Posts written by Tommas02

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    Wow!
    Palahniuk è uno dei miei autori preferiti, ma se sono almeno un paio di anni che non leggo nulla di suo, quindi non mi esprimo sulla somiglianza tra lo stile di questo racconto e quello di Palahniuk. Però è davvero bello. Scritto bene, con un finale fantastico, evoca quell'odore di carta ingiallita. Bravo!
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    Sì, di base si va a capo quando si parla di qualcosa di diverso o si inserisce qualcosa di nuovo. Nei dialoghi, a ogni battuta di un personaggio dev'essere dedicato un paragrafo... anche qui, in generale, se ci sono dei monologhi, si usa andare a capo all'interno del dialogo quando chi parla cambia argomento. Poi è anche una questione di stile, a volte, ma insomma, le regole generali sono quelle.
    Ti do un consiglio: quando leggi, presta attenzione a questo particolare. È il metodo migliore per imparare, anche se all'inizio non ti sono chiarissimi i meccanismi. :)
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    Certo, questo era proprio per riprendere uno dei temi principali di Lovecraft. Grazie per il commento! :)
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    CITAZIONE (Barachiel @ 17/9/2017, 21:17) 
    Cioè stiamo parlando di stupro ed è andata all' ospedale con dei danni, non esiste lo stato menefreghista in quel caso, sei tu che guardi troppa TV, ma non credi di star giustificando troppo questa donna ? Ti faccio un esempio un po' OT, l altro serial killer che veniva preso per culo dall' infanzia e accoppava i bambini che gli facevano scherzi poiché non ce la faceva più, giustificheresti anche lui ? Come scritto nell articolo lo hanno internato dopo 20 anni di carcere a causa della pressione del popolo, un trattamento ingiusto oltre che illegale, e credo che anche tu non ci penseresti due volte a condannarlo; eppure è esattamente lo stesso discorso di questa donna. Se ti senti di giustificare anche quell'uomo, allora amen abbiamo visioni della giustizia diverse, ma se giustifichi lei e non lui ricadi nell'ipocrisia del femminismo moderno come ho detto sopra

    Non si tratta di "ipocrisia del femminismo moderno".
    In Italia, nel 1995, lo stupro era ancora ritenuto un reato contro la morale, non contro la persona. Nemmeno dieci anni prima si sarebbe potuto ricorrere al matrimonio riparatore, solo un anno dopo lo stupro sarebbe diventato reato contro la persona. E certe cose faticano a entrare nella testa della gente cresciuta con una certa mentalità, tanto che ancora oggi leggiamo commenti di cinquantenni che "se l'è cercata, la prossima volta non si veste così attillata e in minigonna". Oggi, eh, 2017. Lì stiamo parlando del 1995.
    Poi, certo, uccidere è sbagliato. Ma io lo dico seduto sul divano, distante con la testa da ciò che è accaduto a quella ragazza. Diverso è vivere quella situazione, ritrovarsi le mani di un vecchio che ti frugano ovunque e sentirsi dire "se ti pago devi lasciarti scopare". In quel caso prima penso a difendermi, poi considero se rivolgermi allo stato o meno.
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    Grazie per il commento e per i complimenti! :)

    E pensare che non sono nemmeno un tipo romantico :D
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    Grazie! :)
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    Grazie mille! :)
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    CITAZIONE (SkeleKarp @ 25/9/2017, 22:42) 
    Racconto interessante e ben scritto. Sono curioso di vedere come procede

    Contento che ti piaccia. :)
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    #10

    Sentì subito quel rumore di ferri nel cervello. Stridettero e gli fecero arricciare la punta delle dita e stringere i denti: era un suono terribile, mai sentito prima. Fino alla notte passata era stato logorante e continuo, ma adesso era diventato così insopportabile...
    E poi di nuovo il terrore. Il cuore iniziò a battere forte, quei covi di serpenti ripresero a sciogliere i propri grovigli e a rosicchiare le pareti delle vene. Aveva scosse elettriche continue nei polsi, dolori alle ginocchia, la sensazione che qualcuno gli stesse conficcando chiodi gelidi nelle caviglie. Barcollò all'indietro e si ritrovò col sedere a terra, mentre avvertiva come una smorfia tra l'esausto e il panico si andava formando sul suo viso.
    «Ma che fai?» disse Ester con la voce vibrante, gettando la testa indietro in una risata. Poi tornò seria e lo guardò negli occhi. «È successo...» deglutì «è successo qualcosa?» Aveva ancora la faccia arrossata e la voce arrochita, e nell'aria c'era sempre il suo profumo. Frutta aspra e quell'altra cosa; solo che adesso l'altra cosa non era inebriante né eccitante, no. Era una morsa allo stomaco che si stringeva e gli dava la nausea.
    Luca aveva subito spostato lo sguardo. Non aveva più la visuale dell'ombra, da quell'angolazione. Però l'immagine gli era rimasta fissata nell'angolo della pupilla e aveva la sensazione che pur muovendosi o sbattendo gli occhi quella sarebbe rimasta, fissa e crescente. Però non si mosse né sbatté gli occhi: non ne aveva la forza. Rimase immobile con le viscere che si torcevano.
    «Luca...» Questa volta Ester lo chiamò con la voce più forte, acida. Il luccichio nei suoi occhi si era spento. «Luca, che c'è?»
    Non rispose. Non sapeva cosa dire e in ogni caso la sua bocca non si sarebbe mossa. Lasciò trascorrere qualche secondo e chiuse gli occhi, sperando che qualche frase sensata gli affiorasse nella mente. Alla fine arrivò: «Mi sono sentito svenire, o qualcosa del genere».
    Silenzio. Poi Ester disse: «Quando torniamo a casa devi fare dei controlli. Ho paura... paura di perderti».
    «Ma no, tranquilla». Parlando, tentò di rialzarsi, ma le gambe non ressero il suo peso e finì per cadere di nuovo a terra con un tonfo.
    «Vieni, ti aiuto» disse Ester tendendogli le mani. Lui le afferrò e si tirò su. Lei si cambiò in silenzio, lui si avviò verso il letto senza più forze.
    L'ombra era ancora piccola. Dieci centimetri in lunghezza, forse quindici. Anche questa - ma aveva il sospetto che fosse la stessa - si allungava verso il centro della stanza, dove c'era un quadro che raffigurava un bacio di due figure appena abbozzate. Quegli esseri minuscoli e indefiniti ai lati brulicavano ancora, ma con un movimento più vago e incessante che gli riversò nello stomaco un liquido ributtante. Il nero era così abissale e arcano che i suoi occhi non potevano sopportarne la vista. E gli parve che ci fosse una luce, in fondo al buio. Un bagliore violento e bianco, senza origine né fine, che si estendeva per tutta quell'oscurità e anche oltre, ma che allo stesso tempo non esisteva. O almeno la sua esistenza non era tangibile come quella dell'ombra. Era accecante e mai visto prima. Un momento dopo avrebbe giurato di non vederla più e di non ricordare assolutamente nulla di quella luminosità così strana.
    Poco prima di gettarsi sul letto sentì le gambe irrigidirsi e lo stomaco contrarsi. Si girò, fece un balzo che gli provocò una fitta al polpaccio, sbatté con la spalla contro la porta del bagno e si chinò sul lavandino. Vomitò qualcosa di rossastro e liquido. Sangue, si disse.
    Rimase curvo sul lavandino per qualche secondo. Le mani alle estremità sporche di vomito, una puzza tremenda che iniziava a infestare l'ambiente. Poi ebbe un secondo conato, che però si trasformò solo in qualche sputo rossiccio e denso. Lo sferragliare in testa era più violento che mai: stridulo, acuto, penetrante. Rimase ad ascoltarlo tendendo i muscoli delle braccia e stringendo i denti dal dolore.
    La voce di Ester gli arrivò lontana. «Luca! Luca!» ripeteva, rotta dal pianto. Era rimasta inchiodata all'ingresso del bagno.
    Luca voltò la testa di scatto. Qualche goccia di vomito, rimasta intrappolata tra le sue labbra, schizzò sul pigiama di Ester, creando piccole macchioline qua e là. Un rivolo di saliva che sapeva di ferro colò lungo il mento. «Mi lasci un attimo solo? Mi sciacquo la faccia e vengo a letto?» Ma a parlare non era la sua voce. Le parole erano le sue, il tono quello dell'ombra. Roco, assurdo.
    «Va bene. Non chiudere la porta a chiave».
    «Certo». Spinse la porta e tornò ad accasciarsi contro il lavandino sporco. Aprì l'acqua, lasciò che il corso spurgasse un po' lo sporco respirando a fondo. Poi si sciacquò la faccia e i capelli, dove un po' di vomito era arrivato tra gli schizzi e si era seccato subito.
    Frr. Il rumore quasi gli strappò un urlo. «Lasciami stare, ti prego. Che cosa ti ho fatto?»
    Nessuna risposta. Solo quei ferri che stridevano.
    Uscì dal bagno con il polpaccio destro che pulsava, la spalla sinistra un poco dolorante, la testa sul punto di scoppiare. Si lanciò sul letto e fissò l'ombra.
    Dopo qualche minuto Ester gli si avvicinò. Lo strinse in un abbraccio morbido, infilò il suo piede tra quelli di Luca. «Scusa se ho reagito così, ma lo sai. Ho paura».
    Luca annuì.
    «È che te l'ho detto, tempo fa... avevo un'amica all'università. È così che è iniziata la sua malattia. Allora non mi ero preoccupata, ma poi è successo...» Il discorso le morì in gola. Emise un singhiozzo strozzato, Luca sentì una lacrima fredda posarsi nell'incavo della spalla.
    «Poi è successo?»
    «È morta dopo tre mesi. È iniziato proprio così, è svenuta mentre era a pranzo con i suoi. Nessuno si è preoccupato più di tanto».
    «E che malattia aveva?»
    «Cancro al cervello». Un altro singhiozzo, il pianto si fece più intenso. Luca sentì l'abbraccio che diventava un po' più forte.
    Non è quello, amore. Magari fosse quello: è molto peggio. «Ma no, sarà solo un po' di stanchezza. Stai tranquilla».
    Ester mugolò qualcosa che lui non capì. Poi ci fu il silenzio. Ester continuò a tenerlo stretto in quell'abbraccio, ma Luca aveva qualcosa all'addome che mordeva e gli riempiva gli occhi di lacrime. Di lì a poco lei sarebbe stata sola, non c'erano più dubbi. L'ombra lo voleva, i suoi artigli si stavano allungando più velocemente del solito: niente avrebbe placato la sua furia famelica. E allora sentiva un brivido freddo e lungo che gli attraversava la schiena: chissà come sarebbe finita, una volta che l'ombra l'avesse preso. Ci pensava, gli venivano in mente le immagini di sua moglie sola e di suo figlio che cresceva senza un padre, e la voglia di scoppiare in lacrime aumentava. Non poteva piangere, però: sua moglie si sarebbe preoccupata ancor di più. Meglio preservare almeno lei.
    Dopo quella che dovette essere un'ora di terrore si tranquillizzò. Ester cacciava suoni ronfanti irregolari e fievoli, ogni tanto, nel sogno, stringeva forte le braccia di Luca. Era rilassante e dolce. Forse si era rassegnato, pensò, perché una sostanza soporifera gli stava scorrendo nelle vene e la vista si stava appannando. Poi gli balenò un'idea in mente. Magari quell'ombra... quella maledizione, ecco, albergava solo in quell'hotel. Non c'era da sperarci tanto, ma almeno si trattava di un barlume di luce nel buio pesto. La speranza - seppur fatua - lo ridestò. Una piccola probabilità di salvezza c'era, adesso stava a lui resistere per le ultime ore di quella battaglia.
    Intanto l'ombra era giunta a pochi centimetri dal quadro. Luca, seduto dalla parte sinistra del letto, vedeva il riflesso nello specchio che, per adesso, si levava un paio di metri sopra la sua testa. Poi sarebbe scesa ancora, sempre in diagonale, dirigendosi verso destra. Ester, alla sua destra, mugolò e strofinò il piede tra i suoi.
    Fu allora che capì.
    Non era lui la preda.
    Oh, ma poi era così ovvio. Fosse stato lui, l'ombra l'avrebbe divorato o chissà cosa in qualche minuto, il tempo di spaventarlo a morte. Invece voleva logorarlo, piantare il seme della follia nel suo cervello.
    Frr frr. Questa volta Luca non represse l'urlo causato dal rumore feroce nella testa.
    La verità era molto più crudele di quanto apparisse fino a un minuto prima.
    L'ombra voleva Ester.

    #11

    Era vicina. Adesso gli artigli si allungavano e pizzicavano l'aria, ruotavano su se stessi creando turbini di vento.
    E all'improvviso tutto intorno stava prendendo vita. Protuberanze spesse e vibranti si erano formate sulla parte iniziale dell'ombra e il loro movimento incessante ricordava il pulsare delle vene sulla pelle; la stanza si distorceva di continuo, le sagome disegnate dalla luce ancora accesa danzavano, refoli di vento fetido si infilavano violentemente nelle narici. Luca provò una sensazione di nausea e le gambe gli formicolarono come per una vertigine.
    Ester dormiva. Luca vedeva il rigonfiamento del suo ventre che guizzava. La pancia ingrossata aveva squarciato il pigiama, sotto la pelle tesa si intravedeva una sostanza gelatinosa e verdastra. Gli pareva di sognare, ma quelle immagini erano così vivide da tramutarsi in dolori indicibili alla testa.
    E poi quel rumore. Frr frr. Suonava con un rumore acuto e poi si diffondeva lungo tutto il corpo, provocandogli spasmi alla schiena e alle gambe.
    Gli artigli scendevano sempre più velocemente verso la testa di Ester. Luca ordinò alla sua bocca di urlare, ma quella cacciò solo un filo di fiato rotto. Guardò sua moglie: le guance impallidite, con le lacrime seccate che le avevano reso la pelle appiccicosa. Raspava in una maniera più profonda adesso. Luca cominciò a piangere, proprio nel momento in cui capì di essere intrappolato. Era come essere legato con le cinghie al letto di qualche maniaco, e forse c'era qualcosa di maniacale in quell'ombra che di lì a poco avrebbe divorato sua moglie e poi chissà, forse anche lui. Di sicuro non c'era nulla di umano. Nessuna via di fuga, quindi.
    Uno degli artigli sfiorò con l'unghia la cima dei capelli di Ester. Poi lo rifece, questa volta avvicinandosi di più. Alla terza volta andò in profondità. Luca udì l'unghia che squarciava la pelle con un rumore di carne che sfrigolava, immaginò il sangue scuro e sgorgante. Qualcosa nella sua gola si sbloccò e lui riuscì a urlare con tutto il fiato che aveva nei polmoni.
    Continuò a gridare fino a quando non sentì il sangue alla testa. L'ombra si era ritratta di qualche decina di centimetri. Ester si era svegliata con un singulto, quasi urlando anche lei. «Che c'è?» sbadigliò, ma la sua voce era ancora preoccupata e stridula.
    «Andiamo! Poi ti spiego!» gridò Luca.
    «Cosa...»
    Non c'era tempo. Balzò dal letto, la afferrò per l'orlo della camicia da notte e la spinse verso l'uscio della porta. Poi raccolse da terra due paia di pantofole e le lanciò verso di lei. «Corri!»
    Lei aprì la porta e corse inciampando fuori. Luca, prima di uscire, scrutò lo specchio. L'ombra strabordava e, anche se non poteva vederne la fine, la immaginò molto vicina a loro.
    Corse più veloce che poteva. Ester lo seguiva, ansimando un poco, emettendo di tanto in tanto gli stessi suoni raspanti del sonno.

