Posts written by Tommas02

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    Corrado! :D
    È l'inizio di un racconto più lungo o finisce così? Perché mi ha lasciato con la curiosità di conoscere il proseguio della storia. A meno che, appunto, sia un incubo e non realtà
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    Bella e inquietante, complimenti! :)
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    Grazie, ma il paragone è eccessivo ahaha :)
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    Grazie! :)
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    Grazie! :)
    Quella è la domanda che mi farei se fossi io a leggere il racconto ahaha. Diciamo che si è "trasmessa" casualmente, ecco
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    Grazie! :)
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    Grazie mille, davvero. :)
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    Grazie per il commento! Mi fa piacere che leggendo si provi angoscia, ci speravo.:)
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    No, semplicemente il topic principale era davvero lungo e affrontarlo tutto insieme poteva un po' spaventare, ecco.
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    Grazie mille :)
    Ci avevo pensato, ma non so... Dovrei chiedere allo staff.
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    #10

    Si risvegliò furente. Per tutta la notte aveva sognato la libertà. Annusava l'aria fredda, saltava sui prati, rincorreva il sole. A fare da sottofondo c'era quel mugolio ininterrotto, che a Orazio pareva nient'altro che l'ululare selvaggio del vento. Ogni tanto quelle fantasticherie svanivano, inghiottite dalla bruma del suo sonno vacillante; subito però si ripresentavano, visioni nitide dai particolari definiti. Già viveva nei luoghi del suo sogno, sentiva la sua anima fluire in quelle atmosfere, spandersi nell'aria.
    Quando riaprì gli occhi c'erano la roccia e il silenzio. Sentì la collera montargli per tutto il corpo, la schiena fremette dal nervosismo. Si tirò su e poggiò la schiena al muro. Per un po' restò così, la delusione che albergava nel suo sguardo fisso a terra. La rabbia si spense, venne la rassegnazione. Non ne sarebbe mai uscito. Un groppo secco s'era aggrappato all'ingresso della sua gola. Aveva sete, ma se provava a ingoiare la sua saliva un dolore tremendo gli incendiava il collo, e le fiamme si diffondevano lungo tutto il corpo, attenuandosi man mano. Poi si scrollò di dosso l'intontimento del sonno. Aveva un fastidioso male agli occhi — doveva essere la luce — e le gambe bianchicce, che nel sonno dovevano essersi addormentate, ora stavano riprendendo colore. Il sangue che tornava a scorrere gli fece prurito. Tirò su l'orlo dei pantaloni per grattarsi. L'irritazione del giorno prima s'era ingrandita. Grosse croste s'aprivano lungo tutta la gamba; a collegarle, piccole screziature rossastre ramificate. L'eritema s'era allargato anche sul polpaccio, e ora, a guardarlo, maleodorante e così simile a una cancrena, trasmetteva un che di macabro. Il dottore aveva detto che si trattava di una cosa da nulla e Orazio si fidava, però la situazione non prometteva bene.
    Intanto, insieme alla mente, s'era risvegliato anche lo stomaco, che ora si ritorceva e grugniva. Da quanto tempo non mangiava? Erano usciti di lì proprio per la fame, ma prima l'eccitazione della scoperta di quella possibile via d'uscita, poi il nervosismo della prigione e della terra e infine la stanchezza per il lungo sforzo avevano acquietato i loro bisogni, che ora però si ripresentavano impetuosamente. Si stese su un lato, accartocciato su se stesso, cercando di soffocare ancora per qualche tempo quell'istinto. Provò ancora a mandar giù della saliva, ma ad ogni mandata lo stesso dolore tornava a lancinargli la gola. Tentò quindi la via del sonno. Gli parve d'addormentarsi sul serio, seppur di un sopore leggero e fragile. Stavolta non sognò: la fame gli spremeva ogni forza e anche il solo immaginare rendeva la sofferenza più viva. Nel mentre, tornò ad udire il mugolio di prima, che doveva essersi interrotto mentre Orazio era sveglio. Se prima la voce che lo emetteva aveva un'aria di vaga familiarità, ora non riusciva a riconoscerla. Quel guaito morbido si faceva sempre più fitto e acuto, come espressione incompiuta di un dolore indicibile. Divenne presto un gemito, poi un lamento continuo; a volte, non mancava di arrivare qualche urlo rauco. E allora Orazio riprovava quella sensazione di familiarità. Non riuscì comunque a concretizzare l'intuizione in un volto: provandoci, la fame tornava ad urlare. Quando poi fu sveglio del tutto, riconobbe quella voce. No, non si sbagliava, non c'erano dubbi.
    Tentò di tirarsi su e, aggrappandosi al muro e arrancando in cerca di un appiglio stabile, ci riuscì. Gli altri erano già in piedi e s'erano riuniti a circondare il malato. Solo un uomo era ancora addormentato a pochi metri di distanza dal gruppo. Orazio li raggiunse, gli altri gli fecero spazio.
    Era il tipo con lo sfregio. La barba incolta racchiudeva le smorfie esasperate che gli provocava quel dolore. Le labbra dischiuse, che esalavano quei gemiti sofferenti, lasciavano intravedere due incisivi sottili e giallastri. La cicatrice sulla guancia pulsava, pustole rosse gli calcavano la fronte, le vene del collo s'erano ingrossate. Orazio ebbe l'impressione che stessero per scoppiare, quasi trasportassero troppo sangue. Tutto il viso era paonazzo e tumefatto. Le braccia, abbandonate lungo i fianchi, di tanto in quanto si scuotevano per tutta la loro lunghezza; e quelle convulsioni che le percorrevano parevano ripercuotersi per tutto il corpo, già agitato dalla febbre.
    «Che ha?» chiese Orazio, guardando il medico.
    Quello abbassò lo sguardo, poi sussurrò: «Non lo so. Febbre, credo». Ma lo disse con un'intonazione che ricordava una domanda.
    Elsa teneva la mano al tipo con lo sfregio e lo fissava, cercando di scrutare forse oltre l'imperscrutabilità del suo dolore. Così calma, padrona delle proprie emozioni, nulla pareva avvicinarla a quella bambina volubile che aveva tremato di fronte alle ombre di un vicolo e s'era rallegrata per un pericolo scampato. Orazio si sentì orgoglioso di averla conosciuta, anche solo per qualche ora, nel suo animo più intimo e fragile. Il malato, mosso dai tremiti, stringeva forte le dita di Elsa. Le loro mani incrociate. Il bianco della morte, il rossore della vita. Orazio sentì qualcosa nel petto che veniva a mancare. Poi un continuo martellare lì dove c'era il vuoto. Voleva non pensarci, ma non ci riusciva. Sebbene si vergognasse al solo pensiero, la parola che descriveva quella lacuna gli rimbalzava in mente, prepotente. E giallastra, per qualche motivo. Gelosia. Aveva di fronte un moribondo e s'ingelosiva perché una donna che non amava gli teneva la mano! No, non poteva essere, si stava sbagliando! E continuò così, prima riconoscendo quel sentimento e la sua viltà, poi negando e cercando di dimostrare a se stesso che si trattava d'altro. Intanto, Elsa ogni tanto lo chiamava: «Giovanni, Giovanni...» E il febbricitante rispondeva sempre con una nuova convulsione, un'altra stretta a quella mano rosea.
    Dopo un po' i suoi tremiti si placarono. I lineamenti del viso s'erano distesi e rivelavano una placidità paradisiaca. Le vene ora segnavano appena il collo gracile per la fame. Il petto si sollevava e si riabbassava regolarmente. Persino la cicatrice pareva essersi calmata, incavata nella poca carne che rimaneva sulle gote di quell'uomo. L'unica cosa che segnasse la sua sofferenza era il pallidume di cui s'era dipinto il suo viso. Il bianco che gli avvolgeva il volto, smorzato ai lati solo da qualche chiazza rossastra che permaneva, gli conferiva l'aria di una morente statua di gesso.
    Mentre Elsa continuava a stargli vicino, notò Orazio, gli altri si discostavano piano dal malato, strisciando all'indietro sul pavimento. Orazio fece lo stesso senza volerlo. Poi prese a guardare il soffitto: voleva distrarsi.
    Negli ultimi minuti riprese lo strazio finale di quell'uomo. Tornò a tremare — e a stringere la mano di Elsa —, il volto si rifece rosso, tendente al bluastro. Le convulsioni adesso gli agitavano anche il petto, respirava con la bocca a grandi bocconi. Poi tornò calmo. Con l'altra mano graffiò il pavimento, che stridette. Il suo petto si sollevò per l'ultima volta, lui emise l'ultimo ansito dolente. Poi il suo capò si abbandonò sul collo, il busto parve collassare su se stesso. Dalla bocca semiaperta colava un filo di saliva. Il capannello che s'era formato prima si diradò. Elsa rimase lì, agli occhi due lacrime grosse che tremolavano, trattenute dalle ciglia lunghe.
    Negli sguardi che si scambiarono gli altri, Orazio notò qualcosa che andava oltre il sollievo per quel dolore che era terminato. Non ne fu sicuro, ma in quelle occhiate c'era un altro sentimento; qualcosa che, almeno vagamente, s'avvicinava alla felicità. Solo più tardi, rimuginandoci, capì anche il perché.

    #11

    Passarono minuti di silenzio plumbeo. Ogni tanto, qualcuno sospirava. Altri tossicchiavano, s'agitavano, strisciavano contro il muro. Erano gesti fatti di proposito: quella tranquillità era estenuante.
    Il corpo di Giovanni, abbandonato lì vicino al muro, sembrava già essere più piccolo, come se il soffio della morte l'avesse rattrappito. Per qualche motivo, pareva che la luce tetra della stanza confluisse verso di lui e s'infilasse nelle sue membra. Dove la carne si piegava per le rughe o per i tagli, la sua pelle era più scura e sembrava emanare un calore che non gli era mai appartenuto. Lì invece dove i lineamenti erano tesi — ai lati del collo, ad esempio, notò Orazio — la pelle si colorava di sfumature più pallide. Dalla posizione in cui si trovava Orazio, le braccia sembravano sproporzionate rispetto al resto del corpo e la tuta pareva ancora gonfiarsi, come mossa da un respiro che non viveva più. Dalla bocca semiaperta i denti gialli di fumo, come una lama fredda, riverberavano la luminosità del posto.
    Elsa s'era appena allontanata ed era tornata al suo angolo, con un'espressione come d'attesa. Lo sguardo fisso sul nulla, le mani nervose che tormentavano l'aria. Orazio tornò a guardarla, stando attento a non essere notato. Per un attimo il suo cranio rasato lo disorientò: era strano vederlo su una donna. Però riscontrava una certa armonia guardandole tutto il viso e non riusciva ad immaginarla con i capelli. Poi la sensazione morì e rimase a fissarla senza pensare, mordicchiandosi appena il labbro. Quando lei accennava un movimento, lui scattava all'indietro non solo con la testa, ma trascinando tutto il corpo, e si sentiva prendere da una stretta di vergogna al petto. Ma quelli di Elsa non erano nient'altro che tremori improvvisi, capelli mossi da qualche vento misterioso, lo sbatter d'occhi di un momento: se si muoveva, lo faceva per inerzia. O forse era Orazio ad immaginare tutto, pervaso da quell'ansia di essere scoperto che lo rendeva sospettoso per ogni cosa.
    Ecco che ritornava la fame. La sentì come un liquido freddo che gli percorreva lo stomaco. Allora, per evitare di contorcersi a terra per tentare di alleviare il dolore, si concentrò su Elsa, in cerca di qualche particolare che lo distraesse. Scoprì un neo sporgente, appena sotto l'occhio, che non aveva mai notato. Era piccolo, ma adesso, guardandole il viso conscio di quel dettaglio, gli pareva già diverso, se possibile ancor più grazioso. Notò poi che, pensando, si mordeva le guance dall'interno, e le si creavano due piccole fossette ai lati della bocca. Gli piacque anche quello. La vista di un altro neo sulla testa invece lo disturbò: non era abituato a vederne lì. Per qualche minuto quello studio acquietò la sua fame, ma poi quella tornò. Ormai dovevano essere giorni che non mangiava — anche se non poteva saperlo, in realtà —, ma non se ne preoccupava. Ormai non c'era motivo di farlo.
    Dopo un po' capì che a breve si sarebbero addormentati. Un primo torpore gli stava già intorpidendo i pensieri, sentiva i muscoli cedere alla forza del gas. Non poteva sentirne l'odore, ma era sicuro ci fosse. Anche gli altri si stavano abbandonando al sonno. Nel lento scivolare a terra, però, conservavano quell'espressione di beatitudine stampata sul viso. Orazio capiva il perché e provò un pizzico d'odio nei confronti di quei volti. In realtà — ma questo non osò ammetterlo — parte di quell'odio era rivolto a se stesso: anche lui, pensandoci adesso, colto da quella nebbia soporifera, si sentiva invadere dalla stessa vaga felicità. Subito però tornava a guardare il corpo esanime di Giovanni e rabbrividiva. Non poteva essere già diventato un mostro. Quindi tentava di pensare ad altro e tornava a riflettere sulla possibile via di fuga che aveva trovato. Presto però il sonno brumoso sopraffece la sua volontà e dormì del solito sonno ovattato.

