Votes taken by Annatar

  1. .
    Psycho Mantis avvolto da fiamme:


    Loki (Marvel):


    Edited by Annatar - 26/2/2016, 18:20
  2. .
    Sono ufficialmente riaperte le Candidature per diventare Staffer: X!
  3. .
    Aggiungo altri due disegni ^^

    Psycho Mantis (Metal Gear Solid)


    Eltanin (il mio PG di D&D)


    Edited by Annatar - 26/2/2016, 18:19
  4. .
    La sottosezione Horror d'Autore è stata promossa a sezione. Inoltre abbiamo aggiunto, come sua sottosezione, la new entry Creepy Characters!
    Così facendo diamo un più importanza alle storie d'autore, che meritano davvero di essere lette, e soprattutto apriamo una sorta di "archivio" di tutti i personaggi/mostri/entità dell'orrore provenienti da libri, film, videogiochi e fumetti.
    Potete postare direttamente su Creepy Characters, come è già concesso per Creepy Media. L'importante è che le vostre discussioni siano ben curate e dettagliate.
  5. .
    Chiedemmo la conoscenza.
    La ottenemmo.

    Il nostro mondo era ricolmo di sapere: conoscenze che spaziavano dalla matematica alla biologia aliena, dalle antiche filosofie alle elevate meccaniche cosmiche.
    Sapevamo creare la vita, preservare la giovinezza, viaggiare istantaneamente per lo spazio sconfinato: sapevamo molto, forse troppo, eppure desideravamo di più.
    Affamati di nuove conoscenze ci inoltrammo in campi oscuri, terreni su cui mente vivente non dovrebbe mai posare occhio. Fu questo ad attirare la Sua attenzione; capì che eravamo pronti.

    Così Egli giunse.
    Sotto le vesti di un alto uomo dai lineamenti rettiliformi, egli giunse in mezzo a noi.
    Indossava un decorato abito nero, caratterizzato da diversi ornamenti, che ricordava le vesti che avevamo visto indosso ai primitivi sacerdoti Atlantidei.
    Non sapevamo a che stirpe o pianeta appartenesse, non ce lo volle rivelare, ma le sue conoscenze e arti superavano di gran lunga le nostre. Perciò, avidi, chiedemmo e pretendemmo, ammaliati, i suoi insegnamenti.
    Parlò di dimensioni fisiche a noi ignote, raccontò oscuri e reconditi fenomeni cosmici, ci fornì nozioni su scienze inesplorate e culture extraterrestri.
    In cambio chiese le nostre anime e noi, stolti, fummo felici di consegnarle, convinti di barattare l’incertezza per la conoscenza.

    Ed il nostro pianeta incominciò a morire sotto il peso di una conoscenza troppo grande per essere sostenuta. Le notti erano divenute fredde, le lune se n’erano andate già da anni.
    Non aveva più senso fare affidamento sul trascorrere dei giorni e delle stagioni; ma quando ce ne accorgemmo era troppo tardi. Mai soddisfatti del sapere che Lui ci donava, infatti, chiedevamo sempre di più ed Egli sembrava ben felice di elargire, con tanta leggerezza, segreti così onerosi.

    Un giorno, infine, quando il nostro mondo ormai traboccava di conoscenza, ci condusse, in una notte senza stelle, per aridi deserti di macerie e detriti. E lì, in compagnia delle tenebre del cosmo, illuminati solamente dalla fioca luce di aurore blasfeme, Egli si mise a parlare delle entità che governavano il Mondo. All’immensa folla, radunata sotto il Muro della Notte, presso la Valle delle Ombre, narrò di Akatoph e di Syeep’kha, dell’infantile e arrogante Signore del Cosmo Ar'Phazoor e di molte altre divinità sacre ed empie che abitavano l’universo.
    Poi, dopo l’incredulità di molti e le urla degli scettici, gli chiedemmo di rivelarci la Sua identità e Lui, che prima l’aveva tenuta nascosta con tanta ostentazione, ce la rivelò.

    Quando i nostri occhi videro la Sua vera forma, la forma di un Dio Antico, la nostra mente non resistette e i nostri cervelli mortali si liquefecero. Le urla di terrore e raccapriccio risuonarono distorte nel vuoto dello spazio quando le nostre anime vennero strappate dai nostri corpi e viaggiarono per dimensioni inimmaginabili verso la Sua corte.
    Là, più lontano delle galassie alla deriva, ben oltre i limiti scibili del cosmo, dove lo spazio e il tempo stessi ebbero origine e tuttavia non possiedono nessun valore, vedemmo il “nostro distruttore”, l’ameno Signore del Sapere, il blasfemo ofide dai sette occhi coronato da altrettanti neri tentacoli il cui nome è S’aghatoth.