    #12

    «Si può sapere che cosa c'è?» disse Ester a voce alta non appena raggiunsero la hall. Trascinava le gambe e camminava un poco curva.
    Luca tacque. Cosa poteva dire? C'è un mostro in camera che vuole divorarti, tesoro, ma va tutto bene, stai tranquilla. Il pensiero gli strappò una mezza risata.
    «Perché ridi?» chiese Ester, dura, accasciandosi su una poltroncina. Due grosse borse scure le circondavano gli occhi e sulla guancia la luce scintillava sul pianto asciutto.
    «Niente, niente...» Tentò di sorridere.
    Ester sospirò. «Io... non capisco» mormorò. Chinò la testa e iniziò a singhiozzare in un pianto senza lacrime.
    Luca guardò per qualche secondo il suo corpo scosso dai singulti e si sentì sciogliere dentro. Non poteva permettere che quell'ombra la prendesse. Non se lo sarebbe mai perdonato.
    Ma non sapeva come fermarla. Opporsi era inutile: l'ombra si sarebbe sbarazzata di lui senza troppi patemi e poi avrebbe preso Ester. Provò a ragionare, ma il rumore stridente in testa non gli dava tregua.
    Controllò l'orologio: le tre di notte. Era passato già tutto quel tempo, considerò. Gli sembravano trascorsi dieci minuti da quando lui ed Ester erano entrati nella stanza, invece erano già più di quattro ore. Tutto quel sonno perso si fece sentire in quel momento, fece uno sbadiglio lungo che sapeva di cattivo. Non si lavava i denti da quella mattina, notò allora. Al ritorno in hotel, la visione dell'ombra gli aveva succhiato via qualsiasi altra preoccupazione.
    Forse una soluzione c'era. Gli venne in mente in quel momento. Era qualcosa di assurdo e probabilmente insensato, ma era anche l'unica idea che fosse in grado di generare. Tanto valeva provare, no? Se poi anche quello si fosse rivelato un fallimento... No, per il momento non voleva pensarci. Troppo terrore e troppo dolore. Aveva solo la sensazione vaga che qualcosa di lì a poco sarebbe successo. Guardò Ester, che singhiozzava ancora, reggendosi la pancia con una mano. Gli occhi grigi erano cadenti e vuoti. Luca provò come un'ondata d'amore che gli avvolse il cuore, e insieme a quella un'altra sensazione.
    Impotenza. Aveva un'ultima possibilità; una volta consumata anche quella, non avrebbe potuto far nient'altro. L'ombra che gliela strappava dalle dita e la maciullava con quegli artigli, lasciando solo le ossa bianche con qualche brandello di carne marcia attaccato. E gli insetti minuscoli che brulicavano ronzando sulla sua carcassa. L'immagine lo fece rabbrividire. Dubitava che sarebbe andata così: l'ombra era immateriale, quindi anche gli artigli erano immateriali. Non sarebbe stata una carneficina piena di schizzi di sangue e pelle strappata e odore di ferro e vomito, no. Qualcosa di più profondo, invece, qualcosa che avrebbe avuto fine all'interno di quel buio infinito. Non riusciva a immaginare niente del genere.
    Solo l'urlo. La voce di Ester che si faceva stridula, vibrante, disumana, e poi si spezzava all'improvviso. Il rimbombo di quel terrore sarebbe rimbalzato per l'eternità tra le pareti del suo cranio, alternato a quel frr frr che lo stava facendo impazzire. Gli venne da piangere, ma trattenne le lacrime.
    O forse era già pazzo. Diavolo, stava pensando a Ester come se fosse già andata, distrutta dall'immaterialità di un'ombra che solo lui riusciva a vedere. Allora gli scappò un’altra risata breve. Ester lo guardò severa e Luca sentì le lacrime che si scioglievano e iniziavano a correre sulle guance. Tentò di nascondersi la faccia fra le mani.
    «Tu non stai male. Non sei mai stato male» mormorò Ester.
    Silenzio.
    «Non stai male nel senso che intendevo io. Non hai il cancro né nessun'altra malattia. C'è qualcos'altro che non mi vuoi dire». Tacque un momento, tirò su col naso. «Guardami».
    Luca sollevò la testa e la guardò. Nel fondo degli occhi stanchi di Ester brillò qualcosa, per un momento. Luca si sentì nudo, ma continuò ad affrontare lo sguardo inquisitorio di Ester. Fu tentato di raccontarle tutto dall'inizio, da quando aveva visto il primo centimetro nero di quella cosa orribile e poi dello svolgimento infernale quei due giorni interminabili. Ma non disse niente. Ester non l'avrebbe preso per pazzo, no. Avrebbe cercato di respingere quella follia, sapendo nel profondo che non poteva farlo. Sapendo che era vero, che Luca non stava inventando niente. Le avrebbe fatto troppo male, quindi Luca tacque. Sperò che a capire tutto fossero quegli occhi grigi che gli stavano scavando nell'anima.
    «Che cosa c'è?» La voce era di nuovo vicina al pianto.
    «Non posso dirtelo adesso. Forse... forse dopo...» Ma non ci sarebbe stato un dopo, ricordò, e fu come un proiettile in pieno petto. Pianse più forte.
    Dopo qualche minuto si calmò. Ester si era avvicinata e lo aveva baciato, poi era rimasta seduta sulle sue gambe. Adesso dormiva, sempre con quel raspare intermittente. Anche lui cedette al sonno, sebbene si trattasse di un dormiveglia incostante e tormentato, da cui si svegliò quando nella hall non c'era più la luminosità abbacinante delle lampadine, ma quella naturale e calda del sole. Controllò l'orologio: le sette e mezza. C'erano già un discreto movimento verso la sala per la colazione.
    Ester dormiva ancora con la testa penzolante nel vuoto. La muoveva di continuo, senza mai trovare un appoggio. Era il momento, considerò Luca. La sollevò con delicatezza, si alzò e la poggiò di nuovo alla poltroncina. Si avviò verso le porte automatiche dell'albergo. Indossava ancora i vestiti del giorno prima, sulla sua maglietta c'era una chiazza unta e lui non profumava esattamente di pulito, ma era una cosa che gli avrebbe rubato dieci minuti, quindi andava più che bene.
    Sperando che non sarebbero stati gli ultimi dieci minuti della sua vita o di quella di Ester.

    #13

    Faceva un poco freddo. Tirava una brezza gelida che lo prendeva alle spalle e gli provocava brividi continui alla nuca, ma il sole era alto e il cielo terso. Alla destra dell'hotel, percorrendo poche centinaia di metri, c'era un negozio di ferramenta. Era lì che era diretto.
    Ci arrivò prima del previsto. Il proprietario del negozio, un uomo che sembrava aver passato da tempo i sessant'anni, con due soli batuffoli bianchi ai lati della testa, stava sollevando la serranda. Luca aspettò, rimuginando.
    Gli era venuta in mente un'altra possibilità. L'ombra forse non voleva né lui né sua moglie. Forse chi cercava era il bambino. Non era una soluzione che riusciva a spiegarsi - ma cosa, in quella storia tremenda, era razionale? - ma ne intuiva un senso. Perché prendere lui o Ester? Insomma, era già tardi. Se qualcosa di sovrannaturale e malvagio avesse voluto prendersi le loro vite, si sarebbe attivata prima, quando erano dei bambini. Oppure quando erano ancora dei feti agli albori della loro esistenza.
    Lo trovò plausibile. Intanto il vecchio aveva aperto il negozio e Luca ci entrò, iniziando a guardarsi intorno. C'era odore di ferro arrugginito. Gli ricordò il vomito sanguigno che aveva cacciato poche ore prima e un altro conato lo prese alla gola.
    Si sentiva cinico, ma forse sarebbe stato meglio così. Meglio perdere il bambino. Ester ci sarebbe stata malissimo e sarebbe stato un duro colpo per la loro relazione, ma almeno sarebbe sopravvissuta. E l'idea di perderla era come una ragnatela di ferro intorno al collo che ogni minuto si faceva più stretta.
    Pagò l'importo impresso sulla cassa. Il vecchio con i batuffoli, quando lui gli porse i soldi, fece un sorriso ingiallito e macilento. Esclamò qualcosa in tedesco che Luca non capì e quattro rughe orizzontali si formarono sulla sua fronte. Luca fece un cenno con la mano e se ne andò.
    Continuò a pensarci su per tutta la strada del ritorno. Si sentiva sporco e ammorbato solo a immaginare la morte del loro futuro figlio, ma se quello serviva a salvare Ester... be', che morissero pure tutti i bambini del mondo. Sua moglie in quel momento era più importante. E poi quella speranza, seppur minima, un poco allentava la presa della ragnatela intorno al collo.
    Appena arrivato di fronte all'albergo, però, spazzò via quei pensieri. Aveva altro a cui pensare. E chissà, se fosse andata bene avrebbe salvato sia sua moglie che il bambino. Ci sperava davvero tanto. La faccia gli si tese in un sorriso al pensiero delle sue mani che afferravano e sollevavano in aria suo figlio.

    #14

    Ester si guardava intorno con gli occhi gonfi e arrossati. Quando scorse Luca, gli venne incontro trascinando le gambe. «Dove sei stato?»
    «Ho comprato una cosa» disse Luca, indicando la busta gialla che reggeva con un mano.
    «Che cosa?»
    «Ti spiegherò dopo». Se ci saremo ancora, sussurrò una vocina che non era la sua. Sentì le gambe farsi di gomma.
    Ester sbuffò, scompigliandosi i capelli caduti davanti agli occhi. Aveva un aspetto tenero, con quel viso assonnato e le gambe distrutte dalla notte turbolenta. Le guance erano flosce, due rughe verticali solcavano i lati della bocca.
    «Aspetta qui. Vado in camera, torno tra poco». La stessa vocina sibilò la stessa cantilena: se ci saremo ancora, tra poco. Il fruscio in testa si inasprì e le gambe si fecero ancora più mence.
    «No. Vengo con te». Le rughe ai lati della bocca si indurirono e gli occhi si fissarono in quelli di Luca, facendosi più piccoli.
    «Amor... Ester, meglio di no». Qualcosa nella pancia gorgogliò. Da quant'è che non mangiava? Per come si sentiva debole, potevano essere passate settimane.
    «Ho detto che vengo con te». Continuò a guardarlo negli occhi. «Voglio stare con te... qualunque cosa ci sia lì dentro».
    Sentì un'altra ondata d'amore che lo allagava. Non poteva cedere, avrebbe messo in rischio la vita di Ester. Ma d'altra parte, se anche quel tentativo fosse fallito, chissà cosa ne sarebbe stato di lei. Forse l'ombra avrebbe preso lui nella stanza, mentre cercava di sconfiggerla; oppure, mentre lui era in camera che provava a combatterla, l'ombra avrebbe afferrato Ester per qualche via che non poteva capire.
    In entrambi i casi il finale era lo stesso: non l'avrebbe rivista mai più.
    E adesso ogni minuto con lei era morfina per una mente sconquassata dal dolore.
    Lasciò trascorrere qualche secondo, sperando che lei si tirasse indietro di sua volontà. Non lo fece. «Va bene, vieni» mormorò quindi, pentendosi subito di quelle parole. «Ascoltami, però». Si avviò verso la camera e tacque per una decina di secondi.
    Nel corridoio riecheggiavano i loro passi. C'era odore di alcol e di detersivo al limone, il fruscio delle inservienti che riassestavano i letti. Luca non sapeva come comportarsi. Qualcosa doveva rivelarle: non poteva sopportare che lei assistesse al tutto senza nessuna spiegazione. Non poteva nemmeno rivelarle tutta la storia, però: l'avrebbe spaventata a morte.
    Un giorno, se questo incubo finirà, le dirò tutto.
    Già, se questo incubo finirà.
    «C'è... niente, allora, ti spiegherò dopo. Fidati di quel che faccio, adesso». Fallo almeno tu, pensò, perché io non ho nessuna fiducia. «Non avvicinarti allo specchio. Entra in camera e mettiti vicino alla porta del bagno, ferma lì. Qualunque cosa dovesse succedere. Poi... poi lasciami fare».
    Lei annuì. Dopo qualche secondo commentò: «Cristo, è una cosa così folle...»
    Lo era. Per un attimo Luca ebbe la consapevolezza nitida di ciò che stava accadendo e rabbrividì tutto. Se solo qualcuno gli avesse raccontato qualcosa del genere lui sarebbe scoppiato a ridere. Un'ombra che spuntava dal soffitto e cercava di divorare te o tua moglie o tuo figlio! Invece adesso si stava dirigendo verso l'ultima battaglia contro quel mostro e sua moglie lo stava accompagnando, compagna fedele di una spedizione insensata.
    Poi furono di fronte alla porta. Si guardarono un attimo negli occhi e si scambiarono un bacio. Ester cominciò a piangere, il suo corpo venne preso da singulti regolari. Luca la abbracciò e il pianto dopo un minuto cessò.
    «Pronta?»
    «Sì, vai». Aveva la voce che era come di seta, ma si sentiva pure il rumore dello strappo in più punti.
    «Ricorda, vicino alla porta del bagno. E non ti muovere di lì».
    «Va bene».
    Fece scorrere la carta magnetica di fronte al chiavistello. Il cuore mandava pulsazioni impazzite in tutto il corpo. Ci fu il segnale acustico dei cardini che scorrevano, poi Luca afferrò il pomello e spinse, con le dita della mano che proprio non riuscivano a stare ferme.

