    2) per invitare il lettore a trarre le sue conclusioni al termine di un racconto o di un articolo;
    3) all'inizio e alla fine di una citazione, al posto di quanto precede o di quanto segue: "...mi ritrovai per una selva oscura..."
    4) alla fine di una serie per indicare che la serie stessa continua: Primo, secondo, terzo...
    Dopo i puntini si usa la maiuscola solo se essi indicano la fine di un periodo.

    Le virgolette (<<...>> oppure "...") servono a racchiudere un discorso diretto, a mettere in rilievo una parola o un elemento della frase, oppure a introdurre una citazione (ad esempio, "In che posso ubbidirla?" disse don Rodrigo, piantandosi in piedi in mezzo alla sala (Manzoni)). Considera che la parola "piano" può avere più significati. Cesare disse: "Il dado è tratto".

    La lineetta (-) sostituisce spesso le virgolette, specialmente nei dialoghi (ad esempio, Carlo disse: - Dove vai? - E Giorgio rispose: - Vado a trovare un amico).

    La parentesi tonda
    ( ) serve a racchiudere parole o proposizioni che non hanno una relazione necessaria con il resto del discorso. La parentesi è duplice: una di apertura e una di chiusura (ad esempio, Luigi (chi lo direbbe?) è stato promosso senza esame).

    Il trattino o tratto d'unione (-) serve a indicare al termine di una riga che la parola è spezzata e che continua nella riga seguente. Viene anche usato per congiungere i termini di parole composte (ad esempio l'accademia scientifico-letteraria, il confine italo-austriaco).

    L'asterisco (*) può servire come richiamo per le annotazioni a piè di pagina. Se l'asterisco viene ripetuto per tre volte, sostituisce un nome proprio di luogo o di persona che non si sa o che si vuole tacere (ad esempio, Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant'anni (Manzoni)).

    La partentesi quadra ([ ]) chiude parole estranee al testo, aggiunte per chiarimento (ad esempio, Quel grande [Petrarca] alla cui fama è angusto il mondo, per cui Laura ebbe in terra onor celesti (Alfieri)).

    Oggi si tende a diradare i segni d'interpunzione e anche ad abolirli del tutto, talvolta per eccesso di raffinatezza, ma spesso per ignoranza.
    La punteggiatura (e ogni altro segno grafico di pausa) è comunque un elemento soggettivo, il cui uso dipende dall'intuizione, dalla carica emotiva, dalle predilezioni stilistiche dipendenti non solo dal mondo interiore dell'autore, ma anche dalle condizioni storiche del fatto espressivo.

    1.3 Usare la punteggiatura adeguatamente



    La virgola


    Fra i segni d'interpunzione, la virgola (,) è quello che indica la più breve pausa nel discorso. Esso è il più frequente e, di conseguenza, è quello che richiede maggiore attenzione. In genere, la virgola va usata nelle elencazioni, quando si descrivono azioni compiute dallo stesso soggetto, quando di desidera specificare una qualità (come nel caso della apposizione), quando si introduce un inciso che serve a chiarire una circostanza (ad esempio: Antonio, cioè il mio amico d'infanzia, ha trovato un lavoro).
    Quando si cambia il soggetto della frase, è bene utilizzare il punto e virgola e non la virgola, poiché il discorso compie un piccolo salto logico ed il lettore deve focalizzare l'attenzione su un nuovo autore dell'azione descritta. Un errore frequente, che va assolutamente evitato se non si è scrittori o se non si desidera adottare una scrittura creativa, è la separazione del soggetto dal verbo tramite una virgola, perché il concetto da esprimere verrebbe slegato da una componente logica, cioè l'azione; ad esempio, la frase "Luca, ha comprato una nuova macchina" è sbagliata se si vuole descrivere in modo didascalico l'azione compiuta da Luca; al contrario, la stessa frase sarebbe corretta soltanto se si volesse porre l'attenzione sul soggetto (Luca), distinguendolo da altri. In casi simili, quando non si intende fare un uso "libero" della punteggiatura, una buona soluzione potrebbe essere la seguente: "E' stato Luca a comprare una nuova macchina", in modo da evitare al lettore ogni fraintendimento e da non rischiare di incorrere in un possibile errore.
    Ecco un elenco di regole utili a individuare il corretto uso della virgola.