    Per un attimo ebbe la forza di riaprire gli occhi. Aveva la testa bloccata, ma i suoi occhi ancora appannati riuscirono a trascinarsi per la stanza. Gli altri erano legati al muro. Pomi neri occupavano le loro bocche e impedivano loro di parlare. Anche Orazio doveva averne una, ma non la sentiva: forse il gas era troppo forte.
    All'ingresso della stanza c'era un uomo. L'unica cosa che Orazio riuscì a notare, perso in quella distesa di nebbia e confusione, fu la sua altezza. Sembrava troppo alto. Forse era solo un'illusione.
    Presto si riaddormentarono.

    Al risveglio loro erano liberi e l'uomo legato vicino all'ingresso della stanza. Aveva i capelli rossicci e adesso non pareva poi così alto. Gli occhi color nocciola persi in un mare di disperazione, mugolii strozzati sputati dalla bocca imbavagliata. Doveva essere giovane, pensò Orazio, ma magari s'ingannava. Lì dentro tutto annegava nel viscidume dell'invecchiamento e anche lui, adesso, doveva apparire molto più anziano di quanto non fosse quando c'era entrato. Intanto il ragazzo riprendeva man mano conoscenza. La fronte si corrugava dai dubbi, ma gli occhi continuavano a vagare nel nulla, morti in quella speranza che fosse tutto un sogno. Orazio tentò di immedesimarsi in quei dubbi. Cosa aveva pensato lui quando si era risvegliato lì? Non ricordò. Volle rievocare l'accenno di una qualche paura, l'ansia delle prime rincorse alla salvezza, la speranza di scoprire che era tutto un brutto sogno. Provò a rivivere anche uno solo di quei sentimenti. Nulla. C'era solo la fame. Quella era l'unica cosa che ricordava esistere anche prima.
    Gli altri erano già in piedi al centro della stanza. Confabulavano, Elsa al centro. Mentre si avvicinava, Orazio notò che il corpo di Giovanni era sparito.
    «Che facciamo?» diceva qualcuno con voce sommessa.
    Elsa guardava davanti a sé. Sembrava concentrata nel creare un contatto empatico con il nuovo arrivato, che però pareva non notarla nemmeno: troppo invischiato nel terrore per farlo. Gli altri tacevano ed evitavano anche di guardarsi.
    Nel frattempo, incominciò la voce: «Buongiorno, concorrenti. Come state oggi?» Si guardarono per qualche secondo, come se quel suono li avesse per un attimo risvegliati dalla placidità in cui erano riversati. Orazio sentì una scossa d'odio percorrergli il sangue, ma si trattava di qualcosa di debole: sentimenti consumati dalle grotte.
    «Oggi, come vedete, tra di voi c'è un nuovo compagno. Si chiama Marco, ha ventisette anni, lavora in un centro estetico». Quello sembrava non fare alcun caso alle parole della voce metallica e muoveva gli occhi in cerca della fonte di quel suono. Loro in tutto quel tempo non ci erano riusciti.
    «Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi, oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...» — un brivido di paura che stringe lo stomaco del nuovo arrivato — «oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...» Il ragazzo ora aveva gli occhi sbarrati sul gruppo dei prigionieri e, nonostante fosse riuscito in qualche modo a sfilarsi il bavaglio, aveva la bocca spalancata come incapace di emettere qualsiasi suono.
    «Liberiamolo subito» disse uno. Orazio ricordò la fame. Elsa annuì, quindi si avvicinò al ragazzo col coltello in mano. Orazio se l'era fatta sotto a quel punto, ricordò allora. Si ritenne patetico. Poi lei lo slegò e lui si alzò incerto, con un'espressione di gratitudine che gli si scioglieva sul viso. Elsa lo condusse al centro della stanza, dove c'erano gli altri. Quasi tutti però s'erano allontanati, quindi a presentarsi furono solo Orazio e altri due uomini. Anche loro si allontanarono ed Elsa restò un po' a chiacchierare con il nuovo arrivato.
    Orazio osservava da lontano le sue labbra che si muovevano. Cercava di leggerne il labiale o forse s'era solo incantato sulla forma di quelle colline rosse. Ogni tanto il ragazzo parlava un po' troppo forte e la sua voce si diffondeva per tutta la stanza, perdendosi negli strascichi dell'eco. Orazio capiva che quella ormai era una consuetudine: era lei che dava il benvenuto a chi arrivava lì. Però non poté fare a meno di provare la solita stretta al petto, l'ennesimo pezzo di carne che pareva venir meno. Si odiò per quello e tentò di pensare ad altro, ma oltre Elsa c'era solo la fame. A pancia vuota non riusciva nemmeno a pensare a quella via di fuga e d'altronde adesso, a diverse ore di distanza, tutto quello gli sembrava una follia. Doveva averlo immaginato, di sicuro. Forse era un inganno. Non poteva essere vero. Si decise per lasciar perdere per sempre quella storia e tornò a soffrire la fame.
    Poi però la gelosia si fece insopportabile. Decise d'avvicinarsi a loro due e intrufolarsi nella conversazione, sebbene non ne avesse alcuna voglia. Il tipo si presentò e parlò un po' di sé. Orazio finse di ascoltare. Quando Elsa parlava, notò, lo sguardo di Marco si faceva curioso come quello di un bambino; allora interveniva ancora, per spezzare l'interesse che albergava in quegli occhi. Appena lo faceva si sentiva un vile, un vigliacco. Però, ammetteva, quando lo sguardo di quello cambiava intonazione una parte dentro di lui sorrideva.
    Poi il sonno tornò. Orazio ne fu sollevato: al risveglio sarebbe andato tutto meglio. Non ebbe tempo di pensare che la rassegnazione alla sopravvivenza stava inghiottendo la speranza di scappare. Si lasciò cullare da quel gas e dormì bene come non faceva da tempo.

    L'odore che annusò al risveglio lo rese euforico. Per un attimo lo seguì con il naso e lasciò lavorare la sua immaginazione, ma subito scattò in piedi. Quando però s'accorse di essere il primo si fermò e aspettò che anche gli altri si svegliassero.
    Elsa, affianco a lui, era già sveglia, ma ancora sdraiata. Fissava il soffitto con le mani incrociate dietro la testa e sembrava consumata da un dubbio che non aveva senso di esistere, perché la soluzione era sempre la stessa. Allora Orazio si sedette accanto a lei e poggiò una mano sul suo ginocchio, iniziando ad accarezzarlo con calma. Era troppo magro e sarebbe riuscito a raccoglierlo nella stretta della sua mano. Lei si voltò e gli mostrò un sorriso forzato. «Non ho fame».
    «Qualcosa devi mangiare» suggerì Orazio.
    Lei scosse le spalle. Orazio non capì. «Dai, vieni» disse, tendendo una mano per tirarla su, ma si sentì ridicolo e subito la ritrasse. Lei però accettò la stretta e si fece trascinare, seppur con una certa riluttanza.
    Anche gli altri nel frattempo s'erano alzati. Alcuni già divoravano pezzi di carne. I soliti occhi famelici e rossi degli animali, le tute che s'imbrattavano d'olio. Per qualche momento la fame venne meno, ma poi tornò. Marco invece s'era appena svegliato e sembrava già riconoscere gli odori che lo circondavano. Dovette sbattere più volte gli occhi per mettere a fuoco l'ambiente e nel rialzarsi sbatté la testa contro il muro. Si sedettero insieme: Orazio da una parte, Marco dall'altra, Elsa al centro.
    Orazio all'inizio era riluttante. Certo, la fame era tanta, ma al solo pensare a chi apparteneva la carne che aveva davanti sentiva un liquido acido risalirgli per la gola. I suoi ansiti ruggenti in punto di morte gli rimbalzavano ancora nelle orecchie, ricordava lo scuotersi selvaggio del suo corpo alle strette del dolore. Ed Elsa, poi? Gli aveva tenuto la mano e aveva sussurrato il suo nome, tentando di calmarlo. Si sentiva male per lei. Però non potevano andare avanti così: dovevano mandar giù qualcosa. Quindi, piano, afferrando la carne con la punta delle dita per sporcarsi il meno possibile, iniziavano a mangiare. Non era malaccio, Tra un morso e l'altro Elsa lasciava trascorrere tanto tempo e s'allontanava dalla tavola, respirando a grandi bocconi quell'aria contaminata. Orazio invece ingurgitava il più veloce possibile per non aver tempo per pensare.
    Appena si sentì sazio s'allontanò dal tavolo e si rintanò nel suo angolo. Mentre si alzava, però, notò un particolare che fece sì che un brivido gelido gli percorresse la schiena. Sulla tovaglia, ad ogni posto, c'era il ritratto in miniatura di Giovanni. Lì sotto, apposta come una firma, c'era il suo nome. Quella, per qualche motivo, sembrava fosse proprio la firma di Giovanni e non un falso del loro padrone.
    La sensazione di avere lo stomaco pieno era soddisfacente e per qualche minuto godette di quell'intontimento tipico che si ha dopo le grandi mangiate. Poi però vennero i rimorsi. Come aveva potuto? L'altra volta non conosceva l'uomo che aveva mangiato, ma si era comunque ripromesso che non l'avrebbe mai fatto. E ora ci era cascato di nuovo, guidato dall'istinto come il peggiore degli animali. Certo, capiva che bisognava mangiare per continuare a vivere, però, se vivere gli costava quello strazio, tanto valeva morire! Così, preso da quest'avvilimento, sentì un grande bisogno di piangere. Trattenne per quanto riuscì, ma poi dovette sfogarsi. Prono, con la testa nascosta tra le braccia per non farsi notare. Sentiva però il corpo scuotersi ad ogni singhiozzo e quindi capiva che per gli altri non doveva essere difficile realizzare che stava piangendo.
    Alla fine gli tornò in mente la via di fuga. Ora più che mai gli sembrava una strada improbabile. Allo stesso tempo, però, era l'unico lume in una strada che altrimenti era troppo buia e cupa. Tanto valeva provarci, no? Provò ad organizzare mentalmente la fuga, ma uno smarrimento profondo gli ottenebrava il pensiero e la disperazione di prima, al notare che non riusciva a mettere in piedi nessun'idea valida, tornava a farsi sentire. Quindi si alzò, vacillando per un dolore all'anca appena provato. Si avvicinò ad Elsa. Sembrava smarrita quanto lui. «Devo parlarti» disse piano per non farsi sentire.
    «Dimmi».
    «Non qui. Nel sentiero».
    Lei lo guardò negli occhi, intuì che doveva trattarsi di una cosa seria, poi annuì.