    #15

    Gli artigli si erano allungati. Adesso sembravano dei tentacoli neri e spessi che ballavano nell'aria, frustrando qua e là ostacoli invisibili. C'era sempre quel brulicare ai lati, solo che adesso quelle non erano più particelle indefinite: erano ombre più grandi. Dovevano essere degli insetti, giudicò Luca. Quattro zampe corte e secche che sporgevano da un corpo frastagliato; più avanti, la testa che era un altro cerchio, ma più piccolo. La bocca era un becco appuntito verso l'infuori, da cui ogni tanto gli insetti sputavano dei filamenti sottili, che si incrociavano con le fibre tessute dagli altri insetti. Era come un groviglio che si muoveva insieme all'ombra, e rotolava e zampettava e respirava con il sibilo di un moribondo.
    Luca rivide per un momento la luce abbagliante appena oltre quel nero infinito. Provò dolore agli occhi e per qualche secondo quel bagliore rimase impresso nella retina, inondando di bianco tutto ciò che lo circondava. Accusò un senso di nausea. Poi li bagliore svanì, rimasero i tentacoli che si muovevano sempre più freneticamente. Ester, seguendo i suoi dettami, si era appoggiata alla porta del bagno, pronta a scapparvi dentro all'evenienza. Osservava anche lei lo specchio con un'aria un po' assente. Chissà se stava vedendo anche lei, si chiese Luca. Ma più probabilmente era solo esausta.
    Luca fece un respiro profondo. L'odore sottile e speziato, che nell'altra stanza si avvertiva appena, adesso si era fatto forte e pungente. La nausea gli strinse ancora lo stomaco. Appoggiò la busta che reggeva a terra e ne estrasse i due strumenti.
    Si avvicinò allo specchio camminando con cautela. Sentiva l'aria spostata dalle sferzate dei tentacoli, il sudore viscido che gli colava lungo le braccia. Poggiò la mazza sul letto: gli sarebbe servita più tardi.
    Ecco, ora ce l'aveva davanti. Le tenebre senza fine che si aprivano nello specchio. E la sua faccia, impressa lì sopra. Un viso che era il suo, ma che non aveva mai visto: la cornea un poco ingiallita, il profilo tutte ossa, le labbra spaccate. Un po' di muco si era seccato appena sotto il naso. Cercò di concentrarsi su ciò che governava il resto dello specchio. Adesso c'era solo un velo nero che lo separava dal mondo - perché era sicuro che fosse così, per qualche motivo - che si nascondeva lì dietro. E forse doveva essere lui a svelare quell'ultimo strato.
    Smettila, si disse. Evita queste stronzate e pensa a fare quello che devi fare. Alzò il braccio, che gli parve pesante come una di quelle casse d’acqua che riempiva da piccolo nel bosco. Poi chiuse gli occhi e colpì con tutta la forza che aveva lo specchio.
    Mille pezzi di vetro gli esplosero sul viso. Non provò dolore: solo un poco di bruciore, poi il sangue che scorreva a fiotti densi e rapidi dalle guance e dalla fronte. Il martello cadde a terra con un tonfo. Per qualche secondo ci furono il silenzio e il suo cervello che ruminava e pulsava. Poi udì l'urlo di Ester, già smorzato. C'era una nota stridula e le corde vocali tremanti per il pianto. Gli fece male al petto.
    Si girò dischiudendo appena gli occhi per il timore che il sangue potesse offuscargli lo sguardo. Afferrò la mazza sul letto dopo qualche tentativo, graffiandosi le mani con altre scaglie di vetro. Poi camminò verso il letto. Lo scricchiolio del vetro, il grido sempre più fievole di Ester. Sferrò un primo colpo al muro. Un pezzo di intonaco cadde dal soffitto, la parte del muro che aveva colpito rientrò di mezzo metro. Un altro colpo, un altro tonfo. Il primo pezzo di muro venne giù.
    Prima di sferrare il terzo colpo si fermò con la mano già levata in aria. Era assurdo, pensò un'altra volta. Stava devastando un muro e non avrebbe saputo spiegare a nessuno il motivo. Ma se non colpiva c'era il rumore del pianto di Ester, e gli faceva troppo male. Quindi continuò a percuotere e battere e picchiare fino a quando le mani non si fecero sanguinolente.
    Mollò che aveva abbattuto meno della metà del muro. Si gettò a terra e si accasciò nell'angolo, le mani che reggevano la testa, il sangue coagulato che rendeva il viso appiccicoso. Si osservò intorno. Un cimitero di intonaco, calce e vetri rotti. E poi sangue sul lenzuolo, sangue sulla moquette, sangue sui suoi vestiti. Qualche schizzo anche sul pigiama di Ester, anche se poteva trattarsi del vomito rossiccio della sera precedente.
    Frr frr. Era quasi un urlo. Nonostante quello, però, il pianto di Ester era sempre riconoscibile. Luca provava fitte continue al petto. Scoppiò a piangere anche lui: aveva capito.
    Non era così che poteva fermarla.
    Non c'era nessun modo per fermarla. Bisognava solo assecondarla, lasciarsi prendere dai suoi tentacoli o artigli o quello che erano.
    Perché, per quante pareti avesse abbattuto e per quanti specchi avesse infranto, ci sarebbe sempre stato un muro ad ospitare l'ombra e una superficie riflettente che ne desse l'immagine.
    E quella non si sarebbe fermata fino al raggiungimento dell'obiettivo. Qual era? Non ne aveva idea. Non aveva più importanza, allora: niente avrebbe disinfestato la mente da quell'incubo che già stava suppurando.
    Rimase così, curvo sulle ginocchia a udire il pianto di Ester che lo straziava, fino a quando qualcuno non aprì la porta dall'esterno.

    #16


    Sei mesi dopo

    Non dormì per tutta la notte e quando il mattino arrivò Luca era stravolto. Camminò verso il bagno con le gambe malferme, incrociò due infermieri e li salutò con un sorriso.
    Entrò nel bagno in comune camminando con cautela. Lanciò un'occhiata agli angoli dello specchio: niente. Si rilassò. Da sei mesi a quella parte, ovvero da quando era rinchiuso in quel centro psichiatrico, si affacciava allo specchio sempre con una lieve apprensione. Il cuore si gonfiava come una spugna e pulsava nervosamente. Non si era mai ritrovato nuovamente faccia a faccia con l'ombra da quella volta nell'hotel a Vienna e, col tempo, aveva iniziato a dubitare dell'effettiva realtà di quella storia. Non si era confidato con nessuno perché chiunque l'avrebbe preso per pazzo, dopo un racconto del genere. E come poteva essere altrimenti? Adesso era sano, non c'erano dubbi. Niente visioni strane, niente ombre che volevano divorare persone. Ma in quel periodo... magari era stata l'ansia del viaggio, forse l'emozione eccessiva per l'attesa del bambino, o ancora quella febbre malvagia in pieno agosto; fatto stava che qualche rotella nel suo cervello aveva subito uno sballottamento e aveva cambiato binario per qualche giorno. Lì dentro l'avevano aiutato a rimetterla a posto, quella rotella, che ora scorreva con raziocinio insieme al resto della ruota.
    Forse era stato l'attrito di quella ruota storta a produrre quel rumore. In fondo, immaginava, il rumore di ferri che sfregano non doveva essere troppo diverso da quello di un treno che scorre fuori dalla rotaia. Era una cosa del genere. Solo più violento e insopportabile, e, anche se non gli piaceva ammetterlo, meno normale.
    Si guardò nello specchio. Gli occhi erano due pozzi fondi, agli angoli un po' di rosso macchiava la sclera. Aveva una cicatrice corta e sottile che si estendeva in diagonale proprio al centro della fronte; un'altra, più profonda, sopra il sopracciglio destro, mostrava ancora la carne pulsante. Ce n'erano una decina sparse tra le guance e il mento, alcune di dimensioni poco considerevoli, altre più interne e spesse. Si passò una mano su un taglio verticale sul collo. Da lì il sangue era colato a fiotti e il dottore, gli avevano comunicato in seguito, si era stupito di come fosse riuscito a non perdere i sensi nonostante un flusso del genere.
    Ma ormai era tutto passato. L'ombra, se mai c'era stata, era lontana. Il frr frr nel cervello niente più che il sottofondo di un ricordo che stava già marcendo.
    Però, uscendo dal bagno, non voltò le spalle allo specchio, per quel solito terrore che, mentre era di spalle, un tentacolo color abisso potesse lambirgli il collo delicatamente e poi stringere, stringere fino a quando non gli avesse strappato l'anima.
    Trascorse il resto della mattinata a rammendare le sue cose e a passeggiare su e giù per il lungo corridoio dell'edificio. La luce chiara entrava di sghembo dalle finestre, ma a un certo punto calò una nebbia fitta e lattiginosa. Ogni tanto da fuori arrivava il rombo di un motore. Le sue gambe si erano ridotte a due stracci vecchi.
    Quando mancava mezz'ora a mezzogiorno passò a salutare i compagni di stanza e gli infermieri. Trascorse qualche minuto a chiacchierare con una di queste, Anna. Occhi piccoli e scuri, i capelli portati a caschetto, un neo grosso al centro del naso. Poi gli venne qualcosa allo stomaco, una specie di tremore interno, e con una scusa si ritirò.
    A mezzogiorno meno cinque una berlina nera si fermò nel parcheggio dell'edificio. Ne venne fuori un uomo alto, robusto, i muscoli delle gambe che guizzavano sotto i jeans stretti. Camminò con le mani in tasca ondeggiando nella nebbia fino all'ingresso dell'edificio, suonò il campanello ed entrò.
    «Mario!» disse Luca, andandogli incontro.
    Mario lo strinse in un abbraccio poderoso. «Come va oggi? Sei pronto?»
    Luca annuì e sorrise.
    «Bene, vado a firmare e torno subito». Si avviò verso il bancone con la sua camminata ballerina.
    Lui e Mario si conoscevano dalle scuole superiori. Avevano sempre conservato un buon rapporto e, in quei lunghi mesi, Mario era stato l'unico a dargli conforto, a farlo sentire meno solo. Veniva a trovarlo un paio di volte a settimana, se il lavoro lo concedeva. Altrimenti chiacchieravano al telefono, raccontandosi le impressioni dell'ultima partita di calcio o i progetti una volta che Luca fosse uscito da lì.
    Un po' gli dispiaceva. L'unico volto conosciuto in quel posto che poi non era nemmeno tanto brutto, probabilmente il solo amico che gli fosse rimasto. La vita di prima gli pareva così lontana.
    Dopo qualche secondo l'omone tornò indietro. «Andiamo!» disse, accompagnando con una pacca sulla spalla. «E copriti che fa freddo».
    Luca si calò il cappuccio in testa senza parlare. Aveva di nuovo quella sensazione di fastidio allo stomaco e le gambe non avrebbero retto il suo peso per molto ancora. Temeva l'impatto col mondo; temeva la sua vita futura, che sarebbe stata così diversa da quella del passato. Si infilò nella macchina sempre in silenzio. Mario mise in moto e si avviò.
    Dopo qualche minuto Mario disse: «Ti porto a casa».
    «Cosa?»
    «Ti porto a casa, Ester mi ha...»
    «Non esiste». Il cuore aveva iniziato a battere più forte.
    «Fammi parlare almeno!» esclamò Mario.
    «Ma parlare cosa? Non mi è mai venuta a trovare in sei mesi!»
    «È venuta qualche volta, all'inizio...»
    «E allora? Cos'è, si ricorda di me solo adesso che esco dal manicomio?»
    Calò il silenzio. Luca sentiva gli occhi colmi di lacrime e il battito del cuore pulsava nelle tempie.
    «Calmati, per favore. Fammi parlare... e poi non era un manicomio» ricominciò Mario dopo qualche secondo.
    Luca si era accorto che aveva preso la strada per arrivare a casa. Tacque.
    «Mi ha detto che vuole parlarti. Non so cosa vuole dirti, non so cosa ha intenzione di fare. So solo che vuole parlarti e che mi ha chiesto di portarti a casa vostra. Magari riuscite a chiarire...» Deglutì. «Ma comunque siete ancora sposati, non puoi far finta di niente solo perché lei non ti è venuta a trovare. Voglio dire, avrebbe dovuto farlo perché è tua moglie, ma ormai prova a parlarci. Cercate di risolvere».
    Ancora silenzio. Luca avvertiva qualcosa nel petto che si scioglieva. Dopo la prima settimana, le visite di Ester si erano fatte sempre più rade, fino a scomparire dopo nemmeno un mese. Lui aveva provato a contattarla per telefono e aveva ricevuto solo qualche risposta fredda, con la voce di lei che era assente. Poi il nulla: erano diventati due sconosciuti. Luca si era ripromesso che non avrebbe mai più avuto niente a che fare con lei, nei momenti di solitudine era arrivata ad odiarla e a sperare che le accadesse qualcosa di brutto. Adesso, per quanto la rabbia non fosse sbollita, lo schifava il pensiero di averle augurato del male.
    «Lo sai, c'è stato il fatto del bambino... lei c'è rimasta male. Prima lo shock di quello che era successo a te, poi l'aborto spontaneo. Era normale un periodo un po' no. Non pensare solo a te, anche lei è stata male» insisté l'amico.
    Forse Mario aveva ragione. Magari la situazione non si sarebbe risolta, ma parlare poteva essere utile. Sbuffò. «Va bene» disse. «Ma tieni il cellulare sott'occhio. Nel caso ti chiamo».
    «Sì. E te l'ho già detto, se non hai voglia di dormire dai tuoi, puoi stare da me fino a quando non trovi altro».
    «Non preoccuparti, non c'è problema» mormorò Luca. Ai lati, inghiottiti dalla nebbia, aveva riconosciuto i tratti del suo quartiere. Mancavano un centinaio di metri.
    Qualche secondo di silenzio. Mario si fermò davanti al portone senza spegnere il motore. «Buona fortuna».
    Luca fece un cenno con la testa, sbatté la portiera con più forza di quella necessaria e si avviò verso il portone. Prese due respiri profondi, cercò di incanalare l'energia verso le gambe, che ormai erano plastica sciolta. Citofonò. Il portone si aprì dopo meno di due secondi.

