Posts written by Tommas02

  1. .
    Il finale è un po' da decifrare, ma la storia è scritta bene e sei stato bravo a creare tensione prima. Davvero bello il racconto iniziale della protagonista.
    Mi permetto di farti un appunto: i dialoghi, a tratti, sono un po' irrealistici. Il prete, ad esempio, che prima fa quel sermone lunghissimo sull'ateismo che ha invaso il paese e poi cita Baudelaire. Il primo l'ho trovato un po' forzato. Insomma, si suppone che un prete conosca i suoi fedeli e non dovrebbe esserci bisogno di specificare che non devono chiamarlo "padre", soprattutto se a chiamarlo così è Bob, che pare uno stretto collaboratore. Su Baudelaire, non so... non è sbagliato che il prete lo citi, ma anche qui ho la sensazione che sia forzato. Ma in effetti la situazione mette in risalto la personalità del prete, quindi è okay.
    Un'altra cosa: durante tutta la storia, il narratore è onnisciente. Ci mostri le reazioni di molti personaggi, ci fai leggere i loro pensieri, dici che alcuni dei presenti sentono quell'odore e altri no. Ho trovato un po' incoerente il fatto che il racconto finisca con: "Non si sa cosa è successo, perché nessuno è mai uscito da quella chiesa". Non erano i presenti nella chiesa a narrarci la storia, ma un narratore esterno e onnisciente, che sicuramente non sarà stato ucciso dal mostro. E poi, ragionando in questa maniera, non sarebbe stato possibile raccontare nemmeno la storia fino a quel punto, perché le persone coinvolte muoiono tutte prima di di uscirne. E capisco che probabilmente volevi giocare sul non detto. L'effetto è anche intrigante, ma ho come l'impressione che tu qui ti sia tirato un po' indietro. Come se non volessi affrontare il finale di questa storia e avessi preferito sviare.
    Però ho già detto che il racconto mi è piaciuto. Tra i migliori che ho letto qui. E soprattutto sei stato bravo a rendere la tensione, quindi complimenti!
  2. .
    È un racconto che mi ha colpito, quindi lascio un commento ^_^
    Bene... Io parto dall'idea che un racconto debba reggersi sulle sue gambe, debba dire da solo ciò che vuole dire. Anche in un caso di finale aperto, non dev'essere l'autore a suggerire come andrà avanti la storia, e in ogni caso il lettore dovrebbe capire di cosa si sia parlato almeno fino a quel momento. Qui io non ho capito cosa stesse succedendo fino a quando non ho letto il tuo spoiler. L'idea è molto ambiziosa, lo capisco, e non so come avresti potuto renderla più esplicita. Scrivi anche bene, anche se, secondo me, in alcune espressioni vai un po' troppo sul "ricercato" e tralasci il concreto. Non è un vero e proprio difetto, perché è sempre bello leggere frasi originali, d'effetto. Però, ad esempio, qui:
    [QUOTE]un taglio verticale dal pube all'addome o viceversa, poiché non c'era un inizio o una fine, tutti punti erano stati varcati nello stesso istante da una grande lama[/QUOTE
    Hai usato tutto questo giro di parole per parlare di un taglio. E, personalmente, in quel punto mi sono chiesto: "ma cosa vuol dire?" e mi sono lasciato sfuggire qualche particolare utile magari per capire il finale del racconto. I periodi lunghi poi sono sempre molto difficili da affrontare, meglio spezzare con un punto ogni tanto.
    Però, te l'ho già detto, scrivi bene. Non in maniera banale. Spero di rileggerti con un'altra storia :)
  3. .
    All'inizio non l'avevo capita del tutto e mi aveva messo un'angoscia terribile. L'ho riletta, ho capito la storia e un po' di quell'angoscia è svanita.
    Bella, comunque!
  4. .
    Eh ahahahaha :D
    Forse avrei dovuto chiuderlo più come un racconto e invece l'ho trattato come un romanzo, con il bisogno di trovare per forza la chiusura del cerchio. Boh, ci capisco poco di queste differenze :unsure:
    Comunque mi dispiace che ti abbia deluso il finale, sul serio, e grazie per il commento! :)
  5. .
    Allora, innanzitutto grazie per aver seguito la storia e per i commenti! :)
    La cosa curiosa è che ho letto per la prima volta a riguardo del De Vermis Mysteriis quando avevo già finito il racconto. Sull'influenza di Lovecraft hai ragione, ma non conoscevo Bloch, e grazie a te adesso ho un altro autore da scoprire. :D
  6. .
    Stanotte ho sognato di rimanere rinchiuso in una cripta sotto terra, con un foro troppo piccolo per riuscire ad uscirne. Terribile :omfg:
    E un paio di mesi fa ho sognato una... specie di bambina che mi perseguitava, una neonata che riusciva a fare gli occhi rossi ogni volta che eravamo soli. E questi occhi avevano un che di spaventoso. Quando mi sono svegliato avevo già dimenticato cosa c'era di tanto spaventoso, ma avevo il battito a mille :omg:
  7. .
    CITAZIONE (Professor Zapotec @ 20/12/2017, 18:44) 
    La storia è sempre più avvincente!
    Tra l'altro, mi piace molto come tratti le reazioni umane, mi spiego:
    in molti racconti horror (e in quasi tutti i film horror a dirla tutta) la storia può essere molto interessante ma le reazioni dei personaggi sono del tutto irrealistiche e senza logica. Come il classico clichè di entrare in una stanza buia senza accendere la luce anche se sai che sta succedendo di tutto.
    I ragazzi qui si comportano davvero bene rendendo il tutto scorrevole e senza sbavature.
    Ora, io sono il critico di 'sto cxxxo ma sono rimasto impressionato e spero che vorrai fare di questo talento un lavoro, sempre non lo sia già

    Troppo gentile! :)
  8. .
    Grazie mille a entrambi, contento vi piaccia! :)
  9. .
    Grazie mille! :)
  10. .
    #6