    #12
    Mentre camminavano pensò a come raccontarle il tutto. Quali parole usare? Non voleva tradire la sua speranza, ma nemmeno svalorizzare quella scoperta. Era tanto assorto da quel pensiero che quasi non s'accorse che, percorsi quelli che dovevano essere cinquanta metri, Elsa s'era fermata e ora lo guardava dal basso, con un'espressione accigliata e viva. Lui aveva proseguito per qualche passo in più, quindi dovette tornare indietro.
    «Dimmi» disse lei.
    «Non rischiamo di essere ascoltati?» Non era davvero preoccupato: voleva solo qualche altro secondo per riflettere.
    «No, non credo. Però se vuoi andiamo ancora un po' avanti».
    Orazio annuì. Proseguirono, lui continuò a cercare le parole in qualche anfratto della sua mente. Fu ancora lei a fermarsi, e stavolta Orazio pensò di percepire una punta d'impazienza nel movimento dei suoi piedi che frenavano.
    «Allora?»
    «Bene, sì...» disse Orazio. Erano di fronte, vicinissimi. Orazio poteva percepire il respiro di Elsa che spirava lento; e lo sentiva avvolgente, il rivestimento di una seconda pelle. Era come se quel soffio, con il suo abbraccio, scandagliasse le sue emozioni, in cerca di qualche segno d'incertezza, di una speranza ridicola. Si sentì oppresso e accusò il bisogno di poggiarsi al muro alle sue spalle. Il cuore gli batteva forte come se qualcuno gli avesse davvero rubato un segreto. «L'altro giorno...» — esordì, e subito provò l'impulso di correggersi: i giorni lì non esistevano — «...no, ecco, l'altra volta, quando siamo andati di là per cercare il cibo, è successa una cosa».
    «Cioè?» Il viso di Elsa, con quella luce proveniente dal basso, era oscurato per metà. Della parte superiore spiccavano solo gli occhi verdi e splendidi.
    «Ricordi quando siamo arrivati alla fine dell'altra strada?»
    Elsa annuì.
    «Ci siamo un po' riposati. Eravamo seduti con la schiena alla parete, no? Mentre mi rialzavo ho sentito un rumore». Qualche secondo di silenzio. «Non vorrei sbagliarmi, ma credo fosse una parete di cartapesta».
    Elsa non sembrava stupita. Contratta, forse un po' spaventata. La sua voce ancora sicura, ma già incrinata da qualcosa, ebbe la forza di emettere una sola parola: «Quindi?» Poi il suo volto cambiò. Il corrucciarsi della fronte, un brivido fulmineo che le attraversò le spalle, il tremore pallido delle labbra: pareva che qualcosa di oscuro, fino ad allora inghiottito dagli abissi della sua coscienza, stesse riemergendo adesso, talmente vigoroso da sconvolgere l'aria. Non sembrava che il preludio di un temporale: quello doveva ancora scoppiare.
    Orazio ebbe paura. Non poteva capire tanto da quell'espressione, ma qualcosa intuiva. Non sapeva se continuare o meno con il suo racconto, ma prima di aver deciso Elsa parlò: «No, ti stai sbagliando». La sua voce era meccanica, ma rotta dal terrore.
    «Non credo. Io lavoro con la cartapesta e non potrei...»
    «No, ti stai sbagliando» ripeté lei.
    «Aspetta. Può darsi, ma voglio controllare».
    «Non c'è niente da controllare. Niente!» gridò. Poi, impaurita, sussurrò: «Ti prego, davvero, non c'è niente, stai sbagliando».
    Era evidente, agli occhi di Orazio, che Elsa non stesse lottando per distoglierlo dal suo proposito. La sua era una guerra contro sé stessa, contro quei fantasmi che solo allora poteva avvertire; combatteva per convincersi che davvero non c'era nulla da vedere.
    Poi Orazio parlò. Le disse di stare calma, ma senza grossa convinzione: era assorbito dal suo viso. Ora era bloccata, la bocca dischiusa, le membra pallide. Il respiro era irregolare, il petto s'alzava e s'abbassava senza sosta, come in preda a delle convulsioni. I ricordi continuavano a fluire, sempre più veloci, intuì Orazio. Tacque: non c'era nulla che potesse calmarla.
    Dopo qualche minuto lei s'accasciò a terra. Aveva lo sguardo distrutto e sembrava davvero di ritorno da una guerra. Il suo respiro però s'era fatto più calmo e il volto aveva ripreso colore. Orazio strisciò accanto a lei con cautela. Le poggiò una mano sulla spalla, udì il suo respiro strozzato. Passò del tempo. Ogni tanto un tremito le percuoteva il corpo, e allora anche Orazio si sentiva scombussolato. Freddo. E intanto lei mormorava: «È già successo, no, non è vero, è già successo...»
    Dopo un po' Elsa cominciò a parlare. Lo fece con una voce atona, che solo a tratti si rompeva, lasciando trasparire una parte di quel tormento.
    «È già successo. Non so come possa averlo dimenticato.
    «Era da un po' che ero qui. O almeno credo. Molti di quelli che c'erano allora sono morti. Qualcuno è ancora qui, ma non saprei dirti chi. Sembra tutto svanito, non esiste più nulla».
    Per qualche secondo si fermò, come se volesse rammendare i fili del suo pensiero. Poi proseguì: «C'era un ragazzo. Non ricordo come si chiamava, ne sono passati tanti qui. Mi chiese di andare in giro, qui, per cercare qualcosa da mangiare. Un po' come hai fatto tu e come fanno tutti, quando arrivano qui. È normale.
    «Ci andammo. Credo facemmo la stessa strada, gli stessi vicoli che abbiamo visto insieme. Ora non li ricordo: questi vicoli mi fanno troppa paura. E arrivammo alla fine dell'altro percorso».
    Qui si prese più tempo. Respirò a fondo. Orazio, guardandola, ebbe l'impressione che Elsa stesse cercando di convincersi per l'ultima volta che ciò che stava raccontando era solo uno scherzo dei suoi ricordi.
    «Mi disse la stessa cosa. Il rumore della cartapesta. Non volli crederci, ma in fondo ci speravo. Quindi ne parlammo tutti insieme e mettemmo su un piano per fuggire. Eravamo divertiti e ci scherzavamo su, come fosse una stronzata qualsiasi, ma ci speravamo tutti. Poi arrivò il gas e ci addormentammo, ripromettendoci che il giorno dopo ci avremmo provato.
    «Quando ci risvegliammo quel ragazzo non c'era. Anzi, non c'era mai stato: è sparito dalla memoria di tutti. Ricordo che al risveglio eravamo confusi, avevamo un forte mal di testa. Decidemmo che era colpa del gas. Solo adesso che tu hai ricacciato la stessa storia mi è tornato in mente. Deve averci stordito, o tolto la memoria. Qualcosa del genere».
    Elsa tacque. Pareva sfiancata da quel racconto. Orazio, immobilizzato, strinse forte i pugni. Aveva paura. Provò a riflettere, ma anche la sua mente pareva imbalsamata dal terrore. Dopo un po' disse: «E adesso?»
    «Non lo so. L'altra volta quel bastardo l'ha saputo, ma forse perché ne abbiamo parlato nella stanza ad alta voce». Non sembrava convinta.
    «Quindi secondo te non dovremmo dire niente agli altri?» Sebbene capisse che quella era la decisione più saggia, Orazio provò un po' di rimorso: se quel pezzo di merda aveva insabbiato quella storia un motivo c'era e gli dispiaceva non indagare fino in fondo.
    «Sì, almeno fino alla prossima volta che userà il gas. Poi decideremo». Orazio annuì.
    Non ebbero la forza di rialzarsi. Quando lui accennò un tentativo, Elsa disse: «Qui è tutto sorvegliato. Ci sono telecamere ovunque. Microfoni, registratori. Ci vede e ci sente sempre. Anche adesso». Orazio rabbrividì, poi si sentì in colpa. Se avesse lasciato perdere quella storia tutto questo non sarebbe successo. «Scusa» sussurrò, ma lei non sentì.
    «Come ti senti? Sei stanco?» chiese Elsa.
    «Non tanto». Non lo era per nulla: il panico soffocava ogni altro istinto.
    «Dobbiamo resistere al sonno. Se non dormiamo, non può venirci a prendere». Orazio pensò che fosse una follia, poi disse di sì. Non c'era altra strada.
    Tornarono nella stanza. Trascorse del tempo, loro tentarono di dissimulare le proprie paure chiacchierando con gli altri, ridendo alle proprie battute. Orazio notò che venivano osservati come se fossero una coppia d'innamorati di ritorno da un'imboscata e, imbarazzato, sentì il bisogno di giustificarsi: «Dovevo solo parlarle di una cosa».
    Poi il gas arrivò. Orazio era vigile, le orecchie dritte. Ne veniva della sua vita. Quel vapore, che nel frattempo prendeva anche una consistenza densa e lattiginosa, stroncava però ogni proposito. Graffiò con le unghie contro il pavimento e il suono che ne provenne gli causò un brivido freddo, che lo aiutò a resistere per un po'. Poi, quando quell'effetto fu svanito, prese a colpirsi sullo stomaco per provocarsi dolore. Era inutile: il sonno, malgrado la sua opposizione, continuava a penetrare nella sua mente e nei suoi muscoli. Per un po' fu tentato di arrendersi e lasciarsi andare prima al torpore, poi alla morte: in fondo stare lì dentro non era tanto meglio. La prospettiva quasi lo affascinò, ma quando immaginò il lento deperire delle sue membra la paura si ravvivò. Si rotolò a terra, batte la testa contro il pavimento, ma tutto ciò non faceva altro che sfiancarlo ancor di più. Poi, ormai quasi vinto, si graffiò la coscia. Il sangue che sgorgava lo tenne ancora un po' aggrappato alla veglia.
    D'un tratto cominciò ad udire un rumore. Era lontano e ancora smorzato dai rumori abituali di quella grotta, ma c'era. Non erano dei passi: era un frusciare metallico e estenuante. Si faceva sempre più vicino e Orazio sentiva il suo cuore aumentare i battiti. Provò caldo, scoprì una vena che pulsava ferocemente sulla fronte. Ora il sonno non c'era più: di nuovo il terrore. Il terrore e l'avanzata di quel fruscio inquietante. Poi, quando ormai doveva essere a pochi passi, il rumore s'arresto. Ci fu un breve schiocco e Orazio dovette reprimere un urlo che avrebbe rivelato il suo stato vigile. Poi il fruscio riprese, stavolta percorrendo il percorso inverso, e si perse nello stillare falso dell'acqua, nel vociare dei vicoli, nei pensieri che s'intorpidivano.
    Quell'ultima prova lo aveva sfiancato. Percepiva il pericolo ormai lontano e non aveva la forza di chiedersi nulla. S'abbandonò al sonno, con in mente non più di una punta d'ansia.
    Al risveglio era ancora lì. Fu un grande sollievo: nel sonno, aveva visto il candore esagerato di qualche ospedale. Poi si guardò intorno. A quel punto, pensava di svelare a tutti la sua scoperta e tentare finalmente la fuga. Però qualcosa non gli tornava.
    Gli altri si guardavano intorno, come smarriti. E solo allora Orazio realizzò tutto. Gli tornò in mente quel rumore udito nella sua sfiancante veglia e si maledì per non aver ipotizzato la sua provenienza. Prese a guardarsi intorno anche lui, ma svigorito, con il cuore già annegato nel pentimento e nella disperazione. Non trattenne due lacrime che gli rigarono le guance.
    Elsa era sparita.

