Wilbury Mountain

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    Il giorno in cui il mio spirito umano si ridusse ai famelici istinti di un animale primitivo e persi la capacità di amare, sorridere e sognare, non potrà mai essere dimenticato a Wilbury Mountain. Il solo ricordo di quegli avvenimenti attanaglia il mio corpo fino alle viscere e avvolge il feto putrefatto della mia anima allo stesso orribile modo in cui i neonati, talvolta, muoiono soffocati dal cuscino della propria culla. Chi sono io per comprendere oscenità tali che l’uomo non dovrebbe neanche provare ad immaginare, e darne una spiegazione razionale?

    La vicenda che mi accingo a raccontare, nella speranza che qualcuno possa rivedervisi e non sentirsi alieno, poiché afflitto dalla stessa maledizione, ebbe inizio il 21 Aprile 1967. Mentre traducevo alcuni testi che avrei dovuto consegnare l’indomani pomeriggio al direttore della rivista per cui stavo lavorando, squillò il telefono di casa. Mi chiesi chi mai potesse a cercarmi nel cuore della notte: doveva sicuramente trattarsi di uno scherzo. Ma una voce profonda, che non aveva per niente l’aria di scherzare domandò: “Salve sono Amber, mi occupo delle faccende legali a Wilbury Mountain. Parlo con il signor Parker?” Io confermai e lui continuò: “Qualche giorno fa è deceduta una sua lontana parente, una certa Josephine Parker e lei è l’unico possibile erede della sua casa”. La faccenda si stava facendo interessante. “Sarebbe meglio dire che sono l’ultimo rimasto della famiglia Parker”, aggiunsi io. Amber approvò e disse che mi sarei dovuto recare al più presto nel paesino in cui si trovava per sistemare la questione.

    Fui pronto per partire nel giro di una settimana. Parecchi chilometri mi separavano dallo stato in cui abitavo, la Georgia, a Wilbury, nella Virginia dell’est. Dopo varie fermate che non mi appresto a trascrivere, per la scarsa importanza che hanno nella vicenda, giunsi finalmente nello stato del Commonwealth. Ore e ore di stradine sterrate più tardi, sorpassai il confine della contea di Warren e cominciai a notare la mia meta: sul lato ovest di una grande montagna ricoperta d’alberi, sorgeva un gruppo di piccole abitazioni in legno a tetto spiovente, dai cui spuntavano colonne di fumo. Un presentimento privo di fondamento si fece strada nella mia mente: che gli abitanti sfruttassero le esalazioni dei comignoli delle proprie case come difesa dalla foresta circostante o come richiesta d’aiuto, e rabbrividii.

    La notte del 2 Maggio 1967 arrivai in quella che, in base alle descrizioni del notaio, pareva essere la zona dove si trovava la locanda che mi avrebbe ospitato. Scesi dalla Ford Focus che avevo guidato fino a quel momento e soffermai lo sguardo sul paesaggio: ebbi la sensazione di trovarmi completamente circondato da alberi alti e scuri che si estendevano in ogni direzione, creando un buio innaturale persino per la notte. L’aria era gelida e il freddo penetrava nelle ossa. L’unico motivo per cui il mio cuore non cominciò a scalpitare in preda al panico d’essermi perso in una regione a me sconosciuta fu dato dall’ululato di un cane, che riempiva il silenzio del bosco circostante, donando al mio corpo una sensazione di familiarità. Provai a stabilire da dove provenisse il latrato e finalmente, dopo vari tentativi, riuscii a scorgere un puntino illuminato, rimasto nascosto fino a quel momento dal tronco di un enorme ontano nero. La fonte di luce era emanata da una torcia ardente, davanti ad un edificio in legno di betulla rischiarato dalla luna, non molto distante da dove mi trovavo.