    La virgola è usata nei seguenti casi:

    ■ Nelle enumerazioni, nelle ripetizioni e nelle descrizioni.

    ■ Nelle enumerazioni la virgola si adopera anche quando ci siano delle congiunzioni, purché queste siano ripetute ad ogni termine.
    Esempi: E corre, e si precipita, e vola; oppure O Roma, o morte.

    ■ Di regola, la virgola si omette quando sono usate le congiunzioni e, o, ovvero, oppure, né.
    Esempi: Né l'oro né gli onori possono piegarmi;
    Tranne quando si vogliono ottenere effetti particolari, con pause più frequenti nel discorso:
    "Qui a Milano, o nel suo scellerato palazzo, o in capo al mondo, o a casa del diavolo, lo troverò" (Manzoni).

    ■ La congiunzione o, pur essendo comunemente designata come disgiuntiva, ha tre usi notevolmente diversi, potendo disgiungere termini che si escludono a vicenda, come nella frase: scherzi o fai sul serio?;
    Oppure proporre un'alternativa tra due o più termini, talvolta con valore inclusivo, come nella frase: di solito, la sera leggo o guardo la televisione;
    O, infine, introdurre un secondo termine che è spiegazione o precisazione del primo, con valore esplicativo (cioè con valore di "ossia", "e cioè", "o per meglio dire" e simili), come nella frase: l'elettricità animale o bioelettricità.

    Agli scrittori, cioè a coloro che fanno un uso creativo o artistico della punteggiatura, è consentito porre una virgola tra il soggetto ed il verbo: infatti, le esigenze dello stile narrativo consentono quello che a scuola è considerato un grave errore. Un uso efficace ed originale della punteggiatura venne fatto da Manzoni che alla frequenza delle virgole affidò la traduzione delle più svariate inflessioni di voce, scostandosi non di rado dalla norma. In certi casi, il famoso scrittore collocò la virgola tra il soggetto ed il suo immediato verbo.
    Esempi: "Agnese, s'era affacciata invano"; "Voi, mi fate del bene, a venir qui"; "Però, di tante belle parole Renzo, non ne credette una" (Manzoni).

    ■ La virgola si pone al principio ed alla fine di un inciso, di un vocativo, di un'apposizione, di un'interiezione, di complementi circostanziali.
    Esempi: Roma, capitale d'Italia, è città antichissima;

    ■ La virgola può essere usata prima e dopo i complementi che non si riferiscono alla parola precedente, o che sono spostati nell'ordine naturale della frase.
    Esempi: Per me, può far quel che vuole;

    ■ La virgola può seguire alcuni avverbi come sì, no, bene (quando essi hanno valore di un'intera proposizione) ed essere inserita dopo le congiunzioni infatti, in effetti, di fatto.
    Esempi: Sì, ho una buona speranza;
    No, non posso venire;


    ■ La virgola può precedere le seguenti congiunzioni:
    Ma, tuttavia, però, anzi;
    Esempio, Mi piace la musica moderna, ma preferisco quella classica.
    Anche se, benché, per quanto, sebbene;
    Esempio, Il mio amico, sebbene fosse stato ferito, non mi abbandonò mai.
    Mentre, quando;
    Esempio, Io uscivo, mentre egli arrivava.
    Giacché, poiché.
    Esempio, Ti credo, giacché lo dici con tanta passione.

    ■ Prima di 'ma', la virgola può essere presente o mancante, a seconda della struttura logica del discorso e degli effetti stilistici ricercati. Come congiunzione avversativa si usa per coordinare due elementi di una stessa frase o due frasi, nel qual caso è preceduta da virgola, punto e virgola o due punti.

    ■ Prima delle congiunzioni correlative 'sia... sia' e 'né... né', la virgola non si mette se la prima congiunzione ('sia' o 'né') lega la parte che la segue direttamente a ciò che precede, come nei due esempi seguenti:
    (1) La casa è confortevole sia d'inverno sia d'estate;
    (2) Non sa né leggere né scrivere.