    #17


    Lo stava aspettando sul ciglio della porta.
    Era così diversa. Le guance erano scavate, il labbro corrucciato in un'espressione che non conosceva sul suo viso. Due calzini blu celavano un paio di caviglie tutte spigoli.
    E poi gli occhi. Erano assieme lucidi e spenti, come se un pianto che durava da ore avesse sottratto loro qualsiasi vitalità.
    Luca vacillò per un attimo mentre si avvicinava alla porta. Sentì qualcosa nel petto che si torceva, ma continuò a camminare.
    «Luca...» sussurrò lei.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Luca ricordò il pianto di Ester nell'albergo, rivide il sangue sulla sua camicia da notte. La cicatrice lungo il collo cominciò a pulsare.
    «Posso entrare?» Avrebbe voluto mostrarsi sicuro di sé, deciso, ma la voce gli venne fuori flebile.
    Ester si discostò dalla porta e gli fece spazio. Camminava con le gambe un po' arcuate e Luca ebbe l'impressione che le caviglie potessero cederle da un momento all'altro. «Vieni sul divano?»
    Era strano rientrare nella sua vecchia casa. Avvertiva un calore familiare, qualcosa nei mobili di legno chiaro e nelle fotografie disposte in fila che trasmetteva tranquillità. All'improvviso il mondo non gli faceva più così paura. Camminò verso il salotto dietro Ester, annusando l'odore di casa. Legno, polvere, latte condensato. Un profumo conosciuto che non annusava da troppo tempo.
    Arrivarono in salotto. Il solito divano bianco, con la federa perfettamente poggiata sui cuscini; quella mania dell'ordine non era scomparsa, allora. La bocca di Luca si allargò in un sorriso. Si sedettero e aspettarono in silenzio per qualche secondo.
    Fu Ester a cominciare. «Scusami. Scusami perché ti ho abbandonato e perché non sono venuta a trovarti. Io... io davvero non so cosa mi è preso». Parlò guardando il vuoto e mordendosi le labbra.
    Luca tacque. Sentiva la rabbia come un blocco di marmo al centro della testa.
    «È stato un periodo un po' così per me. Mi sembra... mi sembra quasi di essere stata un'altra persona, in questi mesi. Non mi capisco». Gettò la testa all'indietro e singhiozzò una volta sola. Qualche ciocca di capelli le cadde davanti agli occhi.
    «Sono cinque mesi che non sei venuta a trovarmi».
    «Lo so. Ma avevo paura... e poi il bambino...» Si era fatta rossa in viso, la sua voce era umida.
    «Potevi parlarmene. Io l'ho saputo dopo due settimane che stavo lì dentro da Mario, nemmeno da te!» Gli tornò in mente il dolore straniante che gli aveva provocato quella notizia. Era come un animale morto accasciato nel fondo del suo stomaco: c'era sempre, a volte si faceva pesante e fastidioso, ma mai lo aveva portato a piangere dalla disperazione. La sua mente era occupata da altro in quel periodo. Però era caduto in apprensione nei confronti di sua moglie: ora capiva perché, nei loro ultimi incontri, lei si era dimostrata così fredda. E gli era chiaro anche il motivo di quegli occhi bui, acquosi, dello sguardo che non si fermava mai nel suo, delle macchie scure che da giorni aleggiavano intorno ai suoi occhi.
    «Non ero proprio in vena di parlarne con te... Non prenderla male, ma mi ero convinta di aver abortito per lo spavento».
    Ecco, lo immaginava. Il motivo del distacco era stato il bambino. Appena dopo aver saputo la notizia, lui si era angosciato per la salute di lei e avrebbe desiderato tenerla il più vicino possibile. Ma al loro incontro successivo Ester, convinta che Luca non sapesse niente sul bambino, non aveva accennato alla questione, portando avanti altri discorsi tra i soliti mugugni e assensi. Quel silenzio, a differenza della notizia portata da Mario, gli aveva causato un dolore straziante, qualcosa che picchiava alla bocca dello stomaco: sua moglie non si fidava più di lui. Forse lo odiava perché quei giorni folli l'avevano stressata tanto da portarla alla perdita del bambino; forse lo prendeva per pazzo - c'era un motivo se si trovava in un centro d'igiene mentale, no?
    Ci fu altro silenzio. Ester tirò su col naso, poi continuò: «Ti volevo parlare. Ti volevo parlare di ciò che è successo da quando è iniziata la vacanza fino a quando... a quando è morto il bambino, credo. O fino ad oggi. Ma adesso non so proprio che dirti». Continuava a guardare fisso di fronte a sé.
    Luca ricordava anche cosa c'era, insieme a quell'ansia per la salute di sua moglie. E solo a pensarci tornava a sentire il torbido che si rimescolava nella sua anima.
    Una punta di gioia perversa che, nel mezzo delle notti insonni, lo portava a sorridere. Il motivo adesso gli pareva evidente: era ancora ai primi giorni nell'ospedale e i ricordi dei giorni passati infestavano ancora i suoi incubi. L'ombra sembrava ancora vivida e reale, ogni tanto gli sembrava di vederla sui muri o negli specchi dell'ospedale. Solo illusioni, naturalmente: adesso lo sapeva. Ma prima non era così, e il fatto che quella avesse preso il bambino e non Ester era una piccola vittoria. Ora si vergognava di quell'idea: la colpa dell'aborto era solo sua e dell'agitazione che la aveva suscitato, sua e di quella rotella che era andata fuori posto nel momento sbagliato. Nessun’ombra e nessun tentacolo.
    «E poi ero spaventata, Luca» continuò Ester. «Ti ho visto spaccare uno specchio e abbattere mezzo muro senza nessun motivo, e se c'era un motivo non me l'hai confessato». Voltò il viso verso di lui, i suoi occhi grigi baluginarono per un attimo.
    Il blocco di marmo nella testa si disintegrò tutto insieme. Diavolo, la capiva. Lui si era comportato da pazzo e lei ne aveva avuto paura. E adesso toccava a lui riparare.
    Così si decise. Non l'avrebbe mai fatto cinque minuti prima né - ne era sicuro - la sua convinzione sarebbe stata così ferma appena qualche minuto dopo. Fece un respiro profondo, poi disse: «Ti ricordi cosa ti dissi a Vienna, in albergo, pochi minuti prima di andare nella stanza per l'ultima volta?»
    Ester lo guardò con le sopracciglia aggrottate. Un altro gesto solito: Luca sentì calore al petto.
    «Che ti avrei raccontato tutto dopo. Ecco, facciamo che questo dopo è arrivato». Si sforzò di sorridere.
    Ester rise e Luca provò altro calore. Poi prese a raccontare.

    Lo seguì con il viso che era un quadro in continua evoluzione. Le sopracciglia aggrottate e la bocca arricciata quando Luca le narrò di come era comparsa l'ombra, di come si presentava; i suoi occhi si persero nel vuoto nel momento in cui lui tentò di descriverle quel nero infinito e il bagliore che solo due volte aveva visto lì dietro; cominciò a mordersi le labbra e le sue mani si fecero tremanti alle parole di Luca che tracciavano l'avanzare della sua paura. Le rivelò tutto, anche di aver finto la febbre per non farla preoccupare e di aver desiderato la morte del bambino, pur di ottenere la salvezza di lei.
    Alla fine le labbra di Ester erano screpolate e Luca sentiva un gran bisogno di bere.
    «Lo so che sembra una cosa da pazzi. Credo lo sia... credo di aver immaginato tutto, adesso. Ma, credimi, in quel momento mi sembrava davvero reale». In realtà adesso non era più sicuro che si fosse trattato di una follia dovuta a qualche rotella mal funzionante. Rimaneva una storia insensata e irrazionale, ma sentiva scariche fredde di terrore ai polsi.
    Come grovigli di serpenti che si dipanavano nelle vene.
    «Non importa. Non più, ormai» disse Ester. Poi aggiunse: «E comunque ti credo». Adesso c'era un'espressione diversa nei suoi occhi, qualcosa di assorto che lui non riusciva a decifrare. Non c'era mai riuscito del tutto.
    Tacque. Il pulsare delle vene sulle tempie, le labbra di Ester che tremavano, il desiderio tremendo di baciarla.
    Lei si ravviò una ciocca di capelli caduta davanti agli occhi. Qualcosa si rivoltava nello stomaco di Luca. «Allora?» sussurrò.
    «Io... non voglio perderti. È tutto quel che so adesso».
    «Neanche io. Ma non voglio spaventarti». Non seppe con quale coraggio tirò fuori quelle parole. «Sei sicura di voler continuare?»
    Lei si avvicinò alle sue labbra e mise da parte ogni paura.

    Edited by DamaXion - 24/11/2017, 16:42
  10. .
    #1

    La febbre a metà agosto. E proprio nel mezzo delle ferie, poi. La cosa lo rendeva nervoso: proprio non gli andava giù di aver pagato, tra lui e sua moglie, trecento euro per i voli e altri trecento per l'alloggio nell'albergo a quattro stelle per poi passare la vacanza a letto. Senza contare i soldi per mangiare e quelli che avrebbe speso in medicine. Steso sul letto, colpì con un pugno fiacco il materasso sotto di lui.
    Già quella mattina, quando si era svegliato, Luca non si sentiva tanto bene. Si era alzato con i muscoli delle braccia e delle gambe sfibrati e con dei brividi gelidi e continui che gli attraversavano la schiena. La cosa era strana, aveva riconosciuto: nonostante si trovassero a Vienna, la temperatura oscillava sempre tra i venticinque e i trenta gradi. Aveva però ignorato l'allarme - e adesso se ne pentiva amaramente: se avesse passato la mattinata a letto, forse la situazione sarebbe migliorata - e aveva deciso di affrontare la mattinata in città, camminando sotto il sole che si faceva man mano più cocente. I brividi erano aumentati e adesso, invece che gelidi, gli mettevano addosso una sensazione di caldo che gli si appiccicava alla pelle. Lo sguardo si andava appesantendo, sempre più spesso nelle sue pupille scorrevano immagini nere e brumose. E il peggio era che a metà giornata, vinto dalla spossatezza dei muscoli che sembravano pezzi di mattone secco, aveva chiesto a Ester di tornare per qualche ora in albergo e riposare almeno un poco. Si concedeva solo due settimane di ferie all'anno, una d'estate e una d'inverno, e il fatto di dover passare anche solo poche ore in albergo, sprecando il suo tempo e i suoi soldi, accresceva il suo nervosismo.
    E adesso eccolo lì, abbandonato sul letto senza forze, con i muscoli che, nonostante le due ore di riposo, non accennavano a sciogliersi. Da qualche minuto un mal di testa non troppo doloroso, ma decisamente fastidioso, gli martellava nel cranio. Era come se grattasse le ossa con l'estremità di un pezzo di ferro. L'ambiente della camera da letto era confortevole: la carta da parati color ocra, i copriletto rossi, la sedia di legno tenuta vicino al piccolo scrittoio. Sopra la sua testa pendeva un quadro di un paesaggio fluviale dai contorni un po' confusi. O almeno gli parevano confusi: in quel momento non portava gli occhiali per la miopia e osservava il dipinto dal riflesso nello specchio a muro di fronte al letto. Regnavano un ordine e una pulizia perfetti. Avrebbe quasi apprezzato quella stanza, se non fosse stato per l'odore: un misto di spirito per lavare a terra e varichina che dava la nausea. E poi qualcos'altro, un tanfo più sottile, come... no, non riusciva proprio a paragonare quell'odore strano a niente. Forse, ma proprio a volersi allargare, avrebbe detto che assomigliava al misto di spezie che si diffondeva al mercato rionale nella sua città. Piacevole all'inizio, ma sempre più stucchevole con il passare dei minuti.
    Aveva già letto e riletto giornali che si era portato dall'Italia - e per forza, si disse: non era previsto un periodo di malattia -, la televisione in stanza passava solo programmi in tedesco e il cellulare era a caricare a qualche metro di distanza. L'unica alternativa per trascorrere quel tempo morto, quindi, era leggere l'ultimo romanzo di Jessica Horsing, l'autrice preferita di Ester. Ma erano già dieci interminabili minuti che cercava di andare avanti con la lettura e qualche sbadiglio iniziò a spalancarsi sulla sua bocca. Lo scroscio della doccia che lavava il corpo di sua moglie stava assumendo i contorni di una ninna nanna e il suo sguardo stava perdendo la lucidità.
    Che noia, cazzo. Luca non era un assiduo lettore, se poi era costretto a leggere quel genere di romanzi smielati che gli facevano rivoltare lo stomaco... No, no, meglio fare qualcos'altro. Gettò a lato il libro, che piombò sul materasso e lo fece stridere. Poi si domandò se avrebbe dovuto dire a Ester della febbre. Era orientato verso il no. La conosceva bene: se gliel'avesse detto, Ester l'avrebbe obbligato a letto per tutta la vacanza. Un incubo. Non aveva portato con sé un termometro e quindi non poteva nemmeno misurarsi la temperatura. Però la sentiva, come una presenza fisica nel mezzo delle tempie, lì dove da qualche minuto batteva quella fastidiosa emicrania. Si augurava che fosse ancora bassa, non più di qualche decimo, così almeno sarebbe stato capace di uscire e godersi la visita alla città invece di restare a marcire in quell'hotel. Ma non ci avrebbe giurato e anzi quel calore esagerato nel petto gli suggeriva che la febbre era altissima. Alta così come non poteva nemmeno immaginare.
    Sbuffò verso l'alto e cacciò una risata nervosa. Devo darmi una calmata, si disse ancora ridendo, questa volta a voce più bassa. Probabilmente erano solo pochi decimi e le membra imballate erano solo colpa del viaggio del giorno prima. Gettò un'occhiata all'orologio: le tre e quattordici. All'improvviso ebbe voglia di lasciare la stanza, ma le sue gambe rimasero immobili, più dure che mai. Lo scroscio della doccia procedeva incessante, sempre con quell'effetto soporifero. Luca si tirò su a sedere contro lo schienale del letto e agitò la testa per scrollare via quel sonno.
    Fu allora che vide l'ombra.