    #13
    Provò a cercarla, con la consapevolezza che non l'avrebbe trovata. Nei vicoli che s'infilavano negli anfratti di quelle grotte trovò il silenzio per piangere. Idiota, stupido idiota! Come aveva fatto a non pensarci prima? Nella notte estenuante, con in mente solo la propria salvezza, non aveva neppure ipotizzato che il loro piantone cambiasse obiettivo. E quel rumore — che, adesso capiva, doveva essere quello di una macchina elettrica con un contenitore per il trasporto — non aveva insinuato in lui nemmeno il minimo dubbio. Probabilmente, si disse per rincuorarsi, anche se avesse capito cosa stesse succedendo non avrebbe potuto far nulla: sarebbe stato solo e tramortito dal gas soporifero contro quel bastardo eccitato dall'ennesima delle sue infamie. Ma l'idea non lo confortava. Si maledisse, desiderò esser morto.
    Trascorse del tempo. Orazio si asciugò le lacrime, ma queste continuavano a scendere copiose. Cosa fare adesso? Senza Elsa pareva aver perso la bussola. Il piano di fuga, che gli sembrava nitido anche nel torpore della notte, ora non aveva più nessun senso. Solo un ammasso di speranze e pensieri, vagheggiamenti e idiozie. Ci provava, a ricomporre i pezzi di quel puzzle, ma una nebbia dolorosa e grigia gli sporcava la ragione. E intanto i segni della lunga veglia cominciavano a farsi sentire. Quel gas sembrava essersi impadronito delle sue ossa e dei suoi muscoli. Un accenno di sonnolenza tornò a provocargli sbadigli; se prima c'era l'euforia della fuga a eccitarlo, ora che questa era sparita nulla prometteva di trattenerlo sveglio. Mai, da quando era cominciata quella prigionia, s'era sentito così perso. Chiuse gli occhi e, mezzo inghiottito dai sogni, finalmente la vide.
    Elsa era nuda e supina sul pavimento freddo. Il suo volto era una maschera di dolore sfregiata, il suo corpo un mosaico di pieghe e tagli. A metà della sua altezza, il busto si piegava innaturalmente verso un lato, come fosse spezzato in due. Allungava una mano verso di lui, strisciando le unghie contro la pietra, e mormorava con voce acuta: «Aiuto, aiuto».
    Quest'immagine bastò a terrorizzarlo. Provò a scattare in piedi, ma le sue gambe non ressero lo sforzo. Quindi, inginocchiato, infilò la testa fra le gambe per non vedere altro che il buio. Ma Elsa era proprio lì, nella zone d'ombra della sua mente, nell'oscurità in cui Orazio cercava riparo; e il suo ansito agonizzante si faceva sempre più lontano, la sua voce sempre più flebile e rotta. Cosa voleva dire quell'immagine? Solo un frutto della sua mente ormai fuori di giri? La ragione lo spingeva verso questa soluzione, ma lì dentro nulla era razionale. E se fosse stata una richiesta d'aiuto? Doveva cercarla e soccorrerla. Ma dov'era? Dove poteva averla portata?
    Provò a ragionare. Si sentiva più sveglio, quasi lucido. Decise che era ora di parlarne con gli altri e non si diede il tempo di cambiare idea. Uscì quindi dalla viuzza in cui s'era rintanato e tornò nello spiazzale centrale. Solo pochi erano però rimasti lì: gli altri, come lui, stavano cercando Elsa nei vari vicoli. Urlò per richiamarli e udì l'eco del suo grido rincorrersi per tutta quella strada.
    Dopo qualche minuto erano tutti riuniti. In sei, stavolta. Mancava la settima persona.
    «Non l'ho trovata» disse il medico.
    «Nemmeno io» continuò un altro. Gli altri annuirono, ma ad Orazio non interessava. Per lui era ovvio che non l'avrebbero trovata.
    «Devo parlarvi» esordì. «Non interrompetemi, se volete chiedermi qualcosa fatelo alla fine. Vi prego, è una cosa importantissima».
    Un sì generale.
    «Ieri io ed Elsa abbiamo parlato. Ve ne sarete accorti, sì». Si fermò per un attimo: non sapeva da dove cominciare. «Allora, so che è stata rapita. Fatemi spiegare.
    «Un po' di tempo fa siamo andati di là, in quei vicoli, a cercare da mangiare. È successo prima che Giovanni... be', prima che Giovanni morisse. E da quella parte, alla fine della strada, c'è un muro. Penso sia di cartapesta. Ieri l'ho detto ad Elsa e mi ha detto di aver ricordato una cosa.
    «Tempo fa, quando lei era appena arrivata qui, successe una cosa simile. Un ragazzo disse di aver sentito lo stesso rumore e loro si organizzarono per una fuga. Poi però si addormentarono, credo per il gas, e quando si risvegliarono quel ragazzo non c'era più e loro non ricordavano più nulla».
    «Io adesso qui sono il più anziano, ma non ricordo nulla del genere» disse un uomo. Sembrava perplesso.
    «Credo vi avesse fatto perdere la memoria o qualcosa del genere. Elsa l'ha ricordato solo quando io le ho raccontato ciò che avevo scoperto, magari tu non ricordi e basta. O forse non eri nemmeno qui quando è successo. Comunque avevo detto di non interrompermi, fatemi andare avanti.
    «Bene, vi dicevo, ieri per causa mia ha ricordato questa cosa. Era distrutta. Non volevamo parlarne con voi, perché speravamo che quello non ci avesse sentito. Non volevamo essere rapiti come quel ragazzo lì. Magari morire. Quando è arrivato il gas abbiamo provato a resistere, a non addormentarci. Non ci siamo riusciti. E non capisco perché abbia preso lei».
    «Senza di lei siamo persi» disse il medico. Nessuno ebbe la forza di ribattere.
    Orazio omise la parte in cui lui era sveglio ed Elsa veniva rapita sotto il suo naso: in un caso del genere meglio essere il più puliti possibile.
    «Non voglio crearvi false illusioni. Non so se questa via d'uscita sia vera o meno. Però vorrei almeno provarci. Non ci costa nulla».
    «Secondo me è una stronzata» disse il tipo allampanato con cui aveva parlato la prima volta. Com'è che si chiamava? «Voglio dire, non per te, ma se ci tiene qui perché dovrebbe lasciarci anche una possibilità di fuga?»
    «Magari si diverte così. Che ne sai, cosa passa nella mente di un pazzo» disse il medico. «E poi, se prima hanno rapito quel ragazzo e ora hanno rapito Elsa, forse ha paura che scappiamo, no?»
    «Quello non ha paura di niente» disse il tipo alto, con un deciso moto di ribrezzo.
    Discussero per un po'. Ognuno, restio alla speranza, cercava di dare vita a dubbi insensati. Poi si decisero per fare un tentativo. Si misero in marcia. Molti non ricordavano la strada, altri, al vedere le ombre, con quei sussurri indistinti e impazziti, rabbrividirono. Dopo poco giunsero di fronte a quello che doveva essere il muro di cartapesta. Nessuno si azzardò a tastarlo per verificare se non fosse di pietra come tutto il resto: temevano di spezzare quella già fragile speranza.
    «Allora, al mio tre corriamo verso il muro e proviamo a buttarlo giù. Nessuna esitazione, mi raccomando». Orazio attese una risposta che parve non arrivare. «Bene, andiamo. Uno...»
    «E se non è di cartapesta?» domandò qualcuno.
    «Al massimo prendiamo una bella botta e torniamo a dormire» disse Orazio, tentando di emettere una risata rassicurante. Era nervoso anche lui.
    Passò qualche secondo.
    «Se non c'è niente, da quella parte?»
    Orazio ci pensò per qualche attimo. Se la prospettiva lo scoraggiava, quella di finire intrappolato in una sorta di spazio vuoto lo inquietava di più. «Non pensiamoci adesso. Proviamo a buttare giù 'sto cazzo di muro e poi vediamo. Okay?»
    Silenzio. Poi un coro: «Okay».
    «Bene. Uno...», un respiro profondo.
    «...due...», gli occhi chiusi, l'immagine di Elsa agonizzante.
    «...e tre!»