    Scoprimmo subito che il caldo torrido aveva indurito il terreno: le pale vi affondavano solo per qualche centimetro.
    «Cazzo, non ce la faccio» mi lamentai io dopo qualche minuto. Forse ero riuscito a rimuovere una decina di centimetri di terriccio, rimanendo generosi, e qualche breve fitta mi prendeva la spalla a ogni nuovo colpo.
    Nicola non rispose. Lui andava avanti con più vigore e aveva scavato quasi il doppio di me. Il viso era una spugna rossa grondante sudore. Non distoglieva gli occhi dal terreno, quasi volesse penetrarlo con lo sguardo e raggiungere suo fratello.
    Quando le fitte alla spalla si fecero più intense, e a ogni affondo nel terreno dovevo accompagnare un ansito, cedetti il mio posto a Marco. Mi sedetti a terra e guardai i miei amici continuare nel lavoro.
    Mi sembrava ancora di avere quel velo di sangue nel cervello. Nessun pensiero logico, comunque.
    Solo il terrore che quello sotto il terreno non fosse un animale, che a causare i colpi non ci fosse qualche altra causa che noi non coglievamo. Che lì sotto ci fosse Samuele.
    Il terrore che fosse vivo… in qualche modo.
    Quando il dolore alla spalla si acquietò mi scambiai di nuovo con Marco. Io continuai a scavare nel punto in cui, fino a quel momento, aveva agito Nicola; lui si mise al lavoro dove avevano scavato io e Marco.
    «Io vado più veloce di voi» ci spiegò. «Così andiamo avanti in maniera regolare». La sua voce adesso era placida, nessuna emozione, neanche una traccia di umanità. E non era umano nemmeno il suo modo di scavare. Ruota la spalla, affonda la pala, spazza la terra, solleva il braccio. E ripeti. Così, all’infinito. Non dava segni di cedimento. Era un ragazzo basso e nell’ultimo mese doveva aver perso diversi chili, ma il movimento meccanico della sua spalla non perdeva vigore.
    Il sole ora era più basso. I cespugli intorno a noi avevano la forma di teste mostruose e deformate, nel cielo correvano striature violacee. C’era ancora tempo prima del tramonto, ma la fossa sotto i nostri piedi stava assumendo dimensioni considerevoli – un mezzo metro di profondità, adesso – e di Samuele ancora nessuna traccia.
    Da una parte era un sollievo. Sentivo ancora il cuore sfrecciare nel petto, il battito caldo e sordo nelle orecchie, e mi dicevo che era il caldo. La paura di ritrovarsi una specie di zombie che tentava di comunicare con il fratello non c’entrava niente, no.
    Ma Nicola adesso scavava reggendosi la spalla, e sul suo viso stava comparendo un’espressione sofferente. Il ritmo delle sue spalate si era fatto irregolare. Mi avrebbe spezzato il cuore vedere le sue illusioni morire.
    I muscoli della spalla ripresero a pulsare e tirare. Li sentivo già intorpiditi per metà. I miei colpi, adesso, erano squilibrati, e un paio di volte mi ero sbilanciato e avevo rischiato di rotolare nel buco. La pelle sulla schiena cominciava a spaccarsi e a cadere.
    «Marco» biascicò Nicola, rantolando. «Mi daresti il cambio? Giusto cinque minuti. Il tempo di riprendermi un attimo».
    Nessuna risposta. Solo un sospiro pesante.
    «Marco?»
    «Mi sembra una cavolata. Quanto vogliamo scavare ancora, prima di ritornarcene a casa?»
    «Avevi detto al tramonto, non puoi tirarti indietro adesso!» ringhiò Nicola, abbandonando la pala. Il muscolo della spalla destra era gonfio.
    Io continuai a scavare: non mi andava di dar retta ai loro litigi. Il velo di sangue ora era più spesso e un fastidioso ronzio cominciava a vagarmi nella testa.
    «Ma è già un…»
    «È già niente! Sei un infame se adesso vuoi…»
    «Cos’è che sono?» Questa volta fu Marco a sbraitare. Fece qualche passo verso Nicola.
    «L’hai capito, cosa sei». I loro nasi si sfiorarono, Nicola poggiò le mani sul petto nudo e sudato di Marco. «Un infame. Rimani qui se non lo sei».
    «La volete smettere o no?» urlai io. L’urlo mi rimbombò nelle orecchie, ovattato, e mi fece montare una rabbia gelida nel cervello. «Vi comportate come ba…» Feci, scagliando la pala a terra.
    Mi interruppi.
    Clamp.
    Il rumore risuonò, secco, nell’aria. Mi parve quasi di sentirne l’eco che si diffondeva per la pianura, il bisbiglio vagante che tagliava l’aria afosa.
    «Cos’è stato?» mi chiese Nicola. Si era allontanato dalla cosa per fronteggiare Marco.
    Io abbassai il capo lentamente. Una vena sul lato del collo pulsava, i peli sulle braccia e appena sopra il sedere si erano rizzati. Il ronzio violento nelle orecchie.
    «Cristo» mormorai dopo qualche secondo.

    #7

    Solo la faccia affiorava dalla terra.
    Sembrava un pesce morto che galleggia in un acquario, con il corpo capovolto che ogni tanto si affaccia fuori dall’acqua.
    Il viso era pallido e gelido. La testa, dalle orecchie fino alla nuca, era ancora sepolta nel terreno, e dei capelli si vedeva solo l’attaccatura. Erano sporchi di terra. C’era terra anche sul resto del viso, una patina polverosa che si infilava nelle pieghe della morte. Il naso, dove era caduta la pala, era mozzato, e la cartilagine bianco sporco tagliava le narici.
    «Gli occhi…» mormorai. Intorno a me, la sera pareva essere scesa all’improvviso, e io sentivo freddo alle ginocchia e alle braccia.
    Tutto il viso era slavato e bianco; le guance sembravano segnate dall’età, la pelle scavata acuiva la prominenza del mento. Ma gli occhi erano spalancati e lucidi. Sembravano scavarti nella pelle come un verme e urlarti nel cuore la loro inquieta disperazione.
    Nicola accorse subito. Guardò giù nella fossa, lasciò cadere per un attimo il mento e qualcosa nei suoi occhi si spense… poi tornò inespressivo, afferrò la sua pala e riprese a scavare.
    «Cos’è?» chiese Marco con la voce piagnucolante. Si era allontanato dalla buca.
    Nicola tacque, e anche io. Il gelo era un morbo che, dalle giunture, si stava espandendo nel resto del corpo. Il mio stomaco emetteva un gorgoglio stridulo.
    «Ra… ragazzi» disse Marco. Deglutì, aprì di nuovo la bocca, poi decise di tacere. Le labbra serrate stavano diventando bianchicce.