    #2


    Fu allora che vide l'ombra.
    Anzi, a dire il vero non vide l'ombra. Ne vide il riflesso.
    All'inizio non fu in grado di definire cosa fosse. Un tocchetto nero e affusolato che spuntava dall'angolo del soffitto e si dirigeva verso il centro, orientato in diagonale. La direzione che prendeva, notò, era quella verso il quadro sopra la sua testa, quello con il paesaggio fluviale, esattamente a metà del letto matrimoniale. Doveva essere spesso un paio di centimetri e lungo tre, ma non seppe dirlo con precisione: gli sembrava che quella cosa oscillasse, come mossa da un vento che non c'era.
    Un insetto, pensò dopo qualche secondo, nonostante sapesse benissimo che non si trattava di quello. La cosa era troppo grande per essere una mosca o una zanzara e dalle forme troppo irregolare perché fosse di uno scarafaggio. Ma che cosa, allora, se non un insetto? Non gli veniva in mente nulla. Intanto rimase fermo sul letto con lo sguardo fisso sul riflesso della cosa e sul suo ondeggiare perpetuo.
    Solo allora si rese conto del colore della cosa. Nero, certo. Ma non si trattava un nero normale: era un nero profondo come l'abisso che catturava subito lo sguardo. Sembrava quasi uno squarcio buio nella parete. Non poté far altro che rimanere ipnotizzato da quella tonalità mai vista e rimase paralizzato per qualche secondo, la schiena tesa in avanti e la bocca un po' dischiusa. Un brivido violento gli scosse la schiena e lui rannicchiò un pochino le gambe verso il petto.
    Per un attimo un'idea assurda gli attraversò la mente. Quella cosa era davvero uno squarcio, un portale che si apriva su un mondo o un universo di cui non conosceva l'esistenza. O qualcosa del genere, insomma: non riusciva ad articolare quel pensiero e l'unica cosa che aveva in testa era il rumore del ferro che grattava contro il cranio. Frr frr.
    Avrebbe controllato subito, comunque. Strisciò verso il bordo del letto adagio, con lo sguardo fisso su quella cosa e i muscoli dolenti e tesi pronti a scattare. Si arrestò quando giunse al momento di balzare giù dal letto. Aveva una sensazione angosciante nel petto che non gli dava tregua.
    Non poteva perdere di vista la cosa. O almeno non poteva perdere di vista il riflesso della cosa. L'avrebbe aggredito e lui, indolenzito e spossato dalla febbre com'era, non avrebbe avuto la forza di reagire. Si alzò piano, si defilò man mano dallo specchio e poi con un balzo si voltò.
    All'angolo del soffitto non c'era niente. La carta da parati color ocra, pulita e priva di qualsiasi macchia. Quello e basta. Luca esaminò meglio lo spazio circostante, arricciò gli occhi, fece qualche passo avanti per mettere a fuoco: niente.
    Si liberò in una risata stridula e sottile. Uno squarcio verso un altro mondo: che stupido che era stato, pensò ancora ridendo. Poi la risata si tramutò in un violento accesso di tosse e Luca si ritrovò piegato in due con le mani intrecciate sulla pancia, un dolore scoppiettante nell'addome e la sensazione che gli organi volessero scappare dalla bocca. Il ferro che aveva in testa non grattava più: ora spingeva nel tentativo di perforargli il cranio.
    Dopo un minuto buono si calmò. Lacrime miste di riso e tosse si andavano seccando sulle guance, lasciando una scia appiccicosa, e i muscoli delle gambe si afflosciarono come nodi troppo molli.
    Si gettò di nuovo sul letto con la pancia all'ingiù e strisciò verso il cuscino. Dopo un po' si girò e guardò lo specchio.
    La cosa era di nuovo lì, nell'angolo tra la parete e il soffitto alla sua sinistra. Ondeggiante come prima, con quel nero infinito e duro che sembrava assorbire tutta la luce circostante. Le irregolarità dei contorni ora erano più marcate, ma la cosa più spaventosa era un'altra: la cosa si era allungata almeno di un paio di centimetri. Ora la sproporzione tra la lunghezza e lo spessore era evidente e la distanza che la separava dal quadro con il paesaggio fluviale era diminuita.
    Luca rabbrividì.
    Che cazzo è? Perché prima non l'ho vista? Senza accorgersene scalciò e colpì il romanzo di Jessica Horsing, che cadde a terra con un colpo. Si rotolò sul letto e scattò verso destra, lì dove c'era la porta. Voltò le spalle per un momento solo allo specchio e per quell'attimo fu convinto che quella cosa che doveva essere per forza un mostro sarebbe fuoriuscita dalla parete e gli sarebbe saltata addosso, divorandolo con denti aguzzi e neri. Ma riuscì a raggiungere l'angolo tra la porta e la parete e si voltò verso lo specchio, le gambe tremanti, le spalle strette, gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite.
    La cosa non si era mossa. Anzi, si disse in quel momento: l'ombra non si era mossa. Come poteva chiamare una cosa che spuntava apparentemente dal nulla, con una forma insensata e che poteva vedere solo tramite lo specchio? Forse ombra non era la parola esatta, ma era l'unica che gli veniva in mente e quello bastava. Non aveva voglia di arrovellarsi sulle parole quando aveva una cosa - un'ombra - nera che gli pendeva sulla testa e prometteva di aggredirlo da un momento all'altro.
    Bene, dunque. Dopo la discussione linguistica posso dirlo: l'ombra è ancora qui. Il pensiero gli strappò un'altra risata nervosa che durò pochi secondi e poi gli morì in gola. I muscoli sofferenti delle gambe minacciarono di cedere e Luca dovette ricorrere a chissà quale forza per reggersi in piedi; il corpo era tutto un fremito nervoso e inarrestabile. Il cuore gli batteva forte nel petto e le tempie pulsavano. In testa, il frusciare del ferro che grattava era aumentato di volume. Frr frr.
    In quel momento Ester si affacciò dal bagno con i capelli ancora bagnati raccolti in un asciugamano. Gocce d'acqua le scorrevano sulla pelle olivastra e sulle curve del corpo nudo. «Che sta succedendo? Cos'è tutto 'sto casino?» Le sopracciglia le si aggrottarono quando vide Luca rannicchiato in quell'angolo.
    «Niente. Pensavo avessero bussato alla porta e mi sono alzato di corsa per andare ad aprire, ma non c'è nessuno. Forse l'ho immaginato» disse Luca. Fu sorpreso dalla sua stessa abilità nel mentire e si lasciò andare in un sorriso che a lui stesso, sebbene non potesse vederlo, parve rassicurante.
    Ester lo squadrò per un attimo. «Sei sicuro di stare bene? Sei pallido».
    «Sto benissimo, amore. Dev'essere il caldo».
    «Ma non fa caldo qui!» disse lei ridendo. Luca ne fu sollevato: era riuscito a eludere le domande di sua moglie. Non avrebbe mai voluto confessarle che vedeva un'ombra che veniva fuori da una parete senza motivo.
    «Lo so, ma sai, a camminare sotto il sole... Hai finito col bagno, così vado a lavarmi?» Era stato lui a voler tornare in hotel per il pomeriggio, ma adesso non vedeva l'ora di uscire da quella stanza.
    «Devo asciugarmi i capelli, ma lo faccio fuori. Puoi andare» disse Ester uscendo dal bagno ancora nuda. Camminando verso il letto, passò una mano sulla patta dei pantaloni di Luca, strizzò un poco e ammiccò. Lui fece un sorriso forzato e corse in bagno. Una volta dentro, si accasciò sul lavandino reggendosi con le mani e respirando con la bocca aperta. Le gambe erano logorate e spasmi continui attraversavano i muscoli, causandogli saette di dolore.
    Fingere costava fatica.
    Si fermò per un momento ad ascoltare il suo cervello. Frr frr.

    #3

    La febbre peggiorò nel pomeriggio. Non poté misurarla, ma sentiva il corpo accaldato e il cervello bollente. Per contrasto, l'aria frizzante della città gli provocava brividi di freddo.
    Si sentiva stanco. Stanco come non poteva nemmeno immaginare. Aveva la sensazione che le sue gambe dovessero cedere da un momento all'altro, i muscoli delle cosce erano anchilosati e anche solo tastarli gli stringeva morse doloranti in profondità. Non voleva mostrare a sua moglie che aveva la febbre, perché Ester l'avrebbe costretto a passare la vacanza in camera e non c'era nulla di peggio in quel momento. Per questo cesellò i momenti in cui chiedere di riposare un poco, tenne a bada l'arsura della bocca che gli faceva venire voglia di scolarsi litri e litri d'acqua e soprattutto evitò di far trasparire quel groppo d'ansia che si era bloccato all'inizio della gola, come un gomitolo di lana che mozzava il respiro e soffocava.
    Però, notò con piacere, da quando era uscito dall'hotel quella sensazione si stava pian piano acquietando. Arrivò alla conclusione che non c'era nessun'ombra che spuntava dalla parete: doveva averla immaginata. Forse era solo una macchia sullo specchio, oppure una crepa nel muro che da quell'angolazione non era riuscito a individuare. La spiegazione non lo persuadeva per niente: una macchia non era visibile solo allo specchio, non si muoveva e soprattutto non si allungava nel giro di trenta secondi.
    Probabilmente si era trattato di un'allucinazione. Era stata la febbre a provocarla, si disse, e la stanchezza e la calura accumulata nella mattina. Quest'idea era più convincente, ma la prospettiva di soffrire di allucinazioni, anche se per un solo momento di debolezza, non era rassicurante. Proprio per niente. Già sentiva nelle narici l'odore spiritato dei manicomi e non serviva a nulla ripetersi che i manicomi ormai non esistevano nemmeno. E, insieme a quello, gli effluvi nella stanza, quel miscuglio rivoltante e strano di spezie. Chissà se aveva immaginato anche quello. Ricordava di aver letto da qualche parte che le allucinazioni erano i primi sintomi di qualche malattia, ma ora non ricordava di preciso quale. La sua mente suggeriva Alzheimer, ma forse la soluzione era cancro al cervello. Credeva però di essere arrivato a quelle due patologie perché erano quelle che lo spaventavano di più e, rincorso da quell'ombra di cui non riusciva a spiegarsi l'origine, la sua mente riusciva a evocare solo pensieri terrificanti.
    Però il segnale d'allarme nella sua testa cinguettava debolmente, il gomitolo in gola si andava dipanando con lo scorrere del pomeriggio. Anche il frusciare del ferro nella testa perse d'intensità e si ritrovò a udirlo solo un paio di volte nel pomeriggio, più irritante di prima. Frr frr.

    #4


    La sera si sedettero al tavolo di un fast food in pieno centro. Di lì potevano vedere il punto in cui Brandstätte si incrociava con Stephanspaltz e il campanile della chiesa che avevano visitato appena mezz'ora prima, ma di cui Luca aveva già dimenticato il nome. C'era un bel movimento in città, con ragazzi e famiglie che sfilavano sul corso e qualche uomo in vestiti da teatro che pubblicizzava l'opera della sua compagnia spargendo volantini. Luca sentì i muscoli che si scioglievano e formicolavano, come se il sangue fosse tornato a scorrervi. Aveva lo stomaco chiuso e ribollente di un liquido acido, ma ordinò lo stesso un panino col merluzzo per non insinuare sospetti nella mente di sua moglie. Ester era così apprensiva.
    Si erano conosciuti al liceo, ma non si erano mai considerati più di tanto e avevano finito per perdersi di vista dopo la maturità. Poi a ventisei anni si erano rincontrati in una discoteca, dove avevano ballato insieme ed erano finiti a letto, troppo ubriachi per riconoscersi a vicenda. Era uno dei tre ricordi più dolci che Luca conservava di quei pochi anni di vita insieme: il motivo dei gemiti di Ester alla loro prima volta, quella sensazione sconosciuta che l'aveva preso al petto e non l'avrebbe lasciato mai più. Era come se una boccetta, in equilibrio su qualche coronaria a pochi centimetri dal suo cuore, si fosse riversata in quei momenti, spargendo il suo liquido misterioso ma magnifico nel sangue. Poi il giorno dopo Luca le aveva scritto - erano i tempi dei primi sms e lui era riuscito a ricavare il suo numero da amici in comune. Una settimana dopo Ester non aveva ancora risposto e, più tardi, Luca avrebbe detto di aver avuto la sensazione che quel liquido che scorreva nelle vene si stesse rinsecchendo. Ricordava ancora quella tristezza pesante che lo aveva preso in quei giorni e ricordava anche che non era stato capace di spiegarsi perché ci teneva tanto a rivederla. L'aveva capito solo quando lei gli aveva risposto, perché delle scosse elettriche l'avevano preso ai polsi e avevano rinvigorito lo scorrere di quel liquido.
    Arrivò un cameriere alto e con i capelli di paglia che trasportava un vassoio. Posò due piatti sul tavolo senza parlare, fece lo stesso con i bicchieri e poi si voltò e tornò verso il bancone, sempre muto. Ester lo seguì con lo sguardo, la bocca arricciata, e quando quello scomparve dalla loro vista si voltò verso Luca e ridacchiò. «Mah, che cortesia...»
    Luca si sforzò di ridere a sua volta. «Questi nordici son così».
    «Ti sta piacendo Vienna? Sei muto come un pesce in questa vacanza. Quasi penso che ti stia stancando di me». Rise ancora, questa volta con un suono pieno e contagioso. Anche Luca scoppiò a ridere, ma sentì lui stesso come i muscoli si tendevano e rivelavano un volto smunto e tormentato. Un volto da pazzo.
    La bocca di Ester, arricciatasi di nuovo, si dischiuse in poco. Le sopracciglia si aggrottarono e gli occhi tra il marrone e il grigiastro si fissarono in quelli di Luca. «Secondo me non stai bene. Sei pallido, te l'ho già detto». Si allungò sul tavolo e allungò una mano verso la fronte di Luca.
    Lui gettò la testa all'indietro e si lasciò sfuggire un: «No!» mormorato appena. Quel movimento improvviso gli lanciò una fitta di dolore nel cranio, ancora una volta come se quel ferro stesse cercando di traforargli le ossa.
    «Fammi toccare la fronte». Le sopracciglia erano sempre più rivolte verso il basso.
    Luca si arrese. Non poteva fare altro, perché ogni mossa avrebbe acuito il senso di pericolo di sua moglie. Mi conosce troppo bene, non sarei mai riuscito a nasconderglielo. Il pensiero gli accese una scintilla di nervosismo, ma fu anche una carezza dolce al cuore e contribuì ad affievolire la fitta nella testa.
    Ester poggiò il dorso della mano sulla sua fronte. «Scotti un poco. Come ti senti?»
    «Non granché bene. Sono un po' stanco, forse». Ester poteva leggere i suoi dolori, ma mai avrebbe intuito nulla riguardo la faccenda dell'ombra e non sarebbe certo stato lui a rivelarle i dettagli.
    «Perché non me l'hai detto prima?»
    Ebbe paura. E se Ester gli avesse strappato via anche quel pensiero? Cazzo, l'avrebbe preso per pazzo. Non poteva permetterlo. Corrugò la fronte, come se le rughe che si formavano potessero trattenere il segreto. «Non volevo passare la vacanza a letto, quindi non te l'ho detto».
    «Eh sì, perché io sono la rompiscatole che non ti fa uscire se hai la febbre!» Parlò con tono duro, ma le sue labbra trattenevano a stento un sorriso.
    Luca fece un sorriso stanco, poi si passò una mano tra i capelli. «Ho un mal di testa di quelli...»
    «Piccolino...» disse Ester, allungando le vocali e con una sfumatura ironica. Sorrise. «Poi misuriamo la febbre. Se hai più di trentasette e mezzo chiamiamo direttamente le pompe funebri, no?»
    «Molto simpatica». Il siparietto comunque spense quell'ultima fiammella di preoccupazione che era rimasta accesa nella mente a causa dell'ombra. Ora sentiva solo la pesantezza della testa, lo sguardo sfocato ai lati e i nodi delle gambe che si scioglievano, ma senza mai alleviare del tutto quel dolore. Accusò un grande bisogno di mettersi a letto e dormire.
    Finì il panino con il merluzzo, che si rivelò surgelato e di qualità pessima. Poi pagò il conto e si avviarono mano nella mano verso l'albergo. Li aspettavano trenta minuti buoni di camminata, ma quelle dita che si incrociavano alle sue ebbero un effetto corroborante e sentì almeno un poco di energia nelle gambe.