    Altrimenti, si può mettere la virgola.
    Esempio, Ho portato il bambino in riva al mare, sia per farlo giocare con la sabbia sia per fargli respirare un po' d'aria pura.

    ■ Prima della seconda congiunzione, la virgola si mette se la parte che segue la prima (tecnicamente detta "costituente") è molto lunga.
    Esempio, Una sincera espressione di affetto non la trovò, né nella dolcezza sempre immutabile con cui m'accoglieva ogni volta, né nella sua cura materna con cui mi proteggeva dagli spifferi d'aria.


    ■ La virgola si usa anche nelle date di uno scritto, dopo il nome del luogo da cui si scrive.
    Esempio: Roma, 31 agosto 2011.

    ■ La virgola va usata soprattutto nei casi in cui l'omissione potrebbe generare confusione, come nei seguenti esempi:
    (1) Che dice, Luigi? (senza la virgola Luigi sarebbe soggetto invece che vocativo, in una frase dove si dà del lei a Luigi);
    (2) Ho consigliato a Paolo di studiare, come dicevi tu, che equivale a "ho consigliato a Paolo di studiare, come tu mi dicevi di consigliarlo". Senza la virgola, come vorrebbe dire "nel modo in cui" e l'intero enunciato significherebbe: "Paolo ha studiato nel modo in cui tu dicevi che avrebbe dovuto studiare".
    (3) Nella vecchia autorimessa c'erano carcasse di copertoni, stracci di tessuto, lamiere contorte, e pezzi di vetro dappertutto (in questo caso, la virgola chiarisce che "dappertutto" erano solo i pezzi di vetro).

    ■ La virgola va usata per dividere le proposizioni coordinate per asindeto, cioè senza legame, senza congiunzioni.
    Esempio, Disse molte parole, espose le sue idee, criticò i nostri progetti, se ne andò;
    Fabio si alzò, aprì la finestra, si stropicciò gli occhi, guardò fuori con stupore: i tetti erano ricoperti di neve.


    La virgola è utile per distinguere le varie proposizioni che compongono il periodo.
    Esempio: Ho visto, mentre partivo, che arrivava tua madre, ma non le ho detto niente, perché era tardi.

    ■ La virgola va usata nelle proposizioni in cui non si ripeta il verbo già espresso in una proposizione precedente, oppure per indicare che si è tralasciato un termine o un gruppo di termini.
    Esempi:
    (1) Le fortezze furono smantellate; le città, distrutte; le campagne, devastate (in questo caso, si omette di ripetere il verbo furono.
    (2) Sei di questi libri sono miei, tre [di questi libri sono] di Laura, due [di questi libri sono] di Carlo.

    ■ Si usa pure la virgola quando la proposizione relativa non si riferisce alla parola immediatamente precedente.
    Esempi:
    (1) Il treno di Francesco, che arriva a mezzogiorno (in questo caso, ad arrivare a mezzogiorno è il treno e non Francesco).
    (2) Il treno che arriva a mezzogiorno da Roma (si omette la virgola perché la relativa "che" si riferisce alla parola immediatamente precedente e cioè al treno).

    ■ In alcuni casi, la proposizione relativa ha un valore determinativo o specificativo e talvolta un valore appositivo e incidentale. Nel primo caso la proposizione si scrive senza virgola, nel secondo tra due virgole.
    Esempi:
    (1) Gli amici che ti amano ti aiutano (la proposizione relativa "che ti amano" ha valore specificativo, poiché determina quali amici ti aiutano e cioè quelli che ti amano).
    (2) Gli amici, che ti amano, ti aiutano (la proposizione relativa "che ti amano" qui ha un valore incidentale, poiché indica un attributo del soggetto "gli amici").

    Come si vede, il senso di una medesima frase può mutare in base al valore della proposizione relativa ed all'uso della virgola.