    Non so quanto durò. Ricordo il freddo, il pulsare nevrotico delle vene sulla fronte. Ricordo che Marco cominciò a singhiozzare e che dagli occhi di Nicola caddero due lacrime, che finirono sulle labbra di Samuele. Poi la nebbia fitta. Ci sarebbero voluti anni perché si dissolvesse del tutto.
    Poi notai che Nicola aveva dissotterrato il resto del corpo. Presi un grosso respiro e questo schiarì la bruma, almeno per un po’. Poi lo guardai.
    Non c’era sangue né lividi o tagli. La cosa prima mi stupì, poi mi instillò una goccia di angoscia nel petto. La maglietta era sporca di terra, mangiucchiata, ma asciutta, e lo stesso i pantaloni. La scarpa destra mancava, il calzino bianco era bucato in più punti. Feci scorrere il mio sguardo e quando guardai la mano destra le ginocchia mi cedettero.
    Si muoveva. Mulinava a vuoto e sollevava qualche granello di polvere, ma quelli erano i colpi che, prima, ci stavano parlando. Ne ero sicuro. La pelle del dorso era rosicchiata fino alle nocche color avorio e…
    E c’era un mare di vermi che galleggiava nel reticolo di ossa della mano. Erano giallastri ed enormi, grossi quanto un mignolo, e strisciavano ed emettevano versi acuti da bocche larghe come noccioli di ciliegia. Era una visione che dava la nausea, e il suono era anche peggio. Mi voltai, sentii una bile acida risalirmi per la gola, ma non vomitai. Solo due colpi di tosse bavosi sul terreno. Tornai a guardare. «Non sono veri» dissi ad alta voce.
    Ma erano ancora lì. Uno era avvolto sulla poca carne rimanente del pollice. Stava rosicchiando, e mi pareva di sentire il rumore delle sue fauci che ruminavano. Poi capii: erano loro che facevano muovere la mano. La agitavano dall’interno.
    Mi allontanai dalla fossa e lasciai trascorrere qualche minuto, cercando di scacciare le immagini che mi avevano infestato la mente. Mi convinsi che i vermi non erano reali. Troppo grandi e orrendi per esserlo: doveva essere qualche trasposizione dei miei incubi, un ologramma confuso nella nebbia dei miei pensieri. Però Samuele era lì sotto, forse morto da tempo, ma con gli occhi sbarrati e svegli… e questo non potei dimenticarlo.
    «È morto?» chiese Marco. Si era appena affacciato sulla fossa e le sue labbra tremavano.
    Nicola girò la testa verso di lui. Da quando avevamo scoperto il corpo, era rimasto così, inginocchiato a terra, e il suo viso era impassibile e freddo. Solo due lacrime dagli occhi.
    «Sì, stronzo» fece, alzandosi. Puntò verso Marco. «Ed è colpa tua. Ci aveva chiesto aiuto, e se tu non ci facevi perdere tempo ce l’avremmo fatta».
    Forse sono i vermi, pensai io. Sono loro che ci hanno chiesto aiuto, perché hanno fatto muovere la mano. Non lo dissi: la lingua era una striscia di lana ruvida. E poi i vermi erano un’illusione, non dovevo farmi ingannare.
    «Calv… Nicola… io non penso…» balbettò Marco. Era sbiancato.
    «Non pensavi, non pensavi…» fece Nicola, la voce atona, continuando a camminare. Anche lui era cereo, ma attorno al naso aveva venuzze rosse e pulsanti. Quando furono vicini, Nicola fece partire un pugno verso la guancia di Marco. Lui si scansò e il pugno lo colpì di striscio alla tempia, ma cadde a terra… a pochi metri dalla fossa. Un urlo di terrore mi si strozzò in gola. Forse Nicola aveva ragione, ma non volevo che quei vermi – che non esistono – divorassero anche Marco.
    Nicola si chinò su Marco e lo afferrò per i capelli. «Cazzo…» tirò verso di sé. «Di…» lo centrò con uno sputo in un occhio. «Infame!» urlò, e sbatté la sua testa contro il terreno. Poi si alzò. Marco era rimasto chinato a terra, piangente e con le mani a stringersi la testa.
    «Nicola, guarda che…» cominciai io.
    Mi fece segno di tacere con una mano. «Io vado». Montò in bicicletta e partì.
    Dopo qualche secondo mi alzai e raggiunsi Marco. «Tutto a posto?»
    Lui la smise di piangere e si tirò sulle ginocchia. Mi guardò per qualche attimo, gli occhi grandi e tremolanti, poi una nuova fitta di dolore dovette attraversargli la testa, perché cacciò un urletto e si portò una mano dietro la nuca. «Ho un bernoccolo enorme» disse, tirando su col naso.
    Io tastai sul retro della testa. C’era una leggera protuberanza, ma era passato poco tempo. Si sarebbe ingrandita velocemente. Almeno non sanguinava. «Ti riprenderai» dissi, forzando un sorriso. Sentii tutti i muscoli del viso tirare, come se non chiudessi gli occhi da giorni.
    Anche lui accennò un sorriso, poi tornò a singhiozzare. «Non è colpa mia. Io non pensavo…»
    «Non è colpa tua, non è colpa tua» gli dissi. Non ero convintissimo – avevamo sentito tutti quei colpi e ci eravamo convinti che Samuele ci stesse chiedendo aiuto, no? – ma per il momento non potevo dirgli altro.
    Parve rassicurarsi, ma continuò a singhiozzare. Io gli misi una mano sulla spalla per confortarlo, lui sorrise di nuovo. Aveva terra sulle guance e io gliele pulii, anche se le lacrime avevano creato una sorta di fanghiglia. Mi sentivo a disagio. Eravamo amici, sì, ma così… il contatto fisico era roba da ragazze.
    Dopo qualche minuto mi alzai. «Copriamolo. Potrebbe vederlo qualcuno stanotte, ed è meglio di no. Nicola sarà andato ad avvisare i carabinieri, domani lo troveranno loro».
    Marco annuì, anche se fece una smorfia quando sentì il nome di Nicola.
    «Non prendertela. Ha appena visto suo fratello morto…» Sicuro? È davvero morto? Non continuai la frase.
    Mi avvicinai alla fossa e guardai. I vermi c’erano. Il sole stava tra tramontando e diffondeva luce rossastra, sotto la quale i vermi pulsavano, pronti a saltarmi in faccia se mi fossi avvicinato. Mi limitai a stendere un velo di pochi centimetri sul corpo e mi allontanai.
    «Aspettami sulla strada» dissi a Marco. «Devo fare un bisogno».
    Finsi di andare verso i cespugli secchi, ma quando lo vidi scomparire verso la strada tornai indietro e mi accucciai sulla terra che avevo appena rimesso a posto.
    I colpi c’erano ancora.