    Chiedemmo la conoscenza.
    Lui ci rubò la nostra insieme alle nostre anime.
    Ora siamo condannati a soffrire alla sua corte fino al termine dei Cicli.

    Edited by Annatar - 2/2/2016, 23:23
  6. .
    Non ho ancora iniziato quindi, se vuoi, fai tu ^^
  7. .

    La musica tocca direttamente la nostra anima.
    Un anima superficiale ha perso il valore del canto.



    Sussurri nell’aria raccontano, sull’onda del vento, antiche vicende, ormai dimenticate.
    È dovere che tutti sappiano cosa raccontano gli spiriti delle fredde brezze.




    O voi che mi ascoltate, sappiate che la Terra è scossa ciclicamente da strani eventi, cataclismi inspiegabili che spazzano via ciò che era in favore di ciò che sarà.
    Io, Eyka, figlia dell’antica Città del Mare, vi racconterò cosa successe alla mia gente.
    Ricordo perfettamente il totem di pietra lunare e il volto terribile scolpito sopra.
    Come potrei dimenticare l’Araldo, splendente come il Sole, sapiente tra i sapienti, voce del mattino.
    E soprattutto, mai potrei cancellare il ricordo di quel giorno così terribile.

    Vivevo su una grande isola e la città dove dimoravo era l’apice della civiltà contemporanea; difatti i marinai raccontavano che le popolazioni al di là del mare erano ancora selvagge e che mentre noi, in quei tempi, avevamo un luogo fisso dove abitare, gli altri popoli vagabondavano senza mai fermarsi, alla ricerca di cibo e materiali da costruzione.
    Terra e acqua convivevano nel nostro regno, una rete di canali si diramava per tutta la città.
    I palazzi maestosi erano di marmo e cristallo, le loro grandi vetrate, verdi, azzurre e dorate, si potevano ammirare già in lontananza dal mare.
    Biblioteche, accademie, templi e teatri, le opere più belle della nostra era si ergevano tutte nella mia città, sembravano scolpite dagli angeli, tanti erano i dettagli dei loro bassorilievi.
    E tutti vivevano tranquilli, fieri del proprio operato e fiduciosi di un futuro radioso.
    Ma sotto grande apparenza si nascondeva una società corrotta e priva di valori.
    Vigeva la legge del più forte e gli abitanti erano meschini e profittatori.
    La Chiesa Cremisi deteneva il potere e il suo capo era anche il re della città; predicavano il culto del potere. I suoi membri di livello più elevato si sceglievano tra i maggiori potenti della città ed erano adorati come dei.
    Grandi erano considerati coloro che sacrificavano amicizie per il prestigio e tutti erano servi del denaro.
    Nessuno ci eguagliava per tracotanza.


    Poi arrivò Lui.
    Nessuno sa da dove giunse, se dai cieli o dal mare, semplicemente lo trovammo in mezzo a noi.
    Era alto, più alto di qualsiasi altro essere umano, e aveva un aspetto regale. La sua pelle era bianca come la madreperla e sul suo capo giaceva una corona di piume verdi e argentate.
    Aveva un viso androgino e una lunga chioma di capelli candidi.
    L’aria che lo circondava pareva carica di una qualche energia; lo si notava perché molti fra quelli che lo avvicinavano rimanevano soggiogati dalle sue parole, dal suo aspetto, e tutti quelli che avevano qualcosa da ridire, una volta giunti dinnanzi a lui, ammutolivano.

    Domandammo il suo nome; ci disse di chiamarlo Akatoph, “l’Araldo”.

    Era solito dibattere con scienziati, filosofi e teologi; le sue conoscenze erano molte ed eccelleva in diversi campi. Si dimostrò superiore alle migliori menti del nostro tempo.
    In tanti lo seguivano e non passò molto prima che lui incominciasse anche a predicare un nuovo culto; parlava di una Grande Forza, Rahyl, che poteva essere invocata con il favore del canto e della musica. Ma la nostra società aveva dimenticato ormai questi due elementi e non li aveva mai sviluppati, ritenendoli una semplice perdita di tempo.
    Sta di fatto che, quando l’Araldo ci mostrò le sue conoscenze e capacità, rimanemmo a bocca aperta; non erano assolutamente come li ricordavano i libri: i nostri canti erano monoritmici, mentre le canzoni parevano un accozzaglia di percussioni.
    Akatoph invece introdusse una così vasta varietà di ritmi, toni e melodie che non poté non catturare la nostra attenzione.