    Lo raggiunsi a piedi e fui felice nel notare che, anche se ne ero ormai quasi certo, si trattava della locanda: Wild Ortega, recitava un cartello arrugginito conficcato nella terra, vicino alla porta d’entrata. Infreddolito e impaurito per essermi reso conto che la serenata canina non proveniva da quel luogo e che avrei potuto ritrovarmi una bestia selvatica sulle cosce delle mie gambe tremanti da un momento all’altro, entrai senza esitare. Un odore di carne cotta si infiltrò piacevolmente nelle mie narici e un senso di fame assalì il mio stomaco. L’edificio era ben arredato e la luce soffusa di una lampadina riempiva ogni angolo, anche se in modo assai irregolare. Una serie di ombre occupavano la parete alla mia destra e non potei trattenermi dall’impulso di tastare il muro: era ruvido, probabilmente come la pelle della creatura bizzarra impressa nel quadro poco più in alto.

    Soffermai lo sguardo sul dipinto, studiandolo, e cercai di leggerne la minuscola iscrizione in alto a destra; ma la concentrazione si vanificò quando una voce, sibilante come il fruscio che avrebbe prodotto un serpente strisciando sul quel muro, annunciò: “Oh, meglio tenersi alla larga dal Wendigo!”; mi voltai e ancor prima di presentarmi o rispondere alla domanda tirai le labbra in un sorriso di cortesia. Davanti a me c’era una signora anziana, leggermente ricurva sul bastone da passeggio che stringeva tra le mani livide e rugose. Aveva un fisico smilzo e consumato dal tempo, ma due occhi color mandorla pieni di vita. “Lei dev’essere il signor Parker”, disse. Io annuii e cominciammo a conversare, dopo essermi scusato per la brusca entrata. Infine mi venne mostrata la stanza in cui avrei dormito per il tempo necessario a risolvere la faccenda dell’eredità misteriosa.

    La camera era ospitale quasi quanto la vecchia: si trattava di un monolocale, ornato di oggetti grotteschi, ma terribilmente curiosi. Le pareti ed il pavimento erano in legno di mogano e una fioca luce da comodino illuminava il tutto, con la stessa intensità della lampadina all’ingresso. Quella notte andai a dormire con la pancia piena, pensando e ripensando alla signora anziana che, con le sue uniche forze, era riuscita a mantenere in piedi l’edificio in cui mi trovavo per chissà quanto tempo: forse, zia Josephine, non doveva essere tanto diversa da lei. La mattina del 7 Marzo mi svegliai e fui felice di sapere che il signor Amber mi aspettava nel salotto. Era un ometto biondo e goffo dalla carnagione chiara, quasi quanto la mia.

    Nei giorni precedenti non avevo fatto altro che riflettere e vagare per i boschi circostanti: un senso di pace sembrava aver catturato la mia anima. L’incantevole paesaggio di montagna mi rendeva tranquillo e aveva fatto sì che la mia mente spazzasse via tutte le stupide paure da uomo di città che avevo provato all’inizio. La quiete del luogo, per quanto assurda da apparire innaturale, stava prendendo possesso completo del mio corpo e io, assuefatto dalla spensieratezza, la spronavo ad entrare sempre più a fondo. Inoltre, avevo chiesto informazioni alla vecchia riguardo alla creatura presente nel quadro, il Wendigo: una figura demoniaca della mitologia dei Nativi Americani, più precisamente uno spirito che poteva assumere sia caratteristiche umane che quelle di un mostro umanoide, trasformatosi da quella che una volta era una persona normale che aveva praticato il cannibalismo. Ne era scaturito un lungo discorso sui misteri e le leggende del luogo e si era rivelata di ottima compagnia.

    Strinsi la mano madida di sudore del notaio e concludemmo la discussione sulla proprietà. Tutto ciò che c’era da sapere, era ora in mio possesso. Avrei potuto vendere la casa o tenerla. Amber mi invitò a visitarla il prima possibile, offrendosi come guida per arrivare al centro del paese senza perdere tempo in giri inutili o addirittura perdendomi; secondo lui, Wilbury era senz’altro una comunità minuscola, ma allo stesso tempo, le stradine e i sentieri del paese erano assai contorti e intricati. Accettai d’essere guidato fino all’abitazione abbandonata l’indomani pomeriggio, poiché un dolore che sembrava partire dallo stomaco, stava provocando fitte atroci in tutto il mio corpo: doveva trattarsi del cambio di dieta.

