Votes taken by Oessido

  1. .
    Allora non indugiare, amico mio.

    Sarò felicissimo di vederti qui sul Forum!
  2. .
    Non vorrei intromettermi (cosa che sto facendo -.- ) dato che ahimè, i memoriali non sono propri degli utenti "giovani" del Forum...

    Mi sa che quei deliziosi popcorn li mangio io.
  3. .
    CITAZIONE
    l'autore forse farà una versione espansa

    Alla luce di ciò potrei anche lasciar correre, ma questa storia non fa per niente paura e non lascia niente, davvero niente. È maledettamente vuota.
    La voce della "linea gialla" è una trovata più patetica e inverosimile che altro. Le teorie che si possono elaborare, suggerite da questa base di partenza, sono troppo vaghe per incanalare al meglio uno shock, timore, ansia. Il puzzle d'un intreccio può richiedere il nostro aiuto per completare con la nostra fantasia ed intuito certi tasselli mancanti. Qui di tasselli ne mancano a bizzeffe.
    Non ho neanche percepito un vero pericolo, insomma, sembra una bozza di un primo tentativo di uno scrittore medio alle prime armi!

    Felicissimo di essere contestato e/o di sentire pareri diversi in merito.
  4. .
    Questo è un peplo d'indicibile potenza, non assai lungo, però.


    Faust, allora! Alla luceh di quanto espressoh dai miei colleghi :rath: ...
    Nope.
    Questa storia è piacevole da leggere, a mio parere. King ha scritto che è "antifrastica"; non poteva tirare fuori termine più esemplificativo.
    La bellezza onirica, la brezza di una fantasia frantumata da solenni silenzi, silenzi domati da una presa di coscienza profondamente malinconica; questi elementi sono preziosi.
    Si respira profumo, si scorge ovunque pulizia, solitudine - non c'è impurità nel mondo che hai descritto, solo pace. Un'immensa e serenissima pace, in mezzo ad un orrore che perde ogni valore.
    Nessuno pensa al dolore - ed ecco perché per me non va in Drammatico, ma in Fantastico, per gli elementi non grotteschi bensì magici e surreali. Non Drammatico perché la storia non lo è, prendiamo la fine, per esempio: non è drammatica, ma spensierata, felice, leggera come un petalo. La storia non è drammatica, ma solo fantasiosamente malinconica. Anche le reazioni degli altri personaggi di fronte alla morte non sono pregne di tristezza torbida e fangosa, ma di deliziosa malinconia, semplicità. La vecchia che apre una rivista di gossip mi ha anche un po' commosso, eeeeeeh già, sono un sensibiloneh io. Un gesto così normale in attesa della fine, detto così pare poco, ma io ci ho visto qualcosa di più grande:
    Io, forse anche qualcun altro, ma non tutti possono apprezzare, capire la tua poetica e le tue scelte. Non so se è un pregio o un difetto, medita su questo, punta al cuore di tutti, e non è facile perché tutti abbiamo cuori diversi. Devi essere come un pescatore, capace di unire tutti, dai più duri ai più sensibili, se non ce la fai e sono in pochi a capirti e quindi quasi a "difenderti" hai fallito. In minima parte, sì, ma comunque...
    Mi piace la poetica della tua storia, mi piace l'atmosfera che hai creato, dominata dalla quiete. E l'endiadi del sogno collettivo congiunta con l'atmosfera irreale (e quindi da sogno) della realtà rende quest'opera simile a una mongolfiera che porta i lettori fra le nuvole più pacifiche. Cazzo, è bello. Niente di più, niente di meno!
    Tuttavia quella ripetizione della formula "sono stupito" e poi "accetto con sorriso il regalo" mi ha dato fastidio, perché è incoerente rispetto alla leggerezza che ho avvertito, non se mi spiego. Ripetizione sentita come quasi fosse un martello pneumatico in centro città. In un cantiere. Con vecchi che starnutiscono. E bambini che strillano. Con decine di clacson che suonano. Io fossi in te non esiterei un istante e correggerei.

    La ragazza alla fine. Non me la sento di dire che è messa alla cazzo di cane ma trovo, di nuovo, questa sorta di tua parziale incapacità di far cogliere al lettore quello che VUOI che il lettore colga (sottolineo parziale, però. Sei un bravo scrittore, sei capace, in questa storia è possibile che alcuni non colgano niente però. MI STO RIFERENDO ALLA STORIA, non a te in generale!)
    Uno può pensare davvero e giustamente che è campata all'aria. L'incontro è breve, oggettivamente, valuta tu. Si vedono, si scambiano cose, si siedono, si baciano. Detto così fa cagare, ma il punto è che NON fa cagare, ma non è ben coglibile la cosa! Perché se la gente riesce a penetrare nel senso della tua poetica, nell'essenza del tuo mondo, allora tutto questo risulta apprezzabile e vincente. Se non mi approccio bene alla tua storia, se non la capisco (e qui mi fai la figura dell'artista d'arte contemporanea che fa linee sui quadri e nessuno lo capisce e partono le giustificazioni "siete solo ignoranti!") col cazzo che 'sta roba mi risulta piacevole.
    L'arte che si crea deve fare breccia in chiunque, chi non ci riesce... be'.

    "Ne" è con l'accento acuto, mi raccomando.
    8 su 10, commento personale: questa storia mi risulta petalosa.
  5. .
    Carina, niente di che.
    Mi sembra scritta anche bene, degno di nota è il momento: "Le risatine si fermarono quando la madre di Chloe trovò la strada per il corridoio, camminando pesantemente e frustrata verso la camera di sua figlia. Chloe raccolse velocemente la tavola Ouija, le candele, i libri e altre cianfrusaglie, le tirò in un angolo e saltò nel suo letto fingendo di dormire.", dove si percepisce con certa efficacia, a mio parere, il momento che in narratologia conosciamo come spannung; un crescendo che poi svanisce nel sospiro della madre. Davvero molto apprezzabile questo attimo, ritagliato con maggiore attenzione nella regia della mia mente proprio per l'effetto dinamico, movimentato e teso creatosi, che si eleva piacevolmente, anche se di poco (per fortuna ho registrato una certa coerenza stilistica, da quanto ho potuto verificare), rispetto al generale incedere della storia.
    Non ci sono particolari elementi terrificanti, l'espediente dello spirito che comunica con la tavola Ouija purtroppo ti fa afflosciare le palle subito, sin dall'inizio della storia; elemento, direi anche, tutto fuorché imprevedibile.
    Finale a effetto, sì - di certo non molto esplicito - ma che se lo si legge con una nostra personale chiave interpretativa può assumere anche un senso - aggiungo inoltre che questo "effetto" nel finale è comunque povero. Un creepypasta verte specialmente su questo elemento, se è floscio, mi si affloscia anche a me!
    Su una scala da 1 a 10 (nelle mie critiche ora aggiungo anche questa :rath: ) questa storiellina si becca un 6 e mezzo bello panciuto.
  6. .
    Sei assolutamente la benvenuta!
    Eccoti le prime informazioni necessarie per voi i novellini del Forum (se ne vuoi altre basta domandaggiarci!):

    - La droga la prendi da me, angolo sinistro dietro la shoutbox.
    - Kohei è il più figo del Forum. Se non conosci Kohei, t'è preclusa l'opportunità sociale.
    - Non sparare troppe stronzante come sto facendo io altrimenti certe marche di Würstel ti perseguiteranno.
    - Sentiti libera di spaziare su ogni argomento durante le conversazioni. Ti assicuro che sappiamo intrattenere un dialogo sereno e costruttivo in ogni frangente. Difatti, oltre ai tanti punti in comune che abbiamo, alcuni di noi scrivono anche, quindi se vorrai metterti in gioco con una tua storia non dovrai proprio preoccuparti. Siamo tutti sulla stessa barca, senza miserabili distinzioni!
    - I gatti sono importanti per il Forum, ma anche le galline non scherzano. Avrai modo di informarti a riguardo...presto.
    - La sezione Scuola Creepy è utile per ripassare qualcosa o per ricercare nuovi strumenti per operare nuove esperienze di scrittura!
    - Altri Racconti non è la spazzatura dello Smistamento. Sai cos'è lo Smistamento?
    - Boh.
    - Boh.
    - Ibidem.
  7. .
    La prosa non ha proprio niente da segnalare, la traduzione è semplicemente corretta; sarò io che ho freddo adesso ma il testo sembra riuscire a trasmettere una dolce sensazione di gelo e, naturalmente, la storia non fa paura - ecco perché è in Drammatico. In creepypasta.com in molti avevano fatto notare questa cosa.
    A livello soggettivo, invece, sento di dire che è una storia vuota, come se avessi letto parole riciclate che non riescono a veicolare per come dovrebbero il messaggio dell'autore. Le parole non sembrano essere state pensate con attenzione in qualità di elementi e sostanza stessa della Scrittura, l'espediente creativo adoperato qui e che ci interessa tutti. Dico ciò perché non mi ha coinvolto. La lettura così normale e priva d'uno stile interessante ha spinto me, lettore, a sorvolare qualche parola o qualche riga, come un volantino che tra una svolazzata e l'altra si appiattisce per poco sul marciapiede, prima di tornare fra le nuvole. Diverse volte mi ha portato a spingere il cursore verso la crocetta della pagina e a cercare altrove.

    Nulla di speciale, ignorabile, niente di così importante. Al finale troviamo uno specie di cliché... meh .-.

    Il significato della storia risulta gradevole, difatti, non ho nulla da dire circa la fantasia e la poetica dell'autore impressa qui, nel testo.
    A livello soggettivo, sottolineo di nuovo questo metro di giudizio che sto ora adottando, l'intera storia poteva risultarmi decente e piacevole nella sua totalità se raccontata diversamente.

    RàpsøÐy che si smista da solo xdxd
  8. .
    All’incrocio delle vie Sòlvallagata e Bræðraborgarstìgur invecchiava una casa blu, circondata da un giardino trascurato, vicina all’oceano che tangeva il freddo porto di Reykjavik.

    - La ringrazio per il passaggio... - dissi, mentre con volto concentrato provavo a tirare fuori il portafoglio dalla tasca del cappotto.
    Una volta prese le corone, le passai al tassista il quale, posando delicatamente le mani sul manubrio, mi sorrise sbadigliando e con occhi gonfi:
    - Vuole che l’aiuti a prendere la valigia, ragazzo? -
    - No, no, non c’è bisogno... posso servirmi da solo, grazie. - Risi in modo imbarazzato. Aprii il bagagliaio e afferrai con certa fatica il mio trolley che con due mani poggiai nell’asfalto, grugnendo per lo sforzo estremo.

    Quando io e il tassista ci fummo salutati definitivamente, rimasi solo in strada. Afferrai il manico estraibile della valigia, mi grattai il naso e osservai la piccola casetta che si trovava dinnanzi a me. Esalai un lento e profondo respiro. M’incamminai, determinato, nel silenzio della sera.

    ---


    Mentre procedevo lungo la strada, ricordai con un sorriso stampato in faccia la chiacchierata con la mia amica pittrice.