    Diceva che era stato mandato da una divinità giusta, che avrebbe concesso grandi favori a coloro che avrebbero cantato per lei.
    E molti tra di noi aderirono a quella setta, stregati da queste nuove scoperte musicali.
    Ma da noi, nella nostra isola le leggi parlavano chiaro: ogni culto, escluso quello ufficiale e obbligatorio della Chiesa Cremisi, era bandito. Così, all’inizio, molti seguaci di Akatoph furono imprigionati o sanzionati. E nonostante nessuno osasse minacciare direttamente quell’uomo così enigmatico, per le strade e per le piazze, gruppi di protestanti manifestarono contro quel culto appena nato.

    Fu allora che Akatoph si diresse al porto, prese una barca e si lasciò trasportare dalla corrente. Intanto una grande folla si era venuta a creare sul molo; tutti guardavano quell’uomo senza capire quali fossero le sue intenzioni.
    Ed egli, giunto ad una buona distanza dalla terraferma, si mise in piedi su quel pezzo di legno e fece un breve ed elegante inchino. Poi tolse da sotto un telo qualcosa; alcuni uomini vicino a me mormoravano fosse un piccolo totem.
    Akatoph alzò ciò che aveva tra le mani verso il cielo e lo sistemò sulla poppa della barca.
    Il gruppo di persone intorno a me andava aumentando e tutti si domandavano cosa stesse facendo quello straniero.

    Fermo in posizione eretta, Akatoph incominciò a cantare.
    Quando la sua voce ci raggiunse, una leggera brezza ci colpì. Sembrava che non una sola persona, ma un coro intero stesse cantando.
    Tonalità diverse accarezzavano le nostre orecchie; se mai esistessero gli angeli, pensai, avrebbero quelle voci.
    Il vento si stava alzando e sotto le parole incomprensibili eppure così belle di quel canto sentimmo una strana nenia diffondersi nell’aria.
    A differenza del canto, quella musica era triste, quasi malinconica.
    Chi stava attorno a me era come incantato: potevano muoversi sì, ma nessuno sembrava voler andarsene; credetti che avessero paura al sol pensiero di doversi allontanare da lì.
    Il sole era stato coperto dalle nuvole e il mare era mosso, ma nessuno si mosse dal molo, pensai che tutti provassero le stesse emozioni.

    Ed ecco che accadde qualcos’altro, un fatto ancora più inspiegabile tra quelli avvenuti fin ora.
    Centinaia di pesci di ogni tipo e dimensione vennero a galla. Si dibattevano furiosamente come se lottassero contro una forza inspiegabile; l’acqua incominciò a tingersi di rosso.
    Fu allora che Akatoph, compiaciuto, si fermò.
    Il vento si acquietò, il mare si fece piatto e il sole tornò a brillare caldo in cielo.
    Noi tutti eravamo presi da grande stupore per quegli avvenimenti e molti tra la folla si prostrarono al suolo o si misero in ginocchio difronte all’Araldo.
    Egli tornò a riva e disse di prendere il pesce e fare festa, quello era un suo regalo.
    Per quel giorno e per i giorni a seguire chi non aveva soldi per comprare molto, poté mangiare a volontà e saziarsi. Molti tra questi presero e conservarono quel pesce che era avanzato.

    Dopo questo evento, tanti capi della Chiesa Cremisi rinnegarono il proprio credo e seguirono Akatoph e la sua parola. L’Araldo predicava con parole forti. Disse che chiunque si fosse inchinato al suo culto avrebbe ricevuto grande potere tra le genti.
    Parlava della costruzione di un opera grandiosa, che avrebbe reso la nostra nazione più forte.
    Molti erano ormai i suoi seguaci; egli insegnava loro affinché potessero cantare per Rahyl.
    Io ringrazio di non essermi mai fidata di quell’uomo, anzi, non appena vidi che molte tra le persone che conoscevo erano diventate aggressive, da quando erano entrati nel culto di Rahyl, stetti ben lontana da Akatoph e quella sua strana religione.
    I miei sospetti andavano sempre aumentando: in città si parlava di misteriose morti, riti demoniaci e strane cantilene portate dal vento.
    Sebbene la Chiesa Cremisi cercasse di mettere a tacere Akatoph, il potere dell’Araldo era grande e ben presto vennero trovati i corpi, privi di vita, di molti sacerdoti cremisi, uccisi nelle loro stesse case.
    Naturalmente era evidente che fossero stati i seguaci di Rahyl, ma nessuno osava agire di conseguenza e molti erano fermamente convinti che l’Araldo e i suoi discepoli non centrassero nulla. Al che ormai pareva chiaro che l’influenza di Akatoph - con le sue melliflue parole e il suo rassicurante canto - era ormai troppo radicata nelle menti dei deboli.
    Molti erano coloro che vedevano in Akatoph un dio; i Soggiogati li chiamammo.