    #8

    Raggiunsi Marco con il battito di quei colpi che ancora riecheggiava nelle mie orecchie. Il cuore sfrecciava nel petto e pulsava in gola, le ginocchia sembravano cardini di metallo arrugginiti. Una leggera emicrania mi ronzava nelle tempie.
    Montammo in bici e ci avviammo verso il paese. Marco aveva lacrime coagulate sul viso. Io conoscevo la strada a memoria e pedalavo per lo più ad occhi chiusi, solo cercando di evitare pericoli inattesi. Un universo terribile e oscuro, di cui solo poche ore prima ignoravo l’esistenza, mi danzava intorno. Lo stomaco si torceva con fatica.
    La nebbia calò all’improvviso. Non era stata la prima volta quell’estate, né fu l’ultima. Ma la velocità con cui arrivò – quella sì, credo di non averla mai vista. Il cielo, terso fino a pochi momenti prima, con solo poche nuvole rossicce e scariche a vagare nella distesa già ammantata dal tramonto, ora non si vedeva più. Anche gli alberi ai nostri lati e la strada sotto i nostri piedi si erano nascosti nella bruma. Era un po’ come se mi si fossero appannati gli occhiali, solo che all’epoca non li portavo ancora, e avrei scoperto la similitudine solamente diversi anni dopo. Marco, al mio fianco, era solo una macchia più scura e indefinita nell’oceano lattiginoso; sarebbe potuto trattarsi di un gioco di luce, o della sagoma di qualche cespuglio, se non ci fosse stato il cigolio della catena della bici.
    «Non ci vedo per niente» disse Marco dopo poco tempo. Non sapevo se fosse la sua voce o per la nebbia, ma il suono mi era giunto smorzato.
    «Continuiamo a piedi» dissi. Anche la mia voce mi parve ovattata. Il mare di nebbia mi si era infilato nelle orecchie. «Così è poco sicuro».
    Smontammo dalla bici e procedemmo a piedi, costeggiando li guardrail. Prima la nebbia era densa e accecante, ma in pochi minuti era peggiorata. Adesso, se agitavo la mano a un palmo dal mio naso, scorgevo a malapena il contorno delle dita, e solo perché la luce bianca la faceva spiccare. E sembrava anche aver preso una connotazione fisica: era appiccicosa sulla pelle, pesante per i miei passi. Mi sembrava davvero di star attraversando un mare, con le gambe che si muovevano a fatica e la morsa opalescente tutt’attorno che cominciava a sommergerci.
    Fu allora che pensai a Nicola. Si era avviato solo pochi minuti prima di noi e doveva ancora trovarsi a metà strada. Probabilmente nel bel mezzo di quella distesa candida. Poteva ritrovarsi nella traiettoria di qualche macchina, che non avrebbe fatto in tempo a scansarlo e…
    Anche se in realtà non temevo quello. Il ronzio alle tempie si era fatto più intenso.
    «Dovremmo chiamare Calv. Potrebbe essere in pericolo… in mezzo alla strada, potrebbero passare delle macchina» dissi.
    Udii il sospiro di Marco fendere la nebbia. «Sarà già arrivato. Non ho voglia di mettermi a cercarlo».
    «Si è avviato poco prima di noi, non può essere arrivato. Lascia da parte la rabbia. Potrebbe accadergli qualcosa di male».
    Marco sbuffò. «E va bene».
    Feci un breve sorriso, ma la bruma mi bagnava gli angoli della bocca. Come se mi stessi sbavando addosso. Poi urlai: «Calv!»
    «Nicola!» gridò Marco.
    Continuammo per qualche minuto, ma non ci arrivò nessuna risposta. Avevamo affrettato il passo con la bici, attenti a tenerci al margine della carreggiata. Ora il ronzio sembrava corrente elettrica che scorreva nel cervello, e qualche ipotesi stentata pulsava nella mente. Qualche ipotesi brutta, un’ipotesi a cui non volevo dare ascolto.
    «Sarà già arrivato. O forse è davanti a noi di parecchio» disse Marco.
    «Sì. Credo di sì». Ma avevo la voce atona e assente.
    A un tratto mi parve di scorgere qualcosa alla mia sinistra, dove la strada asfaltata lasciava il posto al terreno. Un movimento, forse… ma non potevo esserne sicuro. Solo qualcosa che era scappato al margine del mio sguardo.
    «Aspettami qui» dissi a Marco. «Ho sentito qualcosa».
    Mi mossi in quella direzione. Adesso che avevo abbandonato l’indicazione sicura del guardrail, procedevo del tutto alla cieca. Sapevo che non dovevo allontanarmi troppo da Marco, e anche che poteva essere stata un’illusione della mia mente confusa, ma continuai. La mia bici incontrò qualcosa – forse un sasso o un cespuglio – ed ebbe uno sbalzo. Manciate di terra secca mi frustavano le guance, i granelli graffiavano gli occhi e si infilavano le narici. Tossii, mi parai il viso con le braccia. C’era un odore strano… come di un’acqua fangosa che ristagna nel fondo di una cantina dopo un’alluvione. Qualcosa di umido e pesante.
    Continuai a camminare. Pochi metri dopo, quello che vidi – appena riconoscibile nell'aria fumosa – mi fece lampeggiare qualcosa nella testa. E contribuì ad aumentare il ronzio.
    La terra mulinava nell’aria. Sembrava un turbine scuro e compatto, ma le dimensioni erano ridotte. Era grande quanto la mia gamba, e io all’epoca ero minuto. Feci un passo indietro, sentii le ginocchia cedere e dovetti agitare le mani per tenermi in equilibrio. Ma, nel farlo, lasciai la presa dal manubrio della bici, e quella cadde a terra.
    Il turbine si richiuse dopo pochi secondi. La terra tornò al suo posto, come se non si fosse mai mossa. Io mi preparai a lanciare un urlo: aprii la bocca, riempii i polmoni d’aria… poi ingoiai saliva e polvere e tacqui.
    La nebbia si stava dissolvendo. L’ambiente intorno a me era ancora irriconoscibile, ma aveva smesso di lasciare tracce umide sul mio viso. Mi chinai, cercai a tastoni la bici, la risollevai. Il cuore galoppava nel petto. Tornando indietro, dovetti calpestare lo stesso oggetto di prima, ma questa volta sentii un crap secco. Come di qualcosa che si strappa.
    Mi avviai verso quella che credevo essere la strada. E allora la nebbia tornò a soffocarmi.
    Respiravo a malapena. Sentivo il sibilo dei miei polmoni, poi un silenzio tombale – tombale e paralizzante – che mi circondava. La lingua si era seccata, la bocca immobilizzata in un ghigno spaventato che mi pesava sul viso.
    «Marco!» feci per urlare. Ma non udii la mia stessa voce.
    Qualcosa si nascondeva nella nebbia. Qualcosa di molto vicino. E dovevo scappare prima che la cosa mi prendesse, ma le gambe erano cemento secco, le ginocchia molli come plastica sciolta.
    «Ehy! Sono qui!»
    Un volto bianco mi raggiunse nella bruma. C’era terra sui suoi capelli, terra sui suoi occhi vigili e lampeggianti. Vermi rossi percorrevano la sua bocca e lanciavano versi striduli. Il suo fiato esile ripeteva: «Salvami, salvami, salvami».
    Questa volta urlai; un grido vibrante che mi fece male alle corde vocali.
    Il volto di Samuele scomparve e al suo posto vidi quello di Marco. Avevo la fronte corrugata e gli occhi grandi e pulsanti. Forse c’era un po’ di paura, in quell’espressione, ma penso che fosse soprattutto perplessità.
    «Che hai?» disse Marco.
    «No, niente» biascicai. «Mi sembrava di aver visto qualche movimento, ma non era niente». Non parlai del fatto che avevo visto Samuele nel suo viso: significava aver paura, e non si confessava la paura agli amici. Non gli dissi nemmeno del turbine di terra, né il particolare è mai arrivato alle orecchie di qualcuno. Credevo che fosse stata un’allucinazione. La nebbia era fitta, io ero stanco e nella testa avevo quel fastidioso ronzio. Potevo essermi confuso, no?
    A volte, quando la giornata è abbastanza buona, lo credo ancora.
    Riprendemmo il cammino. La nebbia svanì così com’era arrivata: all’improvviso. Sembrò evaporarmi davanti agli occhi. Nel frattempo era calata la sera. Eravamo arrivati in paese, però, e decidemmo di tornare a casa. Io ero spossato e, anche se la mia visuale era tornata limpida, la nebbia sembrava avermi avviluppato la mente. C’era una lieve coltre lattiginosa dietro ogni mio pensiero, ogni cosa nasceva appena accennata e non si sviluppava del tutto.
    Tornai a casa e mi misi immediatamente a letto. Tutta la stanchezza del giorno mi gravava sui muscoli, la spalla destra bruciava come ghiaccio su un’ustione. Mi addormentai di sasso e sognai.
    Era tornata la nebbia e io ero ancora sulla strada che, dal paese, portava alla ferrovia. In qualche modo, però, la mia vista non era offuscata. C’era la nebbia, sì, e anche la sua bava viscida su ogni centimetro della mia pelle, ma ci vedevo bene.
    Nicola camminava a testa bassa sul terreno. Andava piano, attento ad evitare possibili ostacoli che l’avrebbero fatto inciampare.
    A un certo punto la terra si sollevava a qualche centimetro dai suoi piedi.
    Io provai a urlare, ma avevo la lingua intorpidita. La trachea era bloccata e non respiravo.
    Poi, dal buco creato nel terreno, venne fuori un verme. Era enorme, giallastro, con squame vive che si rincorrevano sulla sua pelle. Non aveva occhi. Quando aprì la bocca, scorsi diverse file di denti piccoli e aguzzi.
    Inghiottì il piedi di Nicola, ma non richiuse la bocca: continuò fino al ginocchio. Sul viso del mio amico era comparsa un’espressione stupita. Non era terrore, non ancora, ma i suoi lineamenti si distorsero presto: le guance sbiancarono, gli occhi si fecero acquosi. La bocca si aprì e lasciò uscire un urlo sordo. Durò poco: il verme richiuse la bocca.
    Prima si sentì un risucchio. Poi un verso acuto, lungo, travolgente. Mi percosse le orecchie e lacerò i timpani. Il verme tornò nella terra ondeggiando il corpo squamato e lanciò un altro dei suoi versi. La terra si levò in un altro turbine che andò a richiudere quel buco.
    È un sogno che si è ripetuto tante volte nel corso degli anni. Alle volte è la nebbia che, come un mare in tempesta, inghiotte Nicola e gli mozza il respiro. Ci sono incubi in cui è il mulinello di terra a richiudersi intorno a Nicola, attaccandosi alla sua pelle umida e trasportandolo nell’abisso. Di rado, anche i miei occhi sono appannati, e tutto ciò che avverto sono i suoni acuti di quel verme enorme.
    Ma il più delle volte il sogno si ripete così, sempre uguale. Il mio sguardo che attraversa la nebbia, quella cosa che emerge dalla terra e divora Nicola, o lo porta con sé chissà dove.
    Quando mi risvegliai al mattino mia madre mi disse che Nicola non era tornato a casa, quella notte. Io piansi e mi sentii torcere le budella e raccontai tutto ciò che ricordavo a un poliziotto. Poco, in realtà: quel mare di latte mi era rimasto dentro. Non riuscivo ad elaborare pensieri o ricordi, i pochi che nascevano morivano soffocati dall’incertezza.
    La cosa che più mi confondeva è che io sapevo già che Nicola era scomparso, prima che me lo dicesse mia madre. Me l'aveva già fatto capire il mio sogno.
    Non l’hanno mai ritrovato.