    - Quindi qual era il tuo nome? - Domandò Ísadóra. Studiai lo smalto rosso sulle sue dita mentre cingevano una calda tazza di tè. Sorrisi timidamente, con occhi bassi:
    - Ivan. Sono scozzese, da un po’ di anni abito a... -
    - ... Glasgow? - Socchiuse gli occhi intelligenti e si morse il sottile labbro inferiore, in attesa di conferma. Alzai rapidamente gli occhi:
    - Indovinato. Come hai fatto a... -
    - L’accento è inconfondibile. Ho vissuto lì per ben tre anni della mia vita, sai? -
    - Davvero? Era per la tua attività di... -
    - ... pittrice. -
    - Avresti la compiacenza di farmi finire almeno un frase? - Risi apertamente, strofinandomi le mani tra le ginocchia.
    - Ah, hai ragione, non ti faccio parlare, che maleducata! - Rise anche lei, avvicinando la tazza alle labbra, senza staccare gli occhi divertiti dal mio volto.
    - No, figurati. Dovresti raccontarmi tu, visto che ti avevo posto una domanda. -
    - Giusto. - Inghiottì e schioccò la lingua - Mah, ti dirò, non c’è molto da dire. Ho visitato il luogo, ammirato la cultura, veduto mostre, conosciuto artisti, registrato progressi sulla mia ricerca; tutto qui. E tu cosa fai, invece? -
    - Io? Be’... - Mi grattai la nuca e mi pulii la bocca con un fazzoletto liso e usato.
    - Dai, Ivan! -
    - Ti metteresti a ridere. -
    - No, non è vero. - Si piegò in avanti, con le braccia conserte appoggiate al tavolo, con il mento delicatamente all’insù.
    - Sono un noiosissimo filologo, ma in questi ultimi anni mi sono dedicato anche all’attività di scrittura. -
    - E mi dovrei mettere a ridere? -
    - Be’, credevo tu non mi ritenessi quel tipo di persona. -
    - Invece è splendido! E quanti libri hai scritto, di che parlano? -
    - Ecco, io... diciamo che non ho scritto “libri” in questi ultimi anni, ma ho scribacchiato conferenze, trattati, ricerche su... su una singola storia. -
    - Oh, ma allora è tutto qui? - Avvertii una leggera delusione nel tono della sua voce.
    - Sì, insomma, che dirti... - Borbottai imbarazzato, continuando nervosamente a pulirmi la bocca.
    Lei però sorrise ampiamente e mi diede un colpetto alla spalla.
    - Suvvia, stavo solo scherzando! - Poi, con fare scherzosamente provocante, si pettinò una ciocca dei suoi capelli ramati e continuò:
    - Anzi, rende la faccenda molto più interessante. Hai detto che ci hai impiegato degli anni? -
    Deglutii dopo aver bevuto un po’ di caffè e affermai con tono apatico:
    - Sì, precisamente sono otto anni che ci sto dietro, ormai. Ma questa volta... - Mi protesi leggermente, senza accorgermene. Mi fermai improvvisamente.
    - Questa volta? -
    - Vedi, Ísadóra, - mi ricomposi, tirai su col naso - Io ho faticato molto, davvero molto a capire come decifrare questo... muro insormontabile e sento, nonostante tutti questi anni, di aver compiuto appena il primo passo. Tutt’ora non mi è chiara la forma, mi sfugge completamente il suo significato, voglio dire, non c’è nulla di certo. Viaggio con l’interpretazione e l’immaginazione, questo sì, ma... - scossi la testa con sorriso amaro - ... il mio lavoro non specula sulle opere, ma le spiega empiricamente. E questa è una storia incomprensibile. -
    Mi fissava come se fossi un pazzo che farnetica cose assurde, ed invero pareva così. Sistemai il tovagliolo precisamente accanto alla tazza, deciso a proporle un esempio conosciuto:
    - Hai presente il Manoscritto Voynich? Sai di cosa si tratta? -
    - Sì, ne ho sentito parlare. - Sembrò dire con aria non proprio sincera. Allora io provai a darle una mano:
    - Era quel codice scritto in una lingua oscura, con strani disegni, agli inizi del Diciassettesimo secolo, e... -
    - Sì, sì, ne ho una vaga idea. Mi stai dicendo che come quel Manoscritto Voynich, questa storia è scritta in una lingua sconosciuta? -
    - È così. - Annuii io. Le feci segno di aspettare. Annaspai con la mano sotto il tavolo dove si trovava il mio marsupio e, dopo averlo tirato su, lo sistemai sulle mie gambe. Cercai i fogli della storia che avevo stampato e, una volta presi, li passai a lei. Allora i suoi occhi color smeraldo svaporato si contrassero in una smorfia di sdegno.
    - Cosa diamine... -
    - Cosa vedi? - Chiesi io, solamente per sentire meglio cosa ne pensava.
    - Dove accidenti hai trovato questi fogli? E perché sono scritti... così? - Disse, schiaffeggiando una delle pagine con le nocche.
    - Nella biblioteca di Glasgow. Stavo cercando per conto della mia università per lavoro, poi però ho scoperto questa storia. - Spostai il mio sguardo sui fogli - Queste pagine che vedi sono stampate, il vero libro, vecchio di quattrocento anni, è al sicuro in Scozia. -
    - E questi cosi di pongo... questi disegni alla fine... -
    - ...sono un mistero. Come l’alfabeto, del resto. - Sorrisi, finii il caffè e le rivelai un’altra cosa:
    - Ísadóra, come con il Voynich, centinaia di studiosi hanno provato a decifrarlo senza mai riuscirci. Io ho provato di tutto, ogni metodo, ogni approccio, ogni tecnica, ogni intuizione, ogni idea, ho seguito qualsiasi consiglio, ascoltato qualunque parere, impiegato tutta la tecnologia a nostra disposizione. Io adesso vorrei risparmiarti i tecnicismi, per non annoiarti... - Lei non rispose, attenta com’era.
    - Io ti dico solo che, tra coloro che ci hanno provato, qualcuno qui in Islanda ha seminato quel briciolo di speranza in me che potrebbe finalmente dare di nuovo respiro alla mia ricerca. Possiamo risolvere il codice. -
    - Quindi ecco perché sei venuto qui. - Disse stendendosi sullo schienale, con braccia conserte.
    - Esatto. - Portai i palmi a conca davanti alla bocca e ci soffiai dentro. Ísadóra approfittò di quella pausa per chiedermi, con aria vivace e ingenuamente insospettita:
    - Ma da dove viene tutto questo freddo, Ivan? Hai il naso rosso... e, Dio, sembri un cadavere! -
    - Perdonami. - Dissi precipitosamente. Una lacrima scese dagli occhi, e avevo una voglia matta di starnutire. Strofinai il pollice sul naso e chiesi:
    - Emh... hai... dico, hai un fazzolettino da darmi, per favore? -
    - Certo! Aspetta. - Tirò fuori dalla borsa un pacco di fazzoletti e li passò a me.
    Io non dissi niente e, dopo averne afferrato rapidamente uno, ci soffiai contro generando un imbarazzante rumore. Lei sembrava pronta ad alzarsi dalla sedia:
    - Ma... hai davvero freddo, per caso? Aspetta che ti prendo qualcosa di... -
    - No, no, lascia perdere, sto bene, sono a posto, fidati. - tirai su col naso - Ho preso solo un po’ di freddo, il naso pizzica un po’ ma... insomma, niente di che. -
    - Come vuoi. - disse, sistemandosi di nuovo sulla sedia - ma adesso continua il discorso. -
    Io annuii e riposi per bene il fazzoletto, tirando nuovamente su col naso. Poi, picchierellando il tavolino con un dito, continuai:
    - Questo tale, di nome Johannssonn, mi ha contattato tramite una lettera scritta. Era molto confusa e strampalata, diceva tutto e niente contemporaneamente. Non so bene come spiegarti... diciamo che il fulcro del messaggio è questo: ho trovato qualcosa che smuoverà le nostre indagini comuni. Ha accennato a una specie di codice che sembra tradurre in islandese, cioè nella vostra lingua, ovviamente, quanto scritto in questa storia indecifrabile. Forse, se quest’uomo dice il vero, riusciremo anche a comprendere il senso di questi misteriosi disegni. E sono ovviamente interessato a capire come abbia fatto a elaborare un codice del genere - sempre se, come ho detto, quest’uomo afferma il vero. -

    Em Nekasrof. Solo queste due parole, solo questi dieci grafemi, gli unici scritti con il nostro alfabeto. L’idioma non corrisponde a nessuna lingua conosciuta. Se quasi certamente non ne avete sentito parlare è per mia volontà. Non ho voluto che documentaristi, curiosi o semplici idioti rovinassero la mia esperienza con tremende speculazioni; e sì, molti potrebbero imputare a me la triste accusa di nascondere gelosamente il frutto della mia ricerca, come se fosse mio il libro e il patrimonio che possiede, ma tutto ciò è inesatto; ho condiviso il mio lavoro, ma solo con persone competenti e studiosi da tutto il mondo e attendo ancora con impazienza il momento in cui potrò mostrare davvero al mondo, in definitiva, cos’è Em Nekasrof. Ma, come ho detto prima, non c’è niente di certo, nulla di sicuro, nessuna base di partenza. Solo un’accurata datazione in radiocarbonio ci ha permesso di appurare che questa storia è stata redatta tra il 1604 e il 1614, in pergamena di Scottish Blackface, una razza ovina scozzese. L’analisi allo spettrometro ha confermato la tesi che la storia è stata effettivamente scritta in Scozia. Inutile dirvi che è stato impossibile provare ad analizzare l’inchiostro in cui il testo è stato scritto. L’autore è ignoto, e non c’è da nessuna parte qualcosa di riconducibile ad una firma. Ad averla scritta, comunque, sembrerebbe un uomo dotato di strepitosa cultura, tale da offuscare ogni nostro procedimento di analisi crittografica. C’era chi riteneva fosse gaelico-scozzese con vocali rimosse, chi affermava fosse greco antico codificato.
    I disegni ai lati del testo incomprensibile rappresentano, presumibilmente, fiere, chimere, fusioni di uomini e animali, misteriose figure terrificanti di esseri antropomorfi, o illustrazioni di bianchi prati e tramonti lunari, presenti tutti solo verso la fine della storia. In tutto, nelle 28 pagine, solo le ultime cinque sono illustrate. E così ci tengo a precisare che questo non è un manoscritto didascalico-enciclopedico. Non è un erbario, un lapidario, un bestiario, niente di tutto ciò. È un’opera che sembra guardare al futuro a livello letterario. A me viene in mente solo la fiaba, nonostante nulla di concreto porti a tale conclusione; fiaba che nel '600 si sviluppa come intrattenimento, ma anche come specchio di un’epoca in fermento, raccontando del popolo tramite il popolo, come fece in Italia Gianbattista Basile. Non a caso, ai tempi, in parecchi paesi europei le fiabe e le favole provenienti dalla tradizione orale vennero messe per iscritto. E questa storia vecchia di quattrocento anni vuole raccontarcene una, ma di sicuro non nel modo in cui lo fecero le altre. Inoltre tra gli innumerevoli misteri, uno mi ha tormentato di più: il preciso posto in cui è stata concepita la storia.
    Ho domandato e indagato ossessivamente di più su quest’ambito della ricerca rispetto a ogni altro. Certamente, la pelle lascia pensar che sia stata scritta proprio in Scozia, anche se non è del tutto sicuro - ma del resto è in Scozia che è stato ritrovata, e ciò restringe il campo di ricerca; ma non so spiegarmi sul perché il libro fosse sepolto nella biblioteca di Glasgow. Sono sicuro che il manoscritto abbia viaggiato, da un monastero forse fino alle mani di qualche studioso della città. Tuttavia nessuno ha saputo fornirmi informazioni su...

    - Oh, si è fatto tardi. Dovrei andare. - Disse la mia amica, alzandosi speditamente dalla sedia, fissando l’orologio da polso. Io tirai su col naso di nuovo, e dissi precipitosamente, senza pensare:
    - Dovremmo rivederci. - compresi la mia avventatezza, e allora corressi il tiro - In fondo abbiamo parlato... quanto, dieci minuti? -
    - Forse anche di meno. - Sembrò pensarci un attimo, poi continuò:
    - Sono libera stasera. Se vuoi possiamo prenderci qualcosa. -
    Lei stava afferrando la borsa appesa allo schienale della sedia, quando poi, vedendomi piuttosto taciturno, sorrise con finezza infinita:
    - Posso porti una domanda, Ivan? -
    - Uh? Sì, certamente. -
    - Perché hai consumato i tuoi ultimi otto anni per quella storia? Non hai mai pensato fosse un falso, o semplicemente il frutto di qualche colto perdigiorno o abile ciarlatano? -
    - Ho sempre pensato a tutto, Ísadóra. E questa è l’ipotesi che più temo. - mi sfregai le mani, mi alzai dalla sedia dandomi una botta energica con entrambe le mani alle gambe e afferrai il marsupio - Ma non posso rinunciarci. In fondo, è il mio lavoro. Sapendo che la mia vita cambierebbe vertiginosamente in meglio una volta decifrata questa storia, voglio comunque andare fino in fondo alla faccenda, più che per ogni altra cosa, solo ed unicamente per il mio disinteressato amore per la conoscenza. -
    Ísadóra allora corrucciò il volto:
    - Be’, spero tu non ti sia offeso. Non volevo provare a... -
    - Sta’ tranquilla. - Risposi con tono leggero; col pollice mi grattai la tempia e fissai l’orologio da polso:
    - Ora dovrei prendere un altro taxi per andare dal tizio di cui ti ho parlato, mi fermerò per un po’ ma credo di potercela fare. A quando, stasera? -
    Lei annuì con gli occhi e si congedò da me:
    - Alle 19:30. E questa volta parlerò io, se ti andrà. -

    Un mio amico del corso di pianistica di Reykjavik mi aveva tanto parlato di lei. Questo si presentò a me vicino le fermate dei taxi dell’aeroporto in cui atterrai alle 15:01 (dove ci eravamo dati appuntamento) assieme a Ísadóra che, silenziosa e sorridente, sedeva in una di quelle ringhiere di ferro anti-sosta. Ci fece presentare, poi quello disse d’andar di fretta e mi affidò sbrigativamente a lei:
    - Ísadóra, pensaci tu a lui, portalo a Slippbarrin. Vedi se continuano ad essere aperti anche dopo pranzo, quei morti di fame! - Sbadigliò toccandole fugacemente la spalla, prima di correre via goffamente tra le strade fumose.