    #14
    Ci fu un grosso schianto. Poi delle polveri che si sollevavano e turbinavano nell'aria.
    Si ritrovarono in un breve corridoio di pietra. Dalla fine della via arrivava qualche lama di luce opaca, che moriva dopo pochi metri, soffocata dal buio imperante. Bastava per orientarsi.
    «Che cazzo...» udì Orazio. Qualcuno tossì, per le polveri o per stupore. Lui iniziò ad avanzare cautamente e gli altri lo seguirono.
    Alla fine del corridoio gli si aprì davanti una stanza rettangolare, anche questa di pietra. Da un lato c'era una scrivania, con qualche schermo di computer, un portapenne quasi vuoto e una moleskine nera aperta. Dall'altro una porta. Dal vetro satinato penetrava poca luce soffusa e una macchia rossa sporcava il legno chiaro. Per il resto la stanza era vuota e il rumore dei loro respiri martellava le pareti pesante come ferro.
    Orazio pensò subito alla fuga. A separarlo dalla libertà c'era ormai solo quella porta logora e sporca; il bagliore tenue che lasciavano entrare quei vetri lo cullava di una speranza fino a pochi minuti prima insensata, assurda. E se fosse stata anche quella una trappola? La domanda gli scorse nella mente in un attimo, ma le sue gambe presero a tremare e dovette faticare per reggersi in piedi. L'idea che anche quella fosse un'illusione lo fece precipitare in un baratro nero e senza speranza. Non ora, si disse. Non così vicino.
    Provò a non pensarci, per il momento. Prima doveva trovare Elsa. Dove poteva essere? Se davvero oltre quella porta si celava un inganno — e ancora a quel prospetto il terrore lo invase — allora Elsa poteva essere imprigionata lì. Stavolta a balenargli in testa fu l'idea che lei fosse morta. Si morse il labbro per non piangere, alzò la testa, chiuse gli occhi e inspirò per due volte. Non volle voltarsi verso gli altri per nascondere la propria ansia. Camminava su un filo che separava la salvezza dalla distruzione.
    Solo allora qualcuno dietro di lui parlò: «Cerchiamo Elsa, poi andiamo via. Sempre se quella lì è davvero...» Non terminò la frase, ma dalla voce che si spezzava Orazio intuì che anche in quell'uomo s'era insinuato lo stesso dubbio, che ora scavava solchi d'incertezza nei loro cervelli stanchi.
    «Dove può essere?» chiese Orazio.
    Silenzio. «E se fosse... se fosse morta?»
    Dovette ancora trattenersi dallo scoppiare in lacrime. «Non lo possiamo sapere» disse, udendo l'incrinatura della propria voce «per ora cerchiamola».
    «Sì. Ma dove? Qui non c'è, e lì c'è solo una porta. Non credo l'abbia lasciata scappare». Stavolta a parlare, riconobbe Orazio dalla voce, era stato il medico.
    Allora un terrore più grande s'impadronì della mente di Orazio. «Chi?» urlò, mentre sentiva il ritmo dei suoi battiti che aumentava.
    «Come chi? Elsa!»
    «Ma no! Chi l'ha lasciata scappare? Chi è che ci teneva chiusi qui? E ora dove cazzo è?» gridò ancora, voltandosi verso il resto del gruppo.
    Nessuno parlò. Si scambiarono sguardi, tutti, e Orazio intuì che nelle loro menti stava sgusciando lo stesso pensiero: scappiamo, prima che quello torni e ci faccia fuori tutti.
    Ci fu qualche attimo di silenzio.
    «Elsa... non sappiamo nemmeno se è viva. E dove cercarla, poi?» disse un uomo.
    «Forse è fuori, è riuscita a scappare da sola, forse...» balbettò il tipo allampanato, e intanto continuava con ipotesi strampalate.
    Orazio sospirò. Avevano ragione, non aveva senso restare lì. Però non riusciva a lasciarla sola, pur in quell'impossibilità di cercarla, anche nell'angosciosa probabilità che Elsa fosse già morta. Alzò gli occhi al soffitto. E allora decise.
    «Aspettate. Non sappiamo che ora è, forse lui sta dormendo. E credo che questa qui sia una specie di cantina... non lo so, almeno credo. Quindi qui sopra dovrebbe esserci una casa. Appena sentiamo uno scricchiolio, un rumore, scappiamo. Prima però proviamo a cercarla».
    «Ma dove la cerchiamo? Non c'è nessun posto in cui farlo!» protestò qualcuno.
    «Vi chiedo dieci minuti. Non di più. Poi andate via. Ma prima proviamoci, almeno». Implorò, ma riconosceva come quella dei compagni fosse la scelta più logica. Un pensiero troppo forte gli martellava nella testa: Elsa è morta, vai via prima di fare la stessa fine. Ma qualcosa lo tratteneva: un residuo di speranza insensata che pulsava nel cuore.
    Dopo qualche attimo di silenzio, il medico mormorò: «No, io non me la sento. Vado via». Abbassò la testa.
    «Anche io. Scusate» disse un altro. E piano anche gli altri s'accodarono.
    «Tu che fai?»
    «Io resto... almeno per un po'. Poi vi raggiungo fuori» disse Orazio, forzando un sorriso. Poi li osservò mentre, con un pizzico d'esitazione, scomparivano oltre la porta, chiedendosi se quella fosse davvero una via d'uscita o l'ennesima trappola, stavolta mortale.
    Precipitò in una sorta di stato d'ebetudine, ma durò poco. La paura allarmava tutti i suoi sensi. Si costrinse a pensare, ma, anche sforzandosi, non riusciva ad ipotizzare niente. Allora, preso da un vago senso di nausea, si avvicinò alla scrivania, ci girò intorno e si sedette sulla polverosa sedia di pelle lì vicino.
    Gli schermi mostravano ogni parte delle grotte che fino a pochi minuti prima lo imprigionavano. Di Elsa nessuna traccia. Sebbene fosse ovvio, Orazio accusò una stretta al petto, come di una morsa che gli attanagliava il cuore. La prima speranza che moriva. Dubitava che ci fossero altre soluzioni.
    Il silenzio era inquietante. Enfatizzava ogni rumore, e il respiro diventava uno scricchiolio, la saliva che scorreva nella gola somigliava al picchiare degli stivali sul pavimento. Cominciò a tremare. Poi, disperato, afferrò la moleskine e iniziò a leggere la pagina lasciata aperta.
    Erano poche righe scritte in modo disordinato. Le lettere strabordavano oltre i margini e diverse sbavature macchiavano il foglio. A uno degli angoli s'era seccato un filo di saliva. Orazio iniziò a leggere.
    Mi hanno scoperto, è colpa sua, del capo, la uccido quella zoccola, e prima deve soffrire. Non so come risolvere.
    Poi, qualche riga più sotto:
    Corro, devo correre, lei è di giù, morirà nel frattempo, solo così posso salvarmi.
    Leggendo Orazio accusò un giramento di testa. Lei è di giù. Giù dove? Erano già giù! E allora, se Elsa non era lì, lui era già tornato a prenderla...
    S'immobilizzò. Aveva sentito un rumore. Cos'era? Attese qualche secondo, ma nulla. Doveva averlo immaginato. Tornò alle sue ipotesi. Decise che no, non poteva essere tornato. Quel bastardo era venuto a prenderla nel sonno, ma appena svegli loro s'erano avviati verso quel muro di cartapesta. Il tutto doveva essersi svolto nel giro di qualche ora, calcolò. Nel frattempo, lui dov'era andato?
    La mancanza di qualsiasi soluzione lo sconfortava, l'incedere dei secondi lo inquietava. Lanciò forte la moleskine contro la parete e attese un'intuizione che non arrivò. Tra poco, decise, anche lui sarebbe andato via.
    D'un tratto, mentre lui s'alzava e la sedia rispondeva con un cigolio, udì un altro rumore. Tacque. Una miccia di speranza scoppiò dentro di lui.
    Era un urlo. All'inizio gli parve secco e insensato; poi, però, ascoltando bene, capì cosa quella voce stava urlando. Aiuto.
    Da dove veniva? Non lo capiva. Quindi si avvicinò al muro e iniziò a strisciare per tutta la stanza, l'orecchio poggiato alla parete, sperando che quel grido non s'interrompesse. In una porzione, scoprì, l'urlo si sentiva più forte. Tastò quella parte di muro. Ancora cartapesta. Respirò a fondo, diede qualche botta forte.
    Il muro venne giù e davanti gli si parò una rampa di scalini piccoli e ripidi. Senza darsi il tempo per pensare, iniziò a correre, rischiando di ruzzolare giù da un momento all'altro. Poi, però, a pochi pioli dalla fine della rampa, s'arrestò. Forse quel pazzo era lì dietro e quelle grida avevano lo scopo di attirarlo. O magari stava violentando Elsa. Quel pensiero, più della paura di morire, lo fece desistere dal finire quel percorso. Non voleva assistere, gli avrebbe fatto troppo male.
    Le urla però continuavano a straziarlo nel profondo. La riconosceva, era la voce di Elsa, seppur deformata dal dolore. Doveva andare, provare a salvarla. Anche a costo della propria vita. Con un balzò scavalcò gli ultimi tre gradini, poi girò l'angolo.
    Elsa era nuda, legata supina allo schienale di un letto. La prima cosa che notò Orazio, dalla sua posizione, fu la sporgenza delle ossa. Poi venne il resto.
    Il letto era impregnato di sangue, le lenzuola tinteggiate di un rosso scuro e profondo. Elsa scalciava e si contorceva, come picchiata da tutti i lati dai pugni di un dolore indicibile. Pareva nemmeno essersi accorta dell'ingresso di Orazio nella stanza e, scoprì lui percorrendo con lo sguardo il corpo di lei, non poteva averlo fatto. Due aghi grossi, stillanti di sangue, le infilzavano le palpebre e le chiudevano gli occhi. Lungo le guance le colavano rivoli di sangue misti a lacrime e una scia di sangue coagulato le arrivava fino al collo.
    «Elsa! Elsa!» gridò Orazio. Ebbe l'impulso di scoppiare a piangere, poi di scappare. Desiderò morire. Si gettò ai piedi del letto, continuando a ripetere quel nome: «Elsa, Elsa!». Non sapeva cosa fare. Toglierle quegli aghi dagli occhi? Non le avrebbe provocato ulteriore dolore? Notò però che buona parte del sangue che impregnava le lenzuola era vecchio e secco. La cosa non bastava a rassicurarlo, ma forse non era tutto perduto.
    Poi, mentre pensava al da farsi e quando Elsa aveva finalmente finito di urlare, udì uno schiocco secco. Il suo cuore si bloccò per un attimo.
    Pochi secondi. Ancora quel rumore. Proveniva da sopra.
    Le chiavi che giravano nella toppa.

    #15
    Quando il rumore metallico delle chiavi s'interruppe, Orazio udì i cardini della porta che cigolavano. Poi qualcuno che parlava. Elsa singhiozzava, quindi lui non riusciva a distinguere le parole, ma poteva riconoscere una voce maschile. Subito però quel suono si bloccò.
    Il bastardo doveva aver scoperto i muri di cartapesta venuti giù. Orazio non ebbe paura. Sapeva che la prima cosa che avrebbe fatto quel pazzo sarebbe stato controllare la stanza in cui si trovavano lui ed Elsa. Ammetteva che, con il suo stupido indugio, non solo non era riuscito a salvare Elsa, ma aveva anche messo la firma sulla propria condanna a morte — e ripensava a questa situazione con non più di un pizzico di rimpianto. Però non gli riusciva di aver paura: solo sconforto e rabbia. La morte gli sembrava ancora qualcosa di lontano.
    Dopo qualche secondo la voce riprese a parlare. Stavolta, ascoltò Orazio, era un borbottio confuso e basso. Tese l'orecchio per ascoltare, ma non ne ebbe il tempo: qualcosa lo fece ritrarre.
    Passi pesanti che calpestavano le scale. Dovette sentirli anche Elsa, che iniziò a urlare, ma in quel momento le orecchie di Orazio erano come otturate. Gli parve che tutta la stanza stesse iniziando a tremare, lasciando venir giù un pulviscolo grigio e spesso. E allora la paura arrivò. La sentì come qualcosa di liquido che, prima intrappolato nel suo cuore, ora iniziava a fluire nelle vene, mischiandosi al sangue e al rimpianto.
    Poi dalla rampa di scale spuntò un uomo. Era basso, aveva un viso paffuto su cui si stendeva una barba irregolare. Orazio, che era ancora inginocchiato al letto di Elsa, si ritrasse e iniziò a tremare. Dietro all'uomo comparvero altre due sagome più alte, che Orazio non riuscì a guardare in faccia per il buio che li circondava. Elsa cessò di urlare.
    "Sono loro quelli che mi hanno imprigionato". La frase gli passò per la mente e poi svanì nella sua banalità.
    «Sono loro! È quello il rumore che sentivo!» urlò quello più basso, infervorato. Aveva le guance arrossate e la fronte sudata.
    Gli altri due si scambiarono uno sguardo. Poi spinsero quello al centro verso il muro alla loro sinistra. L'uomo urlò e cercò di dimenarsi, i due alle sue spalle lo bloccarono contro il muro. Solo allora che un primo fascio di luce li raggiungeva Orazio riconobbe la loro uniforme.
    Erano carabinieri.