    Trascorsi il resto di quella giornata leggendo "Il figlio del male", all’ombra di un gigantesco cipresso popolato da varie razze di uccelli. Talvolta, una ventata d’aria fresca batteva contro i miei denti costringendomi a chiudere la bocca, e fu in quel preciso momento che mi resi conto dell’influenza che il luogo stava esercitando su di me. Ma essa andò ben oltre le mie aspettative. D’improvviso le lettere sulle pagine del libro aperto tra le mie gambe cominciarono a svanire lentamente e una sensazione di caldo avviluppò il mio collo. Mi sentii soffocare. E giacchè non c’era niente di visibile attorno a me che potesse provocare simili fenomeni, il presentimento di un male ultraterreno si insinuò nel mio sistema nervoso attraverso una potente scarica di adrenalina. Spostando lo sguardo notai che il paesaggio era cambiato: l’erbetta verde che sottostava alle mie natiche aveva ora l’aria di una torta al cioccolato ripiena di vermi e il cipresso, ormai spoglio e incurvato, era ancora in piedi solo perché sostenuto da un alberello poco distante. Tutto ciò che riuscivo a distinguere, oltre a qualche albero e le pagine bianche che poco prima mi apprestavo a leggere a bocca aperta, come ipnotizzato, era una serie di grandi cespugli non molto distanti, che coprivano ogni possibile visuale di fuga. L’aria diventò più densa e rarefatta. Una sorta di nebbia grigiastra calò dal cielo come granelli di sabbia in caduta libera. Non osai muovere un solo muscolo: rimasi inerme in quella posizione, paralizzato dalla paura. Ricordo che dai cespugli giunse alle mie orecchie il muoversi delle foglie e una figura sfuggente attraversò la terra untuosa e bagnata, in cui avrei preferito sprofondare una volte per tutte e smettere di assistere a quegli orrori. Cominciai a provare seri dubbi sulla mia sanità mentale, poiché non potei che associare la figura misteriosa ad una delle creature leggendarie nominate dalla vecchia locandiera.

    Quando riaprii gli occhi non sapevo più che giorno era. Delle fitte lancinanti frustavano le ossa del mio corpo allo stesso modo in cui un’ape infilza il proprio pungiglione nella carne nemica per poi cadere sfinita e senza vita, concedendo qualche secondo di tregua prima dell’arrivo dei rinforzi. Un uomo dalla folta barba si era preoccupato di raccogliermi e curarsi di me: si trattava di un boscaiolo che conduceva uno stile di vita autonomo, basato unicamente sui suoi sforzi. Il letto che mi ospitava consisteva in un materasso malconcio, ammassato su una pila di tavole di legno. “Imvelo ayamukeli amademoni”, e altre strane parole che non faticai ad associare alla lingua Zulu, erano impresse nelle pareti di mogano della minuscola abitazione. Il tutto, illuminato da qualche candela. “Oh, eccoci qui”, aveva annunciato con aria compiaciuta entrando dalla porta cigolante, provvisto di selvaggina fresca e sacchi di verdure, che rendevano ancor più imponente la sua figura imbottita da vari strati di pelliccia.

    Lo scroscio della pioggia e il fragore dei tuoni sembravano rimbalzare direttamente sul tetto, rimbombando all’interno del rifugio come una richiesta d’aiuto disperata e non persi occasione per benedire nuovamente la bontà d’animo dell’uomo. Con il passare dei giorni, avevo scoperto che era un fanatico religioso e poichè il mio stato fisico, e probabilmente anche quello psichico, non mi permettevano di tornare ad occuparmi delle faccende che richiedevano la mia attenzione, tutto ciò che potevo fare era intratterlo in lunghe conversazioni. Il vecchio Orghett aveva trascorso la propria vita girando in lungo e in largo per l’America, come tuttofare. Si era stabilito sulla montagna di Wilbury con l’obbiettivo di condurre una vita isolata e dedicarsi al Kokuzhan: un culto di origine africane, da cui sembrava dipendere completamente. Era convinto che per raggiungere l’estasi non fosse necessario l’uso di droghe, ma sarebbe stata sufficiente la forza della fede.