    ---



    All’incrocio delle vie Sòlvallagata e Bræðraborgarstìgur invecchiava una casa blu, circondata da un giardino trascurato, vicina all’oceano che tangeva il freddo porto di Reykjavik.

    Percorso un semplice sentiero limaccioso ed evitato il piccolo garage, mi ritrovai dinanzi la porta della casa; battei le scarpe sporche di fango sul lastricato, suonai il campanello e mi pettinai i capelli disordinatamente.
    - Sì, chi è? - Domandò prontamente una voce gracchiante da dietro la porta.
    - Ivan Dunn. - Risposi.
    Inaspettato silenzio. Poi riprese improvvisamente:
    - Il filologo? -
    - Sì, sono io. -
    - Ecco, aspetti un attimo. -
    Quando la porta si spalancò dopo il crepitare di due lucchetti, vidi un uomo spaventosamente alto, con il collo deforme e il cranio allungato. Oltre al suo sorriso sdentato e alle rughe profonde come solchi nella sabbia, notai che al collo indossava un medaglione con una chiave completamente gialla, come fosse il colore di una pergamena.
    Mi concesse una stretta di mano eccezionalmente lunga:
    - Edgar Johannssonn. Le ho scritto una lettera. - Disse, senza smettere di sorridere, inebetito. La sua voce crocidante sembrava ossessionata.
    - Sì, è così. - Tirai su col naso. Di nuovo il silenzio della sera. Proseguii col tono di chi vuole educatamente rinfrescare la memoria, con un certo fastidio a causa del mio naso:
    - Mi doveva far vedere il suo lavoro... il frutto della sua ricerca. -
    - Certo, il mio lavoro. - Esalò, con lo sguardo perduto nel nulla.
    Poi ritrovò gli occhi nei miei:
    - Entri pure, ecco, posi lì la sua valigia, accanto al sofà. - Suggerì, indicando l’interno della casa.

    Una volta nel salotto, direttamente collegato all’ingresso di casa, mi sedetti sullo scomodo divano aspettando con capo chino l’arrivo di Edgar, che si era diretto in cucina, dato che mi aveva fatto aspettare lì. Ruotai il capo e osservai meglio.

    La sua casa profumava di polvere e ispirava cupa rinuncia. Ogni parete del salotto era rivestita di scaffali in legno con tomi alquanto vecchi e cornici di figure medioevali, perlopiù bizzarre chimere. Davanti al davanzale dell’unica finestra che dava al giardino asperso dalla sera, c’era un mobiletto con una cornice, dei centrini, un vasetto in bianca ceramica e alcuni elefantini di legno.
    Non c’era traccia di televisioni, radio, qualunque elettrodomestico. E la sua casa era terribilmente oscura.
    - Scusa se ti ho fatto aspettare, giovane! - Urlò dalla cucina Edgar. Io sobbalzai, tirai su col naso e urlai a mia volta, con tono cortese:
    - Per cosa, signor Edgar? -
    Nessuna risposta. Poi dallo spiraglio della porta della cucina la luce si chiuse e fuoriuscì Edgar, curvo, con in mano un pentolino bollente:
    - Devi essere paziente, piccola! Abbi pietà per questo povero vecchio! Non riesci ad avere pietà di me? Smettila di piagnucolare! -
    Poi si diresse nel corridoio, dove non ero più in grado vederlo, ma, pur con voce piuttosto sbiadita, riuscivo ancora a sentirlo:
    - Non piangere... no, no, cattiva, cattiva! Non vogliamo fare come prima, no? -
    Il crepitare sordo di una porta accompagnò queste ultime parole. Dopodiché, non lo udii più.
    Non osai domandarmi neanche in che cosa consisteva quella ridicola scenetta a cui dovetti assistere.
    Aspettavo solo di poter vedere il signor Edgar, così permettendomi di conversare in merito alla sua scoperta. Ma, dopo minuti interi trascorsi in quel maledetto divano, quell’attimo non si presentò mai. Non me la sentivo di chiamare ad alta voce un povero vecchio, e così decisi di alzarmi e di fare un giro del salotto, giusto per provare a sgranchire un po’ le gambe. Osservai la porcellana nella credenza accanto all’ingresso, le sobrie decorazioni del tappeto, il fragile lampadario, il giardino, i suoi fiori, una lapide in legno situata sotto un albero, il tutto mentre gironzolavo tra le varie pareti alla ricerca di qualche titolo interessante inciso sui libri negli scaffali. Poi dalla finestra irruppe un po’ di brezza ghiacciata e fu lì che notai, nello splendido silenzio che ornava di pace il mio udito, una porta di legno massello piuttosto consumato, intagliato con specchi e riporti, che proprio il vento proveniente dalla finestra faceva cigolare con ritmo irregolare. Mi diressi verso quell’uscio rumoroso con passo calmo e lasciai socchiusa la porta.

    La fredda luce di una lampada rischiarava una scrivania ricolma di fogli, appunti e note scarabocchiate. Le pareti erano rivestite da cornici che raffiguravano le illustrazioni proprie di Em Nekasrof, poste alla fine del racconto. Tramonti lunari, pascoli lucenti, esseri antropomorfi e mostruosità spaventose.
    Ero nello studio del signor Johannsonn, una cameretta tanto piccola quanto cupamente incantevole. Fui preso da una foga febbrile e totalmente inaspettata, come se tra quei fogli si celasse, in qualche modo, il destino dei miei ultimi anni. Mi fiondai immediatamente sui documenti della scrivania, e fu lì che vidi il testo fotocopiato della storia e la sua corrispettiva traduzione in islandese.
    - Porca puttana... - sussurrai a denti stretti tra me e me, con occhi rapiti al testo che avevo tra le mani. Cercando velocemente altrove, tra altre decine di note scritte in islandese, a un certo punto mi illuminai, riconoscendo la lingua inglese in appena due fogli. Afferrai avidamente il primo per studiarlo meglio.
    Uno sembrava una lettera, scritta con ordine, e da quel poco che avevo potuto constatare, la calligrafia usata era la stessa del signor Johannsonn. Non chiedendomi altro, andai nell’altro testo che scorsi tra le centinaia di scartoffie che lo stavano soffocando. Una volta affrancato da quel mucchio di cartacce, lo osservai meglio. Il mio cuore si sciolse come gin alla gola. Il testo che ho studiato per otto infiniti anni si parava davanti a me in corrente inglese.
    - Questa... questa me la deve spiegare, signor Edgar! - Sibilai, sorridendo avidamente prima di cadere in un religioso silenzio; in piedi, coi muscoli tesi, cominciai lietamente a leggere a voce bassa:

    EM NEKASROF - Traduzione approssimativa



    Quante luci appese sulle rive di Arcaibh? Oggi si fa festa, si fa festa reale!
    Il Re raduna con una corona le tre nazioni. Oggi si fa festa, si fa festa reale!

    Quando fu la prima luce indocile a muover verso il mare, a dispetto del sonno dei locali in attesa, quasi sembrò confessare: “Sono l’ultima mollica del pane eterno, Dio della misericordia! - Accendimi come acceso ho la luce in dono per te!”
    Ma essa non destinò all’Eterno il sapore, ma il più truce dei volti di Alba miserabile. Così ogni buon barlume cadde con la pioggia, il cielo s’oscurò inverosimilmente, come inchiostro infinito in bianche pagine. Buio permase giungendo presto.
    Un ragazzo vide quella luce lasciare la riva pietrosa; tutti gli abitanti della Meginland lungo la brecciosa Kirkwaa seppero di questo oltraggio, e immediatamente seppero a chi attribuire la colpa di tale misfatto - e dubbio non v’era.

    Così, una vecchia mendicante sciolse frettolosamente i teli del proprio capanno per coprire il bambino dalla pioggia - corsa inaspettata intrapresero verso il porto di Kirkwaa, come desideravano i bravi padri di famiglia.

    ≪E sentiamo - padri - di chi era questa spietata “prima luce” che tutte le feste rovinò?≫ Domandò così l’ammiraglio, nell’oscurità del pontile provato dalle onde. I bravi padri di famiglia dalle cineree dita agitarono le labbra e i fiumi di lanterne che portavano in mano, barbugliando due nomi. Il nome della vecchia mendicante e del bimbo che con sé portava. Loro erano le cause ultime della pioggia improvvisa - e più in generale - dell’ira divina e della notte imperscrutabile.
    La vecchia strinse al suo petto il piccolo, dimenandosi per sconfessare ancora una volta, dall’infinito della sua miseria, le ragioni degli uomini. I bravi padri di famiglia ulularono minacce.
    ≪Tutte idiozie!≫ tuonò l’ammiraglio ≪Bambini, poveri mendicanti, son questi i mali oggigiorno, immersi come siamo nella corruzione e nella rovina? Essi non gettano alle ire la gloria di Dio misericordioso - e come possono essere solo loro il male che ha irato il Signore, ché tali creature povere e misere con amor sostiene più di tutti! Vergognatevi!≫
    Un bravo padre di famiglia portò la sua lanterna al viso, dando le spalle a tutta la folla, mentre le guance gelide venivano bagnate da gocce imponenti:
    ≪Noi sappiamo, ammiraglio, quale pena porta Ivan, figlio di miseria e adulterio, nato dal disonore e dalla menzogna. Esso è prole del diavolo e cresce tra noi e ha gettato in questo giorno di reale unione ogni nostro sforzo ai sorci e ai maiali!≫ Il bravo padre di famiglia allora puntò il cielo con un dito: ≪La pioggia. La pioggia spegne i lumi delle luci e oscura il chiarore del cielo, e Dio non tollererebbe mai questo a noi suoi fedeli seguaci che vogliono solo festeggiare la stabilità in terra, nossignore, no! Noi vogliamo che questi portatori del male se ne vadano... altrove.≫ Parlò così, con smorfia maligna e stizzita, con occhi contratti dalla sicurezza.
    La vecchia mendicante sforzò gli occhi per non versare lacrime di odio e terrore. L’ammiraglio con un lazzo di divertito sdegno, incredulità e incertezza squadrò gli uomini agitando le pupille, sgranando gli occhi come fossero sassi rotondi.
    ≪Voi... voi delirate! Nessun bimbo perirà oggi, e queste navi...≫ disse, indicando con forza i vascelli ancorati alle sue spalle ≪ ...queste navi non salperanno per voi, un’incredibile accozzaglia superstiziosa! Ah, ma raggiungere le rive delle contee fin’al fiume Cluaid, verso Glaschu che avidamente bagna, impresa facile a parole per voi contadini ciarlatani, lì che sempre andate per trovare i figli lontani! Sono usato, io, vecchio ammiraglio, come traghettatore da voi zotici e ora dovrei far morire lontano da siffatte “terre sacre” queste povere creature, una vecchia... e un bambino! Dio misericordioso, toglietevelo dalla testa! Tornate indietro e non seccatemi con proposte impraticabili. Io non sarò fautore della morte di nessuno, né mai li ospiterò nelle mie navi per portarli a morire a largo - codeste son l’intenzioni - possiate anche rovesciare il mio mondo. Sapete che “luce” è solo un altro modo per dire “preghiera”. Ebbene, andate anche sotto tre tempeste a pregare Dio, se tanto retti e ligi all’unione personale siete. In fondo, questa è festa politica, non religiosa - non vedo quale sia il nesso.≫
    La folla in coro dissentì. Il bravo padre di famiglia che dava le spalle a tutti li fermò con una mano, e fulminò l’ammiraglio:
    ≪È doveroso informare l’ammiraglio qui presente che la nostra volontà non è quella di uccidere nessuno - altrimenti non ci saremmo qui da lei recati.≫ Con una mano indicò la vecchia e il bambino tendendo rigidamente il braccio tamburellato dalla pioggia, e alzò la voce considerevolmente: ≪Voi ci mancate di rispetto, insultandoci e venendoci contro. Noi affidiamo a voi questa disgraziata e il bimbo e la maledizione che hanno afflitto a questa comunità e alla sua retta Chiesa, così distruggendo la tranquillità e il Sole che occorre per celebrare come è bene che si celebri. Li conduca il più lontano possibile dalle nostre rive, sì lo chiediamo, ovunque lei desideri, a Glaschu come voi affermate o altrove in altre nazioni; tutto fuor di qui.
    Mi sembra chiaro: non avete altra scelta se non quella d’eseguire la nostra ragionevole richiesta - che non vede né morte ma né compassione. Oggi è festa reale, e la gloria non accetta demoni di scocciatori che prima del tempo stabilito affidano alle nostre onde luci falsate da falsa pietà!≫
    L’ammiraglio dalla barba color del vino borbottò qualcosa a sé, massaggiandosi il collo e grattandosi poi la barba; poi si decise per evitare maggior inconseguenze al già fragile dialogo con la calca di uomini.