    «Vai a chiamare un'ambulanza» aveva detto poco dopo l'ammanettamento uno dei due agenti all'altro. Orazio, nel frattempo, trascorse quel tempo accanto ad Elsa, tenendole la mano. Ogni tanto, quando lei mugolava di dolore, lui sussurrava: «Stanno arrivando, resisti», ma senza grande convinzione. Aveva paura che sarebbe stato troppo tardi e avvertiva i minuti scorrere sempre più lentamente. E poi quando lei si lamentava parte di quel dolore diventava anche suo: non vedeva l'ora che finisse.
    Ciò che era appena accaduto l'aveva lasciato inebetito. Ancora non voleva crederci. Temeva anzi che, da un momento all'altro, quelli che si erano presentati come i loro salvatori poi si rivelassero assassini. E se quella fosse stata l'ultima tortura, l'illusione finale? Non era un pensiero così folle, in fondo. Intanto però i due carabinieri avevano portato via quel bastardo. Orazio già non ricordava più la sua immagine. Era basso, quello sì. Forse grasso, ma non poteva dirlo con sicurezza. Il resto si confondeva in un groviglio di incertezza e rancore.
    Alla fine l'ambulanza arrivò. Orazio salì al piano superiore e i medici iniziarono con le manovre di primo soccorso. Poi portarono Elsa su in barella, non senza difficoltà: la scalinata era stretta e ripida.
    «Come sta? È grave?» chiese Orazio al primo medico che si trovò davanti. Era un uomo anziano, dai capelli bianchi e splendenti.
    Quello alzò le spalle, poi disse: «Andrà tutto bene». Orazio però non si rassicurò. Gli era parso di percepire, in quella voce, un tono strano, accondiscendente. Era una bugia, si disse, e tornò ad aver paura, questa volta per le sorti di Elsa.
    In un momento in cui i due agenti sembravano distratti, raccolse da terra la moleskine nera e la infilò nei pantaloni. Non aveva un motivo preciso per farlo, e subito ebbe paura di essere scoperto. Però non poteva più rimetterlo a posto: i carabinieri ora gli stavano facendo domande sulla sua prigionia. Dovette anche stare attento ai suoi movimenti, perché il taccuino minacciava di scivolare lungo le gambe. Non poteva permetterlo.
    Dalla sua chiacchierata con gli agenti, apprese che quel fenomeno di sparizioni aveva mobilitato l'intera città. Erano già passati otto mesi dalla prima, ma solo ultimamente, con le scomparse che divenivano più numerose, il mistero s'era infittito e s'era ipotizzato un collegamento.
    «Come siete riusciti a scappare di là?» chiese uno dei due, ancora quello più esperto. Aveva i capelli neri tagliati corti, un viso duro e inespressivo, ma sembrava gentile.
    «Il muro che abbiamo tirato giù era di cartapesta» rispose Orazio.
    «Sì, abbiamo visto. Ma come l'avete scoperto? Mi sembra strano che lo siate venuti a scoprire dopo tutto questo tempo».
    «Noi... in pratica dormivano dall'altra parte della grotta, non venivamo mai da questa parte. È stato per caso».
    «E gli altri prigionieri che fine hanno fatto?» chiese ancora quello.
    «Sono scappati poco prima che arrivaste voi. Io sono rimasto perché volevo cercare Elsa, cioè, la donna che c'era di sotto».
    Quello, in piedi contro il muro, trascrisse tutto su un foglio di un blocco note. Poi chiese: «E quanti eravate?»
    «Sette».
    Dopo qualche secondo l'altro agente, il più giovane, fece notare: «Ma noi contiamo quasi venti sparizioni».
    «Io non ero qui da molto... però so che molti sono morti. Siamo sempre stati sette lì dentro. Quando qualcuno moriva quello lì subito lo rimpiazzava».
    L'agente più anziano annuì, poi disse: «E ancora non sappiamo se tutte le sparizioni sono realmente legate a questo caso. Probabilmente no».
    Passato qualche minuto, fu Orazio a chiedere: «Come l'avete scoperto?» Li aveva visti entrare in quel sotterraneo al seguito di quel pazzo e solo dopo arrestarlo. La dinamica non gli era chiara.
    «Si è praticamente consegnato. Stanotte è venuto in caserma e ci ha detto che dei ladri gli stavano entrando in casa. Noi siamo venuti qui e vi abbiamo trovato» rispose il più giovane.
    «Pensiamo che avesse capito che voi stavate progettando la fuga. Abbiamo visto le telecamere e i microfoni, quindi se ne avete parlato tra di voi lui l'ha saputo sicuramente. Aveva paura, perché voi eravate sette e lui era solo: pensava che sareste comunque riusciti a scappare e avreste denunciato. Quindi è venuto da noi e ha inventato questa scusa dei ladri, perché voleva far passare voi come gli intrusi in questa cantina».
    Orazio lo guardò perplesso. Decise di tacere.
    Quello però intuì il suo scetticismo e ammise: «Lo sappiamo, è una follia. Ma è l'unica cosa sensata che possa averlo portato a consegnarsi nelle nostre mani. Non credo si fosse pentito».
    Passò del tempo. Poi un altro agente, appena arrivato, gli disse: «Vieni, ti riaccompagnamo a casa». Orazio s'incamminò verso la porta. C'era un piccolo scalino da scavalcare, poi l'aria aperta.
    Chiuse gli occhi, arrancò nel buio, ma riuscì ad uscire. Mantenne ancora qualche attimo gli occhi chiusi. Un vento fresco gli fece rizzare i peli. Aprì gli occhi.
    Di fronte a lui albeggiava. Un rossore tenue si diffondeva lungo una pianura verde e gialla e i primi raggi del mattino gli lambivano il viso. Un insetto gli svolazzò sul viso, poggiandosi per un attimo sul naso. Lo scacciò con la mano. I vapori della rugiada che si scioglieva si mischiavano all'odore dell'erba.
    Camminò su un sentiero stretto di terra, affiancato da arbusti ed erbacce. Era ripido e cedevole, e il carabiniere dovette aiutare Orazio, che non sarebbe mai riuscito a risalire con le proprie forze. Foglie morte scricchiolavano sotto i suoi piedi. Udì anche il fruscio di un fiume che scorreva. Chissà se era quello che stillava in quella grotta?
    Svoltò un angolo e si riscoprì in aperta campagna. Di fronte a lui c'era una volante dei carabinieri. Vi s'incamminò. Poi, prima di entrarci, si girò e guardò la casa di quel bastardo che l'aveva imprigionato.

    #16
    «Dice che qualcuno l'ha costretto a consegnarsi alle forze dell'ordine, ma non sa dire chi». Gliel'aveva detto un agente di polizia pochi giorni dopo il rientro a casa, ma da allora erano passate quasi due settimane e quella frase continuava a rimbombargli in testa. Qualcosa gli diceva che l'uomo che avevano arrestato non mentiva. Era assurdo, ma Orazio pensava davvero che qualcuno l'avesse costretto. In che modo? Non lo sapeva.
    Ritornare alla vita quotidiana era risultato difficile. C'era stata la gioia per aver ritrovato sua moglie, ma era durata poco: era subito ripiombato in uno stato d'inermità. E Marina l'aveva capito. Cercava di aiutarlo, di dargli conforto, ma lui era distante, assorbito da pensieri lontani e da tenebre fitte.
    Lei non lo sapeva, ma Orazio era convinto che quello lì non fosse il vero rapitore. E non perché l'agente gli aveva riportato quelle parole: c'era altro. Quel pensiero gli stava rodendo il cervello.
    Ricordava l'ombra che aveva visto nella grotta quando quel pazzo era venuto a prendere Elsa. Era alta e secca. L'uomo che avevano arrestato era basso e grasso. Potevano essere le luci ad aver allungato il riflesso di quell'uomo, ma Orazio ne dubitava: la differenza era troppa. Certo — si diceva —, quell'uomo poteva aver pagato qualcuno per svolgere quell'ultima mansione, o magari lavorava in coppia, ma nessuna delle due ipotesi lo convinceva.
    Aveva anche visto il video in cui lui veniva rapito. Non ricordava nulla di quei momenti, ma questo gli aveva solo fatto più impressione: l'idea di aver perso per strada quel ricordo lo faceva sentire sbandato. Anche da quelle immagini, comunque, si notava come il rapitore fosse di parecchi centimetri più alto di Orazio, che a sua volta era poco più slanciato del presunto colpevole. In più, il video era stato girato dalle telecamere di sicurezza di una farmacia. La stessa farmacia in cui lavorava l'arrestato. La cosa fece solo acuire i suoi sospetti: un uomo che aveva organizzato tutta quella storia della grotta non poteva essere così ingenuo da smascherarsi nel posto in cui lavorava. E più ci pensava, più le sue convinzioni si ferravano: quello che avevano arrestato non era il vero colpevole. Restava solo da capire se fosse un complice che stava rinnegando il compagno nel momento di crisi o solo l'ennesima vittima di quell'assurda vicenda.
    E poi c'era la moleskine. L'aveva rubata dalla cantina sotto gli occhi degli agenti e subito se n'era pentito. Però il desiderio di leggerla era stato troppo grande. E aveva fatto una scoperta ancora più inquietante.
    Aveva già letto l'ultima pagina in quella cantina, quindi s'era concentrato sul resto. C'erano le fasi del progetto di quella follia — Orazio scoprì che l'idea iniziale era quella di alternare un maschio e una femmina, ma poi per qualche motivo il programma era cambiato —, l'identikit di ogni prigioniero con una fotografia allegata e alcuni disegni che parevano scollegati dal resto. Però, dovette ammettere Orazio, aveva una bella mano. Scriveva in modo ordinato, rispettando i righi, senza sbavature. Ed era freddo, spaventoso per quant'era scientifico. Alcune frasi gli erano rimaste in mente, incastonate forse per sempre. Erano secche e facevano venire i brividi.
    Ormai la ragazza la lascio lì. Sono tanti uomini, magari la stuprano.
    Processo di cottura della carne umana.

    Ma la cosa che spaventava Orazio non era questa. La mano che aveva scritto l'ultima pagina di quell'agenda era diversa da quella che ne aveva scritto le prime pagine. Mentre in quelle iniziali la scrittura era precisa e maniacale, nell'ultima era impaurita. La mano che aveva scritto quelle parole era tremula. Certo, poteva essere che il rapitore, preso dalla paura, avesse scritto quelle ultime pagine in fretta, con chissà quale piano in mente. Ma Orazio ci aveva pensato ed era assurdo. Scrivere ordinatamente anche quella pagina sarebbe costato solo qualche secondo in più e lui avrebbe avuto comunque il tempo di andare dai carabinieri. E poi Orazio aveva trovato la moleskine aperta sul tavolo, e solo dopo gli era chiaro perché fosse lì: chi ce l'aveva messa voleva che qualcuno la leggesse. Perché? Orazio aveva due opzioni: o per volersi vantare all'estremo di quella follia oppure per sviare chi l'avesse trovata. Però, mentre la sua testa si arrovellava sulle ipotesi, lui riconosceva come in quella storia ci fossero troppi punti di domanda, infinite questioni irrisolvibili. Non sarebbe mai stato in grado di affermare ciò che pensava. Nel frattempo, aveva consegnato il taccuino alla polizia, perché verificasse se le due scritture fossero davvero diverse.
    C'era un'altra cosa. Nessuno gliene aveva più parlato, ma ricordava cosa aveva detto l'agente più anziano l'altra volta. Pensavano che il rapitore, impaurito perché sapeva che i prigionieri a poco sarebbero fuggiti, fosse andato in caserma fingendo di denunciare un furto, per poi far passare loro che in quel momento dovevano trovarsi in cantina come intrusi nella casa. Ecco, Orazio ci aveva ragionato, ma, da qualunque prospettiva la vedesse, la cosa non aveva senso. Nessun uomo, nemmeno il più fuori di testa, neanche se stordito dalla paura, avrebbe mai fatto una cosa del genere. Insomma, doveva sapere che quella storia delle sparizioni stava spaventando tutta la città e i carabinieri ci avrebbero messo poco per riconoscere gli scomparsi. E in più indossavano tutti quanti quella stupida veste a colori: quale ladro colpisce così?
    Perché non scappare, a quel punto? Sarebbe passato tempo fino al momento in cui loro sarebbero usciti e lui si sarebbe potuto allontanare di parecchio. Lo stesso agente, tra l'altro, gli aveva detto che avevano controllato e la casa in campagna in cui era stata costruito quel labirinto sotterraneo non apparteneva a nessuno da anni. Era di un vecchio morto tempo addietro senza figli né nipoti ed era rimasta abbandonata lì. Un motivo in più per fuggire: nessun indizio collegava il rapitore a quella casa.
    Mentre era tormentato dal dubbio, l'ordinarietà della vita si faceva sempre più difficoltosa.
    I primi giorni aveva provato ad uscire. Faceva lunghe passeggiate, e poi, tornato a casa, mangiava con una voracità che non sapeva di possedere. Poi, una volta, mentre camminava in un parco, un uomo che correva, nel sorpassarlo, gli aveva dato una spallata. Non si era fatto niente, ma in quel momento s'era riaccesa nel suo animo una fiammella. Il pensiero che anche quell'uomo volesse rapirlo l'aveva attraversato per un momento, lasciandolo folgorato. E nei giorni successivi si era ritrovato a temere tutto ciò che lo circondava: l'uomo che passeggiava parlando al telefono, il bambino che correva per la strada, la madre che lo fotografava di nascosto. Sentiva dei passi alle sue spalle e tentava di respingere l'impulso di guardarsi dietro; ma poi si sentiva preso da un'ansia che gli bloccava il respiro e ansante voltava lo sguardo, scoprendo solo un gruppo di ragazzi innocui. Con il tempo aveva iniziato ad uscire sempre meno e solo nelle ore giornaliere: era primavera appena iniziata, il sole tramontava presto e la notte lo spaventava. Anche la sua fame si era placata. Ormai mangiava solo quando il suo stomaco lo supplicava e ogni boccone era come un verme viscido che gli si rivoltava nello stomaco. Finiva sempre inginocchiato nel bagno a vomitare.
    Intanto si sentiva galleggiare nel tempo che scorreva viscido e lento, la fatica di orientarsi nell'avanzare dei giorni.
    Non dormiva quasi per niente e quando lo faceva aveva sogni strani, che al mattino non ricordava, ma che gli lasciavano una traccia d'inquietudine che solcava il cuore. A volte, quando si faceva buio, cominciava a tremare. Non osava chiudere gli occhi: se lo faceva, i mostri della sua prigionia tornavano a tormentarlo. S'era abituato ai rumori che sentiva nelle vie di quella grotta, ma adesso li sentiva più nitidi, vivi. E immaginava le stesse ombre strane, il cui movimento sembrava però reale, il loro danzare lo faceva impazzire. Il battito gli aumentava e temeva di morire di crepacuore da un momento all'altro.
    Tenere gli occhi aperti non migliorava la situazione. Di fronte a lui, nel letto matrimoniale, c'era sua moglie, e solo qualche unghia di luce entrava dalla tapparella non ben chiusa a svelarne il viso. Però quella luce si prendeva gioco di lui: sfigurava i lineamenti del viso di Marina, e Orazio vedeva in lei ora il mostro ignoto che l'aveva condannato a quello strazio, poi l'espressione mortale che aveva catturato Giovanni, adesso le fattezze di un'altra donna.
    Già, Elsa. Dov'era, adesso? La cercava come si cerca la luce in un baratro senza fondo: di nascosto, senza farsi notare per non passare per pazzo. Pensava di sentire ovunque il suo profumo, che forse s'era incastrato nei pori della sua pelle.
    Poi, un giorno, gli arrivò una chiamata. Era della polizia. Doveva correre in caserma: c'erano notizie.