    Casi in cui è meglio non usare la virgola:

    ■ Tra la proposizione reggente ed una proposizione oggettiva o soggettiva, purché non segua un inciso o sia invertito l'ordine naturale della frase.
    Esempi (le due frasi dopo la barretta "/" rappresentano la forma alternativa, cioè quella con l'inciso, in cui va usata la virgola):
    (1) Lo seppi molto tardi che tu avevi dato le dimissioni; / Che tu avevi dato le dimissioni, io lo seppi molto tardi (in questo caso è usata la virgola perché viene invertito l'ordine naturale della frase).
    (2) Era chiaro che aspettavano me; / Era chiaro, lo sapevano tutti, che aspettavano me (nella frase viene incluso un inciso, posto tra due virgole).

    ■ Con le proposizioni interrogative indirette.
    Esempi:
    (1) I filosofi discutono la questione se il mondo sia stato creato o no.

    (2) Nessuno sapeva dove si fosse cacciato.

    ■ Tra il predicato e il suo complemento.
    Esempi:
    (1) Carlo non riusciva a trovare la soluzione del problema.


    Il punto fermo

    Il punto può essere posto nei seguenti casi.


    ■ Alla fine di una sola parola che costituisce periodo a sé.
    Esempio: Vivere.

    ■ Alla fine di un lungo periodo comprendente varie proposizioni.
    Esempio, "Sulla riva c'era soltanto padron 'Ntoni, per quel carico di lupini che ci aveva in mare colla Provvidenza e suo figlio Bastianazzo per giunta, e il figlio della Locca, il quale non aveva nulla da perdere lui, e in mare non ci aveva altro che suo fratello Menico, nella barca dei lupini." (da "I Malavoglia" di G. Verga).
    Va comunque sottolineato che la frequenza o la rarità del punto fermo nella pagina di un autore (attenzione, in questo caso si parla di professionisti della scrittura) è un segno del suo stile e della sua personalità. Il periodare spezzettato con molti punti fermi indica un ritmo del pensiero veloce e sintetico. Il periodare disteso, con ampie e solide architetture sintattiche, indica una meditazione più lenta, uno spirito di osservazione più ricco e meticoloso, una elaborazione più ponderata.

    Si possono distinguere il punto di seguito e il punto a capo. Dopo il primo, si continua a scrivere sulla stessa riga, implicando il fatto che si continuerà a trattare lo stesso argomento; dopo il secondo, si va a capo, implicando che la trattazione passerà ad un argomento o ad un sottoargomento diverso. Se si volesse distinguere maggiormente il nuovo periodo, si dovrebbe andare a capo, lasciando un maggiore spazio prima della parola, nell'allineamente normale.


    il punto di norma non si usa:

    nelle didascalie;
    nelle iscrizioni;
    nelle misure fisiche (m = metro, l = litro, kg = chilogrammo);
    nei simboli chimici (H = idrògeno, Mn = manganése);
    nelle targhe automobilistiche (TO = Torino, FI = Firenze).
    nei titoli dei libri, dei giornali, ecc.;


    I puntini di sospensione

    I puntini o punti di sospensione, detti anche di reticenza, sono costituiti da tre puntini (...; talvolta, anche in numero superiore a tre, come si può leggere nei testi di alcuni scrittori) e servono ad esprimere:

    un'interruzione reale del discorso: "Se posso... Se non le dispiace..."(L. Pirandello);

    un'esitazione, come in: Ma... se fosse possibile altrimenti...;

    una sospensione dovuta:
    - a dubbio o incertezza: Non so... ma dubito che tu possa riuscire...; Ecco... dunque... be', appoggialo sul tavolo;
    - a confusione o agitazione: Non saprei risponderti... con tutto quello che ho nella...; Non dire più altro, se no...
    - a ironia, gioia: E questo, secondo te, sarebbe un... capolavoro; Che gioia rivederti dopo...

    una metafora ardita: Direi quasi che cantava... in punta di piedi; Ugo disse che studiava con... Letizia.

    una reticenza: Non vorrei che... ; Non dico questo, ma...; Ti sei comportato malissimo, da vero... Ma non voglio usare parole grosse che... Lascio a te di giudicarti.

    una pausa, dopo una frase interrogativa o esclamativa: Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...?; Cosa ho fatto io?... Nessuno più mi crede!...