    La vecchia mendicante col bambino s’imbarcò assieme all’ammiraglio. Quest’ultimo si fece pagare con una somma simbolica. La pioggia smise dopo qualche ora.
    Quante luci imperlano le acque di Arcaibh? Oggi si fa festa, si fa festa reale!
    Il Re raduna con una corona tre nazioni. Oggi si fa festa, si fa festa reale!

    In viaggio sulle acque fredde, la nave galoppava tra i teli del mare.
    L’ammiraglio fece molte domande, mettendo in fila le parole facendo ordine e cortesia. La donna, disabituata alla rara gentilezza umana, non esitò a rispondergli. Un giorno cenavano l’ammiraglio e la vecchia assieme ad altri assonnati marinai ebbri di vino, la cui testa poggiava sul legno della tavola come gatti su un muretto.
    ≪Lei ha davvero pregato Dio prima del tempo stabilito? Lo si doveva fare tutti assieme, lei sa.≫
    ≪Lo so bene, ammiraglio. Ma quei bifolchi mi avrebbero certamente impedito di agire, credendomi indegna. Sarebbe accaduto il peggio, e io ne avevo paura. Ho fatto male, forse?≫
    Attimi di silenzio.
    ≪Il bimbo allora è davvero prole di Satana?≫ Chiese deglutendo l’ammiraglio mentre divorava del merluzzo, con labbra sudice di olio e carne, con fare disinteressato e per niente sospettoso.
    ≪L’ho trovato perduto nel fango della strada dove mendicavo.≫ La vecchia ninnò il bimbo, puntandolo con occhi rinsecchiti: ≪Lo guardi! È ancora un povero bambino, senza parole pronunciate e senza cammino sopportato - e tale creatura abbandonata dovrebbe essere prole del Diavolo?
    Loro credono io sia una puttana e che abbia concepito tale creatura concedendomi a un forestiero senza uno straccio di onore, ma non è questa la storia che corrisponde a verità.≫ La vecchia sistemò il suo scialle pesante, cullando il bimbo con più veemenza ed esclamando con occhi afflitti: ≪Ah, ma nessuno mai mi ha dato ascolto. Povera me, oh povera me, quanto oltraggiata e beffata fui per questo piccino!≫
    ≪Lei è stata cacciata dal suo paese natio solo per il bimbo o vi sono ulteriori motivazioni? Insisto acciocché lei stia in pace con se stessa e si senta serena in questi attimi difficili. Io posso comprendere.≫

    Si intromise un marinaio, che alzò la testa dai calici di vino e borbottò tante amare parole. L’ammiraglio lo guardò un poco e dopo si girò, supplicando con occhi gentili la signora, tanto che questa lievemente s’indispettì:
    ≪Lei mi vuol beffare? ≫
    ≪Io no.≫
    ≪Debbo fidarmi?≫
    ≪Credo di sì.≫ La vecchia allora si distese nella sedia e fissò il ponte di coperta sopra il suo naso, rincorrendo i suoi pensieri in gara col dolore:
    ≪La povertà non profuma d’ipocrisia, mio caro. I poveri sono i volti della gente che si nasconde nell’agiatezza e la felicità. Guardarci è come guardare la parte più nuda di se stessi, fa male, il naso s’arriccia e ti porta lontano - non un commento, non uno sguardo. Ah, mio ammiraglio, ma se in questi ultimi anni fossi stata ricca, bella, fossi stata nobile come un tempo ero prima di cadere in disgrazia, non mi avrebbero chiamata puttana, strega, infame, ladra perfida - oh no, per quello sono sempre stata sotto la luce del sole, altro che naso arricciato! Lei capisce che questo bimbo non è altro che vittima, vittima le dico, della mia reputazione e di me che sono povera e vecchia oramai. A loro non importava nulla della festa, nulla della pioggia, volevano trovare il modo di cacciare me e il bambino. A differenza degli altri innumerevoli disgraziati, a portare sventura ero sempre io, con sortilegi e preghiere a Satana, solo io.
    Solo io. "Perché?" si chiederà - e io le rispondo così: non lo so. Solo favole su favole, menzogne su menzogne. Io che alla mia veneranda età partorisco un bambino che adesso, proprio adesso ha poco più che qualche mese? Ciò è insulso - eppure è così che rispondono alle loro stesse accuse: sono la mano del diavolo, e tanto basta per spiegare l’inspiegabile che han costruito su di me. Troppo ho subìto, ahimè, ahimè, Dio mi benedica e benedica lei che mi ha ospitata qui sotto minaccia di quei bifolchi!≫ Disse così, stringendo con foga riconoscente la mano dell’ammiraglio. Lui arricciò i baffi color del vino e disse:
    ≪Comprendo bene le sue parole, mia signora. Io ringrazio lei per essersi fidata di me e del mio buon udito.≫ L’ammiraglio si pulì la bocca con il braccio e poggiò con delicatezza le mani sul tavolo: ≪La porto in un luogo sicuro, sotto la protezione del consiglio reale di Danimarca. Lei sa?≫
    ≪No.≫
    L’ammiraglio impugnò il suo boccale, alzò l’indice in segno di attesa, inghiottì un ulteriore sorso di vino e deglutendo chinò leggermente il capo:
    ≪Un’isola immensa e distante. Troverà rifugio in un paese accarezzato dalle acque oceaniche, ricco di fattorie e modeste opportunità. Brava gente, non superstiziosa, accetta ogni straniero e non esita a prestare aiuto.≫ L’ammiraglio alzò lo sguardo e la scrutò con preoccupazione ≪ Lei è... pronta a sopportare tanta lontananza da casa? Preparata a vivere una vita nuova?≫
    La vecchia sospirò: ≪Io sì.≫
    L’acqua s’infrangeva nelle assi della nave come flutti nei neri scogli del Sud, e il silenzio spesso infranto dalle lievi onde cullava poco il piccolo Ivan, che non smetteva di piangere per via della scomodità e la nausea della navigazione.
    La vecchia lo strinse a sé, dondolandolo e mettendogli un dito nella bocca per farlo rilassare, e chiese all’ammiraglio:
    ≪E questo paese in cui lei mi sta portando... come si chiama?≫
    ≪Non ricordo bene...≫ si grattò la fronte ≪...io lì ci son andato due volte nella vita - ma poco male. Ci saremo a breve, qualche giorno soltanto dovrà attendere.≫

    L’ammiraglio caduto in disgrazia faticava a riconoscere la sua infima condizione. Capiva il disonore e il tremendo affronto della vecchia - così spiegando il suo melanconico interesse. Ad oggi lavora in un vascello fatiscente, con drappi al posto di vele e sorci al posto di uomini. Un tempo guidava una dorata flotta e audaci militari, ma poco gli bastò a peccare e ad attirare le ire degli uomini reali. Fu cacciato via dalle navi - naufragando in una bonaccia di pensieri ricolmi di odio. Tanto astio provava per l’Inghilterra e la sua monarchia che da tempo infinito sognava di trottare via e giungere in una nuova terra fertile per assecondare la sua natura, la sua fortuna, la sua persona, ma qualcosa lo teneva ancorato in Gran Bretagna.
    Forse l’amore del mattino vissuto di nuovo sotto il cielo di casa.

    Due notti e due dì trascorsero in attesa di vedere l’isola di ghiaccio tumefatta.
    ≪Terra? Siam forse giunti infine?≫ Chiese la donna, guardando fuori da una finestrella che dava alle spiagge invase dalle onde.
    ≪Non ancora.≫ Rispose l’ammiraglio, fissando la cartina geografica con concentrazione: ≪Il paese dove lei alloggerà è lontano da qui, avulso a queste coste ignote. Dio solo sa perché questa inutile terra sia stata colonizzata infinito tempo addietro.≫
    La signora chiese del latte per il piccolo, ne ottenne uno di qualità infima. Era preoccupata, e l’ammiraglio le toccò una spalla:
    ≪Stia serena, signora. Vi saranno sonni tranquilli da oggi in poi. E si spera, sonni con un tetto sulla testa e il caldo di un camino.≫
    La costa fu passata fino a giunger dopo tante miglia il paese, che ben correva lungo le rive e l’entroterra. Un pontile per le merci e tante fattorie - capanni lontani e legni imponenti. L’ombra di un campanile carezzava le bianche nuvole. I bimbi e i loro genitori uscirono dalle case e i primi accorsero a vedere la nave straniera, i secondi per controllare che non si cacciassero nei guai.
    Suonò una campana.
    Rintoccò la quindicesima ora a Reykjavik.
    Come erba variopinta le vesti del popolo del paese erano fissate attorno al pontile: ciano, oro, bianco e verde. Mosaici di gente dalle tinte spruzzate dal sole del meriggio.
    Chi portava in testa una grande brocca, chi teneva un sasso in mano e chi carezzava le mani dei propri figli. Lunghi capelli e occhi scheggiati. Una fontana lontana svezzava il silenzio con un fumoso fruscio, tanto profumato e delicato e naturale.

    Scesero la donna e il piccino provando le assi di legno - e l’ammiraglio salutò con grazia e gentilezza. La donna fece altrettanto, e guidò la mano del bambino simulando amabilmente il gesto del saluto.

    E l’ammiraglio scomparse dalla vita di Ivan.

    Il buon capo del villaggio accolse a braccia aperte i due nuovi arrivati come se ricchi doni portassero con sé. Una strada venne loro mostrata - nebbiosa e cupa come una tempesta di carbone. Stava per piovere a Reykjavik.
    “La via della fratellanza” - ove invecchiava una casa blu, vicino all’Oceano che costeggiava il freddo porto del paese.
    ≪Buone nuove io porto, signora!≫ Disse il buon capo del villaggio, con un sorriso issato sulla faccia come uno scalo: ≪Ostello lussuoso invero, dove un vecchio dottore, figlio dell’illustre Johan - brav’uomo - tiene con sé tanti libri e insegna ai nostri giovani antiche lingue e le arti. Tanti pensieri per Johan, tanta dedizione impiegò per formare il figlio, e ora il droghiere dorme nel giardino di casa. Lei alloggerà in casa, ovviamente... per questi primi giorni. Questo è l’unico ostello disponibile in città. Si rilassi e si ambienti - torni qui domani e trovi un’occupazione. La prima settimana la paghiamo noi, vitto e alloggio solamente, in solidarietà, ma deve dimostrare che anche lei può ripagare la nostra clemenza. Un carro semplice per lei e per il bimbo attende vicino alla piazza. Ci vorranno dieci minuti.≫
    Sedeva un capo, un pupazzo e un animale venoso, viscido e acquoso.