    #5


    Fu durante il cammino che il pensiero dell'ombra tornò a farsi spazio nella sua mente.
    La vedeva. Era enorme, nera, gli incombeva addosso. Quelle irregolarità erano denti aguzzi che l'avrebbero divorato e il nero infinito l'avrebbe trascinato in chissà quale altro mondo disumano.
    E ne sentiva il peso sulle spalle. Iniziò a camminare curvo, il respiro si fece greve e mozzato. Dovette sforzare i polpacci fino a sentire le vene che pulsavano e si ingrossavano per non caracollare.
    Adesso non era più così sicuro che si fosse trattato di un'allucinazione. Anzi, si era quasi persuaso che non fosse stata una visione. E, per quanto un'allucinazione non fosse sintomo di una salute scoppiettante, si trattava di qualcosa che riusciva a capire.
    Non riusciva a capire quell'ombra, invece. Si sforzava, spremeva le meningi fino a sentire quel rumore ferroso nel cranio: nulla. Le solite due ipotesi: un insetto o un'allucinazione. E la consapevolezza che non si trattava né dell'uno né dell'altra.
    «Ti piace l'hotel?» chiese a un tratto Ester.
    O Dio. Ti prego, fa che non l'abbia visto anche lei. «Perché me lo chiedi?» chiese Luca con la voce che era un tremito.
    «No, così... me l'aspettavo più bello. E tu?»
    Tacque per un attimo. Non aveva per nulla preso in considerazione quell'eventualità e ora l'idea gli sferzava il cuore come una tempesta di sabbia su un vetro. Una morsa gli strinse il petto, lo sguardo si velò di nero. Mosse il braccio libero in modo meccanico, cercando un appiglio che non trovò, e stirò i muscoli delle cosce: aveva sentito qualcosa di freddo che si insinuava lì dentro.
    «Ehi, allora? La febbre ti sta facendo diventare anche scemo?» insisté Ester. La voce gli arrivò lontana, sfocata.
    «Ehm... sì, bello, bello. Però quello del viaggio di nozze era più bello» farfugliò.
    «Sì, lo penso anch'io. Senti, ho portato delle medicine con me, in hotel ti prendi qualcosa». C'era una nota di apprensione nella sua voce.
    Luca emise un mugolo d'assenso, ancora terrorizzato dall'idea che anche sua moglie avesse visto l'ombra. Sentiva lamelle in testa che sfregavano e scintillavano e lanciavano scosse elettriche mandando in corto circuito la sua mente. Il gomitolo d'ansia in gola si fece più spesso e gli prosciugava la gola.
    Calma, si disse. Cerca di ragionare. Non può averla vista. Te ne saresti accorto prima. Ma non ne era convinto: se sua moglie poteva frugargli tra i pensieri a piacimento, lo stesso non valeva per lui. Si ritrovò a scrutare il viso di Ester, le sue sopracciglia aggrottate, la bocca come un bocciolo di rosa. Sentì il nodo in gola sciogliersi e credette di capire.
    No, Ester non sapeva. Era un bene, perché questo rafforzava l'ipotesi - nonostante tutto sempre meno credibile - che si potesse essere trattato di una visione momentanea. E poi, qualunque cosa fosse, non gli sarebbe piaciuto condividere il peso dell'ombra con Ester.
    Ma c'era qualcosa in petto che lo faceva tremare e lo riempiva di panico, impedendogli di ragionare con lucidità. Era come... come un presentimento, forse? Non riusciva a definirlo e gli pareva una sensazione mai provata prima. Quel che sapeva era che non gli piaceva. Non gli piaceva per niente.
    Man mano che si avvicinavano all'albergo i muscoli si facevano più rigidi: gli sembrava di camminare su dei trampoli di legno. Anche lo sferragliare dei ferri nel cranio aumentò di frequenza, questa volta con una nota più stridula. Si accorse di sudare dalle mani, una cosa che non gli succedeva da quando, adolescente, tentava di adescare le prime ragazzine.
    Due dubbi grossi e rumorosi gli riempivano la testa. Primo: cos'era quell'ombra, perché l'aveva vista e perché si stava preoccupando così tanto? Secondo: c'entrava qualcosa sua moglie con quella storia assurda? Era quest'ultima domanda che lo faceva tremare. Se qualcosa... qualcosa di neanche lontanamente immaginabile si fosse intrufolata nella loro stanza?
    L'idea era folle, lo sapeva, e si maledisse per aver solo immaginato una cosa del genere. Ecco, ora inizio a credere nei mostri, si disse e soffocò una risatina che partiva dallo stomaco. Però la possibilità che potesse accadere qualcosa a Ester era angosciante più dell'ombra sconosciuta e del mondo parallelo che si apriva oltre quel nero profondo.
    Quando Ester aveva risposto a quel dannato sms, otto anni prima, si era sentito ribollire. Si erano dati appuntamento per qualche sera più tardi e le cose erano filate lisce, naturali. Come se il destino avesse prestabilito la loro storia e loro si fossero solo limitati a seguire i suoi dettami. Nel giro di un anno lui le aveva presentato i genitori e lei aveva fatto altrettanto; in tre anni avevano programmato il matrimonio.
    Già, il matrimonio. Il secondo dei ricordi più dolci che avvolgevano come un tessuto di seta il suo cuore. Ogni attimo di quella giornata gli appariva nitido nonostante fossero passati quasi cinque anni, e così probabilmente sarebbe stato per sempre. Il velo di sudore sulle labbra di Ester, il ciuffo di capelli che si scompigliava di continuo e che lei ravviava con cura maniacale. Il modo in cui lei aveva detto: «Sì, lo voglio», con le labbra che si muovevano al rallentatore. In quel momento, ricordava ancora, aveva provato l'impulso irrefrenabile di gettarcisi, su quelle labbra, e divorarle di baci prima che qualcuno provasse a portargliele via. Ma aveva aspettato, aveva ripetuto anche lui quel Sì, lo voglio con la voce che era un filo sottile e tremolante. La notte avevano fatto l'amore quattro volte, un record a cui non sarebbero mai più arrivati nel resto della loro vita coniugale. E per fortuna, si diceva sempre: a quei ritmi, ci sarebbe rimasto secco nel giro di una settimana.
    Si risvegliò dai pensieri quando un soffio di vento fetido di benzina gli alitò in faccia e un clacson strombazzò a pochi passi da lui. La mano di Ester strinse forte la sua. Luca barcollò un po' all'indietro e si aggrappò al palo di un semaforo, poi osservò l'autista della macchina che l'aveva quasi investito lanciargli chissà quale imprecazione. Lontano, perso nell'eco, gli arrivò alle orecchio la voce di sua moglie che urlava.
    «Che cazzo fai? Che cazzo ti è preso?» gridò Ester dopo qualche momento. Il suo viso era sbiancato, se non per due macchie rosse e rotonde come una monetina stampate al centro della guance. Aveva ancora le sue unghie conficcate nella mani di Luca e lui avvertì un bruciore tenue, anche questo lontano.
    «Scusami, amore... Ero distratto. Sono un po' assonnato». Non era vero. Stanco, sì. Forse stremato era più corretto. Non sapeva nemmeno quale forza lo tenesse ancora in piedi. Però ciò che gli si parava davanti agli occhi lo rendeva vigile, lo sfregare dei ferri nel cranio si fece più violento e assomigliava a un codice d'allarme. Frr frr.
    Erano appena arrivati di fronte al loro hotel.

    #6

    L'ombra c'era.
    E come poteva essere altrimenti? C'era sempre stata, l'aveva seguito passo passo in quella giornata stremante. Come un germe freddo che rosicchiava le gambe; un essere ignoto che lo pedinava a distanza e si burlava di lui, ghignando con quei denti aguzzi e neri.
    La vide appena entrato in camera, di sguincio nello specchio di fronte al letto. C'era prima una parte lunga, quasi rettangolare, i cui margini brulicavano di particelle nere indefinite. Poi si apriva una zona più affusolata, il nero si diramava verso il basso aprendosi in mille tocchetti appuntiti. O in mille denti aguzzi. Si ritrovò di nuovo a fissare quel colore per qualche secondo: ci aveva pensato per tutta la giornata, l'immagine gli era rimasta incastrata negli occhi e si era ripresentata ora per ora. Ma adesso, a vederla dal vivo... Era diversa. Era viva. Come se quel brulicare che individuava ai lati fosse il rimestare di qualche mostro nascosto appena oltre quel nero incommensurabile, quella coltre scura che divideva il mondo da chissà quale inferno.
    Si sentì mancare. Lo sferragliare in testa si fece violento e insopportabile: si portò le mani alle tempie e contrasse il viso in una smorfia di dolore. Altre ombre informi si allungavano sulla sua retina, mutavano forma continuamente, stringevano la morsa sui suoi occhi. Poi, quando lo sballottamento passò, notò un altro particolare che lo fece rabbrividire. L'ombra, che al pomeriggio non era che un frammento di pochi centimetri, ora si estendeva in diagonale per almeno un metro. A separarla dal quadro che pendeva al centro del letto matrimoniale, quello raffigurante il paesaggio fluviale, era rimasto un altro metro. Forse anche meno.
    Ester era avanzata di qualche passo. Luca invece era rimasto sulla porta, la spalla poggiata alla parete, le gambe di cemento. Un dolore improvviso gli artigliava lo spazio appena sotto la nuca. Si sforzò di trascinare avanti le gambe e si avvicinò al letto matrimoniale, con lo sguardo rivolto verso lo specchio. Gli passò per la mente di controllare se l'ombra esistesse ancora solo nel suo riflesso nello specchio oppure si estendesse anche sul muro, ma pensava di sapere già la risposta ed evitò di voltarsi. Non voleva concedere nemmeno un secondo di disattenzione a quel... a quel mostro.
    «Ecco qui, prendi» disse Ester, ancora chinata sulla valigia. Si rialzò e gli tese una bustina di Oki. Lui la afferrò tra le dita tremanti.
    Si sdraiò sulla sua parte di letto e sentì subito gli occhi pesanti. No, ti prego, no. Non posso addormentarmi. Non con quella cosa sul muro che può divorarmi da un momento all'altro.
    «Misura la febbre, tieni» disse Ester passandogli il termometro. Luca strappò l'estremità della bustina di Oki e si versò il contenuto nella bocca, diluendo poi la polvere mandando giù una sorsata d'acqua. Si spogliarono, si infilarono il pigiama. Luca sentiva brividi gelidi che gli attraversavano il corpo.

    #7

    Ester gli si avvicinò piano, si sedette al fianco, poggiò una mano sul suo petto. Risalì verso i capelli solleticando la pelle, indugiò qualche secondo sulle labbra, accarezzandole e tirandole. Poi passò qualche minuto a scompigliargli i capelli, con le labbra arricciate e una ruga verticale al centro della fronte. Luca cercò di ricambiare quelle tenerezze con qualche sorriso, ma si accorse di non avere la forza per essere convincente. Gli venivano fuori solo facce macilente e ghigni pallidi, notò, e la ruga sulla fronte di sua moglie divenne più profonda. E poi non poteva perdere di vista l'ombra. Gli parve quasi che si fosse allungata di un altro centimetro, accompagnata da qualche gorgoglio che non parlava alle orecchie ma all'anima, ma non poteva esserne sicuro con tutti quei movimenti turbolenti e indefiniti lì intorno.
    Poi Ester gli sfilò il termometro e controllò la temperatura. «36.7. Ancora non sei moribondo» scherzò Ester. Il suo viso si era un po' disteso, sulla sua bocca si stava abbozzando un sorriso.
    Luca si sforzò di sorridere a sua volta. «Certo che sei di una simpatia...»
    «Lo so!» esclamò Ester, chinandosi su di lui e baciandogli l'angolo della bocca. Si tirò giù fino a stendersi e con una mano continuò a scompigliare i capelli del marito, accennando di quando in quando una tiratina violenta. Con l'altra mano scese giù, all'inizio della sua coscia, e prese a solleticare e stringere.
    Luca rimase fermo, le braccia paralizzate e strette lungo i fianchi. Le irregolarità dell'ombra ora si stavano allargando e prendendo forma. Prima li aveva scambiati per denti aguzzi e taglienti, ma ora ne riconosceva l'identità. Non erano denti.
    Erano artigli. Lunghi, con il segno netto e distinto della nocca al centro. E si tendevano e si arricciavano, fendevano l'aria, bramavano già il succo della loro preda. Luca lo sapeva: era lui che cercavano. E non aveva nessun'idea su come difendersi.
    Intanto i baci di Ester si fecero più arditi. Le loro lingue si incrociarono, la mano di lei passò all'interno coscia. La sua bocca emetteva mugolii gravi.
    Luca se ne stava immobile. Lo sguardo sempre fisso sullo specchio, il cuore che si dimenava nel petto. Graffiò il copriletto sotto di lui, che stridette. Qualcosa di freddo cominciò a formicolargli all'altezza dei polsi e delle caviglie.
    La mano di Ester salì verso l'alto, si intrufolò nei pantaloni di Luca, scostò per un attimo le mutande. Poi tornò fuori e lei salì a cavalcioni sul marito, staccandosi dalle sue labbra. Aveva il viso un po' arrossato, i capelli arruffati, un sorriso mangiucchiato sulla bocca. Si passava la lingua sulle labbra e ogni tanto se le mordicchiava.
    Luca conosceva bene quell'espressione e, in qualsiasi altro momento, avrebbe provato il solito solletico che iniziava a prender forma nei suoi pantaloni.
    Non quella sera, però. Accusò una stretta forte allo stomaco, come di qualcosa che si torceva.
    «Cos'hai?» chiese lei con la voce arrochita. Una goccia di sudore sulle sue labbra tremolò e poi cadde sul petto di lui.
    «Te l'ho detto, sono stanco. Non ho voglia adesso».
    Lei annuì, sorridendo con gli occhi un po' vuoti. Poi si accasciò sul suo viso e gli baciò la guancia.
    Fu allora che il terrore lo prese al petto e gli causò uno spasmo alle gambe.
    L'ombra. Così non posso vedere l'ombra. Fece uno sforzo per spostare sua moglie dall'altra parte del letto, ma aveva le gambe stanche e riuscì a produrre solo uno sbalzo con il ventre.
    «Puoi... puoi spostarti? Ho dolore ovunque» sussurrò lui. Fece due colpi di tosse e si schiarì la voce.
    Ester rotolò verso l'altra parte del letto, baciandogli un'altra volta la guancia. «Hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male?»
    «Non credo» disse Luca. L'ombra non si era mossa e soprattutto non l'aveva aggredito mentre lui non poteva vederla. Un po' della tensione accumulata in quei secondi sbollì e i muscoli del suo viso si rilassarono... ma solo un poco. Il pericolo non era scomparso.
    «Mh... Ma da quando non ti senti bene?»
    Si accorse di non ricordarlo. «Da... da stamattina, più o meno. O forse all'inizio del pomeriggio». Però gli sembrava già passata un'eternità.
    «Ma cosa ti senti? Ti fa male da qualche parte?»
    «Le gambe. Sarà perché ho camminato troppo. E poi...» E poi ho dei ferri in testa che sfregano e fanno rumore. Frr frr. «E poi un po' di mal di testa. Ma ho preso l'Oki, vedrai che domani sto meglio».
    «Va bene. Io ho un po' sonno. Ti va bene se spengo la luce?»
    No che non gli andava bene. Non gli andava bene per niente. Però non poteva creare altri sospetti, quindi rispose: «Certo, fai pure. Mi metto a dormire anch'io».
    Lei gli sorrise, qualche ruga si formò intorno alle sue labbra. Si girò su un fianco, cliccò l'interruttore e nella stanza scese il buio. Dopo qualche minuto dalla sua bocca cominciarono a venir fuori ronfi scostanti e Luca fu sicuro che stesse dormendo.