    I puntini vanno posti prima o dopo il punto esclamativo o il punto interogativo, secondo che s'intenda omessa qualche parola necessaria per compiere il senso, oppure quando si voglia indicare una pausa dopo l'interrogazione o l'esclamazione.

    una citazione in luogo di quanto precede o quanto segue: "...mi ritrovai per una selva oscura..." (Dante).

    Nelle citazioni, i puntini si usano quando occorra indicare eventuali lacune; in questo caso, sono chiusi tra parentesi quadre: "Mentr'egli guardava la donna che stava ripetendo quel suo gesto caratteristico di sollevare le grosse braccia verso la fune della biancheria [...] gli venne fatto di pensare, per la prima volta, che era bella." ("1984", George Orwell).


    2.0 Il periodo



    Il periodo è l'espressione di un pensiero compiuto. Può essere costituito da una sola proposizione (anche di una sola parola) o da più proposizioni strettamente legate tra loro in modo da formare un insieme organico di senso compiuto.
    Ogni periodo termina con un punto (punto fermo, punto esclamativo o punto interrogativo); ma può anche terminare con il punto e virgola, quando però il pensiero sia già stato espresso compiutamente.
    Il periodo formato da una sola proposizione (o da una parola) si chiama semplice:
    Generalmente per periodo si intende una composizione di più proposizioni: ad esempio, "Era sola e tranquilla; nulla le mancava; aveva intorno a sé il suo vasto patrimonio custodito da un servo fidato e d'animo semplice qual era suo padre" (G. Deledda).
    Questo periodo è formato da cinque proposizioni: le prime tre coordinate per asindeto, cioè senza alcuna congiunzione, ma per mezzo del punto e virgola. La quarta proposizione è una subordinata, relativa implicita, e l'ultima una subordinata, comparativa esplicita.

    In un periodo vi sono tante proposizioni quanti sono i verbi di modo finito espressi o sottintesi, o anche di modo indefinito, purché si possano ridurre a modo finito.
    Nel brano sopra riportato le proposizioni sono cinque, perché cinque sono i verbi: quattro di modo finito e un participio passato (custodito) riducibile a modo finito (che era custodito).

    Per quanto riguarda i verbi di modo indefinito, occorre osservare se siano o no riducibili a modo finito. In genere sono tutti riducibili, tranne gli infiniti usati come nomi, o i participi presenti e passati usati come aggettivi o come nomi: ad esempio, I viventi sono a carico del capofamiglia. Gli scolari troppo lodati insuperbiscono. Il lavorare stanca.
    In questi tre esempi il participio presente viventi, l'infinito presente lavorare e il participio passato lodati sono usati rispettivamente come nomi e aggettivo; quindi non sono riducibili a modo finito, per cui ognuno dei tre periodi è formato da una sola proposizione.

    Le proposizioni che hanno il verbo al modo finito si chiamano esplicite; quelle che hanno il verbo al modo indefinito (infinito presente e passato, participio presente e passato, gerundio presente e passato) riducibile a modo finito si dicono implicite.


    2.1 La coordinazione (paratassi)



    In ogni periodo c'è una proposizione principale (indipendente, reggente o subordinante) che sta a fondamento di tutto il periodo e che non dipende da nessun'altra, dalla quale - anzi - tutte le altre dipendono. Essa può stare pure da sola, mentre le altre da sole non si reggerebbero e non avrebbero un senso compiuto. Le proposizioni che dipendono dalla principale si chiamano subordinate, secondarie o dipendenti.

    L'unione di due o più proposizioni della stessa natura
    (o tutte principali o tutte secondarie della stessa specie) è detta coordinazione. Le proposizioni coordinate, naturalmente, si distinguono in coordinate alla principale o coordinate alla subordinata.
    Di solito la coordinazione è espressa per mezzo di congiunzioni (coordinative).

    Mi dissero che avevi dato gli esami e che eri stato promosso.

    Mi dissero: proposizione principale
    Che avevi dato gli esami: proposizione secondaria
    E che eri stato promosso: coordinata alla secondaria

    Più proposizioni collegate fra loro per coordinazione formano un periodo composto.