    #17
    S'erano dati appuntamento in un bar. Era da un po' che Orazio aspettava fremente, seduto a controllare di continuo l'orologio. Era arrivato con mezz'ora di anticipo e a breve sarebbe arrivato anche l'agente. O almeno lo sperava: quel tempo lo stava corrodendo. Era da quando aveva ricevuto la chiamata che ipotizzava di cosa si potesse trattare e subito trovava mille argomenti che smentivano le sue teorie. Auspicava che quell'uomo non fosse il vero colpevole, perché ormai s'era convinto della sua innocenza e scoprire il contrario sarebbe stata una delusione troppo grossa. Ma sperava che quella storia finisse subito, perché, anche se erano passate poche settimane da quando n'era uscito, si sentiva provato. Voleva mettersi tutto alle spalle, ma c'era quella paura infondata, un'ansia irragionevole che non sarebbe scomparsa prima della risoluzione di quella storia. Fino ad allora avrebbe continuato a pensarci, lo sapeva, e questo avrebbe tenuto vivo il dolore.
    Il bar era in pieno centro. Non troppo grande, ma illuminato. Forse anche troppo. C'era una grossa vetrina con dei pasticcini poco invitanti. Orazio, da uno dei tavolini interni, poteva osservare la gente che sfilava sotto una pioggia leggera e fitta. Gli ultimi raggi di un sole rossastro sbattevano sulle persone e allungavano ombre lunghe sui marciapiedi.
    Finalmente l'agente arrivò. Era giovane, magro, capelli corvini e ordinati. Aveva un naso aguzzo che ad Orazio parve quello di un corvo. Si sedette con fare disinvolto e si presentò: «Agente di polizia Igor Malti».
    Ordinarono due caffè, chiacchierarono per qualche minuto, poi l'agente iniziò: «Abbiamo delle novità». Lasciò trascorrere ancora qualche secondo, quasi godesse dell'impazienza di Orazio, poi continuò: «La scientifica ha scavato nella terra che circonda quella casa. Hanno trovato otto corpi. Dicono che il più vecchio è di sette mesi fa, mentre il più recente risale a qualche giorno fa, Sono tutti maschi, e sono tutti stati riconosciuti dalle rispettive famiglie».
    Orazio annuì, poi iniziò a mordicchiarsi il labbro.
    Malti riprese, ticchettando le dita sul tavolo: «Abbiamo parlato con il colpev... con l'indagato. Dice che è stato costretto da un uomo di cui non ricorda il nome né la faccia a costituirsi per conto suo. È stato minacciato, dice» e qui il suo naso si corrugò in un'espressione scettica. «Dice che quest'uomo, quello di cui non ricorda niente, gli ha detto qualcosa come "se non ti costituisci al posto mio tu e la tua famiglia fate una brutta fine". Il tutto puntandogli una pistola alla testa».
    «Come fa a non ricordare né il nome né la faccia?» chiese Orazio.
    «Allora, probabilmente sta inventando stronzate. Insomma, le prove lo incastrano, sta solo cercando di trovare qualche scusa senza senso». L'agente emise un respiro profondo e stanco. «Però non lo diamo per scontato. Dice che si ricorda di un uomo alto, calvo e con un cerotto sulla guancia. Non sarebbe un'assurdità. È una tecnica che usano spesso: il rapito è troppo teso per capire e l'unica cosa che riesce a ricordare è il cerotto sulla guancia. Dobbiamo ancora lavorarci».
    Poi, dopo qualche attimo di silenzio, Malti continuò: «So che gliel'avranno chiesto già altre volte, ma lei è sicuro di non aver mai visto quest'uomo?»
    «Sì. Sicuro». Orazio non riusciva a concentrarsi, ma in ogni caso non sarebbe arrivato a una soluzione. Ci aveva già provato: tutto si bloccava a quella fastidiosa sensazione di essere a un passo dal ricordare, che poi svaniva.
    L'agente alzò le spalle e proseguì: «Abbiamo anche fatto esaminare il taccuino che ci ha consegnato. Effettivamente, la grafia delle pagine iniziali è diversa da quella delle pagine finali. Ed è questo che ci fa venire più dubbi». Abbassò il capo.
    «Sapete di chi è l'altra scrittura?» chiese Orazio.
    «Ovviamente no. L'ultima è quella dell'indagato, la prima non possiamo saperlo».
    «Ah. Certo».
    Trascorse qualche attimo. L'agente girò lo sguardo sul bancone e fece per alzarsi. Orazio lo fermò. «Un attimo, aspetti».
    «So che non dovrei intromettermi, ma io sono convinto che l'indagato,» e solo allora s'accorse di non ricordarne il nome «ecco, che non sia lui il colpevole. Non ha senso costituirsi così. Poi c'è la scrittura che non coincide, e i filmati: lo vedete anche voi che il rapitore è alto e magro, mentre quello che avete arrestato è basso e grasso».
    «Quello alto potrebbe essere un complice» disse l'agente.
    Orazio non obiettò, perché non ne aveva la forza. Aveva omesso il particolare dell'ombra allungata che aveva visto nel sentiero per lo stesso motivo.
    Comunque l'agente si risedette. Si guardò intorno, si morse le guance, poi sussurrò: «Non dovrei dirglielo, ma seguiamo una traccia. Non c'è ancora niente di sicuro. Per favore, non ne parli con nessuno». Poi alzò gli occhi al soffitto, forse già pentito.
    «Certo. Grazie. Posso sapere di che si tratta?».
    «Non ancora. Appena sappiamo qualcosa di più sicuro. La richiamo io e le faccio sapere?»
    «Va bene» disse Orazio, curioso. Subito però lo prese un'ansia che gli soffocava il respiro e desiderò che quella conversazione non si fosse mai svolta.
    Si salutarono e si scambiarono i numeri di telefono. Poi, prima di separarsi, l'agente ripeté: «Mi raccomando, non lo dica a nessuno».
    Fuori era diventato buio. La pioggia s'era fermata e ne restava solo l'odore, ma soffiava un vento gelido. Nonostante si trovasse in pieno centro e fosse circondato da decine di persone, Orazio s'incamminò con le gambe tremule. Ogni tanto, quando le ombre create dai lampioni cambiavano forma, o se credeva di scorgere smorfie malvagie su visi malintenzionati, si stringeva senza volerlo nel cappotto pesante e un brivido gli scuoteva le spalle.

    All'alba tutto diventava migliore. Gli passò per la mente dopo l'ennesima notte insonne, perseguitato da fantasmi che non riusciva ad annegare nel passato. Aveva sentito il loro fiato putrido sul collo, li aveva immaginati che rosicchiavano le sue membra.
    Ora stava guardando il sole sorgere sui palazzi e i primi raggi baluginare sulle finestre. Si sentiva meglio. Non libero, ma più leggero. Era sul balcone e l'aria fredda gli fece rizzare i peli. Pensò di uscire subito: quel profumo frizzantino della rugiada lo ispirava. Aveva già in mente una destinazione, e al solo pensarci il cuore gli si riscaldò. Poi però pensò che forse era meglio non farlo. Era appena l'alba ed era ancora stanco. Aveva tutta la giornata per uscire. E poi sua moglie dormiva ancora e si sarebbe preoccupata se non l'avesse ritrovato.
    No, meglio restare a casa.
    Erano giorni che se lo diceva: meglio restare a casa. Non c'era mai un motivo valido per uscire. Perché fuori c'era qualcosa che lo terrorizzava. Un alone che circondava tutto, persone e animali e alberi. Un'aura malvagia che solo lui riusciva a percepire.
    Nemmeno in casa si sentiva sollevato. Anzi, lì era annoiato e la sua mente non poteva far altro che tornare alle solite congetture, alle ipotesi di sempre. A volte si sentiva esausto, esasperato da quella situazione, ma non riusciva a cambiare la direzione dei suoi pensieri. Era come un tarlo che gli rodeva il cervello.
    Ma almeno lì era sicuro che quell'alone non sarebbe mai entrato. Non di giorno, almeno: la notte cambiava poco. E piano si abituò a quella vita stantia, all'odore di chiuso e di legno vecchio. Solo a volte riusciva a vedere il mondo con una punta d'ottimismo, ma poi aguzzava la vista e l'alone tornava a ottenebrare i suoi occhi e il suo cuore.
    Un giorno arrivò una chiamata. Era lo stesso agente dell'altra volta. Doveva parlargli.

    Erano nello stesso bar dell'altra volta, ma in uno scomparto più riparato dagli occhi della gente. L'agente Malti gli stava mostrando delle foto e nel frattempo spiegava: «Giuseppe Corsi, un uomo di trentasette anni. Alto un metro e ottantasette. Non è sposato, non ha una compagna e non ha dei figli. Vive da solo in un bilocale in pieno centro». L'uomo nelle foto era alto e calvo. Aveva i lineamenti morbidi e sempre lo stesso sorriso sghembo sul viso.
    Intanto Malti continuava: «Abbiamo perquisito l'abitazione. Non c'è niente di compromettente, è ordinata. Insomma, non è la casa di un uomo che ha deciso di fuggire all'improvviso».
    «L'avete arrestato?» chiese Orazio. Ancora non capiva del tutto la situazione, ma aveva una strana sensazione che gli faceva girare la testa. Era lui il colpevole: delle reminiscenze nebbiose gli rendevano quel viso familiare.
    L'agente sembrava contenere a malapena un'eccitazione che gli scorreva nelle vene. Proseguì: «No, non ancora. Non sappiamo dov'è, ma siamo sulle sue tracce e lo troveremo».
    «Come l'avete scoperto?»
    «Sì, ora ci arrivo. Allora, abbiamo ricevuto una denuncia di scomparsa dal suo datore di lavoro, che dice anche di essere il suo migliore amico. Corsi si è dato malato il ventisette gennaio».
    «Il giorno in cui siamo usciti da quel posto...» sussurrò Orazio.
    «Già» esclamò orgoglioso l'agente. «E da quel giorno nessuno l'ha più sentito. Abbiamo chiesto al suo capo se ultimamente avesse notato comportamenti strani o qualcosa del genere, e ci ha detto di no. O meglio: ha detto che è stato sempre un po' particolare. E che al telefono, quando gli ha detto che si prendeva quel giorno per malattia, gli era sembrato strano. Sperava che non gli fosse successo niente di male».
    Orazio ci pensò, mentre l'altro continuava a parlare. Non ascoltò. Poi chiese: «Dove lavorava?»
    «Non ricordo il nome, ma era un'azienda che produce fotocamere, o qualcosa del genere».
    Già, tutto si collegava. L'azienda in cui lavorava produceva ciò che gli serviva per quell'esperimento del cazzo. Poi si perse in un mare d'ipotesi, mentre Malti continuava a parlare e quella voce diventava uno dei tanti suoni di sottofondo ai suoi pensieri.