    Quei giorni, in città, si mormorava che l’Araldo avesse in mente la costruzione di qualcosa.
    Non avremmo mai, nemmeno nei nostri peggiori incubi, immaginato il progetto che stava attuando.
    Egli una mattina, all’alba, si recò nuovamente al porto e, con decine di uomini al suo seguito, salpò verso l’orizzonte. In cuor mio pensai che ce ne fossimo liberati, molti lo pensarono.
    Per giorni Akatoph fu via dalla città e ben evidenti furono i segni di tale assenza.
    Coloro che erano stati soggiogati ormai giravano per la città come gli automi delle antiche leggende: privi di vitalità, incapaci di pensare qualcosa di proprio.
    Molti furono i suicidi durante qui giorni. La notte si udivano canti tristi per le strade, seguiti da rumori orribili e raccapriccianti echi.
    Poi, al mattino, lo spettacolo era di giorno in giorno sempre più sinistro e inguardabile: corpi di uomini e donne, tutti coi polsi tagliati, giacevano sulla strada in enormi pozze di sangue; cadaveri oscillavano appesi per delle corde, impiccati ai balconi e alle mura, o giacevano pallidi sulla superficie del mare.
    Ecco cosa ci portò via Akatoph, pensai, ma non era ancora tutto.

    Ed ecco che, dopo giorni di assenza durante i quali pensammo di essercene liberati, egli tornò. La sua nave veloce puntava dritta verso il porto.
    Diversi soldati si misero in formazione sul molo; Akatoph, pensai, non era il benvenuto stavolta.
    Ma prima che fosse a distanza di tiro, nell’aria echeggiò un canto lieve.
    Un raggio di luce dorata scese sulla nave e rivelò qualcosa che fin ora era rimasto celato ai nostri occhi: sulla prua dell’imbarcazione era posto un grande blocco di pietra bianca.
    Poi d’improvviso, in centinaia caddero nello stesso incantesimo che li aveva ammaliati diversi giorni prima. La voce dell’Araldo era più dolce di quella di un amante, più rassicurante di quella di una madre, più soave di quella di una fanciulla.
    Il suo canto faceva sentire vivi.
    Insieme a lui, iniziarono a cantare tutti coloro che stavano sull’imbarcazione, e non ci volle molto perché all’inno si aggiunsero altre bocche tra quelle che stavano al porto.
    Quella nenia così triste, eppure così bella, sembrava raccontare storie di sofferenze passate.
    Non pochi si portarono le mani agli occhi per asciugarsi le lacrime.
    Alcune fra le stesse guardie si unirono al canto e, gettate le armi per terra, cadevano in ginocchio.
    Ma sebbene quella melodia fosse così bella, io e alcuni altri abitanti non cademmo sotto il suo incantesimo.

    Egli giunse di nuovo in mezzo a noi e nessuno riuscì ad arrestare il suo passo.
    Scese dalla nave come un glorioso imperatore, adorato da molti. La gente lo pregava perché ricominciasse a cantare. L’Araldo ormai aveva soggiogato i cuori e le menti di otto decimi della popolazione.
    Camminò dritto verso il palazzo reale, seguito da un immensa folla.
    Intonò un nuovo motivo. Questa volta era violento e la sua forza trascinò molte altre bocche.
    Le poche guardie che provavano ad opporsi, venivano letteralmente fatte a pezzi dalla folla.
    Quando giunse sotto alla reggia, un canto come tempesta risuonava tremendo per le strade.
    E sebbene le voci erano diecimila, quella dell’Araldo superava tutte per maestosità e potenza.
    Ed il re, terrorizzato difronte a tale grandezza, si inchinò al cospetto di Akatoph.
    La città ormai era sua, ma non era ancora soddisfatto.
    Ci fu un guizzo seguito da uno strano rumore, poi la testa del re cadde al suolo in un mare di sangue. Tutti esultarono. Io credevo fosse sbagliato, ma la gente attorno a me applaudiva.