    2.2 La subordinazione (ipotassi)



    La subordinazione è il rapporto che lega, in un periodo, la proposizione reggente con una dipendente, detta appunto subordinata o anche secondaria. Possono avere funzione di reggente sia le proposizioni principali che quelle secondarie.

    I nemici fuggirono perché furono presi dal panico e per non essere distrutti interamente.

    I nemici fuggirono: proposizione principale
    Perché furono presi dal panico: proposizione subordinata
    E per non essere distrutti interamente: subordinata coordinata alla precedente

    Le proposizioni subordinate possono, a loro volta, avere delle subordinate che dipendono da esse. Esistono dunque vari gradi di subordinazione: la subordinata che dipende direttamente dalla principale è subordinata di primo grado; la secondaria che dipende dalla subordinata di primo grado è subordinata di secondo grado; la subordinata che dipende dalla subordinata di secondo grado è subordinata di terzo grado, e così via.

    Più proposizioni collegate fra loro per subordinazione formano un periodo complesso. I modi ed i tempi delle proposizioni internamente subordinate dipendono da quelli della reggente.

    2.3 La coordinazione dei tempi (Consecutio Temporum)



    Il modo ed i tempi dei verbi delle proposizioni dipendenti o subordinate sono regolati da leggi generali. Riguardo all'uso dei modi è bene ricordare che:

    l'indicativo è il modo della certezza e della realtà;
    il congiuntivo è il modo del dubbio, della possibilità, dell'eventualità, dell'irrealtà;
    il condizionale indica un'azione o uno stato condizionato al verificarsi di un'altra azione o di un altro stato.

    Per quanto attiene alla dipendenza dei tempi, la norma vuole che il tempo del verbo della proposizione subordinata deve concordare con il tempo del verbo della reggente. Quindi, ad un tempo di tipo presente o futuro (tempo principale) nella proposizione reggente deve corrispondere un tempo di tipo presente nella dipendente, e ad un tempo di tipo passato (tempo storico) nella reggente deve corrispondere un tempo di tipo passato nella dipendente.

    tempi principali sono:
    a) il presente, i futuri e il passato prossimo dell'indicativo;
    b) il presente e il passato del congiuntivo;
    c) il presente del condizionale;
    d) il presente dell'imperativo.

    I tempi storici sono:

    a) l'imperfetto, il passato e il trapassato prossimo, il passato e il trapassato remoto dell'indicativo;
    b) l'imperfetto e il trapassato del congiuntivo;
    c) il passato del condizionale.

    Il passato prossimo dell'indicativo e il passato del congiuntivo possono essere considerati sia tempi principali che tempi storici.

    Casi di correlazione

    1) La proposizione reggente ha il verbo al presente (o futuro, o imperativo) ed esprime certezza.

    Il verbo della proposizione dipendente va:
    a) al presente indicativo o futuro, se l'azione è contemporanea a quella della reggente;
    b) al passato prossimo o remoto, se l'azione è anteriore a quella della reggente;
    c) al futuro semplice, se l'azione è posteriore.

    Invece nel caso di dubbio, incertezza, possibilità, ecc., la proposizione dipendente ha il verbo:
    a) al congiuntivo presente, se l'azione è contemporanea a quella della reggente;
    b) al congiuntivo passato, se l'azione è anteriore a quella della reggente;
    c) al congiuntivo presente o al futuro semplice, se l'azione è posteriore.

    Casi particolari:

    - Quando la proposizione dipendente indica un'azione continuata e abituale, anteriore alla principale, si trova l'imperfetto dell'indicativo o del congiuntivo al posto del passato prossimo: ad esempio, Dico che non lo sapevo. Credo che avesse ragione.

    - Si ha la stessa costruzione quando il fatto della proposizione dipendente si riferisce ad epoca molto lontana e senza alcun rapporto con il presente: Tutti sanno che i Romani erano valorosi in guerra. Non credi che gli antichi vivessero meno a lungo di noi?