    Incuriosito dall’esaltazione del barbone, cercai di raccogliere quante più informazioni possibili sull’argomento, e notai che c’era qualcosa di più concreto rispetto al suo punto di vista e alle forme rivisitate e minimizzate con cui praticava il culto: il simbolo del credo era il dio Koku, che inizialmente garantiva invincibilità e protezione in guerra; ma con la diffusione di stregoneria e magia nera nel continente africano, divenne una figura di difesa dalle arti oscure. Tuttavia, quando raccontò dei rituali a cui aveva partecipato lui stesso, feci fatica a riconoscerne la naturalità positiva di cui era convinto: nei raduni gli adepti si dedicavano a danze vorticose, sino a raggiungere uno stato incosciente di possessione e in tali particolari condizioni psicofisiche mostravano una grande capacità di sopportazione al dolore. Queste prove sovrumane, considerate come miracoli, manifestavano lo straordinario potere della divinità. Alla fine della possessione giungevano ad uno stato di sublimazione in cui divenivano coscienti della comunione con il proprio dio, arrivando a misurarsi con una delle più alte sensazioni di felicità che l'uomo potesse mai provare in tutta la sua vita. A quelle parole non potei che provare un raccapricciante senso di smarrimento. Mi trovavo davvero nella tana di un vecchio eremita esaltato, su una montagna dimenticata da Dio? Decisi che mi sarei recato al centro di Wilbury per sistemare la faccenda dell’eredità il prima possibile, indipendentemente dalle mie condizioni disagevoli.

    Il tempo, che aveva ormai l’aria di una vaga illusione, divenne ancor più insignificante durante il tragitto che conduceva alla mia meta. I sentieri si inerpicavano verso l’alto e i miei sensi, di pari passo, godevano sempre più di una sanità che credevo morta agli anni della giovinezza. Ma ciò nonostante, i miei organi interni continuavano a lottare furibondi contro un male sconosciuto. Prima di partire avevo chiesto al vecchio Orghett di scortarmi fino al centro del paese ad ogni costo, anche qual’ora l’avessi pregato io stesso di fermarsi e devo ammettere che, a suo modo, mantenne la promessa; poichè ad un certo punto del cammino persi le forze e caddi impotente a terra, ma al risveglio mi trovai in un luogo in cui presenza dell’uomo era decisamente evidente: giacevo all’angolo di una delle case che si affacciavano verso una sorta di piazza circolare, dove il terreno era rialzato da serie e serie di mattonelle biancastre consumate dal tempo e disposte in circolo.

    Alzandomi in piedi accesi un sigaro e notai che il clima, nonostante l’altezza, era più caldo e confortevole; ma un silenzio innaturale aleggiava furtivo su ogni cosa, rendendo lugubri persino le torce ardenti senza le quali non si sarebbero distinte le piccole abitazioni scure sparse nei dintorni. Le ombre della notte si allungavano e la luce delle fiaccole legate ai paletti di legno conficcati nella terra non riusciva a contenerle. La brace del sigaro, ardente nell’oscurità, era paragonabile alla flebile speranza che restava per la mia anima e stanco di tutto ciò che stava accadendo lo lanciai via in un gesto disperato. La vita che avevo condotto sino al momento dell’arrivo sulla montagna sembrava ormai il lontano ricordo di un’infanzia felice. Notai che al centro della piazza era presente una grande lastra di marmo, probabilmente una specie di monumento. Mi avvicinai e un terrore acuto quanto quello che avrebbe provato un giovane corvo alla vista di uno spaventapasseri, si impadronì del mio corpo: davanti a me si trovava una bara di acero, il mio legno preferito, adagiata su un lastrone di pietra rettangolare, grande più o meno quanto la stessa.