    Fu così che, presa la parola, l’Araldo parlò di quella che sarebbe stata l’ultima opera della nostra civiltà. Un progetto che parve a tutti grandioso, ma che fu la rovina della Città del Mare.
    Ci invitò a costruire una statua colossale, un totem musicale in onore di Rahyl.
    Ed ecco che mille persone si mossero ad un suo piccolo gesto per spostare il blocco di pietra bianca al centro della città. Scalpellini, scultori, architetti, chiunque avesse un poco di conoscenze di costruzione, si recarono a lavorare alla statua.
    Per giorni quell’impresa andò avanti, nessuno voleva fare una pausa. Vedevo persone che morivano letteralmente di fatica pur di portare avanti quell’opera grandiosa.
    Mio padre rimaneva giorno e notte per lavorare alla costruzione, mia madre faceva lo stesso.
    Anche io aiutavo come potevo, ma non perché l’aveva detto l’Araldo, piuttosto per alleviare la fatica dei miei genitori. Mi prendevo cura di loro, gli portavo da mangiare.

    Per tenere il morale alto, la gente cantava.
    Akatoph era sempre vigile; mentre alcuni lavoratori crollavano, presi dal sonno, l’Araldo non dormiva mai, sorvegliava i lavori con occhio attento.
    Piano piano il totem prendeva forma. Aveva un profilo oblungo. Su quella che sembrava la cresta di un onda giaceva una creatura filamentosa, tentacolare. Il corpo era un misto tra quello di una donna e di una medusa. Ma quello che mi spaventava di più era la “faccia”: un viso fermo e severo allo stesso tempo, sembrava mettere in soggezione chiunque lo guardasse, facendolo apparire piccolo in confronto al cosmo.
    Ancora oggi ricordo quel volto nei miei incubi.

    Fu così che il totem venne terminato al tramonto del 33esimo giorno. Durante la sua costruzione morirono più di cento uomini; Akatoph sembrava non preoccuparsene, ma anzi era compiaciuto del lavoro svolto.
    Ordinò a tutti di rientrare nelle proprie case e di tornare all’una di notte per la celebrazione.
    Credevo che nessuno, dopo tutta quella fatica, avrebbe pensato di tornare. Invece, a mezzanotte, mia madre mi fece alzare dal letto e mi preparò per l’occasione.
    Tutti gli abitanti della Città del Mare si recarono verso il centro della città; il totem risplendeva bianco alla luce della Luna, pareva fatto dello stesso materiale.
    Il suo volto terribile sembrava guardare tutti affamato. L’Araldo era più bello che mai.

    Ed ecco che Akatoph iniziò a cantare, e stavolta la sua voce era più potente che mai.
    Tutti lo guardavano ammirati e nessuno osava aggiungersi a quell’opera grandiosa.
    Poi ad un tratto, accadde qualcosa che nessuno aveva previsto.
    Il vento si alzò e il cielo divenne rossastro, la Luna assunse un colore cremisi.
    Un forte e disturbante rumore risuonò per le strade. A seguirlo udimmo profondi echi di corni da guerra, tutti furono presi dal panico.
    Dal totem fuoriuscì una nenia sinistra e lugubre. La voce dell’Araldo cambiò e assunse toni d’oltretomba, cadenze spettrali.
    Il viso della statua sembrava deformarsi in un volto bestiale, scheletrico.
    Una forte scossa colpì la città, diversi edifici crollarono e grandi crepe si aprirono sulle strade.
    La gente crollava portandosi le mani alle orecchie. Tutti strillavano. Vedevo sangue in terra.
    Guardai verso mia madre, piangeva sul corpo, in preda a forti convulsioni, di mio padre: aveva gli occhi gonfi e sangue gli usciva dal naso e dalla bocca.
    Io e due mie amiche li vicino sentivamo sì quella musica raccapricciante e quel terribile canto, ma nulla che ci costringesse a tapparci le orecchie e ad urlare disperate.
    Strillai invece per quello che vidi. Incominciai a respirare più velocemente, le gambe e le braccia mi formicolavano. Akatoph divenne tremendo alla vista; molti si coprivano gli occhi.
    Cercai di andare verso mia madre: la confusione e la folla mi aveva allontanato da lei.
    Stavolta la vidi distesa sul corpo di mio padre, tendeva una mano verso di me, l’altra la usava per coprisi la vista.
    Ad ogni passo che facevo sentivo le mie vene esplodere, il rumore attorno a me s’ottundeva.
    L’unica cosa che riuscivo ad udire distintamente era il battito del mio cuore e il mio respiro.
    La gente intorno a me cadeva in preda alle convulsioni. La terra tremava sempre più forte.
    Fu in quel momento che mi resi conto che le uniche persone che non erano state colpite da quella stregoneria erano i bambini; come me.
    Prima di perdere completamente i sensi, vidi, aldilà di mia madre, una gigantesca onda scavalcare gli edifici, e nonostante l’oscurità, distinsi diversi tentacoli bianchi fuoriuscire dall’acqua.
    Poi il buio.