    - Se l'azione delle proposizione reggente è espressa da un condizionale presente o passato dei verbi indicanti volontà, desiderio o giudizio, la proposizione dipendente avrà il verbo all'imperfetto o al trapassato del congiuntivo. Avremo così le seguenti concordanze:

    Vorrei che tu sapessi la verità. (Contemporaneità nel presente)
    Vorrei che tu avessi saputo la verità. (Anteriorità rispetto al presente)
    Avrei voluto che tu sapessi la verità. (Contemporaneità nel passato)
    Avrei voluto che tu avessi saputo la verità. (Anteriorità rispetto al passato)

    2) La proposizione reggente ha il verbo al passato dell'indicativo (oppure al condizionale presente o passato) ed esprime certezza.

    Il verbo della proposizione dipendente va:
    a) all'imperfetto o passato remoto dell'indicativo, se l'azione è contemporanea a quella della reggente;
    b) al trapassato prossimo o remoto, se l'azione è anteriore a quella della reggente;
    c) al condizionale presente o passato, se l'azione è posteriore.

    Nel caso di dubbio, desiderio, possibilità la proposizione dipendente ha il verbo:
    a) al congiuntivo imperfetto, se l'azione è contemporanea a quella della reggente;
    b) al congiuntivo trapassato, se l'azione è anteriore a qualla della reggente;
    c) al condizionale passato, se l'azione è posteriore.

    Casi particolari:

    - Quando l'azione della proposizione dipendente si riferisce al presente, il verbo della stessa va al presente, pur dipendendo da un verbo passato: ad esempio, Ho saputo che lavori. Ho voluto che tu faccia questo.

    - In caso di fatti sempre validi o che possono accadere in qualunque tempo, si usa il presente, anche se dipende da un tempo passato: E' risaputo che la virtù finisce sempre per trionfare. Si è sempre insegnato quale debba essere il comportamento dei figli verso i genitori.

    3) La proposizione reggente ha il verbo al passato prossimo ed esprime certezza.

    Il verbo della proposizione dipendente va:
    a) al presente indicativo, se l'azione è contemporanea a quella della reggente;
    b) all'imperfetto indicativo, se l'azione è anteriore a quella della reggente;
    c) al condizionale passato, se l'azione è posteriore.

    Nel caso di dubbio, desiderio, possibilità la proposizione dipendente ha il verbo:
    a) al congiuntivo presente, se l'azione è contemporanea a quella della reggente;
    b) al congiuntivo imperfetto, se l'azione è anteriore a quella della reggente;
    c) al condizionale passato, se l'azione è posteriore.


    2.4 Il periodo ipotetico



    L'insieme di una proposizione condizionale e della sua reggente forma un periodo ipotetico. Esso costituisce una unità logica oltre che sintattica, poiché le due azioni sono in stretto rapporto l'una con l'altra: ad esempio, Se lasci la tua casa, commetti un errore. L'azione della proposizione principale (commetti un errore) è condizionata dalla circostanza espressa dalla subordinata (se lasci la tua casa).

    Nel periodo ipotetico, le due proposizioni assumono nomi particolari:
    - la proposizione condizionale (se lasci la tua casa) prende il nome di protasi, cioè premessa, intesa come ipotesi da cui dipende l'azione principale;
    - la proposizione reggente (commetti un errore) si chiama apòdosi, cioè conseguenza, dichiarazione conclusiva.

    Il periodo ipotetico può essere di tre tipi, secondo che l'ipotesi sia considerata reale, possibile, irreale.

    1° tipo: della realtà.
    Si ha quando ci limitiamo a registrare l'ipotesi come un fatto oggettivo, reale, sicuro. Il verbo si pone all'indicativo nella protasi e all'indicativo o all'imperativo nell'apodosi.

    2° tipo: della possibilità. Si ha quando sia l'ipotesi che la conseguenza sono ritenute come eventi possibili. Il verbo si pone al congiuntivo nella protasi, al condizionale nell'apodosi. Si può trovare anche l'indicativo nell'apodosi.

    3° tipo: della irrealtà. L'ipotesi e la conseguenza sono ritenute irreali o irrealizzabili. Il verbo si pone al congiuntivo imperfetto nella protasi e al condizionale presente nell'apodosi, se l'ipotesi è irreale nel presente.