    #9

    Ricordo poco dei giorni successivi.
    La nebbia, no? Penso che avesse trovato un modo per stendere coltri pallide sui pensieri bui che mi brulicavano in testa.
    Un’emicrania fastidiosa mi ronzò nelle tempie per giorni, simile al rumore che fanno i tubi al neon nelle case vecchie. Era di notte, quando non dormivo e davanti agli occhi sbarrati scorrevano ombre nere, che quella dava il meglio di sé: allora mi sembrava di avere rovi spinosi che si dimenavano nelle pareti del cranio. Piangevo ed ero sempre meno cosciente di ciò che stava avvenendo fuori dalla mia testa.
    Ogni tanto mi pareva di avere lo stomaco rivoltato, proprio come le magliette appena lavate e lasciate a stendere alla rovescia. Qualcosa non era al suo posto, ecco, e l’alterazione si faceva sentire. Dovetti rimanere a digiuno per parecchio tempo, ma non posso dirlo con sicurezza.
    Dopo qualche giorno ritrovarono la scarpa destra di Nicola. Una Superga nera, lo stesso modello dell’unica scarpa di Samuele che la polizia aveva ritrovato il mese precedente. A volte penso che non sia una semplice coincidenza o un segno del destino – ci sono molte cose inspiegabili in questa storia – ma non posso essere sicuro nemmeno di questo.
    La scarpa era strappata al centro. La forma dello strappo, i segni lungo il resto della scarpa, suggerivano che la causa fosse il passaggio di una bici. Lo pneumatico aveva strappato la tela. Non raccontai del crap che avevo sentito quella sera, intrappolato nella nebbia, a pochi metri dal turbine di terra: la notizia aveva fatto aumentare l’emicrania, e quella mi aveva paralizzato. Voleva dire che io avevo intercettato la traiettoria di Nicola e che dovevo essergli vicino, magari abbastanza da fermarlo prima che svanisse nel nulla… o che forse era appena scomparso, inghiottito da un verme enorme che spuntava fuori dal buco nella terra.
    Avevo rischiato anch’io di fare quella fine, quindi. L’ipotesi avrebbe dovuto sconvolgermi o almeno turbarmi, ma non lo fece per niente. Nemmeno mi resi conto del pericolo che avevo corso.
    C’era solo la gelida, oscurante nebbia, e il maledetto mal di testa che mi affliggeva.
    Col tempo la nebbia si è diradata. La sicurezza sull’accaduto non ce l’ho – diavolo, come potrei averla? – ma la luce crescente mi ha aiutato a schiarire la mente.
    All’inizio provai a spiegarmi che cosa era accaduto. Nicola, in preda allo shock per ciò che aveva appena visto, era fuggito per rimanere da solo, piangere al silenzio. Poteva aver perso la scarpa inciampando su un sasso, e magari la nebbia gli aveva impedito di recuperarla; quindi aveva continuato a correre immettendosi nella schiera di alberi, consapevolmente o meno. Una volta che la nebbia si era dissolta, lui si trovava nel folto del bosco, terrorizzato dal buio incalzante, incapace di ritrovare l’orientamento. A quel punto poteva essere successo di tutto: magari si era addentrato in qualche percorso intricato e non aveva fatto altro che peggiorare la sua situazione. Poteva essere morto di freddo o di fame, oppure divorato da qualche animale. Mi sembrava sensato.
    Passarono diversi anni prima che mi decidessi a raccontarmi la verità.
    La mia ipotesi non aveva alcun senso. Certo, era ragionevole, ma non potevo crederci… non dopo aver sentito Samuele parlarci da sotto il terreno, non con la vista del suo corpo intatto sepolto e di quei vermi enormi, così nitida che mi pare di avercela ancora davanti – chiudo gli occhi e quelli ritornano a strisciare sul suo viso.
    Qualcosa di mostruoso si era preso Samuele e poi aveva deciso di fare lo stesso con Nicola. È la spiegazione che mi sono dato tanti anni fa, ed è anche quella che regge ancora. Mi sono spesso chiesto cosa potesse essere, questa cosa mostruosa. La risposta è sempre la stessa: il verme squamato ed enorme.
    Sarà perché l’immagine continua a tormentare i miei sogni, di tanto in tanto. Perché, quando li vidi per la prima volta, mi sembrarono davvero mostruosi, qualcosa che non apparteneva al mondo che io conoscevo. In realtà penso di non avere l’energia per immaginare qualcosa di altrettanto mostruoso: i vermi sono abbastanza e, anche se ci potrebbe essere altro, questo mi basta.
    Anche perché una sola cosa mostruosa è sopportabile, anche se a malapena.
    Si impara a conviverci, ecco. Esistono universi oscuri sepolti sotto il velo apparente delle cose, in cui le tenebre governano e la razionalità è solo una brace recalcitrante e ormai fredda. Esistono barriere invalicabili ed esiste il sovrannaturale.
    L’idea è ancora terrorizzante, senza dubbio. Se penso alla morte, se immagino che non diventeremo né cenere né discepoli di un Dio benevolo, ma prede inconsapevoli di chissà quale terribile realtà, sento un gelo profondo che mi prende alle vene… però questa è solo una delle ipotesi, e a volte spero che ci sarà un contrappasso. Un aldilà tanto stupendo quanto sono ripugnanti i mondi nascosti qui giù… o da qualche parte qui vicino.
    Per il resto ci sono gli impegni del mondo che tutti vediamo, le preoccupazioni quotidiane, l’amore di una moglie. Avere un corpo caldo da stringere rende le notti meno spaventose. Di solito.
    Non è tutto così malvagio, no? Basta cercare di non pensarci e sperare che la prossima volta la vittima non sarò io.
    Credo che aver capito questa cosa da piccolo sia stato un bene, e che la nebbia nella mente sia stata utile, in fondo: ha attutito il colpo, mi ha fatto assorbire la notizia poco alla volta. A dodici anni le paura irrazionali popolano ancora la mente, sebbene sia quella l’età in cui si inizia a scacciarle. Un adulto si crea dei preconcetti sull’esistenza di mondi diversi dal nostro, e temo che vedere questi preconcetti stravolti sarebbe da impazzire.
    Ma non è questo il dubbio che mi rosicchia.
    Ho recuperato le conoscenze del codice Morse solo diversi anni dopo l’accaduto, quando i ricordi si erano già schiariti. Prima è stata una lieve incertezza; poi una domanda concreta; adesso un interrogativo a cui preferirei non rispondere.
    Ero sdraiato al lato dei binari per sentire i rintocchi con cui Samuele cercava di comunicare con noi. Dopo le prime cinque lettere, c’era stato un colpo cupo, e poi avevo starnutito.
    Pensai che non c’erano stati altri colpi. Non avevo sentito altro, del resto, e la lettera m aveva si legava perfettamente alle altre lettere.
    Ma sono mesi che rileggo ogni giorno l’alfabeto Morse, sempre sperando che qualcosa cambi, con l'illusione di aver letto male le cento volte precedenti… che la mia sia solo una paranoia infondata. Ma mi convinco sempre più che non sia così. È un po’ come un muro che si sgretola, eroso dal tempo, e diventa sempre più sottile. Spero che reggerà per sempre: se davvero questo si disgregasse del tutto – questo sì, credo che mi farebbe impazzire.
    Un solo colpo cupo, una linea: lettera m.
    Ma se ci fosse stato un altro suono, dopo quello? Un altro colpo profondo, per esempio. Questo cambierebbe la situazione.
    Due colpi profondi, due linee.
    La parola che Samuele stava cercando di urlare al fratello era un’altra.
    Salvati.

    Edited by RàpsøÐy - 8/1/2018, 16:02
  11. .
    Sì, l'inizio è proprio ispirato a Il Corpo. Grazie per il commento :)
  12. .
    Sono appena uscito da una presentazione di uno scrittore abbastanza importante e mi ha colpito un discorso che ha fatto. La riassumo. Ilmessaggio, la denuncia sociale, in un romanzo o in un racconto può arrivare da sé. Ma uno scrittore che parte con un'idea pedagogica scriverà un pessimo romanzo, e non riuscirà a trasmettere nemmeno il messaggio. Il compito dello scrittore è quello di scrivere storie e di trovare il modo migliore per farlo, non di lanciare messaggi sociali.
  13. .
    #1

    Avevo dodici anni quando vidi per la prima volta un corpo morto. Era sepolto sotto un metro di terra, pochi chilometri fuori dal paese, sotto i binari di una ferrovia su cui passavano solo treni merci.
    Certi avvenimenti possono avere diversi effetti su un dodicenne, penso adesso. Prima ipotesi: nessuna conseguenza, almeno nell’immediato. La mente raccoglie quelle immagini, le isola in qualche angolo irraggiungibile dagli artigli della razionalità, e quelle rimangono lì, inerti… fino a quando qualcosa non le riporta in vita. Ma spesso quel qualcosa non arriva mai, e allora questa è l’ipotesi migliore che ci si possa augurare.
    Numero due: gli eventi popolano i tuoi incubi, aprono spifferi gelidi su pareti che dovrebbero rimanere chiuse. Mesi – no: anni di tormento, il timore di scovare un viso decomposto per metà nascosto tra i vestiti, l’impressione di scorgere il tremito di una mano proprio accanto al letto, quando le luci sono spente e chiudere gli occhi è la porta per un ricettacolo di pensieri bui. Poi, con il tempo, l’incubo si deteriora; le ombre sui muri smettono di somigliare al frenetico ticchettio di dita che non dovrebbero muoversi e i sogni non sono più così terrorizzanti. Ma c’è sempre un’eredità… un puzzo di foglie morte che ristagnano nel fondo dell’anima. Sepolte quanto basta per ignorare la loro esistenza, ma non abbastanza per evitare che i vapori fetidi ogni tanto risalgano e tornino a infettare la mente.
    E poi la terza opzione.
    Prima un grande senso di confusione. Le immagini si accavallano nella mente, si scompongono e assumono i contorni di un sogno, in cui tutto è sbiadito e lento e annebbiato. Dopo poco, però, la nebbia svanisce, e da questa viene fuori una domanda. Un dubbio che ti rosicchia man mano, il tarlo che si insinua nella pelle e risale fino al posto in cui giacciono i segreti inconfessabili… quelli, e i sensi di colpa.
    Credo che questo sia quello che è capitato a me. Che sta capitando a me: il tarlo è ancora vivo, e non dà segni di cedimento.
    Allora avevo dodici anni, l’anno prossimo ne compirò quaranta. Quasi trent’anni; un buon arco di tempo per dimenticare, sufficiente per acquietare le acque ribollenti della coscienza. Eppure a volte mi sembra ancora ieri.
    È che a volte non sono del tutto sicuro che fosse morto. Soprattutto quando, di notte, il suo urlo di terrore vibra ancora nei miei polpastrelli.