    #8

    L'ombra si vedeva anche senza luce. Era stato stupido a non pensarci prima: era così scontato.
    Era nera più del buio e per questo le sue forme risaltavano. Luca osservò la parte iniziale, sempre con quel brulicare ai lati. Di cosa si trattava? Sembravano mosche che banchettavano su un cadavere. Cercò di mettere a fuoco per individuare qualcosa di sensato, ma dopo pochi secondi quel movimento turbolento e sconclusionato gli diede la nausea. Fu costretto a girare lo sguardo per non vomitare. Più avanti, gli artigli. Adesso gli pareva di distinguere la curva di demarcazione tra il dito e l'unghia, che, pur se sepolta in quell'oscurità, era stranamente lucida. Come una lama che scintilla al sole.
    Passò ore intere supino sul letto con gli occhi fissi sull'ombra. Il russare di Ester, il ticchettio dell'orologio da polso che aveva dimenticato di sfilare. Fuori ogni tanto sfrecciava qualche macchina e una volta un gruppo di ragazzi, probabilmente ubriachi, intonò una canzone in tedesco. E poi, in testa, sempre quel rumore di ferri. Frr frr.
    Osservò come quegli artigli diventavano sempre più lunghi. Si appiattirono, presero la forma di spiedini di ferro appuntiti. A separarli dal quadro al centro del letto, poco più di mezzo metro. Anche intorno a quelli, adesso, si era formato quel pullulare insensato. O forse il pullulare c'era già prima e lui lo stava notando solo adesso: il terrore gli inibiva il ricordo. Gli sembrava quasi che i suoi muscoli si stessero ritirando, la sua pelle avvizzendo. L'effetto dell'Oki lo faceva sudare, ma erano gocce gelide che si seccavano subito e lasciavano la pelle appiccicaticcia, sporca.
    A un certo punto gli occhi tornarono a farsi pesanti. I muscoli delle cosce, sempre in tensione fino a quel momento, si rilasciarono, spargendo nel sangue come un liquido anestetico. Provò a dare un'occhiata all'orologio, ma aveva il polso paralizzato e da lì non riusciva a distinguere l'orario. Dio, fa che questa notte passi in fretta.
    A restituirgli vigore fu un gemito di Ester, che nel frattempo si era messa supina. Il terrore si riaccese, lo sferragliare in testa tornò a farsi sentire. Ester: doveva proteggerla. Avvicinò una mano alla sua pancia e cominciò ad accarezzarla, tentando di cogliere con i polpastrelli il primo pulsare di quella vita che si stava formando.
    Ecco, il terzo ricordo più dolce. Solo a pensarci il cuore si scioglieva, la paura diventava solo un segnale d'allarme lontano e sfocato. Avrebbero avuto un bambino. Ester era al secondo mese di gravidanza e la protuberanza sulla pancia ancora non si notava, ma ogni tanto, poggiando l'orecchio al suo ombelico, Luca udiva qualcosa. Non era ancora né il battito del cuore né lo scalciare del bambino, ma qualcosa - una sorta di segnale che gli sussurrava nell'orecchio - annunciava la presenza di un essere nuovo. L'avevano scoperto un mese prima, durante uno dei controlli di routine a cui lei si sottoponeva, ed era stato per quello che si erano concessi quel viaggio imprevisto. Ancora gli risuonavano nella mente le parole di Ester quando, di ritorno dall'ospedale, gli aveva detto, con la voce che era un filo a un passo dallo spezzarsi: «Amore, sono incinta». E a riecheggiare nella mente era pure il pianto di felicità in cui erano scoppiati entrambi, i singhiozzi ripetuti e alternati di entrambi... il suono dei loro gemiti e dei loro ansiti a letto, mezz'ora dopo l'annuncio.
    Ma adesso c'era qualcosa di più incombente a cui pensare. Nei giorni precedenti avevano fantasticato insieme per ore sulla futura vita del loro figlio. Sarebbe stato maschio o femmina? E avrebbe avuto gli occhi marrone-grigio di lei o quelli neri di lui? Cosa sarebbe diventato da grande? Ora tutte quelle domande soffocavano: doveva prima di tutto assicurarsi che quel bambino avesse un padre pronto ad abbracciarlo.
    E, con il passare dei minuti, con l'ombra che si allungava senza sosta sopra la sua testa, la prospettiva di arrivare vivo di lì a sette mesi gli pareva remota. Due lacrime grosse si affacciarono sui suoi occhi e tremolarono per qualche secondo insieme alle palpebre. «Ti prego, risparmiami... fallo per mio figlio» mormorò. Non parlava con Dio, che in quel momento gli pareva un'entità distante e senza vita: parlava all'ombra.
    Ma quella non gli avrebbe dato retta. Luca lo capiva dall'avanzare spietato e senza ostacoli dei suoi artigli, dal modo in cui quel brulicare si faceva folto e rivoltante. L'ombra non l'avrebbe risparmiato: era lui a dover scappare. Ma si sentiva legato con delle cinghie a quel letto e in ogni caso non sarebbe potuto fuggire via così, lasciando sua moglie in hotel. No, avrebbe aspettato la mattina. Allora avrebbe ragionato sul da farsi... be', se ci fosse arrivato, naturalmente. Per ora doveva limitarsi solo a stringere i denti e sopravvivere.
    Il sole arrivò prima del previsto. Scorse il primo rossore al di là delle tende della finestra, quando gli artigli dell'ombra si tendevano a una ventina di centimetri dal quadro. Un'emicrania selvaggia gli martellava nel cranio e i muscoli delle braccia e delle gambe formicolavano, come addormentati. Però era felice: nel sonno, la soluzione gli era balzata agli occhi senza che ci stesse pensando. Ed era una cosa così ovvia che si stupiva per non esserci arrivato prima.
    Una volta che i suoi muscoli si furono sciolti, si alzò. Baciò sua moglie prima sulle labbra, poi sulla pancia. Tese l'orecchio e udì la vita nel corpo di lei. Fu tentato di scendere più giù, ma non era il caso. Non con quell'ombra ancora sulle loro teste; più tardi, magari. Camminò con passo felpato fino alla porta e uscì.
    Quando tornò, cinque minuti dopo, fu assalito dall'idea che, mentre lui era via, l'ombra avesse preso sua moglie. Temette di averla persa per sempre e il cuore gli si strinse. Ma poi aprì la porta ed Ester era ancora lì, che stiracchiava le gambe e sbadigliava, inarcando la schiena.
    «Mi hanno chiamato dalla reception» disse lui.
    «Perché?» chiese lei. La frase morì in uno sbadiglio.
    «Dobbiamo cambiare stanza. Dicono che è arrivata una prenotazione sbagliata... una coppia che aveva prenotato per una doppia, ma si è portata dietro il figlio, se non ho capito male. Le triple sono finite e questa stanza è l'unica abbastanza grande per metterci un altro letto».
    «Ah. E da quando tu capisci così bene l'inglese?» rise lei.
    Luca si sentì arrossire. Sperava che lei non intuisse la bugia e rise a sua volta. «Dai, prepara le valigie. Dobbiamo andare al piano di sopra».
    «Ancora cinque minuti» si lagnò lei, infilandosi di nuovo sotto il lenzuolo.
    «Va bene. Le valigie le faccio io, dai» disse Luca. Si chinò e iniziò a prepararle. Aveva ancora un po' le gambe indolenzite, ma il frusciare in testa era scomparso.
    In dieci minuti furono pronti. Prima di lasciare la stanza, Luca lanciò un'ultima occhiata all'ombra. Hai finito di perseguitarmi, stronza. Gli artigli di quella si piegarono all'indietro, poi di lato, in qualcosa che assomigliava a un sorriso.

    #9

    Giornata fantastica, pensò Luca per tutto quel pomeriggio. Avevano passato la mattina a dormire e a fare l'amore nella nuova stanza. Poi verso ora di pranzo erano usciti, avevano pranzato in un McDonald's nella zona dell'albergo e dopo si erano mossi verso il centro.
    Si sentiva felice per la prima volta durante quella vacanza. Prima c'era stata quella fiacchezza che preannunciava la febbre, poi l'ossessione e la notte insonne a causa di quel... di quell'ombra.
    Ecco, l'ombra. Il ricordo ancora lo turbava. Non riusciva a darsi una spiegazione e, per quanto si sforzasse di trovarne una almeno credibile, il tutto sfociava nella solita ipotesi: era stata un'allucinazione dovuta a una follia momentanea.
    Niente di reale, quindi.
    Ma ricordava benissimo come aveva creduto reali quegli artigli che si tendevano verso la sua testa e il colore profondo dell'ombra. Ogni tanto il terrore, come una presenza fisica - un groviglio di serpenti che strisciava nelle vene -, lanciava un'altra sferzata, a ricordare la sua debole ma continua presenza. E nella sua testa era stampata pure l'ultima immagine dell'ombra, la maniera tremenda in cui gli artigli si erano ritirati in quel sorriso sghembo.
    A parte che per quei ricordi troppo nitidi, la giornata trascorse tranquilla. Nessun dolore alle gambe, le braccia libere dall'indolenzimento. Anche la febbre era scomparsa - o almeno erano spariti tutti i suoi sintomi. E soprattutto non udiva più il rumore di ferri in testa: solo adesso si rendeva conto di quanto fosse stato fastidioso. Ancora qualche ora con quel frusciare terribile nel cervello e sarebbe impazzito, ne era sicuro.
    Fu con una condiscendenza che pensava di non aver mai avuto fino ad allora che accettò la scelta di Ester per quanto riguardava il posto in cui cenare. Era un ristorante di quelli costosissimi e con piatti probabilmente pessimi, con l'insegna in bella vista in una strada a pochi metri dalla piazza centrale, da cui potevano guardare uno scorcio della facciata del palazzo municipale. Luca non sapeva perché, ma l'imponenza di quell'edificio così cupo gli mise addosso un po' d'inquietudine. Il sole calante entrava di sguincio nella strada e illuminava di rosso solo una striscia sul muro. Mangiarono di fretta: Luca non vedeva l'ora di tornare in albergo e, a giudicare dagli sguardi che ogni tanto gli lanciava sua moglie, con gli occhi un poco lampeggianti e il movimento della lingua sulle labbra, anche per Ester valeva lo stesso. Felice com'era, anche al pensiero di ciò che lo aspettava di lì a poco, anche il cibo gli piacque.
    Camminarono mano nella mano, ogni tanto in diagonale senza rendersene conto, sospinti dal vento. Una volta deviarono in una strada sbagliata e poi, da quel punto, girarono per tre volte in tondo prima di ritrovare la via giusta. Luca aveva l'odore acre della pelle di Ester nelle narici, raffiche di desiderio che solleticavano appena sotto l'ombelico e si allungavano verso il basso. Contorceva le mani sudanti e con quella destra stringeva convulsamente le dita di Ester, che ricambiava quei movimenti, aumentando il vigore di quel solletico.
    Quando entrarono nella hall dell'albergo il desiderio aveva consumato il viso di Ester. Luca la conosceva, conosceva quegli occhi lucidi come sul punto di piangere. Sapeva il significato della bocca dischiusa in cui si intravedevano dei denti piccoli e candidi, riconosceva i colpetti che la lingua dava sulle labbra. Persino il profumo, in quei momenti, si faceva riconoscibile: prendeva una nota particolare, di frutta aspra e qualcos'altro insieme, qualcosa di indefinito e senza nome, che assumeva forma solo sotto le sue narici. Un odore inebriante, che smuoveva il sangue.
    Si ritrovò ad osservarla. Il viso arrossato, una goccia di sudore in precario equilibrio sul labbro. La lingua scorse in quel punto e la portò via. La pelle era perfettamente levigata, se non per il solco creato da una vena sul collo che pulsava frenetica. Un neo al centro del naso, che di solito passava inosservato, in quel momento richiamava l'attenzione: era un particolare che lo faceva impazzire.
    E poi il desiderio che prendeva forma come una stella lampeggiante nel fondo dei suoi occhi.
    Era troppo per sopportare ancora. La trascinò di forza verso la camera, lei cacciò una risata arrochita. Arrivati di fronte alla porta, tirò fuori la chiave magnetica dal portafogli. Prima di entrare, Luca afferrò Ester da dietro, cingendole i fianchi, e la strinse a sé, poggiandole un bacio umido tra il collo e la spalla. La sentì fremere nel suo abbraccio.
    Lei spinse la porta ed entrò nella stanza. C'era un buio fitto, le tende erano chiuse e conferivano all'ambiente un'aria soffocante. Luca armeggiò con la chiave magnetica, tentando di infilarla nello spazio apposito con il solo aiuto della luce nel corridoio. Quando ci riuscì, le luci della camera si accesero tutte insieme, costringendolo a strizzare gli occhi. Ester lo stava aspettando seduta sul bordo del letto, con le gambe un po' tremanti, il sudore del viso che scintillava sotto la luce improvvisa. La pelle olivastra nella luce abbacinante. Luca si avvicinò, si inginocchiò e le baciò le labbra. Poi si allontanò dal suo viso, le rivolse un sorriso e vi si avvicinò di nuovo. Qualcosa di nero - troppo nero - svolazzò nell'angolo dell'occhio destro.
    Il secondo bacio fu freddo, inanimato. Ester gli morse il labbro e gemette, lui rimase immobile con gli occhi sbarrati.
    Sbarrati e rivolti all'angolo sinistro dello specchio, dove a scrutarli c'era un'ospite indesiderata.

    Edited by DamaXion - 13/10/2017, 15:06
  11. .
    Grazie! :D
  12. .
    CITAZIONE (Ilsignorottopiumato @ 12/7/2017, 09:07) 
    Eccomi eccomi. Lo avevo detto io che ci venivo qua sotto. Sì sì, eccome. Due giorni fa lo scrissi, due giorni dopo lo feci. Perchè son cornacchia con le piume sia fuori che dentro il cranio, e che quindi ha la memoria che ci arriva fino a un certo punto. E che vuoi farci? Mica niente figurati. Lascia, lascia fare; che le cose vanno come devono andare e quando cadono son lì che fanno un gran casino, e tutti che stan là a prendersi una di quelle gran fife di quelle coi fiocchi. Non sia mai però che nessuno le levi da in mezzo tutte quelle cosacce, no no. Stan fermi piantati lì dove si trovano a mettere in piedi i bei discorsi. Di quelli a cui alla gente fa bene a interessarsi perchè son lunghi e importanti e pertinenti alla situazione. Che poi alla situazione ci si può anche pensare più tardi che prima abbiamo da parlarne quel tanto che copra gli ascolti ai T.G. Non sia mai che si rimanga a corto di roba da dire che il mondo è comare fatto e finito, e se ci molla va un pò a capire dov'è finiremo. Cianciamo dunque, cianciamo prima che la lingua abbia tempo di interrogare il cervello, e che Dio ce la scampi se mai accadesse. BLUE WHALE. L'ho detta bene. L'ho detta scandendo. In modo che tutti capiscano ciò che c'era da capire, ma poco altro che poi si rimane a secco di trasparenza. Ma bisogna fargielo capire o no a questi che la belenottera in questione non è saltata fuori da uno zapping accidentale su discovery channel? Sì che bisogna. Bisogna dire che il cetaceo non è saltato fuori da un bel niente. È saltato giù piuttosto. Giù dal palazzo che sta là in via della frittata che così ci infiliamo pure l'ironia della sorte. Ci si dice pure che questo animale tanto animale non è, e che anzi c'ha la peluria sul mento di quelle che vedi col microscopio master race giù alla NASA ( mica NASO); tiene due braccia due gambe e somiglia incredibilmente al nipote dell'amica di una consuocera che casualmente hai incrociato in cassa all'IKEA (dove ci stavano gli infissi per le finestre della camera del ragazzo in questione tra l'altro). Hai presente no? Quello che somiglia al figlio di tutti (tutti uguali sti ragazzi), pure al tuo. Adesso aspetta, aspetta se quelli non prendono paura, e si mettono a gridare più forte di noi, che così ce ne stiamo senza fare nulla almeno per un pò. Vai di paranoia poi, che la gente comincia a vedere morti ovunque che al confronto Haley Joel Osment è cieco come una talpa. Spingi, spingi che adesso abbiamo un gran da fare per le mani. Che tutti ora son convinti che il proprio figliUolo possa cominciare a pensare di essere una belenottera azzurra. E magari si immagina pure che le balene sappiano volare e spiccar lunghi balzi. E che se la cosa poi andasse mai a finire in caciara poco male, che poi ci sta il branco di iene che c'ha fame e non si lamentano di che mangiano. Va a capire che forse forse quello zapping su discovery channel era bene lasciarlo fare. Pigia, pigia il pulsante.