    Camminando, dal fango una coccinella riemerse senza i colori - dal cielo lacrime di angeli cadevano. Il carro correva, battendo il vento - la fanghiglia disfatta imbrattava il tempo e la nebbia della strada. La vecchia e il bambino scesero infine dopo pochi minuti e raggiunsero con passo lento e raggelato l’ostello lussuoso immerso in di scuro e gelido verde le piante colorate. Pioggia leggera.
    Da una finestra di glaciale vetro un voce si sporgeva.

    ≪Forse è lei la donna che qui alloggerà? ≫
    ≪Caso vuol che sia così, mio signore!≫ Sospirò la vecchia, che rispose prontamente.
    Si mostrò il figlio di Johan.
    Un uomo orribilmente alto, con il collo deforme e la scatola cranica dilatata estremamente. Oltre al suo riso privo di denti e alle rughe avvallate come tomi e cuscini, portava sulla becca veneziana un ciondolo con una chiave completamente ocra, simile a una pergamena.

    Pulita, vestita a nuovo come la bambola in un mobile, la vecchia si occupò del bambino, assistendolo fino al sonno reciproco.
    S’assopì tra le sinfonie degli augelli - meditando per gl’innumerevoli lutti, guardando le alme con cui convisse confabulare, mostrandosi per ciò che erano: pura e semplice follia tra le dita degli alberi. Che fervida immaginazione, la nostra donna! Ma le pagine del pane raccontano la verità solo a chi è capace d’udirne il sapore. E nella quotidianità di ogni storia si cela il destino che attende solo di essere scartocciato con avidità.
    Ivan s’è svegliato. Sceso dalle ginocchia della donna, da solo ha gattonato verso il salone dal caldo legno, era appena calato il sole e una calda brodaglia profumava l’ostello lussuoso.
    Si svegliò la vecchia poiché il bambino frignava, disturbato dalla fame e dalle urla.
    Le urla di una donna rinchiusa nella cantina.
    Passarono due attimi e si ripresentò il figlio di Johan rientrato dalla neve con un po’ di legna. Diede un calcio alla porta, inciampò, un ramo rotolò verso una vecchia cassa impreziosita con un profumo di delizioso e raro radicchio. Imprecò.

    Chiuse a chiave l’entrata.

    ≪Urla?≫ Domandò il figlio di Johan, pitturando la sorpresa nel volto diluendo prima i colori dell’affronto e poi dello stupore, poi rigirandoli insieme nel grande quadro ch’era il suo sguardo. Fece cadere la legna come grandine sui secchi.
    ≪Non so cosa lei abbia sentito, mia cara donna. Qui le uniche grida erano di mio papà con i suoi sguatteri, e lui di certo non cammina più né ha voce da vendere! Certo, dorme soltanto, e dorme eccome! Sentitelo come russa!≫ Rise con violenza, guardando dalla finestra la lapide di suo padre, che aveva sepolto sotto un albero. ≪Ma guai a me, svegliarlo, poi! No, assolutamente, sia mai, sia mai...≫ farfugliò infine, grattandosi con forza i folti capelli inumiditi dalla neve.
    La signora altro non si chiese - ma ricorda bene quelle urla che, sentendo voce estranea, chiedevano aiuto e speranza. A queste urla non rispose, tuttavia. Volle andarsene, abbandonare tutto, denunciare l’uomo, e lasciare anche il pargolo al misero destino che non valeva la precarietà della sua vita, almeno fino a quando la situazione non si fosse spenta definitivamente. Chiese comunque:
    ≪Chi s’occuperà del bambino quando starò via per il lavoro?≫
    ≪Direi un valido aiutante, mia signora, tra i miei allievi ci sarà di sicuro qualcuno disposto ad aiutare. Dove si recherà domani?≫
    ≪In piazza, dopo la messa.≫
    ≪Messa? Oh!≫ Il figlio di Johan recupera un’informazione dagli scaffali della memoria: << Domani il valido aiutante non c’è.≫ Sospirò con fare ripugnato.
    ≪Orbene?≫
    ≪ Direi... ≫ dondolò la testa. Poi schioccò la lingua in segno di certezza. ≪...direi che me la cavo bene anche con i bambini. Sì, signora, non si preoccupi, mi occuperò io di lui quando starà via. Vero, Ivan?≫ Il suo sorriso ombrato dalla fioca luce del calderone accompagnò queste parole, mentre allungava le mani infreddolite alla brace.
    Quel sorriso venne subito smorzato, e le sue labbra si serrarono con rabbia infinita.

    Si sentì un disgraziato urlo di supplica dalla...


    - ...cantina. -

    ---





    Ivan pensava a sua madre, la prima volta che lo portò nella grigia periferia di Glasgow a giocare con le giostre azzurre e gialle.
    Ricordava - molto frammentariamente - della campagna dove i fiorai pitturavano di rosso le loro rose bianche la cui tinta colava sul marciapiede di quella stirata strada di campagna, circondata da alberi dalla verde chioma; un largo viale ch’era sempre immerso in quell’appetitoso profumo di pane appena cotto delle piccole locande vicine, con quelle immense vetrate verdi e quelle grandi pozzanghere nell’acciottolato circostante dove galleggiavano le foglie.
    Ricordava del cielo dorato, del pallone sgonfio che era ancora appeso tra i rami del parco dove giocava.
    Ricordava anche della casa spoglia dei suoi nonni materni, casa che sua madre abbandonò a diciotto anni, coi bicchieri sempre pieni di acqua di rubinetto e con la tovaglia ingrigita dai freddi raggi del sole pomeridiano. E ancora, quando con la mamma era appena uscito, mano nella mano, dalla Glasgow Royal Infirmary, l’ospedale vicino alla cattedrale della città, in visita al nonno materno.
    In quei bianchi materassi, ricordava Ivan, il nonno sembrava appassire come i cardi nel vaso che stava accanto al suo letto, l’unico pieno di fiori in quei quattro comodini di quelle quattro brande di quei quattro vecchi in quella bianca stanza d’ospedale. Comodini che custodivano sempre sopra di sé un vecchio rosario e una Sacra Bibbia; quel giorno, però, solo nel comodino del nonno v’erano anche una rivista di automobili d’epoca e un paio di grandi occhiali appisolatisi sopra.
    Ivan quasi si commuove solo a ricordare la pura allegria del nonno, delle sue lacrime di autentica gioia che scendevano nel suo sorriso sdentato mentre rideva tra un colpo di tosse e una carezzata ai capelli. Il nonno narrò con meticolosità le vicende che, tra le tante che da ammiraglio della marina aveva vissuto, riteneva più interessanti da raccontare a un bambino; con occhi sgranati, con respiro greve e con le braccia congiunte al petto, immobili come quelle di una pietosa mummia, si lasciava a un piacere poco compreso dal mondo di oggi. Un lusso che gli altri anziani nei letti accanto, con un socchiuso sorriso amaro, contemplavano con lacrimevole rassegnazione.

    La mamma stava distaccata, con il capo e la spalla destra appoggiata sul legno dell’uscio della porta, con gli occhi calati pazientemente sul pavimento e con le braccia conserte. Non parlò con suo padre, ma, dopo dieci minuti dalla visita, disse solo:
    - Ivan... Ivan! Dai, è tardi, dobbiamo andare. - Spostandosi i capelli. Stava cronometrando il tempo dell’incontro.
    Il nonno interruppe il suo racconto ritrovando lo sguardo nei capelli scuri di sua figlia. Ivan era incerto, poiché il nonno doveva ancora concludere la sua storia. Questi, allora, sussurrò spingendogli delicatamente la spalla verso la madre:
    - Va’, figliolo, obbedisci a mamma. Finiremo la storia un’altra volta. - Schiacciando un vistoso occhiolino. Lo lasciò sorridendo ciecamente con la bocca sdentata. Rimase fermo dov’era.
    Guardando sua figlia allontanare Ivan dalla stanza, il nonno non poté non pensare a sua moglie, oramai defunta, che sopportò ogni genere di affronto e voce ingiustificata da parte del vicinato, che vedeva la povera donna, sempre in attesa del marito, come una squallida traditrice. E quando il pover’uomo tornava, lo faceva sempre con la puzza di alcol addosso.
    In contrasto con le bianche pareti dell’ospedale, gli occhi neri del nonno s’erano allagati nel dolceamaro ricordo della vita passata, navigata tra quegli errori che sua figlia non riuscì, ormai raggiunta la maggiore età, più ad accettare. Lei si trasferì all’arcipelago delle Orcadi, dove abitavano degli amici giornalisti conosciuti in estate, per rifarsi una vita senza più l’oltraggio di essere figlia di un padre assenteista e ubriaco e di una madre rovinata dalle chiacchiere maliziose della gente.
    E così la madre di Ivan, da quando lo aveva abbandonato sull’uscio della porta di casa, non provò ad avvicinarsi più a lui.
    Ma, per il giorno del suo compleanno, concesse al nonno questo regalo: lasciargli vedere suo nipote e sua figlia per la prima volta dopo nove anni, almeno prima di morire.
    Infine, prima di svegliarsi, Ivan si abbandonò al ricordo della sua auto ribaltata e delle sue ossa sfracellate sul davanzale della macchina. La disperazione del camionista, la sua faccia bianca come il buio gelido e impassibile dell’eternità.

    Polvere nelle mani. Fetore di cibo inscatolato e vernice.
    Vista annebbiata. Un rivolo di sangue solletica la tempia sinistra.
    Ivan, dopo aver riaperto lentamente gli occhi gonfi dal dolore, alza lo sguardo battendo le ciglia come se stesse vedendo per la prima volta il miracolo della vita.
    Dalla muffa del soffitto cadono ritmicamente delle gocce d’acqua sporca.
    Con movimenti intorpiditi e traballanti sposta le pupille scombinate dalla muffa agli arti. Le gambe erano state lasciate libere. Le muove un po’.
    Apre gli avambracci fino a spingere al massimo della distanza le catene arrugginite, dopodiché li fa scivolare accanto ai fianchi con rassegnazione nel pavimento sudicio di polvere.
    Attende due secondi.
    Il labbro superiore comincia a tremare, e con le pupille nega inorridito quanto sta vedendo. Passa almeno dieci secondi a fissare le sue braccia incatenate prima di comprendere a pieno la situazione. Inchioda la nuca al muro. I suoi occhi si riempiono di secche lacrime e le guance si contraggono dall’orrore. Spalanca la bocca, creando colonne di saliva dalla lingua al palato. Continua ad indietreggiare inutilmente con il busto, mentre esalando un silenzioso fiotto d’aria geme, talvolta singhiozzando.