    Quando Nicola sbucò nel palchetto del paese, tutto trafelato ma bianco in viso, io e Marco ce ne stavamo stravaccati sotto l’ombra di una grossa quercia a torso nudo, con in mano una bottiglia di coca. Ancora di vetro, all’epoca.
    Era un pomeriggio di metà agosto. L’aria era pesante e umida, le erbacce incolte del prato non tremavano nemmeno un poco. Neanche un filo di vento. Sudavamo dalla fronte, dal naso, dal petto nudo su cui stava spuntando la prima peluria. Stavamo usando le magliette come degli asciugamani, ma in poco tempo quelle si erano inzuppate, e ora non riuscivano a detergere la pelle bollente.
    Ci stavamo annoiando. A metà degli anni Ottanta il paese era più popolato di adesso, certamente, ma rimaneva un centro di mille e cinquecento anime o poco più. C’era una buona percentuale di ragazzi – mentre adesso i giovani emigrano appena ne hanno la possibilità – ma la maggiore affluenza era a luglio. Ad agosto qualche famiglia andava via per le vacanze, e nel periodo di ferragosto c’era il picco di partenze. Restava qui solo chi non poteva permetterselo. Io e Marco, appunto. E poi Nicola, solo che il suo problema non era economico; nemmeno sognavamo di vedercelo sbucare così, apparentemente pieno di vita, nel mezzo di un pomeriggio in cui il sole prendeva a pugni sulla nuca.
    «Ragazzi» ansimò. Il collo era rosso e il cuoio capelluto pareva bruciare, ma le guance erano pallide. Riprese fiato per qualche secondo, piegato sulla bici, poi disse: «Dovete venire con me. Devo farvi vedere una cosa».
    «Cosa c’è, Calv?» disse Marco.
    Calvin era il soprannome di Nicola. Aveva i capelli che erano ispide setole bionde e la pelle lattiginosa proprio come l’eroe dei fumetti di Calvin & Hobbes.
    Nicola scosse la testa. Ora non sembrava più pallido: era cereo. «Non… non saprei spiegarvelo. Per favore, seguitemi. È importante». Notai che la voce gli tremava e che non riusciva a tenere ferme le mani.
    Io e Marco ci scambiammo uno sguardo. Nessuno dei due aveva voglia di mettersi a pedalare con quel caldo, verso chissà quale metà… ma si trattava di Calv. Dovevamo seguirlo, anche se si fosse rivelata l’idiozia peggiore del mondo. Ci scambiammo un cenno. «Andiamo» facemmo in coro. Ma a quel punto Nicola si era già avviato, e noi potevamo vedere la sua bici scintillare sotto il sole baluginante e il retro della sua maglietta inzuppato di sudore. Montammo su anche noi e lo seguimmo.
    «Dove ci porta?» mi chiese Marco.
    «Non ne ho idea». Nicola pedalava forte ed era già una cinquanta a di metri davanti a noi. Si dirigeva verso l’uscita a nord del paese, quella che porta verso le cascate.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Sfrecciavamo nell’aria immobile, e il movimento ci rinfrescava un po’ il viso. Il sudore si stava asciugando, ma sentivo il sole colare come un secchio di petrolio sulla mia schiena. Ne avrei ricavato qualche bruciatura dolorosa.
    «Sai, mi fa piacere che sia venuto. Era da tanto» dissi poi.
    «Anche a me. Forse questo vuol dire che si è ripreso… almeno un poco».
    Annuii.
    Eravamo usciti dal paese. Non c’erano macchine in giro, ed ero sicuro che non sarebbe passato nessuno: la strada era in genere poco trafficata, e quella era un’ora di quiete. La distanza tra noi e Nicola era diminuita – ora circa venti metri – e la sua pedalata si era infiacchita. Muoveva le gambe con fatica e solo allora notai come fossero secchi i suoi polpacci. Sotto l’orlo dei pinocchietti, le sue gambe erano un fusto leggero di legno morbido, e dalla pelle lattiginosa si intravedevano le vene verdi. Faceva quasi impressione.
    Poi Nicola svoltò a destra e imboccò una strada sterrata. La vegetazione ai lati era fitta, fronde verdi ci cadevano davanti agli occhi. Nell'aria, il ronzio di qualche insetto, e in lontananza si avvertiva già lo sciabordio delle cascate.
    Fu allora che capii. E anche Marco lo fece, perché mi disse: «Va alla ferrovia».

    #2

    Il fratello di Nicola era scomparso nel nulla un mese prima. Si chiamava Samuele. Era tre anni più grande di Nicola, e per il nostro amico Samuele non era solo un fratello maggiore: era un oggetto di divinazione. Quando non veniva in giro con noi, se ne andava a giocare alla campana con il fratello, o a vedere i suoi amici più grandi che succhiavano i primi tiri a qualche sigaretta spiegazzata, rubata dal pacchetto dei genitori. Quella era la prima volta, dal giorno della scomparsa, che Nicola tornava da noi. Allora pensavo fosse un buon segno. Ancora non si era ripreso, ma per quello avrebbe speso lunghe notti a sognare di ritrovare Samuele vivo in qualche angolo del mondo; però, pensavo, come inizio andava bene.
    Io e Marco ci eravamo fatti una nostra personale teoria sulla scomparsa di Samuele. Nei paesi ci si conosce un po’ tutti, e ogni gesto di rilievo si riempie di un’epicità che all’inizio non gli apparteneva. E allora il gesto si diffonde, nuovi eroi provano a replicarlo, la leggenda diventa vita. Dura qualche tempo, poi sopraggiunge la noia, ci si rende conto della banalità. Ma, per quel che dura, tutti la seguono. E quell’estate, in paese, andava forte lo scansa-treno.
    Il tutto era partito da un ragazzo più grande. Si era ritrovato, mezzo ubriaco con un gruppo di amici, a inciampare sui binari del treno proprio quando un mostro sbuffante correva a cento metri di distanza. Si era rialzato, poi era inciampato di nuovo… alla fine, con un balzo, era riuscito a scansare il treno merci di pochi metri. Era rotolato giù per un breve dirupo di terra e si era slogato una caviglia e lussato una spalla, ma giurava che quella fosse l’esperienza più esaltante mai fatta in vita sua. Allora anche gli altri ragazzi avevano cominciato con lo stesso gioco, prima saltando giù quando il treno si trovava a una decina di metri di distanza, poi azzardando sempre di più. Ancora nessuno si era fatto male, ma noi ragazzi avevamo scommesso che presto qualcuno si sarebbe procurato qualcosa in più che una semplice lussazione. Perdemmo. Il gioco durò una settimana sola: fino alla scomparsa di Samuele, appunto.
    Quello di cui ci eravamo convinti io e Marco era che Samuele fosse morto tentando questa prova. A convincerci era stata l’unica traccia lasciata da Samuele prima della sparizione: una Superga nera un po’ infangata e maciullata dalle rotaie, misura quarantatré. La polizia l’aveva ritrovata sui binari del treno. Ecco la nostra versione dei fatti: in piena notte, Samuele, sull’attenti da un lato del binario, aveva tentato di attraversare il passaggio proprio all’ultimo momento. Ma aveva calcolato male i tempi, o il suo balzo era stato goffo; fatto sta che la stringa della sua scarpa si era impigliata in una delle aste dei binari e gli si era sfilata. Allora il convoglio l’aveva travolto, trasportandolo per qualche chilometro e spappolando i suoi organi e le sue ossa sui binari.
    Ci sono alcuni dettagli che non tornano, ve lo concedo. Alcune mancanze si possono spiegare, altre sono completamente insensate. Prima di tutto: Samuele era solo quando aveva tentato il salto, perché nessuno affermava di averlo visto dopo le sei di quel pomeriggio. Ma una cosa del genere si tenta per la fama, per attirare gli sguardi persi delle ragazze. Non è un gioco da fare da soli. Ma forse Samuele si stava solo esercitando per una futura esibizione in pubblico, ci eravamo detti io e Marco. Seconda cosa: come mai nemmeno il conducente del treno merci colpevole del misfatto aveva avvisato la polizia? Avevamo dodici anni, ma già capivamo che per lui non ci sarebbe stato nessun problema dal punto di vista legale. Insomma, era stato Samuele a gettarsi sui binari all’improvviso. Quell’uomo era senz’altro innocente.
    Non avevamo considerato quanto fosse improbabile che un treno merci percorresse una ferrovia così isolata in piena notte, e nemmeno ci eravamo chiesti come potesse un corpo spappolarsi contro i binari di una ferrovia, quasi fosse fegato di vitello lasciato a marcire. E anche l’unico indizio a favore, quello della scarpa, ora mi sembra assurdo, se relazionato al resto della storia. Un treno che trascina un corpo intero non lascerà indietro solo una scarpa, no?
    Ma i dubbi non avevano scalfito la nostra convinzione. Era accaduto quello e, tralasciando il dispiacere per la scomparsa del fratello di Nicola, era divertente fantasticare su come le cose fossero andate, dettaglio per dettaglio, sempre più precisi. Pochi mesi prima avevo visto al cinema il primo Nightmare, ed era da lì che traevo le immagini per le nostre congetture. Samuele era uno dei matti del film che, sotto la spinta degli artigli di Freddy Krueger, attraversava i binari e si condannava a morte.
    Terribile, vero?
    Alle volte la realtà è peggio.
    Ovviamente non ne avevamo parlato con Nicola. Sarebbe impazzito dall’orrore, e nell’ultimo periodo la sua sanità mentale già vacillava. Anche se quel pomeriggio sembrava tutto a posto. Un po’ su di giri, eccitato forse senza motivo, ma era ammissibile. Noi due non avevamo idea di come fosse perdere un fratello.
    Arrivammo alla ferrovia e smontammo dalla bici. Nicola, che era arrivato da qualche decina di secondi, faceva ampi gesti con le mani. Grosse gocce di sudore gli imperlavano il collo e i capelli, la fronte aveva il colore del ferro rovente… ma le guance rimanevano biancastre, quasi tendenti al grigio. Lo raggiungemmo di corsa.