    Non ebbi tempo di formulare neanche la più ridicola delle ipotesi, che un verso profondo squarciò il silenzio, dapprima molto basso e poi sempre più forte. Guardandomi intorno non riuscii a capirne la provenienza, sembrava diffondersi da tutto ciò che mi circondava; ma quando le porte delle abitazioni si spalancarono e cominciarono a fuoriuscire uomini, donne e bambini con la testa bassa e le mani giunte, diretti verso di me e intenti a comporre un’orrenda litania di morte con le bocche chiuse, mi fu tutto più chiaro. Cominciai a scappare, ma purtroppo il passo delle mie gambe diventò presto un miraggio e costringendo le articolazioni ad un ultimo sforzo raggiunsi la scalinata più vicina, lasciandomi cadere stremato in un angolo nascosto, poco distante, che permetteva una visuale sulla scena. Tutte quelle persone, una trentina al massimo, erano in realtà dirette verso la tomba e fui felice nel notare che nessuno mi aveva seguito durante la piccola fuga.
    Il verso gutturale che producevano dava la sensazione che l’ambiente circostante, scarsamente illuminato, tremasse. Uomini imponenti dai lunghi capelli grigi, vestiti alla maniera dei cacciatori o dei boscaioli e donne anziane piene di rughe che mantenevano i più piccoli per le spalle, alzarono lo sguardo al cielo all’unisono, incuranti della mia presenza. Io, non molto lontano dall’ultima fila di squatter, cercai di guardare al centro della piazza, dove stava avvenendo qualche misteriosa operazione. Mi fu ben chiaro che doveva trattarsi di un rito funerario, ma perché mai veniva celebrato nel cuore della notte? Un’occhiata più attenta alle persone conteneva la risposta: i volti, tutti molto simili tra loro, non erano rivolti ad un punto casuale nel cielo, ma bensì alla luna, la luna più piena che avessi mai visto. Ne dedussi che probabilmente era necessaria per lo svolgimento della cerimonia. Il silenzio che regnava prima del rito funerario si ripresentò, fatta eccezione per qualche respiro rauco, probabilmente dei più anziani. La situazione bizzarra in cui mi trovavo non mi spaventava in modo esagerato, poiché ripensando al culto di Kokuzhan, avevo compreso che, per quanto grotteschi potessero sembrare a prima vista certi riti primitivi, non dovevano essere necessariamente collegati a ciò che di più maligno e orrendo esista al mondo.

    Cominciai a farmi strada nella folla, avanzando con fatica e reggendomi talvolta alla gente, che al mio tocco si girava stranita e dopo un’occhiata veloce tornava a celebrare il rituale con lo sguardo rivolto alla luna. Mentre mi avvicinavo, notai che la bara era stata aperta. Un uomo che pareva vecchio quanto la montagna si occupava di spargere sul corpo nudo del cadavere misteriosi sali e spezie. Il morto era magro e aveva un’aria conosciuta: “È Amber”, pensai. Così superai altre persone, incurante del rito, ma giungendo in prossimità della tomba il viso del cadavere assimilava un’aria terribilmente familiare, tanto che mi sentii stupido ad aver alluso al notaio. La vista era ancora troppo sbiadita per stabilirne il sesso e presi in considerazione l’idea che potesse trattarsi di zia Josephine: come suo discendente non ci sarebbe stato nulla di strano se la donna avesse avuto i miei stessi tratti somatici, tuttavia era morta già qualche settimana prima che giungessi a Wilbury. La curiosità mi spinse a precipitarmi verso il centro e caddi pericolosamente a pochi passi dalla lastra di marmo, ma ciò nonostante restarono tutti inspiegabilmente immobili.

    Indugiai parecchio prima di rialzarmi e guardare finalmente nella bara, perchè stavo morendo dal dolore provocato dalle fitte allo stomaco. E quando lo feci, mi resi conto di essere già morto: il cadavere ero io stesso.