    Quando rivenni, mi ritrovai su una spiaggia deserta.
    Non ero sulla mia isola.
    Ero sopravvissuta a quell’evento ed ora mi trovavo nelle terre straniere.

    Girai un po’ e scoprii che insieme a me anche altri bambini erano naufragati su quella spiaggia.
    Fummo trovati da alcuni marinai della Città del Mare che non erano sul posto quella nefasta notte. Ci presero con loro e ci chiesero come mai fossimo lì e non a casa.
    Le nostre risposte li spinsero a voltare rotta verso la nostra isola.
    Ma quando arrivammo nel punto dove emergevano le nostre terre, tutto quello che vedemmo fu la nuda e vasta superficie del mare. Nulla appariva all’orizzonte. Nessuna traccia di Akatoph.
    La Città del Mare era andata distrutta.

    Così i marinai ci portarono verso le terre selvagge. Non ci credettero quando gli parlammo dell’Araldo e del suo totem; dissero che era stato un cataclisma naturale.
    Sbarcammo in una terra che in seguito verrà chiamata Grecia. Lì trovammo delle tribù alle quali unirci e portare il nostro sapere.
    Noi abitanti della Città del Mare - che in futuro prenderà il nome dal luogo nel quale sorgeva: l’Atlantico, situato oltre le Colonne d’Ercole – siamo beneficiati da lunga vita.
    Venni a sapere, col tempo, che tutti i figli di “Atlantide” erano sopravvissuti e che erano sparsi per il mondo.
    Tutta la nostra sapienza servì a formare le basi per diverse società.
    Se gli egiziani, i greci, le popolazioni del sol levante e gli amerindi, tra i quali spiccavano i maya, furono così evoluti rispetto ad altri popoli, il merito fu senza dubbio nostro.
    Di Akatoph non sentimmo parlare mai più; scomparve insieme alla nostra isola.

    In ogni caso, tutta la nostra cultura la tramandammo alle future generazioni.
    Ma dopo tutti questi anni non mi spiego ancora alcune cose.

    Come mai l’Araldo lasciò vivere proprio noi, bambini e ragazzi?
    Forse perché le nostre menti erano ancora libere dai pregiudizi e dall'orgoglio degli adulti?
    In fin dei conti, potrebbe aver agito non senza un motivo contro la nostra società malata.

    E poi, perché tutti i popoli hanno sviluppato lo stesso interesse per il canto e la musica dopo la caduta di Atlantide? Possibile che il potere di Akatoph sia ancora presente?

    Ma la domanda che più mi turba: in futuro, quando la società tornerà simile alla nostra, e quando perfino il canto e la musica perderanno il loro valore, Egli tornerà?

    Edited by RullOmbra - 5/1/2015, 18:10
  8. .
    Mezzosangue?
    Mai vi furono esseri più puri degli alti elfi tra i figli minori di Ilúvatar. E i maghi umani non sono solo piccole imitazioni dei grandi stregoni.
  9. .
    A parlare é il wight, lo spettro.
  10. .
    Ah! Ecco la presentazione ^^
    Buona permanenza :)
  11. .
    Anche se mi sa di quelle storie che "provo a fare quello che dice e vedo che non succede nulla", anche per me potrebbe andare in HS.

    EDIT:
    Perché mi passa per la testa che l'altro occhio sia quello di Sauron? D:


    Edited by RullOmbra - 28/4/2014, 18:33
  12. .
    Salute a te.
    Se avessi bisogno di aiuto non esitare a chiedere :)
  13. .
    “Cammino…
    Non avrei dovuto iniziare.
    La strada non ha una direzione.
    Figure sfocate tremano all’orizzonte.
    L’oscurità avvolge ogni forma.
    Non v’è alcun rifugio accogliente.
    Cammino al suon della triste melodia.
    Cammino nella Valle delle Ombre.”




    Voi che leggete questa lettera, o greci, sappiate che da tempo ho preso la Via dell’Ombra.
    A spingermi in questa valle non sono stati né uomini, né dei, ma oscure forze sovrannaturali.
    Quando saprò con certezza chi ha voluto tutto ciò, purtroppo non potrò riferirvelo.