    Ivan! Ti sei svegliato, tesoro? Ti lascio ancora dieci minuti! Echeggia così una voce incessante e cupa. Sembra come estraniata dal mondo, la voce gracchiante del signor Edgar, come fosse una risonanza infernale. Ora il vecchio continua a ridere con sordi colpi di glottide, ritmicamente e senza fine, come fosse una voce maledetta proveniente da un’anima guasta.
    Sto per urlare, maledizione, ora urlo, ora chiamo qualcuno!
    No, non facciamo cazzate, continua a fare silenzio. Sappiamo chi ci ha colpiti alla tempia, sappiamo dove siamo. Urlando come degli idioti saprà prima che ci siamo svegliati, no? Ci ha sentiti forse? Ci sta dando tempo per liberarci da queste... catene? Le avrà sentite muoversi quando mi sono svegliato.
    Non voglio morire. Dio... non voglio... non voglio...
    Dove può essere adesso? Dove? Ma noi sappiamo... noi sappiamo dove ci troviamo, lo abbiamo letto. Dobbiamo calmarci, respirare. Respira.
    Lo abbiamo letto.
    Cazzo... l’ho letto, Cristo santo! Il testo... otto... otto anni per... ma deve essere una presa per il culo, senz’ombra di dubbio. L’ha scritta lui quella “traduzione approssimativa”, ha pensato già a tutto... mi ha chiamato qui in Islanda per poi... per poi legarmi. Mi ha spinto forse in quella stanza, farmi leggere il testo... ma allora avrebbe dovuto metterlo in bella luce . No, forse voleva che tutto sembrasse reale. Sapeva che avremmo buttato le mani alla rinfusa in quelle carte, sapeva che avrei cercato di leggere la storia, sapeva che lui l’avrebbe avverata sadicamente rinchiudendomi in cantina una volta giunto a metà del racconto, solo... no... è troppo fuori di testa. Ti ha semplicemente trovato a curiosare e ti ha tramortito!
    Fuori di testa? Lo so, nessuna fiaba è... può essere scritta in quel modo, non nel ‘600. Dio, un linguaggio indegno del tempo, un ibrido insulso e... ma non eri tu quello che pensava che questa storia fosse diversa? Sì, ma non tanto spaventosa da descrivere la mia vita, citare l’arcipelago dove abitava mia madre, il viaggio del neonato - cioè Ivan - in questa città, e la casa di quel... di quel dottore... di quel - pazzo. Esatto, una malato, un malato, porca puttana, un malato. Un malato, un malato, un malato! Ci ha rinchiusi qui, e ora che cosa cazzo ci farà?
    Le braccia. Le braccia sono legate a delle cazzo di catene! Ora grido, Dio, ora strillo! No. No, io devo fare silenzio, devo elaborare un piano. Dobbiamo guardarci intorno, manteniamo la calma, dobbiamo essere lucidi. Lucidi. Capire. Penseremo dopo all’accaduto.
    E perché quel maledetto non smette di ridere in questo modo infernale? Sta diventando insopportabile. No. Abbiamo detto pensiamo dopo a tutto, ricordi? Non distrarti.
    Da dove viene la luce fioca che abbiamo davanti? Da una finestrella che dà al marciapiede, non è passato molto tempo, è ancora sera. Cosa illumina? La finestra illumina una breve scalinata che dà alla porta, la stessa che forse apre al corridoio del salone, dove sedevo io prima di entrare nello studio di Edgar. Si scorgono degli scaffali nelle pareti dello scantinato, ma sono decisamente oscuri. Sì. La cantina è troppo buia, non si vede niente se non per lo spiraglio di luce della finestra. Altro? Sono ancora vestito - ho... ricordo... avevo con me il cellulare nella tasca del pantalone. Le catene mi lasciano libero di tastare, bene. Smettila di tremare e asciugati queste lacrime.
    Niente. Edgar continua a ridere. Controlla meglio.
    Niente, quel fottuto squilibrato mi ha preso il cellulare, ovviamente, direi. Dio, mi ha tastato anche il culo e forse si è preso pure lo scontrino di questo pomeriggio... e anche l'orologio. E adesso?
    Semplice: devo liberarmi. Ma piano, “ragiona”, abbiamo detto, ricordi? Guarda le catene, osservale. Scopri come liberartene. Come ti sembrano? Dammi i primi dati.
    Sono arrugginite. E... cazzo se sono spesse. Mi legano gli avambracci, non i polsi. Le mani sono libere ma hanno un raggio d’azione limitato. Io ho un raggio d’azione limitato. Da dove partono? Partono dal... non vedo. Come non vedo? Sono in quella parte buia della cantina. No, guarda meglio. La cantina è più grande e buia del previsto, non vedo oltre. Non si vede niente.
    Tirale, prova a forzarle. Tiro il braccio destro verso sinistra. Grugnisco silenziosamente dallo sforzo. Niente. La risata di Edgar si è fermata.

    Fa’ silenzio. Hai sentito? Sì, sì, ho sentito! Qualcuno sta arrivando qui, è un rumore sordo e crudo, come se a camminare fossero spilli.
    La porta si sta spalancando. Un rumore metallico di lucchetti. Ora il vecchio sta arrivando, vorrà parlarmi o darmi da mangiare, o... torturarmi. Be’, mi troverà pronto, cazzo se mi troverà pronto. Ho asciugato le lacrime, non mi deve vedere per niente intimorito. Anche se il labbro non si ferma, certo.
    Ma quanto diavolo ci mette ad entr...

    Oltre al pulviscolo illuminato dalla luce del corridoio che si stava schiudendo assieme alla soglia, dalla porta sbuca fuori il profilo di Ísadóra, mentre con un piatto in mano fa attenzione a scendere i gradini.
    Quando finalmente la finestrella che dà alla strada le illumina il viso, Ivan viene invaso da un olezzo di certezza che lo inebria a tal punto da fargli perdere la testa:
    - Tu... -
    Ísadóra si ferma in mezzo alle scale.
    - Tu... brutta puttana! Sei stata tu a rinchiudermi qui, eh? Liberami! Che cazzo ci faccio qui? Liberami! - Sbraita, protendendo in avanti il busto fermato dalle catene, tese all’inverosimile, e squassa le braccia come fossero pronte a sgozzare qualcuno.
    Lei si siede sugli scalini, con fare tranquillo. Sta dando qualche forchettata a un dolce. Non risponde. Ivan la punta con volto greve:
    - Si... si può sapere che cazzo stai aspettando? Vogliamo stare qui a guardarci? - Scuote le catene, urlando poi: - Vorresti , porca puttana, spiegarmi perché sei qui e perché sono incatenato? -
    Allora Ísadóra indica con la forchetta la parte buia posta alla sinistra di Ivan:
    - Sai, Ivan... - dice con la bocca piena. Si copre le labbra con la mano: - ...era proprio lì che fui incatenata dal dottor Edgar. Hai... - deglutisce -... hai già avuto modo di conoscerlo, immagino. -
    Ivan la guarda con volto contratto dall’odio cieco e sordo. Ísadóra continua, con occhi illuminati da una idea:
    - Ah, aspetta. - Dice frettolosamente, quasi sussurrando. Tira fuori dalla tasca dei jeans un biglietto. Lo mette tra l’indice e il medio e lo alza per mostrarlo a Ivan, guardandolo intensamente negli occhi. Poi, senza dire una parola, glielo lancia. La letterina dopo un volo irregolare finisce dritta nel suo petto. Ivan, con il collo nascosto dal mento, la guarda con un’espressione malamente sbigottita, mentre scende sul suo busto. L’afferra e la osserva meglio nonostante il buio.
    - Un attimo, ti accendo la luce. - Dice lei, alzandosi dalla scalinata, tenendo in equilibrio la torta che aveva nel piatto. Accende un interruttore accanto alla porta della cantina.