    Tutto sembrò smettere di avere un senso. Non potevo crederci davvero. E non riuscendo ad accettare l’idea, mi rifugiai nei boschi. Il magnetismo morboso della terra dagli alberi scuri, non si poteva definire influenzante al punto da farmi impazzire; poiché in quel caso, anche il resto degli abitanti, sarebbe stato composto da folli totali. Piuttosto, si trattava di una sorta di seducente richiamo della natura, a cui seguiva un’ondata di energia spirituale, che risvegliava il lato più selvaggio di ogni uomo: qualcosa di simile all’essenza primitiva di tutti gli esseri viventi che avevano accettato il cambiamento e che, negli esseri umani, aveva decretato la possibilità di sopravvivenza attraverso la capacità di adattamento. Quel suolo sacro aveva fatto sì che dimenticassi persino la disperazione dovuta alla mia morte, avvenuta in circostanze misteriose che non avrei mai scoperto.

    Col passare del tempo arrivai alla conclusione che a Wilbury Mountain, la montagna maledetta dalle proprietà inspiegabili, doveva aver messo radici un male antico, molto tempo prima, attraverso gli usi e i costumi di una qualche tribù nativa; poiché nemmeno i morti potevano riposare in pace in quel luogo e ne fui una prova io stesso: il dolore fisico che mi stava uccidendo pur essendo già morto era una conseguenza del digiuno che stavo praticando dal momento in cui avevo esplorato la natura per la prima volta. Avevo imparato a cacciare e smembrare ogni animale che mi capitasse a tiro per soddisfare il desiderio incessante di carne e la sofferenza era svanita. L’animo di un essere umano, fatto da sentimenti e logica, mi aveva abbandonato. In fondo, chiunque avrebbe scambiato un uomo sporco dalla testa ai piedi, con degli artigli cresciuti a dismisura e capace solo di uccidere, per una bestia. Tant’è che arrivai a credere d’esser diventato un Wendigo.

    Tuttavia, in una giornata di sole cocente, dall’unico taschino intatto della mia giacca ridotta a brandelli, cadde un pezzo di carta, con delle iscrizioni in lingua Zulu. Mi sforzai di leggere, ma la mia capacità intellettiva era atrofizzata e ci volle un po' prima che la frase: “Isikhathi asilungile Angikho”, uscisse interamente dalla mia bocca.

    Mi sveglia di buon’ora e spalancai le finestre della mia abitazione a Savannah, in Georgia: era una mattinata fresca e soleggiata del 1967. Un languorino allo stomaco confermò i miei dubbi: avevo dormito di un sonno pesante. Accesi la televisione e ruppi due uova nella pentola. Il telefono di casa cominciò a squillare, ma aspettai che finisse il servizio sul meteo: una grande tempesta proveniente dalla Virginia stava per abbattersi sullo Stato. Non me ne curai e andai a rispondere. Alzai la cornetta e una voce dalla parvenza familiare rispose: “Salve, sono Amber. Si ricorda di me?”. Aggiunsi che non rammentavo di conoscere nessuna persona che si chiamasse “Amber”. “Oh non faccia lo sciocco!”, disse. “La chiamo per informarla che, in mancanza della sua decisione, la proprietà sarà presto venduta allo Stato”. Non capivo di cosa stesse parlando. Poi continuò: “Capisco che Wilbury Mountain sia un luogo selvaggio e la comunità degli abitanti possa sembrare così bizzarra da farla scappare via. Ma credo sia giusto farle sapere che si è scordato qualcosa qui”. Quella voce bassa e profonda diceva cose tanto assurde da farmi ridere, così decisi di stare al gioco: “On no! Cosa ho dimenticato?”. E Amber rispose: “La sua auto”. Abbassai la cornetta e scossi il capo. Ciò nonostante, quando nacque l’esigenza di prendere il mio mezzo di trasporto fui sorpreso nel notare che non si trovava dove ricordavo di averlo parcheggiato. E nemmeno in nessun’altra parte della Georgia.



    Edited by @AnthonyInBlack - 19/11/2018, 21:41
     
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    Emily, ma sei bisessuale? ( ͡° ͜ʖ ͡° )

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    Forse è un po' confusionaria nella parte centrale, però mi piace il modo in cui hai descritto gli scenari.
    Avrei preferito che le credenze della religione menzionata venissero approfondite un po' di più
     
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