    #3

    Era in piedi tra i binari, ritto su una delle traversine. Guardava fisso davanti a sé, con gli occhi immobili, il sudore caldo che li faceva bruciare. Mi sembrava di vederlo ondeggiare e barcollare e pensai che sarebbe svenuto, ma probabilmente era solo l’afa che faceva tremolare l’aria.
    Marco lo affiancò, e io affiancai lui. Cominciammo a scrutare l’orizzonte, la terra secca tagliata dalla ferrovia. Procedeva dritta e scintillante, si avvertiva il calore accumulato dai binari risalire lungo le cosce. Dopo un centinaio di metri, spariva, inghiottita da una galleria, ma mi immaginavo procedesse ancora per decine e decine di chilometri, sempre riflettendo il sole alto… e anche chiudendo gli occhi i binari non scomparivano. Solo che, invece che di un bianco abbagliante, diventavano blu e freddi, appena intiepiditi da una luce violacea che premeva sulle palpebre.
    Ma non vedevamo niente oltre a quelli e alla terra arsa che continuava per chilometri.
    «Calv? Perché ci hai portati qui?» chiese Marco.
    Nicola si girò di scatto. Per un attimo, colsi nei suoi occhi lo sguardo appannato di chi si è appena svegliato. Poi cambiò, e ora c’erano solo due pupille tremolanti in un oceano vasto. Si chinò e tese l’orecchio verso la terra. «Sentite?»
    «Calv, di cosa cavolo stai…» feci io, poi mi zittii. Avevo avvertito qualcosa.
    Mi chinai e tesi le orecchie. Per qualche secondo ci fu silenzio, e un leggero rumore di terra che si sollevava. La cascata, in lontananza, continuava con lo sciabordio, ma non era che una carezza ai timpani. Poi lo sentii.
    Il terreno vibrava. Non era un tremore continuo e regolare. Qualcosa di diverso… quasi dei colpi. Ce ne furono tre, un suono deciso e secco.
    Afferrai un binario. Era bollente, e presto il calore si diffuse lungo tutto il braccio, ma non lasciai la presa. Volevo capire se quelle vibrazioni erano dovute all’arrivo di un treno, anche se a diversi chilometri di distanza. Ma il binario rimaneva immobile.
    Poi, quando il mio sforzo per cogliere qualche movimento era massimo, il suono ricominciò. Proveniva dal terreno. Mi distaccai dal binario, per lo spavento e perché il palmo della mano mi si stava arrostendo, e ascoltai la terra. Questa volta i colpi furono due: uno secco, come quelli precedenti, e un altro più cupo. Questo mi echeggiò nelle orecchie per qualche secondo.
    «Lo sentite anche voi, vero?» domandò Nicola. Si era rialzato.
    «Sì» dissi io. Solo allora mi accorsi di quanto la mia gola fosse secca, e di come i rivoli di sudore lungo il mio corpo si fossero infittiti.
    Marco annuì. «Cos’è?»
    Il viso di Nicola riprese un po’ di colore. Sulle sue labbra si disegnò un breve sorriso, ma gli occhi erano ancora sperduti e l’effetto fu sinistro. Si passò due volte la lingua sulle labbra. «Conoscete il codice Morse?»
    «Io sì!» esclamai. Ci avevo fatto una ricerca per la scuola.
    Marco era perplesso. «Di che cosa parli?»
    «È un codice di comunicazione» dissi io. «Ci sono dei punti e delle linee combinati tra di loro, e a ogni combinazione corrisponde una lettera o un numero».
    Marco reclinò il viso e corrucciò le labbra. Non aveva capito.
    «Ti faccio un esempio» disse Nicola. «La lettera a si può scrivere così». Si inginocchiò e, con un dito, disegnò sulla terra un punto e un trattino. Sotto il simbolo, incise la lettera a. Poi segnò una lineetta seguita da tre puntini. «Questa invece è la b. E così via. Ci sono le lettere, puoi comporre le parole. Di solito però non si usano questi segni, ma dei segnali acustici».
    «Ho capito. Tranne la parte sui segnali acustici».
    «Un bip più corto per il puntino, uno più lungo per la linea. La lettera a sarebbe: bip biiiip. Più o meno» spiegai io.
    Nicola ridacchiò, ma il terrore non gli scomparve dagli occhi. «Sì, più o meno».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi Marco chiese: «E questo cosa c’entra?»
    «Io e Samuele comunichiamo con questo codice» cominciò Nicola. «La sua camera è a fianco alla mia, e perciò quando dobbiamo dirci qualcosa di importante usiamo il Morse. Solo che, invece dei bip, diamo dei colpi sul muro. Con la nocca per il punto, con il palmo per la linea».
    Tacemmo. Io avevo intuito dove voleva arrivare Nicola, e pensavo l’avesse capito anche Marco.
    Infatti fu lui a parlare. «Quindi tu pensi che a fare quel suono sia stato Samuele».
    Per un attimo l’idea dovette sembrare folle anche a Nicola, perché sgranò gli occhi e tirò la testa all’indietro, come se colpito da un pugno.
    «È così, Calv?»
    Nicola annuì. In faccia aveva di nuovo quel colorito smorto.
    «Ma è una cosa folle!» disse Marco.
    «Cos’altro potrebbe essere, se no?» ringhiò Nicola.
    «Qualunque cosa!»
    «Un treno?» suggerii io. Non avevo sentito nessuna vibrazione nei binari, ma non potevo escluderlo.
    «No. Hanno chiuso la ferrovia dal giorno… da quando Samuele è scomparso. E non può essere nemmeno un treno a parecchi chilometri di distanza, perché i binari non vibrano» rispose Nicola, deciso.
    Era vero, dovetti riconoscere.
    «Allora un animale» disse Marco.
    «Un animale sotto il terreno? Che fa dei suoni del genere? Quanti ne conosci, eh, Marco?» La sua voce ora si era incrinata ed era diventata quasi femminea.
    «Ma Calv…» cominciò Marco.
    «Non chiamarmi così, cazzo!» sbraitò Nicola. Teneva le mani strette a pugno e aveva indurito la bocca.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Io e Marco facemmo un passo indietro. Ero spaventato. Nicola mi sembrava così… fuori. Un matto nel manicomio di Nightmare. Ciuffi di capelli mi ricadevano davanti agli occhi e il sudore mi velava lo sguardo. Sentii il mondo fare le giravolte attorno a me.
    «Ascoltatemi. Per favore» mormorò Nicola. Sembrava spossato e disperato. Non potevo esserne sicuro, ma assieme al sudore, dagli occhi parevano colare lacrime. «So che sembra assurdo. Ma ho passato tutta la mattina qui e sentivo questi suoni... ogni tanto. Ho pensato di essere pazzo. Ma adesso so che lo sentite anche voi, e sono sicuro che non potrebbe essere nient’altro. Samuele sta cercando di parlarmi». Rise e singhiozzò insieme, poi si passò un braccio sugli occhi. «Aiutatemi a decifrare il suo messaggio. Vi prego».
    Io e Marco ci guardammo. Il mondo smise di girarmi intorno, e all’improvviso mi sentivo solo stanco. Stanco e terribilmente convinto. Allora decidemmo, scambiandoci un cenno.