    #18 (Epilogo)
    L'avevano arrestato. Glielo dissero poche settimane dopo la sua ultima conversazione con l'agente. Lo convocarono in caserma per spiegargli la situazione e per chiedergli se lo riconoscesse.
    Parlò ancora con l'agente Malti.
    «L'hanno arrestato in Germania. È riuscito a nascondersi per un mese, forse poco più. Non ha usato carte d'identità, non aveva cellulari, niente di niente».
    «E poi?» chiese Orazio.
    «Ha fatto una stronzata. L'hanno trovato ubriaco che vomitava in una piazza. L'hanno arrestato e poi l'hanno riconosciuto». Nel dirlo, l'agente ridacchiò.
    «Ah. E loro sapevano del...» disse Orazio, ma non fu in grado di concludere la frase.
    «Di ciò che aveva fatto?»
    «Sì».
    «Sì, abbiamo diffuso la notizia anche all'estero. Le avevo detto che probabilmente era fuggito fuori, no?»
    «Sì, forse».
    Poi trascorse qualche minuto di silenzio. Orazio studiò le mattonelle che s'incrociavano a terra. Poi chiese: «Dov'è, adesso?»
    «Ora arriva. Ha già confessato, comunque. Deve solo ricordare quanti ne ha rapiti e quanti ne ha uccisi».
    Al ricordare che lui rientrava tra i rapiti, Orazio sentì qualcosa che gli stringeva il collo fino a togliergli il fiato. Si sentiva già estraneo a quella storia, nonostante i segni che gli rimanevano nel cervello.
    «E... perché? Perché l'ha fatto?» chiese Orazio con la voce che era un filo.
    «Ha detto che era un... un esperimento» rispose l'agente, incerto.
    «In che senso?»
    «Dice che voleva vedere come si comportano degli umani in trappola. Fa paura, lo so» disse Malti, passandosi una mano tra i capelli, provato, come se quello fosse troppo per la sua mente. Poi riprese: «Ha detto che voleva prima mettere un uomo e una donna e lasciare loro due. Poi però ha scoperto che rapire la gente gli piaceva e ha continuato a farlo. Una donna e un uomo alla volta, ha detto. Quando gli abbiamo fatto notare che lì dentro c'era solo una donna e tutti maschi ha fatto una faccia smarrita» Scosse la testa. «L'avrei preso a pugni, cazzo» mormorò tra sé.
    Dopo qualche minuto l'arrestato uscì da uno stanzino, scortato da due agenti. Giuseppe Corsi, ricordò Orazio. Era quello il nome che gli aveva detto l'agente. Era calvo, con la barba di qualche giorno e la stessa bocca storta che gli aveva visto nelle foto.
    Orazio non provò rabbia. Solo scoramento, alienazione e ancora inquietudine. L'agente chiese se lo riconosceva e lui rispose di no. Poi dovette firmare alcune pratiche e poté tornare a casa, con una strana ansia che gli rincorreva i pensieri.
    Il processo si svolse qualche settimana più tardi. Orazio fu chiamato a testimoniare e disse ciò che gli aveva ordinato il suo avvocato. Giuseppe Corsi prese l'ergastolo.
    Quando uscì dall'aula di tribunale, lasciandosi alle spalle quell'odore di incenso e dopobarba, sentì il suo petto alleggerirsi di un peso enorme. Però qualcosa era rimasto, ancorato alle incavature della sua mente. Tornando a casa lo travolse la paura di sempre.

    Per l'ennesima volta assistette all'alba dal balcone. Le giornate si stavano allungando, quindi le sue notti di sofferenza duravano sempre di meno. Si sentiva ancora esausto, certo, ma quell'alone che circondava la realtà pareva farsi più fioco e certe volte addirittura colorato.
    Quella mattina stava bene. Come ogni mattina, pensò di uscire. Stavolta però l'ansia non lo sommerse. Non se l'aspettava: credeva che si sarebbe ritrovato a trovare qualche scusa stupida, come al solito, e invece questa volta si sentiva davvero pronto. Quindi sfruttò il momento, si vestì di tutta fretta e uscì di casa. Prima di superare il portone controllò il telefono. Era carico e segnava le sette e cinque del trentuno marzo.
    Il tragitto per arrivare alla macchina fu difficile. Erano solo poche decine di metri, certo, ma in quello spazio si ritrovò circondato da ombre che gli dicevano: torna a casa. Però si fece coraggio, chiuse gli occhi e accelerò il passo. Una volta in macchina, si abbandonò sullo schienale del sedile, provato. Poi l'accesse e si affrettò a superare le prime curve, per dopo immettersi nella tangenziale.
    Lo separavano quarantatré chilometri dalla sua meta. Aveva studiato quel tragitto forse centinaia di volte e pur avendolo visto solo sul navigatore del suo cellulare avrebbe saputo affrontare ogni curva ad occhi chiusi. Quindi quasi non fece caso all'assenza di traffico, al sole che riverberava sulla carreggiata e al bosco che gli scorreva a fianco. E nel frattempo, man mano che i chilometri scorrevano veloci, sentiva il cuore scaldarsi di un calore che non ricordava più.
    Erano passate meno di due settimane dal processo, ma i ricordi di Orazio erano già confusi, catturati da un vortice d'incertezza. E, si rese conto allora, per la prima volta dopo il processo stava uscendo di casa. Il bruciore delle sue cicatrici s'era fatto più lieve.
    Si sentiva più leggero. La cosa fondamentale era stata mettere una pietra su quella storia. Avvertiva, in effetti, che qualcosa dentro di lui era cambiata: la paura ancora non scompariva, no, ma il fatto che la vicenda si fosse conclusa lo portava a non pensarci più di tanto. Ora l'inquietudine lo strozzava solo se tornava a pensarci.
    S'era anche rassegnato a non indagare sul perché era finito lì dentro. C'era quel ricordo vago, che non finiva mai per concretizzarsi in un'intuizione, e poi il nulla. Cercare ancora l'avrebbe fatto impazzire. Aveva anche paura di scoprire qualche aspetto che l'avrebbe terrorizzato ancor di più ed era per questo che non osava pensarci.
    Ci mise meno del previsto. Il posto era in aperta campagna. Un'insegna a neon un po' logora recitava: "Centro riabilitativo per non vedenti".
    L'edificio all'esterno era di un bianco un po' cupo. Agli angoli dei muri, spuntavano qua e là ciuffi di muschio ed erbacce. Orazio entrò. C'era un corridoio stretto e alto che portava ad una reception. Sulla sinistra, lungo tutta la parete giallognola, campeggiava una scritta nera: "Non si vede che col cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi".
    La donna che c'era alla reception era grassa e attempata. Pareva ancora mezza addormentata e rispose con tono acido alla domanda di Orazio. C'era da aspettare un'oretta per le visite, disse. A quell'ora dormivano ancora tutti.
    Lui si sedette su una sedia blu mezza rotta. Il tempo trascorse indefinito, il cuore catturato in un turbinio di emozioni. E se avesse risvegliato i fantasmi che stava imparando a mettersi alle spalle? Era un po' intimorito. Però si sentiva felice, ed era qualcosa quasi d'infantile, ma lo faceva stare bene.
    Quando finalmente quella donna lo chiamò, si sentì strappato a un sogno. Percorse le scale di fretta, mentre l'odore di candeggina gli pungeva le narici. Poi entrò nella stanza che gli era stata indicata.
    C'erano poche persone che vagavano nella stanza. Altre donne — queste ci vedevano — le accompagnavano e chiacchieravano con loro. Il bianco lì dentro era troppo splendido, quasi fastidioso.
    Elsa era seduta su una panca di plastica. La sua accompagnatrice era accanto a lei e parlava gesticolando vistosamente. Orazio si avvicinò e chiese con lo sguardo che questa li lasciasse soli. Lei lo accontentò e si accomiatò da Elsa con due parole sussurrate nell'orecchio.
    Era cambiata. I capelli le erano cresciuti e ora, splendidi e mossi, le cadevano appena oltre le spalle. Aveva gli occhi serrati e l'espressione corrugata, e poche stille di sudore le inumidivano le guance. Quegli aghi negli occhi l'avevano resa cieca.
    «Orazio?» chiese lei, allungando le mani.
    Lui si avvicinò e le permise di toccargli il viso. «Elsa!» esclamò, cercando il tono più gioviale possibile. Però vedere quella scena gli faceva male. Era stata lei a guidare tutti loro nella grotta e non l'avrebbe mai immaginata ridotta così.
    Chiacchierarono per qualche minuto, ma non avevano granché da dirsi. Il loro rapporto s'era sfocato, svanito, e forse era un bene, pensò Orazio. Ma, pensandolo, una morsa stretta gli afferrò il cuore e si sentì come stritolato da una forza troppo grande.
    Elsa sembrava persa. Ogni tanto la sua testa ciondolava inerme sul collo e Orazio si chiedeva se lei fosse addormentata oppure vigile. E poi sembrava inghiottita in un tempo tutto suo. Trascorrevano diversi secondi prima che rispondesse alle domande che Orazio le rivolgeva e la sua voce era sempre rotta e incerta. Orazio cercava di capire ciò che aveva dentro, perché anche lui s'era sentito così fino a pochi giorni prima, ma non ci riusciva. Tutte quelle sensazioni, quelle inquietudini mia rivelate, gli sembravano lontane, malgrado a tratti le intuisse ancora. Già, le sentiva, però sfocate anche quelle, perse in un oblio profondo in cui non avrebbe mai indagato.
    Poi, una volta, mentre Elsa parlava, si fermò all'improvviso. Un rivolo di saliva le colò giù per il mento. Orazio dovette distogliere lo sguardo per non piangere. Fu allora che decise di andar via.
    Venne il momento dei saluti. Orazio l'abbracciò, prima con incertezza, poi più deciso, perché, s'accorse in quel momento, per un po' l'aveva amata. Di un amore strano e instabile, ma l'aveva amata. Le baciò la guancia e sapeva di buono. Poi non ebbe il coraggio di scivolare verso le labbra e baciare anche quelle. La strinse più forte e dopo andò via, dritto e senza guardarsi indietro.

    Edited by WDR - 7/6/2017, 15:04
  12. .
    Sì, però è un periodo in cui sono un po' incasinato con la scuola. Ho già scritto qualcosa, conto di postarlo domenica.
  13. .
    CITAZIONE ({Barone Rosso} @ 24/1/2017, 09:20) 
    Ehi Tommas, mi è venuto un dubbio:
    come fanno a sapere che è carne umana?
    Nel senso, glielo ha detto il rapitore? Altrimenti l'unica spiegazione è che ne conoscessero il sapore prima di essere rapiti e quindi forse è meglio che stiano lì :asd:

    ahahaha magari è un centro di recupero per cannibali :D
    Allora, io penso che un rapitore sadico che fa mangiare ai suoi prigionieri carne umana non avrebbe alcun interesse a tenerlo per sé. Insomma, troverebbe un modo per farlo sapere, anche solo per soddisfazione personale. C'è anche un altro particolare, ma volevo svelarlo più avanti nel racconto. Bella domanda comunque :)
  14. .
    Bene ahahaha mi fa piacere, grazie :)
  15. .
    Il quinto è in smistamento, il sesto è pronto ma devo copiarlo qui :)
76 replies since 22/8/2016
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