    3.0 [Avanzato] Le figure grammaticali



    Le figure grammaticali (o sintattiche) sono dei modi di dire che si discostano dai costrutti regolari e che gli scrittori usano per dare vivacità e colorito alla loro prosa.
    Mentre le figure retoriche riguardano in modo particolare lo stile o, come si dice, la retorica del discorso, le figure grammaticali riguardano più semplicemente la grammatica e la sintassi; sono dunque delle irregolarità volute di proposito dagli scrittori.

    ■ L'anacoluto è una vera e propria sgrammaticatura che consiste nel cominciare un periodo in un modo e finirlo diversamente, cambiando soggetto o introducendo un soggetto che resta poi senza verbo.
    ■ L'asindeto consiste nel coordinare vari elementi di una proposizione o varie proposizioni tra loro senza alcuna congiunzione, ma per mezzo di virgole, e ciò per conferire maggiore speditezza all'enumerazione.
    ■ L'ellissi consiste nell'omettere qualche parte del discorso, che si può facilmente sottintendere.
    ■ L'enallage consiste nell'usare una parte del discorso diversa da quella che si dovrebbe regolarmente adoperare.
    ■ L'iperbato consiste nell'invertire esageratamente la costruzione, per dare maggiore evidenza ad una parte del discorso rispetto all'altra. Per certi aspetti, l'iperbato può assumere la forma dell'anacoluto, dell'ipallage, o dell'anastrofe.
    ■ Il pleonasmo consiste nell'usare una o più parole, non necessarie dal punto di vista grammaticale o concettuale, per dare maggior colore e risalto all'espressione. E' molto frequente nell'uso familiare e parlato; esso si può trovare anche nella lingua letteraria e non implica di per sé una violazione di regole grammaticali.
    ■ Il polisindeto consiste nell'adoperare la congiunzione dinanzi ad ogni elemento, frase o semplice parola che si vuole coordinare. Si usa per dare meglio l'impressione della gran quantità di cose enumerate o del loro immediato susseguirsi.
    ■ La sillèssi o sillèpsi (detta anche costruzione a senso) consiste nel non accordare nel numero il verbo con il suo soggetto.
    ■ Lo zeugma consiste nel far dipendere da un unico predicato due complementi o due costrutti diversi, uno solo dei quali si adatta a quel predicato.

    3.1 [Avanzato] L'uso della D eufonica



    L'uso della d in chiave eufonica, nell'italiano, è attestato tanto nell'uso della lingua parlata che di quella scritta. Tale fenomeno consiste nell'aggiunta finale (epitesi) della lettera "d" ad alcune particelle, qualora l'incontro vocalico con parole inizianti per vocale dia adito a cacofonie o difficoltà di pronuncia. Più frequentemente utilizzata nel passato, nell'uso moderno della lingua italiana la d eufonica ricorre in tre casi:

    ■ nella preposizione ad ("a"),
    ■ nella congiunzione ed ("e")
    ■ e meno frequentemente nella congiunzione od ("o");

    In generale quindi l'uso della d eufonica è possibile quando vi è un incontro con un'altra vocale, ma è lasciato alla discrezione dell'autore; è invece consigliabile il suo uso nelle locuzioni cristallizzate, come "ad esempio", mentre non va mai messa nei casi in cui fra le vocali delle due parole vi sia un'importante pausa sintattica, o ci si trovi all'inizio di un inciso.

    Non esistono oggi regole ferree circa l'uso della d eufonica. I manuali moderni di italianistica ne consigliano l'adozione solitamente negli incontri tra vocali del medesimo timbro e nelle forme consolidate, lasciando del resto margine alla discrezione dell'autore o del parlante, ma sconsigliandone comunque un uso pedissequo e massiccio, o laddove possa ingenerare a sua volta cacofonie come "autori ed editori" o polisemie.
    Vi sono locuzioni fisse dove l'uso della d eufonica è praticamente cristallizzato anche fra vocali di diverso timbro, tanto da essere riportate solo in questa maniera anche dai dizionari:

    ad eccezione di; ad esempio; dare ad intendere, tu/lui/lei ed io

    Edited by Kalinicta - 14/1/2013, 12:46
     
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