    La luce smorta e fioca sembra non migliorare di molto l’illuminazione generale dello scantinato e Ivan, con occhi socchiusi e leggermente abbagliati, legge la lettera, talvolta staccando lo sguardo dalle parole al viso della pittrice:
    - Che... - disse Ivan, sbandierando la lettera - ...che cosa diamine significa tutto questo?
    - Leggi, ti dico. -
    - L’ho... già letta. -
    - Allora leggila meglio. -
    Ivan obbedisce, sempre con volto contratto dall’odio sbigottito che lo stava divorando.
    - Era la nota che avevo trovato nello studio... -
    - ...e avresti dovuto darle un’occhiata, già che c'eri. Ma non ha importanza, almeno... - La pittrice trafigge un altro pezzo di torta, lo mastica e lo ingoia.
    Ivan fa scivolare la lettera al suo fianco. Ísadóra dunque gli chiede, pulendosi i denti con la lingua e sollevando la forchetta:
    - Che fai, non la leggi? -
    Ivan aspira col naso:
    - Non m’interessa più un cazzo di voi psicopatici. Tanto ho capito che volete andare per le lunghe - ovunque voi vogliate andare. E credimi, non sto spaccando queste catene perché so che sarebbe inutile, ma non hai idea di quanto io abbia voglia di fracassarti quel piatto di merda in testa. - Sibila rocamente sputando tra i denti stretti e irrigidendo il collo, esponendo le vene come fossero corde da pizzicare.
    Ísadóra lo esamina per un momento con volto concentrato per mezzo minuto. Poi guarda l’orologio che ha con sé e, alzando le sopracciglia per la sorpresa, sorride:
    - Bene, sono le 19:30 precise. Direi che è il momento di cominciare il nostro appuntamento! - La pittrice allora allunga il piatto con la torta e gli domanda cortesemente:
    - Ne vuoi un po’? -
    Ivan china la testa:
    - No, non... ne voglio un po’. -
    - Dai, non sai cosa ti perdi! -
    Ivan non reagisce.
    - Come preferisci. - Sospira Ísadóra. Dà un’ultima forchettata al dolce, poi prosegue con voce impastata dal sapore della deliziosa torta, leccandosi il pollice e l’indice imbrattati goffamente: - Tanto ormai era finita. -
    Appoggia il piatto con molta delicatezza sullo stesso scalino in cui è seduta e, sbadigliando, Ísadóra emette queste parole:
    - Sarà una storiella abbastanza lunga, Ivan. Mettiti comodo. -
    Ivan non la guarda, e lei sorride:
    - Oh, lo sai che a me piace scherzare! Dicevamo, oggi pomeriggio... ah sì, dovevo parlare io. Quindi sentimi bene, questa volta. - La donna nasconde le mani sotto i glutei e guarda quella parte della cantina a sinistra di Ivan.
    - Lì, Ivan. -
    Il filologo smuove la testa e, seguendo il filo dello sguardo della donna, guarda alla sua sinistra. Vede un’altra coppia di catene. Trattiene il respiro.
    Ísadóra continua, non smettendo di guardarle:
    - Edgar faceva così con tutti. Ricercatori, dottori, professori. Artisti soprattutto. Coloro che cercavano qualcosa e che per questo si facevano notare nel loro ambiente. Lui li individuava e scriveva loro una lettera affermando, solitamente, di aver scovato quello che stavano cercando. Vedi, non importa cosa stessero cercando. Edgar riusciva a fingersi un tipico collega del malcapitato, solo però un passo avanti rispetto alla loro... ricerca comune. Si fingeva, cioè, interessato alla ricerca della vittima, ma per riuscire ad irretirla e quindi ad ottenere la sua attenzione, nelle lettere si poneva solo un passo più avanti rispetto ai progressi che lo sventurato stava riportando; direi un’esca niente male, perché in quelle brevi lettere riusciva a scrivere cose sì strampalate, destandoti curiosità, ma lasciando comunque un non so che di... convincente, di affascinante, di irresistibile. Naturalmente, sappiamo entrambi quanto possa risultare colossale il peso di una vita passata a cercare, cercare e cercare. Poi arriva qualcuno che ti dice “posso liberarti dalla croce” e allora - Ísadóra schiocca entrambe le dita - ecco che, con semplicità quasi inverosimile, riesce a persuadere chiunque. Come Icaro e le sue ali di cera, Edgar si traveste da sole. Poi, nel momento in cui ottiene la fiducia del poveretto allunga la forbice e zac!, gli tarpa le ali. E la vittima cade qui, dove ti trovi adesso. -
    Ivan segue il filo del discorso di Ísadóra. Guarda la letterina caduta al suo fianco e dopo aver alzato gli occhi domanda:
    - Quindi tu sei stata ingannata da Edgar? Quella letterina... era una copia inglese del messaggio che ti ha inviato per convincerti? -
    - Esattamente, anche se quella non è una copia, il messaggio originale è proprio scritto in inglese. -
    - E, stando al tuo discorso, cos’era che stavi cercando tanto assiduamente? -
    Ísadóra sorrise e con fare interrogativo solleva questa perplessità:
    - Cos’è, ti sei già interessato? Ma non eri tu quello che diceva... -
    -... che non me ne frega cazzo. Vero. Ma devo darti corda in qualche modo, no? Altrimenti, uh, rischio di farti arrabbiare! -
    - Non serve, Ivan. -
    Ísadóra riprende il discorso con voce piana:
    - La bellezza. Cercavo la bellezza. -
    Ivan con una smorfia sufficiente commentò:
    - Be’, niente di così particolarmente originale, sembra. -
    - Ma certo, Ivan. - Ridacchia - Ora, io adesso vorrei risparmiarti i tecnicismi per non annoiarti, ma... -
    Ivan non rispose, naufragato nel disprezzo. Lei sorride maliziosamente, e prosegue:
    - Ammetto di aver costruito la mia immagine, nell’ambiente di artisti che frequentavo, su questa stronzata dell’artista tormentata alla ricerca della... bellezza. - la donna allenta il volume del suo sorriso sottile, con sguardo nostalgico e umile:
    - La dicevo a mari e monti e... e mi sentivo sicura, sicura da ogni pericolo con tutti quegli strati di idiozie che avevo accumulato nei miei ultimi due anni di vita. Mi sentivo capace di tutto, capisci? Avevo uno scopo grande, ero ricercata da tutti. Proprio da tutti. -
    - Ultimi due anni di... vita? Ma che vai blaterando? -
    La pittrice si ferma. Ivan continua:
    - Ascolta, se vuoi andare nel mistico, se vuoi provare a propinarmi stronzate per confondermi o chissà cos’altro, allora sappi che...-
    Ísadóra lo osserva con decisione, spostando i suoi capelli ramati dietro l’orecchio:
    - Ascoltami bene, Ivan. In quelle catene, alla tua sinistra, c’ero io. Io. -
    - E sentiamo, dunque, cosa è successo? -
    - La farò breve: Edgar mi aveva invitata a casa sua. Dopo avermi drogata e trascinata qui, mi svegliò facendomi ingoiare una specie di brodaglia... con pezzi di carne e patate disgustose che galleggiavano in quell’acqua sporca che lui chiamava brodo. Me la serviva ogni giorno su un pentolino. -
    - Un pentolino? - S’interroga Ivan.
    - Me la portava sempre, ogni giorno. Tu l’hai visto, Ivan? -
    - Sì. - Afferma.
    - Quando, Ivan? -
    - Non lo so, non ne ho idea. Direi... forse due ore fa. -
    - Come posso essere stata catturata prima del tuo arrivo in questa casa, proprio quando ci siamo lasciati? Come può Edgar avermi rapita, drogata, nutrita con quella brodaglia, legata e torturata? E come posso essermi liberata dopo due ore dal tuo svenimento? -
    - No... - Ivan parlò come se il suo discorso fosse scontato:
    - ...potresti anche mentirmi. Cosa o chi mi dice che è vero che sei stata catturata e che non stai dalla parte di quel malato solo per... -
    - ...solo per? -
    - Non saprei. Dovreste dirmi voi cosa cazzo ci faccio qui legato. -
    - Brutto idiota, vorresti starmi a sentire per un attimo e credere in quello che ti dico? Ti stai perdendo in un mare di scempiaggini. Ragiona: a chi la stava servendo quella brodaglia, secondo te? - sbotta alla fine la donna. Abbassa la testa, si massaggia le guance. Ora sbuffa, parlando con voce più alta ma ovattata dalle mani che le coprivano il viso:
    - Io... ogni sera sedeva in queste scale. Tutte le sere. Poi si avvicinava e mi... mi accarezzava le guance, poi i capelli, e mi sussurrava all’orecchio discorsi malati su quanto mi ritenesse bellissima, una figlia realizzata. Non dovevo parlare.
    Mi aveva denudata e... si divertiva a lanciarmi degli spruzzi d’acqua come se mi stesse consacrando, mentre rideva affannosamente. Col tempo si lasciò andare. Mi svegliava leccandomi il viso, mordendomi un orecchio con le sue viscide gengive senza denti e col suo alito pestifero, strofinando la stoffa delle mutande sulla mia spalla. Il primo giorno cominciai a singhiozzare e lui... lui con foga inverosimile mi urlò contro di smetterla immediatamente. Quel giorno non smisi. Si strappò i capelli, si morse una manica con la mascella bavosa. Poi corse in camera sua, afferrò una cinghia e cominciò a batterla sul mio viso. Poi mi diede una ventina di calci sulle ginocchia, schiacciandomi con la punta degli stivali la caviglia. - Ísadóra comincia a stritolare le sue mani - sempre urlando, urlando in continuazione di fare silenzio, di non parlare e... -
    - Basta così. -
    - Infatti. - La pittrice spegne il ricordo. Muove con sufficienza i capelli e guarda le sue unghie. - Basta. La storia finisce qui. -
    Ivan sbatte le ciglia con perplessità:
    - Come “finisce qui”? -
    La donna allora si strofina un occhio e sospira molto profondamente:
    - Ivan, devi sapere una cosa. Non ho modo di intavolare il discorso altrimenti, e non m’interessa se ci crederai o meno sulle prime... ma immagino sia arrivato il momento. Doveva arrivare prima o poi. -
    - Di che cosa vai blaterando? -
    - Tu sei morto otto anni fa. -
    Ivan la fissa impassibile. Così, a caldo, pensa. Dopo qualche chiacchiera sconclusionata, ecco che Ísadóra ne spara una grossa. Macché grossa, grossissima!
    Passano dieci secondi al buio rischiarato dalla fredda luce della cantina.
    Poi, partendo da un sorriso, Ivan comincia ad abbozzare una risata genuina, che si tramuta in un sogghigno regolare. Ivan scuote anche la testa:
    - Ti prego, ti prego, Ísadóra! Non insultare la mia intelligenza. - ora sussurra, pregando come si prega una guardia ingenua che possiede la chiave della nostra libertà: - Gesù, liberami. Solo... liberami e basta. -
    Ísadóra, seduta sulla scalinata della porta della cantina, avvicina il piatto a sé e senza guardare Ivan, gli dice con semplicità:
    - Sei già libero. Guarda le tue braccia. - Poi chiude le ginocchia.
    Ivan si ferma. Smuove le pupille freneticamente.
    Non ci sono più le catene. Scomparse.
    Ivan agita le braccia a destra e a sinistra, guardandole leggere e rapide come se le stesse muovendo per la prima volta. Ma il suo volto non si mostra gioioso. Si alza velocemente da terra, schiacciando la schiena contro il solito muro, guardando il pavimento a destra e a sinistra.
    - Ma che... come diavolo? Non ci sono più... -
    Ísadóra si tocca la fronte col pollice e lo strofina.
    - Io... ti giuro, non riesco a dirtelo in maniera chiara o incisiva. Anche perché non c’è molto da capire. - Abbassa leggermente il capo. Poi, decidendosi a parlare, con volto impassibile alza leggermente il mento e dichiara:
    - Ivan, tu sei morto otto anni fa. Era quando cominciasti da due mesi circa ad intraprendere la tua ricerca. Ricordi di quell’incidente stradale? -
    Ivan ricorda benissimo. Tutto d’un fiato sibila questa domanda:
    - Come fai a sapere dell’incidente? -
    - Be’, è in quel momento che tu sei morto. In quel momento siamo nati noi. -
    - Noi... chi? -
    - Noi. Fantasmi, miraggi. -
    Ivan sente l’istinto di massacrarla di botte, ma è davvero troppo stupefatto per agire. Sembra naturalmente disposto a non credere ad una sola parola, ma i fatti parlano chiaro. Le catene che prima lo ancoravano a terra sono evaporate senza fare rumore o farsi notare, e ora lei sa del suo incidente che quasi gli costò la vita:
    - Non ti seguo. -
    Ísadóra annuisce con gli occhi, e decide di riformulare:
    - Ivan, questo mondo è il tuo aldilà. Credi di star vivendo la tua vita, ma in realtà non è così. Quando quel camion ti ha investito, sei semplicemente morto. L’ospedale, il processo, la riabilitazione, il ritorno a casa a studiare, sono attimi che semplicemente non esistono, non ci sono mai stati. Eppure, in questo aldilà, se possiamo definirlo così, tu stai letteralmente continuando il percorso della tua vita a partire dall’esatto istante in cui tu l’hai lasciata. Con la peculiarità che in questa illusione la vita e la realtà immutabile la stai semplicemente manipolando secondo il lavoro del tuo inconscio, come se stessi... sognando. Capita di corrompere o riplasmare luoghi reali nei sogni, ecco; tu, in questo sogno, riplasmi quell'attimo di realtà. Un sogno è andato avanti come la più realistica delle illusioni. Capisci, Ivan? È il tuo inconscio che plasma la realtà, realtà si è fermata a otto anni fa e che ora, grazie a te e solo a te, si muove soprattutto secondo il tuo volere.
    Otto anni fa sono stata rapita, nel momento in cui sei morto. Otto anni fa Edgar ha preparato un pentolino bollente per me, nel momento in cui sei morto. Otto anni fa il dottore stava preparando un messaggio per te, nel momento in cui sei morto. Aveva finto, come forse avrai ben intuito, di aver “tradotto” quella storia... emh... -
    - ...Em Nekasrof. - Disse Ivan con voce sconvolta.
    - Sì, esatto. -
    Ivan non risponde, con occhi sgranati. Ísadóra approfitta per continuare:
    - Non hai notato qualcosa di strano nelle persone? Delle costanti? -
    - No, non direi. -
    - Ti rinfresco la memoria: ricordi quella volta che incontrasti in tribunale il camionista che ti aveva investito? -
    - Sì, certo. -
    - E ricordi come fosse spaventato, come avesse quel volto bianco dalla paura? Sempre. In continuazione? -
    - Sì. -
    - E ricordi del giudice? Come ti pareva? -
    - Normale. Forse solo un po’... -
    - ...assonnato. Era notte quando sei stato colpito. Tanti dormivano. Io no. -
    - Ma tu come fai a sapere tutto questo? Non c’eri. -
    - Non c’ero quando eri vivo. Ma c’eravamo tutti, come proiezioni del tuo inconscio, quando eri morto. Io so tutto di te perché sono te, tutti quelli che hai visto dopo la tua morte sono te, perché sono fatti della stessa sostanza del tuo subconscio. Tu mi stai sognando. -
    - Ho sognato... tutto, allora? -
    -Sì, ma non tutto è opera tua. Non importa quanto il tuo subconscio abbia... modificato questa realtà immortalata per come ritenevi plausibile che fosse, non importa quanto tu ci abbia visti muoverci, parlare, pensare secondo il tuo disegno. Noi siamo sempre stati noi stessi. Non potevi agire sulla realtà inventando qualcosa. Tu la plasmavi silenziosamente. -
    - E allora se nel momento in cui io sono morto tu eri qui eri incatenata... perché sei libera? Com’è possibile? -
    - La realtà è solo un miraggio istantaneo, scenografie reali di sottofondo. Ma la trama la scegli tu, silenziosamente, ripeto, e tu hai voluto che fossi libera. Gesù, non ho altri modi per spiegartelo. -
    - Perché proprio tu? -
    - Non saprei dirtelo. -
    - E questa storia del rapimento. Com’è andata a finire? -
    - Non lo so. Ripeto, la realtà che hai immortalato sono gli oggetti di scena, il tuo inconscio è la regia silenziosa, e noi siamo tutti quanti ignari attori della tua miserabile e povera farsa. Non so com'è andata a finire realmente. -
    Ivan tira su col naso:
    - E la storia, allora? La mia storia... che parlava... -
    - ... della tua vita? Esatto. Ovviamente quello non era il testo reale, o almeno credo. Sono una tua proiezione, è vero, ma rimango sempre io, e io non sono pratica di queste cose. Posso dire però che te lo sei semplicemente sognato. Nessuno ha tradotto quel testo, il tuo inconscio non poteva superare questi limiti. Commovente, però. Hai sognato in maniera contorta la terra d’origine di tua madre, di strani rituali per pregare, poi Reykjavik, la casa del signor Johannsonn, persino una donna che urla in cantina. Peccato che la storia non si sia conclusa.-
    - Io sto sognando? -
    - Da otto anni, Ivan. Ci stai sognando tutti come ci hai lasciati. -
    Ivan si guarda i vestiti.
    - Io non... non credo di averci capito molto. Ma perché mi stai dicendo questo? -
    Ísadóra si alza, cominciando a salire le scale:
    - Non ha molta importanza alla fine, Ivan. Forse la tua testa si è stancata di vivere il suo spettacolo formale e noioso. -
    Ivan non fiata. Ísadóra si alza dalle scale e continua, quasi continuando a voce dei pensieri che le erano balenati in testa:
    - Anche senza essere parte del tuo subconscio l’avrei intuito facilmente. Tua madre ti ha abbandonato per lavoro. I tuoi studi sono infine scaduti in noiose ricerche in polverose e buie biblioteche, e questo Em Nekasrof ti avrebbe dato quella gloria che ricercavi da tempo. E anche se non eri certo di nulla, anche se temevi che quella storia si rivelasse per quello che probabilmente è, cioè una colossale menzogna, adesso puoi stare certo di una cosa; avrai pace e tempo per pensarci su. Circa tutta l’eternità, a dire il vero. -
    Poi con forza apre la porta rugginosa della cantina, e il sole della sera proveniente dall’entrata della casa nasconde il suo profilo, ombreggiandolo, rendendola una sagoma nera immersa nella luce rossastra.
    - In fondo, “sempre” è la chiave di ogni futuro. Con la differenza che tu non ce l’hai. Non so come ci si sveglia da qui, Ivan, ma dovrai pur trovare un modo. -
    Stava per richiudere la porta, tuttavia si ferma improvvisamente. Gli lancia la chiave gialla della porta della cantina. Ora lo guarda e gli sorride con nostalgia vastissima: - Ti ringrazio per l’appuntamento. -

    E con un tonfo colossale richiude la porta.