    Insomma ci stà sto ragazzino col nome di uno di quei nonni che ha fatto la guerra no? E succede insomma che viene avvicinato da quest'altro che si chiama Alessandro, che tipo è un adulto, che tipo è un poliziotto e che chiede al ragazzino di seguirlo in un posto tranquillo. Già io qua penso: "Guarda se adesso non tira fuori l'armamentario d'ordinanza, quello senza matricola". Ma no, non succede. E meno male sto a dirmi, che queste son cose brutte da leggere. Sto Alessandro invece fa all' Armando (Commissario, sa l'Armando...) che ci vuole dare un compito, che la scuola non è abbastanza e devono mettercisi in mezzo pure le forze dell'ordine a scartavetrare gli zebedei. All'Armando viene detto che deve """infiltrarsi""" in un certo sito e farsi adescare apposta da un certo curatore così da poterlo arrestare. Qui un pò storco il becco (E fa pure male), perchè di vedere un poliziotto che chiede a un ragazzino di svolgere praticamente il suo lavoro, non me lo aspetto nemmeno in un film di Spielberg. Ma ci dò il beneficio del dubbio, che sto Alessandro qui pare poliziotto quanto io vescovo, e per me gatta ci cova, ci puzza, e ci caca pure sopra. Si scambiano i numeri di telefono, raccomandandosi di non dirlo a nessuno, manco al parentame (Aiha, il becco). Senza tirarla ancora troppo per le lunghe, all'Armando l'idea sconfinfera e ci va fino in fondo. Troppo in fondo, perchè (così fa trasparire) quello ci rimane imbrigliato mica poco nella cosa. Tanto imbrigliato che non arriva nemmeno al telefono per chiamare il diligente e per nulla sospetto agente Alessandro. Infine... infine boh. Devi dirmelo tu. Che questa cosa oramai io la voglio vedere finita che uno quando vede una bella gonna poi mica gli basta no, no. Invoca Eolo il dio dei venti perchè faccia il suo lavoro che diamine. Quindi nulla. Vai avanti che io aspetto. Che nel frattempo faccio roba che nemmeno puoi figurarti. Del tipo che mi siedo su questa specie di sedia bianca piena di acqua e dopo un poco accade che... (Continua)

    Sono uscito indenne dai flussi di coscienza di Joyce e Faulkner, ma questo mi ha lasciato tramortito. Sul serio. :wacko:
  13. .
    Grazie mille! :)

  14. .
    Innanzitutto ti ringrazio tanto per il commento. In realtà sono anch'io scrittore alle prime armi (sono poco più di un ragazzino e scrivo "impegnandomi" da poco meno di un anno), quindi trovarsi dei commenti così lunghi che mi permettano di imparare e di guardare con senso critico ciò che scrivo fa sempre piacere. E ti ringrazio anche per i complimenti. :)

    CITAZIONE
    questo racconto mi è sembrato uno scritto normalissimo, solo felicemente curato, con una trama interessante e descrizioni brillanti e mai banali, generate da una lucidità davvero pregevole. Ci hai fatto vedere bene il tutto, il che, naturalmente, incrementa l'immersione, fondamentale. Ma è come se avessi dopato di mellifluità un narratore qualsiasi.

    Qui temo di non aver capito bene. Se intendi che non c'è nulla di troppo originale nel racconto (sia dal punto di vista della trama che stilistico) sono d'accordissimo con te. Anche la scena del cannibalismo, ad esempio, non è poi così originale. So che questa è forse la mia più pecca, non sono originale per niente :killer:

    Sono d'accordo anche per i personaggi. Forse il fatto che non ci fosse né un contesto sociale né qualcosa che ne descrivesse il carattere oltre la grotta in cui erano rinchiusi non ha aiutato, e nonostante ciò ho provato a rendere sia Elsa che Orazio il più profondi psicologicamente possibile. Immaginavo di non esserci riuscito al massimo comunque.

    Veniamo al finale. Ci ho pensato parecchio. Ci sono diversi motivi per cui finisce così "banalmente":
    1. Semplicemente, non volevo renderlo un giallo. Mi sono accorto che stava prendendo quella piega e pensavo che non sarebbe stato naturale.
    2. (E si collega al punto 1) il punto di vista della storia è sempre quello di Orazio. Lui è la vittima, non il detective, quindi in ogni caso non sarebbe stato lui ad indagare e sarebbe arrivato alle informazioni solo parlando con gli agenti. Pensavo sarebbe stato noioso creare un finale con continui dialoghi con l'agente, oltre che senza particolare tensione.
    3. Non avevo il racconto pronto prima di postarlo qui sul forum, né avevo la trama ben disegnata dall'inizio. Non l'ho revisionato né corretto. Ciò vuol dire che appena scrivevo un capitolo lo postavo qui e potevo avere suggerimenti anche su ciò che interessava al lettore. Ad esempio, all'inizio pensavo di terminare il racconto con il tizio grasso e basso che si rivelava il vero rapitore, ma poi grazie a un commento di WDR ho capito che sarebbe stato un'idiozia, oltre che poco credibile. Ma vuol dire anche che scoprivo la storia capitolo per capitolo (non so se mi spiego). Non potevo inserire indizi che si ricollegavano per creare un finale più spettacolare, semplicemente perché non avevo in mente nessun finale e crearlo solo alla fine sarebbe stata una forzatura.

    Concludo ringraziandoti ancora. :)
  15. .
    Nelle due settimane seguenti le prove si fecero più difficili. Niente di impossibile: si trattava solo di incidersi tagli sulle braccia o sul viso, o di parlare con altre balene. Quello gli era sembrato interessante: non poteva convincere le altre persone che stavano affrontando quella sfida a ripensarci, ma avrebbe davvero voluto. Però si sentiva bloccato in un limbo in cui il tempo pareva non scorrere mai. Tutto era immobile, invischiato in un'apprensione che gli mozzava il respiro. E Alessandro gli aveva scritto solo un'altra volta, ripetendogli che erano vicini alla soluzione e chiedendogli ancora di tenere duro.
    La domenica successiva il curatore gli scrisse: Prova numero 17. Affronta la tua più grande paura. Qual è, Armando?
    Conosceva la risposta, ma cercò subito, nelle crepe della sua mente, qualcosa che lo spaventasse meno. Perché, solo a immaginare come sarebbe stato, lo prendeva una sensazione di freddo alle gambe.
    Ancora il vuoto. Non l'avrebbe retto un'altra volta.
    Era stato male per giorni, dopo la volta passata.
    Lo sentiva ancora. Era lì, come un mostro impalpabile nascosto nel buio, che rosicchiava gli appigli che lo mantenevano attaccato alla terrazza e lo trascinava a sé con la stretta dei suoi tentacoli. E avvertiva di nuovo quell'impressione di essere murato vivo in quel buio troppo corposo.
    Però non se la sentiva di mentire al suo curatore. Prima di tutto perché, in qualche modo, lui avrebbe potuto venirlo a sapere e a quel punto non si sarebbe più fidato di Armando. Si era sforzato tanto per arrivare fino a quel punto e sarebbe stato stupido gettare tutto alle ortiche a causa di una stupida paura.
    E poi c'era un'altra cosa.
    Il curatore iniziava a stargli simpatico. Tra di loro s'era creato una sorta di rapporto di complicità: ogni volta, prima di comunicargli la sfida, lui chiedeva ad Alessandro come si sentiva. Era una cosa gentile, che nessuno pensava mai di domandargli. Certe volte non mancava di rimbrottarlo per le sue incertezze o se ritardava nello svolgere qualche sfida, ma Armando capiva il fine educativo di quei rimproveri. Era così che si comportava un padre, no?
    Quindi gli disse la verità: Le vertigini.
    Bene. Affrontale. Questa notte, alle 4:20 come al solito, sul tetto della tua casa. Mandami la foto.
    Va bene.

    Era sabato. Trascorse il pomeriggio giocando a scacchi al computer e sgranocchiando biscotti alla panna nel frattempo. Sua madre non voleva, perché li comprava per la colazione e perché quando Armando li mangiava in camera faceva briciole dappertutto. Però adesso lei e il papà erano a lavoro, quindi lui poteva farlo senza nascondersi. Avrebbe dato una ripulita più tardi, prima del loro ritorno.
    L'avversario di quel giorno era particolarmente scarso: l'aveva già battuto tre volte e aveva perso solo una partita, più per le sue disattenzioni che per la bravura dell'altro. Ora si accingeva a vincere la quarta. Mancavano poche mosse.
    Giocava distrattamente. Pensava a come si sarebbe comportato quella notte. Sperava che la paura non l'avrebbe maciullato come era successo due settimane prima, ma temette di avere un crollo nervoso prima dell'ora prevista. Delle diapositive nere gli oscuravano lo sguardo e si sovrapponevano a tratti alla schermata della scacchiera. Per un attimo, spingendo con le mani contro la sedia, i suoi piedi si sollevarono dal suolo. E allora ebbe come la sensazione che il pavimento fosse svanito. Sobbalzò e si rannicchiò sulla sedia, con una strana ansia che gli impediva di guardare a terra. Provò ad abbassare lentamente lo sguardo, ma una forza esterna glielo impediva. Quindi lo fece di scatto: il parquet era regolarmente al suo posto. Solo il fatto di aver temuto il contrario gli fece disegnare un sorriso nervoso sul viso.
    Intanto l'avversario aveva fatto una mossa stupida. Lui fece i suoi calcoli, poi mosse il cavallo. Ecco, scacco matto. L'ennesima partita vinta. Si stava annoiando a sfidare un giocatore così scarso e cliccò il tasto per cercarne un altro.
    D'un tratto cominciò a udire un rumore rotto e smorzato che si ripeteva. Era un suono grasso, confuso, e - non sapeva perché - a immaginarlo gli diede un'impressione di unto.
    S'avvicinò alle casse del computer, perché pensò che doveva provenire da lì.
    Niente.
    Poi provò con l'aprire la finestra: magari il rumore veniva da fuori e così facendo l'avrebbe udito più forte. Però l'intensità del suono non cambiò. No, il rumore era lì dentro.
    Ma cos'era? Intanto s'era fatto più ritmato. Armando si rese conto che il suo corpo si scuoteva sulla frequenza di quella musica insensata. Era come...
    Fu allora che capì.
    Come un ansito.
    C'era qualcuno nella sua stanza. Tremò e volle scappare, ma lo prese la stessa paralisi della domenica passata sulla terrazza. Sforzandosi, però, ci riuscì. Si catapultò giù dalla sedia e gattonando scappò fuori dalla camera. Sbatté la porta con tutta la forza che aveva in corpo.
    Però il respiro c'era ancora e non s'era affievolito. Corse via, imboccò le scale per scendere in cucina, ma si fermò a metà e tornò sopra. Che fosse qualcosa sotto il pavimento? Sì, ma cosa?
    Andò in bagno, con quel rantolo che lo rincorreva. Credette di capire e per questo si mise a piangere: si sentiva un folle.
    Il respiro boccheggiante era dentro di lui. Ora lo poteva sentire che rimbalzava nei suoi polmoni, con le sue ossa che lo riflettevano e il suo cuore che ne amplificava l'eco. Era terribile. Si tappò le orecchie, ma non era così che risolveva il problema.
    Stava diventando un pazzo, ne era sicuro. E non era questa la prima prova. Tutti insieme gli sovvennero tanti episodi dei giorni passati. I pianti insensati, i vagheggiamenti d'eroicità, il perdersi nei particolari insignificanti: tutto era la manifestazione della sua pazzia.
    Ci mise poco a rinsavire. No, non era pazzo. Era solo che probabilmente questa cosa era per gente grande e lui ancora non c'era abituato. Insomma, quanti ragazzi della sua età potevano dire di avere a che fare con l'arresto di un criminale? Nessuno, ci scommetteva. Ignorò che, quando additò il suo curatore con la parola "criminale", il suo labbro si corrucciò in un moto di dispiacere.
    Continuò a ripetersi che presto sarebbe finita e che no, non era assolutamente pazzo. Di fronte allo specchio, tirando su col naso ancora bagnato dalle lacrime e facendo di no con la testa. E poi scoprì che l'ansito si era almeno smorzato.

    S'addormentò presto perché era stanchissimo e si risvegliò in tempo per salire in terrazza.
    Il primo brivido lo prese mentre saliva le scale verso la mansarda. Era buio e freddo e diede la colpa a quello.
    Solo sul momento di varcare la porta si rese conto che non aveva portato il telefono con sé e che aveva percorso quella strada al buio con un'insolita sicurezza. Però tornò indietro: doveva scattare la foto da mandare al curatore. Percorrendo la strada inversa, fece attenzione a imboccare le vie giuste e a non inciampare sui gradini, perché la sicurezza inconscia di prima era svanita.
    Ebbe il secondo brivido appena uscito, quando una folata di vento gelido gli frustò le spalle. Poi il suo corpo continuò a tremare mentre camminava verso il bordo, e a ogni passo verso il vuoto il tremito era più forte. Sentì il suo stomaco gorgogliare. A cena non aveva mangiato, perché si era ingozzato di biscotti nel pomeriggio, ma adesso aveva fame.
    Si fermò qualche metro prima del cornicione. Qualche uccello gracchiò. Forse erano corvi, anche se non ne aveva mia visto uno.
    Doveva affrontare la sua paura. Non bastava, come l'altra volta, aspettare lì con le gambe a penzoloni. No, questa volta doveva guardarla in faccia. Quindi si avvicinò e, con la torcia del cellulare, illuminò la terra ai suoi piedi. Poi si sporse per guardare meglio, con le spalle dritte e il viso fiero.
    Non ebbe paura. Sotto di lui c'era una balla di fieno, qualche ferraglia arrugginita e un roveto folto. Sembravano essere fatti di varie sfumature dello stesso grigio. Non parevano così lontani.
    Sì, stava affrontando la sua paura e stava vincendo. Strinse il pugno e lo agitò all'aria.
    Dopo poco, però, vide dei vortici che si disegnavano nel vuoto. Il terreno pareva farsi pericolosamente più vicino.
    Udì un suono metallico. Era il cellulare che si spegneva.
    La luce della torcia scomparve, ma l'immagine rimase fissata di fronte a lui. I vortici si facevano più frequenti, si perdevano in zone d'ombra, distorcevano le immagini tanto da provocargli una nausea straniante.
    Fece mezzo passo indietro, e poi ancora mezzo, ma quella visione non si mosse. Sbatté gli occhi. Non cambiava nulla.
    E poi vide il vuoto che gli correva contro. Balzò all'indietro, inciampando su qualcosa di spinoso. Nel volo, le vertigini gli svuotarono le gambe. Il cellulare tonfò sulla pietra della terrazza, lui atterrò sbucciandosi il gomito. Tornò in casa a passo flemmatico, con il capo chino che ciondolava sulla spalla. Quasi non s'accorse che incrociò suo padre che andava in bagno.

    «Che ci facevi su?» chiese lui assonnato.
    «Io... dovevo andare in bagno». Fece attenzione a nascondere la sbucciatura del gomito, perché anche il pigiama s'era rovinato.
    «Il bagno non è sopra» disse suo padre, sbadigliando.
    «Lo so. Ho sbagliato strada» disse Armando, cacciando una risatina stridula.
    «Mah... chi ti capisce è bravo» disse suo padre e tornò in camera da letto.

    Edited by Tommas02 - 26/6/2017, 17:12
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