    Quello che posso dirvi è che vivevo in un villaggio di Grecia, chiamato Adami.
    Correva l’anno dei dodicesimi giochi olimpici.
    Tutto era normale in quel piccolo paese: il fabbro lavorava sodo tutto il giorno, i contadini si recavano nei campi al canto del gallo, chi doveva omaggiare gli dei correva al tempio.
    In piazza c’era movimento già dalle prime ore di luce, il mercato era subito allestito, gli oratori parlavano ai cittadini.
    Era periodo delle Grandi Dionisie; ciò significa che erano in atto i preparativi per l’allestimento delle opere teatrali. Celebravamo l’arrivo della primavera.

    Un giorno però, dopo essere tornato dal mercato, ricevetti la visita di uno straniero, un certo Aliphotes, il quale mi chiese ospitalità. Era giovane, ma il suo modo di parlare mi sembrava affaticato. Ordinai dunque ai servi di prendersi cura dell’uomo e di preparargli da mangiare. Quando ebbe finito si riposò.
    Prima di andarsene mi volle parlare: “Orpheus, ti sono grato per l’accoglienza che mi hai concesso, vorrei sdebitarmi dandoti questo oggetto”.
    Dalla borsa tirò fuori un aulos; era di buona fattura, bianco come le ossa, presentava delle strane incisioni delle quali non riuscii a capire il senso.
    Accettai con cuore, infatti mi ritenevo un buon suonatore. Lo straniero parlò ancora: “Nel caso tu sia in pericolo, suona quest’aulos. Ma fallo solo in casi di estrema necessità”.
    Detto questo si allontanò e prese la strada per la campagna.

    Tornato in casa, poggiai lo strumento su una mensola. Mi promisi di non toccarlo e di seguire le parole del viandante, anche se non gli credevo. Nonostante gli sforzi però, non riuscii a resistere. La sera stessa decisi di suonarlo. In fondo era soltanto un aulos.
    Soffiai e una dolce melodia uscì da esso. Mai avevo udito un suono più pulito e cristallino di quello. Ero ammaliato da quell’armonia.
    Ma poco dopo che le prime note uscirono dall’aulos ecco che il fuoco del camino si spense. A seguirlo, tutte le candele della stanza.
    Rimasi al buio, inquietato dall’avvenimento chiamai una serva.
    La donna arrivò e riaccese il focolare. E poiché chiese come fosse possibile che tutte le luci della camera si fossero spente, gli dissi che avevo aperto la finestra e che una grande folata di vento era entrata in casa. Tuttavia non sembrava credermi.
    Nascosi l’aulos nella mia borsa da viaggio e andai nella mia stanza da letto.

    All’alba del giorno seguente, dopo essermi vestito e preparato, uscii di casa.
    Dovevo recarmi al santuario di Asclepio per le offerte di primavera. Il posto non distava molto dal villaggio. Avevo con me il bastone e la borsa da viaggio.
    Dopo che ebbi percorso dieci stadi giunsi ad un ponticello di pietra.
    Stavo per arrivare dall’altra parte quando scorsi un uomo uscire dalla radura davanti a me.
    Capii che era un brigante e mi voltai per correre via, ma ecco che un altro uomo era alle mie spalle armato di pugnale.
    “Se non vuoi essere svuotato delle tue interiora, svuota davanti a noi la tua borsa” dissero ridendo i ladri.
    Fu in quel momento che guardando alla borsa vidi l’aulos e mi ricordai delle parole dello straniero. Presi lo strumento e incominciai a suonare.
    I briganti furono sorpresi nel vedermi far ciò e avanzarono verso di me.
    Improvvisamente il cielo si rabbuiò, le nuvole coprirono il sole e un vento freddo si levò violento. La melodia riecheggiava vagamente sinistra tra le montagne.
    Strane voci si alzarono nell’aria. Sembravano sussurri o lamenti.
    La terra iniziò a tremare e i due briganti si guardano impauriti per tutti quegli avvenimenti.
    Anche io ero spaventato, ma una forza misteriosa mi costringeva a suonare.
    Ad un tratto vidi qualcosa di terrificante. Le ombre dei miei assalitori si allungarono sul terreno e lentamente iniziarono a prendere forma terribile. Sembravano emergere da suolo.
    Nel farlo urlavano o sussurravano parole che non ho il coraggio di riportare.
    Le voci erano molte e io non riuscivo a smettere di suonare.