    Ivan! Ivan! Arriva papà! sbraita la voce del signor Edgar. Ivan trasale all'istante e, lasciandosi scappare un sussulto, con l’udito avverte un fragore pesante e tombale indecifrabile che si faceva sempre più forte da dietro la porta della cantina.
    Sto arrivando!
    Comincia a guardarsi freneticamente intorno, ma non riesce a trovare un posto sicuro in cui nascondersi. Ivan a malapena è capace di soffocare l'urlo che si sta facendo strada nella sua gola nel momento in cui, assieme a un gracidare rantolante, il vecchio Edgar prova a svitare con forza sanguinaria il pomello della porta della cantina. Si ferma. La mia chiave! ulula improvvisamente. Poi Edgar, riprendendo la risata ansante e scandita, comincia a percuotere la porta ritmicamente, con tonfi abissali e inverosimili.
    Il cuore di Ivan sta per esplodere, tutto in lui pulsa e trema. Fatica ad ingoiare mentre, ad ogni pugno battuto sulla porta, sussulta e indietreggia fino a toccare il muro di nuovo. Crollando distrattamente, comincia a strisciare sgraziatamente verso destra, nella parte buia della cantina.
    Ivan richiesto in corridoio! Ripeto, Ivan richiesto in corridoio! imita la voce gracchiante, come se fosse l’impianto audio di un ospedale malato e trascurato.
    Dalla muffa cola sempre più acqua sudicia. Ora Edgar dà testate alla porta con rumori sepolcrali e indefiniti, cominciando a sputare rabbia e ira. Apri la porta! Apri la porta! dice mentre urla con collera infernale.
    Ivan sta impazzendo. Si chiude le orecchie con i palmi delle mani e cuce con forza gli occhi, mentre cade inginocchiato verso la porta. - Va’ via! - La risata ansimante e ritmica si fa sempre più forte: - Va’ via ho detto! -
    Non posso! Questa è casa mia. Aprimi la porta! e proprio quest’ultima frase entra dentro il cranio di Ivan e non si leva più, oscillando come un dondolo di ferro piegato dalla ruggine e dal tempo. La frase non smette di rimbombare nella sua testa come se a cantarla fossero stonati cori demoniaci, e in pochi attimi si fa così forte da fargli piegare il capo a terra, come se le sue vertebre si fossero sbriciolate in mille pezzi. Respira con fatica la polvere del pavimento mentre gocce di sudore imperlano la fronte e il collo. La porta sembra cedere, si sente il rumore metallico di una vite caduta per terra.

    Tuttavia, improvvisamente la voce s’arresta. Anche i pugni non si sentono più. Nessuna risata stentata oltre la porta.
    L’unico rumore è quello di un uomo in una cantina che singhiozza, inginocchiato nel pavimento, con le mani sulle orecchie.
    Ivan alza il busto e la testa, guarda la porta. Con volto arrossato e capelli scompigliati si asciuga le lacrime e prova a fermare il labbro tremante. Mentre tenta di mettersi in piedi gli scappa ancora qualche singhiozzo.

    Ora però qualcos’altro singhiozzava. Ivan silenzia le corde vocali, bevendosi silenziosamente le lacrime per ascoltare meglio. Guarda a destra, nel buio, e vede emergere dalle tenebre della cantina una testa sorretta da brandelli di collo che come una lumaca avanza vischiosamente verso di lui, con lentezza insostenibile.
    Gloglotta parole incomprensibili. La mascella si apre e chiude meccanicamente, e dal naso cola del viscido muco. Gli occhi non hanno palpebre, ma sembrano comunicare tremenda perplessità. Le pupille color caffè seguono con bruciore e pena lo sguardo di Ivan, infinitamente e senza staccarsi da esso.
    Ivan, fissando la testa avvicinarsi a lui due centimetri alla volta, comincia rapidamente a salire le scale della porta, con volto inorridito e fiacco, terreo come la luce della cantina.
    Pensa, una volta sbloccata furtivamente la serratura, di correre come un forsennato via dalla casa. La punta della chiave sbatte quattro volte accanto alla serratura. Ivan fissa di nuovo la testa e con fretta tremante la infila nel lucchetto.
    Sta già cominciando a girare il perno. La testa mutilata continua ad avanzare verso di lui, curvando verso la sua direzione. Prova a parlare, ma non ci riesce.
    La porta si è aperta, il corridoio è libero, ma dalla porta della cucina si sente un po’ di fracasso, quasi come se un sussurro innominabile risuonasse all’interno delle pentole e delle posate. Ivan corre sulle punte dei piedi, sempre seguito dall’ombra della morte nelle code degli occhi, come se qualcuno lo stesse inseguendo. Non doveva guardare indietro. Raggiunto il salone colmo di libri, guarda la sua valigia vicina al sofà. Cominciano a balenargli dei dubbi in testa ma, ricordando la voce irreale e la testa che striscia, il nostro decide di abbattere ogni genere di perplessità. Con animo troppo incerto e troppo incredulo per parlare, semplicemente continua a correre verso l’esterno. Dove andare, non lo sapeva. Come avrebbe fatto senza soldi, non lo sapeva. Dove poteva chiamare la polizia, non lo sapeva. Dove nascondersi in una strada aperta, non lo sapeva.
    Quasi sfonda la porta della casa blu. Non si smuove dalla soglia. C’è un puzzo di erba bagnata. Le pozzanghere lungo l’asfalto sembrano ribollire a causa delle quasi inesistenti gocce di pioggia che innaffiavano la città. Il naso funziona a dovere, si conforta Ivan.
    Un idrante rosso lì, un tubo color ciano arrugginito là. Poi, un incubo.
    Qualcosa cammina per strada; una creatura antropomorfa, simile a un pupazzo gonfiabile colorato di rosso, che cammina con la testa piegata inverosimilmente all’indietro, mentre agita gli arti superiori come fossero spaghetti.
    Il corpo era molle e filiforme e incedeva silenziosamente, talvolta squittendo con versi quasi ridicoli, propri dei pupazzi da schiacciare dei bambini.
    Se ne va, procedendo con silenziosa collera. Ivan comincia a scendere silenziosamente le scale del lastricato.
    Il mondo, tralasciando quei ripugnanti versi del pupazzo gonfiabile rosso che si fanno via via sempre più lontani, era caduto in un silenzio primigenio. Una pace che triplica la natura della realtà malata e derelitta che adesso si manifestava in ogni sua tremenda forma agli occhi di Ivan e della sua mente senza controllo. Sognare la vita era solo un pretesto per nascondere gli incubi di una vita appassita - ma ogni storia, si sa, ha un inizio. Bisogna solo trovare la fine tra le infinte pagine dell’eternità.
    In attesa di ciò, pare evidente: toccherà alla fantasia perseverare per sempre su quelle pagine incomplete.

    Ivan è in mezzo alla strada, guarda sull’erba fresca e dolce del giardino mucchi di sacchi verdognoli semoventi, come fossero molluschi bivalvi che aprivano la bocca costellata di minuscole e strette zanne. Sembravano raccogliere la pioggia invisibile proveniente dalle nuvole dorate. Ivan guarda meglio il cielo.
    All’orizzonte è dipinta una grande luna in procinto di tramontare.
    E la volta celeste, totalmente gialla, assomiglia ad una pergamena di Scottish Blackface.

    Edited by Oessido - 11/3/2017, 13:56
  9. .
    :rath: significa stile:

    - Mark, cosa mi sta questo vestito? -
    - :rath: -
    - Grazie amore, sai sempre cosa dire per farmi sentire felice e a mio agio! -

    Significa preghiera e raccoglimento:

    - Ave Bandiere, pieno di grano il Mulino è con te, tu sei il benedetto fra gli abbracci, e benedetto il seno del tuo frutto ROSSITAH. Santa Insuposità, madre di Andonio, insupa per noi aratori. Nunc et in hora mortis nostrae AMEN.

    Significa dolore:

    - Sai, Giacovalda, ieri ho perso mia madre in un incidente anale. -
    - :rath: -
    - Non c'è bisogno di compatirmi. Va bene così, è il destino ineluttabile, la grama vita che ci affligge. -
    - :rath: -
    - Smettila ho detto! Non piangerò mia madre, debbo essere forte! -
    - :rath: -
    - ......... -
    - Piangere aiuta. Insupa con me. -
    - :rath: !!!! -
    - .... :rath: -

    Significa confronto:

    Disquisendo e consigliando in merito alla qualità di un qualsiasi creatore di contenuti in Rete
    - Per me dovresti aggiustare le luci. - alzò la mano Peppe
    - Per me dovresti sistemare meglio l'audio. - alzò la mano Andonio
    - Per me puttana tua mamma, cancro di merda. :rath: - alzò la mano l'uomo dal cervello a forma di tazza di latte.
  10. .
    Queste Storie Brevi hanno un grandissimo potenziale
  11. .
    Quando non sai l'inglese e i panini s'incazzano :rath:
  12. .
    Di una bellezza ineccepibile. Faust i miei complimenti.

    La storia è criptica e affascinante, questo momento: "Qualcosa non va, ho una sensazione di forte asfissia, la schiena intorpidita poggia su qualcosa di solido e scomodo. Il petto mi brucia. Era dunque solo un sogno? Dove sono? Perché i miei movimenti sono così limitati? Sono sepolto vivo!
    Anelo ossigeno, cerco aria con respiri profondi e affannati che puntualmente non soddisfano il mio ingente bisogno. Mi muovo, mi contorco all'interno della cassa, sbattendo con forza i miei arti contro di essa in un disperato tentativo di aprirla, di trovare la forza sovrumana di scardinarne coperchio e terra soprastante, facendo volare il tutto in alto nel cielo. Sono frustrato, innervosito da tutti questi impedimenti, e tiro testate contro il legno che mi avvolge in un abbraccio di morte, per sfogare la mia rabbia, il mio desiderio di continuare a vivere. Ma è tutto inutile: la cassa è solida e io non sono un supereroe, da solo non posso fare niente per cambiare questa realtà. Le lacrime mi rigano il viso, simbolo della mia rassegnazione di fronte al fatto che morirò di una morte orribile. "

    Inutile dirti che l'immersione è stata totale.

    Sei talmente portato a sentire quello che il protagonista sente che tu lettore dimentichi, scordi i dati precedenti che alla fine si paleseranno portandoti alla logica soluzione finale, fugando ogni dubbio - finale che si ricollega alla visione metempirica del nostro protagonista dettagliata proprio nell'introduzione. Tutto in queste poche righe si connota di una coerenza niente male. Lo stile è fluido e si fa serenamente leggere. Scelta felice del lessico. Finale quasi commovente.

    Nulla da dire: al conseguimento della lettura, di certo tu lettore non senti il traguardo tagliato nella strada del capolavoro. Ma sai di certo che la via in cui questa storia ti ha portato non conduce altro che lì.
    Se devo commentarla a modo mio: questa è una storia posta sulla più riuscita delle strade narrative.
  13. .
    supercalifragilistichespiralidosamente :rath:
  14. .
    CITAZIONE (Markrath @ 12/2/2017, 16:55) 

    Antiche entità rivelatesi in una fredda notte di Gennaio.

    Edited by DamaXion - 12/2/2017, 18:25
  15. .
    Sono un americano semplice che ha appena ricevuto una buona notizia al telefono mentre sta pagando qualcuno.
    <<ehi, signore! Ma... il resto!?>>
    <<se lo tenga pure!>>
    Parte la colonna sonora felice mentre corro. Anche se a miglia di distanza, corro a destinazione per mezza città.
123 replies since 7/12/2016
.