    Le ombre protesero le loro orrende mani, sembravano composte da neri filamenti.
    Afferrarono i due ladri per le gambe e li trascinarono verso il basso.
    Tra le urla di rabbia delle ombre, i briganti sprofondavano nel terreno; si contorcevano, gridavano, ma ogni sforzo era inutile. Ben presto infatti erano stati completamente catturati nelle tenebre, prigionieri del Mondo delle ombre.
    E nonostante la scena si presentò terribile ai miei occhi, provai un sinistro senso di piacere.
    Non appena furono scomparsi nel sottosuolo la musica cessò e il Sole tornò.
    Il freddo vento e le oscure voci si acquietarono.
    La mia vista però si annebbiò, l’udito s’ottundeva. Persi i sensi.

    Ricordo che quando rivenni era sera. Nelle mani stringevo ancora lo strumento.
    Tornai a casa e tenni segreto tutto quanto; nessuno doveva sapere dell’aulos.
    Mi promisi che l’avrei usato solo nei casi di pura necessità.
    Ma non è forse nella natura umana usare il potere per beneficiare se stessi?
    Ben presto quello strumento mi corruppe l’animo.

    All’inizio lo usai per regolare torti subiti e difendere chi ne aveva bisogno.
    Poi presi ad adoperarlo sotto compenso, diventando un sicario.
    Alla fine suonavo l’aulos solo per piacere personale. Non c’erano più cause, solo pretesti.
    Ma ero veramente io a volerlo suonare? La verità è che dipendevo da lui.

    Mano a mano che il tempo passa e uso l’aulos mi sento sempre più debole psicologicamente; per ritrovare la forza devo suonare quella triste melodia.
    Devo uccidere. Ne ho bisogno per trovare pace… Loro ne hanno bisogno.
    Mi stanno usando. Lentamente trascinano la mia anima nella Valle delle Ombre.

    Gli anni passano e io non invecchio. Da tempo ho lasciato la mia casa e ho vagato per il mondo.
    Ho visto imperi sorgere e cadere, terribili scontri tra nazioni, città crollare per poi essere ricostruite.
    Non so quanto tempo ancora ci vorrà prima che cada nelle tenebre.
    Ormai posso vederle con i miei occhi, anche da sveglio: nere figure all’orizzonte, sfocate sembrano tremare. L’oscurità copre ogni cosa.
    A breve svanirò come un ombra. Forse domani, forse appena finirò di scrivere.
    Danzo mortale al suon della triste musica, cammino nella Valle delle Ombra.
    Sono un suonatore d’aulos.

    Di me non rimarrà nulla, eccetto lo strumento maledetto.
    Prima di lasciare questo mondo mi è stato ordinato di svolgere un ultimo compito.
    Devo consegnare a qualcuno questo strumento.
    Vogliono un altro suonatore…

    Aulos: strumento a fiato simile ad un flauto. Inventato dai greci.
    Orpheus: nome associato all'oscurità.

    PS: il testo in corsivo all'inizio è ciò che è inciso sull'aulos.


    Edited by RullOmbra - 25/2/2014, 22:50
  14. .
    Oh, sera concittadino! :)
    Benvenuto...
  15. .
    Anche oggi è tornato.
    Ogni giorno viene a farmi visita.
    Lo fa perché mi ama.
    Come sempre ha bussato alla porta.
    È entrato in casa.
    Ha preparato il tè.
    Ha portato le tazzine in tavola.
    Si è seduto e mi ha versato quattro cucchiaini di zucchero.
    Sa che mi piace dolce.
    Oh, lo amo davvero.

    Però non ho voglia di bere.
    Lui l’ha capito.
    Così ha messo la sua mano al centro del tavolo.
    E ci ho poggiato sopra la mia.
    Vedo che è felice.
    Mi avvicino e lo bacio.
    Sorride e gli cade una lacrima.
    Ora deve andare.
    Mi saluta ed esce di casa.
    Lo guardo allontanarsi per il viadotto.

    Torno dentro.
    Mi avvicino al tavolo.
    Ha dimenticato il suo buffo cappello bianco.
    O forse l’ha lasciato apposta.
    Accanto ad esso noto le sue lacrime.
    La cosa mi rattrista.
    Così faccio per asciugarle.
    Ma non ci riesco.
    Come se non potessi toccarle.
    In fin dei conti cosa pretendo?

    Sono solamente un fantasma.
    Il ricordo di una giovane ragazza.
    Una rosa appassita in Primavera.




    “E lui che non ti volle creder morta,
    bussò cent’anni ancora alla tua porta.”
    (La Canzone di Marinella. De André)


    Edited by Annatar - 11/7/2014, 13:38
41 replies since 5/11/2012
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