    #4

    Mettemmo su in pochi minuti un piano.
    Io avrei ascoltato il suono e riferito a Nicola. Lui avrebbe decifrato la combinazione su un foglio che aveva portato con sé. A Marco, invece, sarebbe toccato segnare le lettere sulla terra. Era un ruolo quasi inutile, ma non volevamo escludere nessuno, e Marco era quello che ne sapeva di meno di codice Morse.
    «Non metterti sui binari» mi suggerì Marco, spostandosi su un lato. «Mettiti qui, a lato. Si sente meglio. Credo… credo provenga da qui giù».
    Mi chinai nel punto che mi aveva indicato e accostai l’orecchio al suolo.
    «Stai attento a distinguere il colpo con le nocche da quello con il palmo. Quello con le nocche è secco, l’altro rimbomba di più».
    Per qualche minuto non sentii niente. Il sole si stava abbassando, ma l’aria era ancora insopportabile, e in quella posizione il sudore mi entrava nelle orecchie. Mi sembrava di avere un mare che galleggiava nel cervello.
    «Allora? Non senti niente?» chiese Nicola, la voce nervosa.
    Feci di no con il dito: non volevo spostarmi. Il suono poteva arrivare da un momento all’altro.
    E fu così. Tre tocchi secchi in serie mi esplosero nell’orecchio. «Tre punti!» esclamai.
    Nicola fece frusciare il suo foglio. «Tre punti… esse. Segna, Marco».
    Qualche secondo di silenzio. Poi un altro colpo secco e, dopo un attimo, un altro più cupo. «Un punto e un trattino».
    «Lettera a» fece subito Nicola. La sua voce tremava.
    Poi un colpo deciso, uno ovattato, altri due decisi. «Punto, trattino, punto punto».
    «Elle».
    Sorrisi, la testa nella terra, e un po’ di polvere mi entrò in bocca e nel naso. Mi fece prurito alla gola, ma continuai ad ascoltare. «Punto punto punto e trattino».
    «La vi».
    «Punto e trattino. Di nuovo la a» dissi io. Il prurito, adesso, era diventato uno sfregamento violento alla base della gola.
    Mi feci ancora più vicino alla sorgente del suono. Terra secca si appiccicava alla mia guancia bagnata. Il cuore galoppava nel petto, potevo sentire i meccanismi del mio cervello ruotare e cigolare. Ci fu un colpo sordo, rimbombante, e poi…
    E poi lo sfregamento si fece insopportabile e mi ritrovai a cacciare fuori la terra che si era infiltrata nel naso e in bocca. L’accesso di tosse durò qualche secondo, giusto in tempo per udire l’ultima combinazione. Due colpi secchi, questa volta. Questa la ricordavo: era la i.
    Nicola si era chinato su di me e mi scuoteva per le spalle. «Allora? Hai sentito altro?» Urlava, ai lati del collo spiccavano i tendini tesi.
    Io mi scrollai la terra dal viso e sfregai le mani per togliere quello che ne era rimasto appiccicato. «L’ultima era la i. Due puntini. La penultima…» Avevo sentito un suolo suono cupo, prima che il bruciore mi scoppiasse in gola. Ma non potevo essere sicuro che ci fosse stato solo quello, perché il suono della mia tosse avrebbe coperto quello proveniente dal terreno.
    «Due colpi profondi, vero?» La sua voce ora era al massimo dell’eccitazione e gli occhi scintillavano. Non erano più quelle biglie trasparenti di prima, no.
    Sì, era probabile, decisi. Non mi era parso di avvertire l’inizio di un nuovo suono rimbombante, appena prima dell’accesso di tosse? Mi pareva di sì. Non potevo esserne sicuro, ma… «Sì, due colpi profondi».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Nella concentrazione che avevo messo nell’ascolto, e poi per l’attacco di tosse, avevo dimenticato la sequenza di lettere.
    «La parola allora è...» disse Marco, scavando le ultime due lettere nella terra.
    Fu Nicola a mormorarlo. «Salvami».

    #5

    «Che si fa adesso?» chiesi dopo diversi secondi di silenzio. Mi sembrava di avere un oceano di sangue nel cranio, e quel sangue velava e confondeva ogni mio pensiero. La voce mi venne fuori esile e nessuno mi udì.
    Marco passeggiava in cerchio intorno al punto dove mi trovavo io, le spalle ciondolanti. Scalciava, sollevava manciate di terra, stringeva e apriva le mani. Biascicava qualcosa tra sé, ma riuscii a udire solo qualche parola atona. «Salvami salvami da che».
    «Allora? Che facciamo adesso?» ripetei. Avevo la voce acuta di un bambino spaventato, e, be’… adesso penso che lo fossi. Ma trent’anni fa quella voce mi parve ridicola, e mi schiarii la gola, tentando di darmi un contegno.
    Ancora nessuna risposta.
    Nicola, accucciato sui polpacci, aveva portato le mani agli occhi e ne stava massaggiando la parte inferiore, muovendo piano i polpastrelli. Respirava a fondo; un respiro irregolare e asmatico. I gomiti sembravano lance appuntite a bucare la pelle.
    Durò per qualche minuto. Il mondo sembrava assorto nello stesso monotono ritornello: Marco che camminava e scuoteva la testa e mormorava parole insensate, Nicola che si massaggiava gli occhi, come a volersi schiarire i pensieri. Io ripetei ancora due volte la stessa domanda, ma con voce sempre più flebile.
    Poi Nicola si alzò, barcollando sulle gambe secche. Alla destra dei binari, camminando verso la cascata, c’erano dei rovi secchi e folti. Fu verso quelli che Nicola cominciò a camminare. Aggirò gli arbusti e sparì dal nostro sguardo; quando vi ritornò, dopo qualche secondo, trasportava con entrambe le mani un borsone nero. Aveva la bocca contratta in un’espressione di sforzo. Lo lasciò cadere di fronte a noi, e dall’interno provenne un cozzare metallico.
    «Ch-che roba è?» chiese Marco. Si era allontanato di un passo dal borsone.
    Nicola si chinò e fece scorrere la cerniera. «Samuele è là sotto».
    Marco scosse il capo. «No… Non lo so, non lo so, cavolo. Che c’è lì dentro?»
    «Ecco» disse Nicola mentre si tirava su. Teneva in mano una pala. «Scaviamo».
    «Cosa?» chiesi io. Quasi lo urlai: ero già inquietato, e l’idea di scavare per andare alla ricerca di un morto… di qualcosa che chiedeva aiuto, là sotto, mi terrorizzava.
    «Cosa pensate di fare? Ci sta chiedendo aiuto!»
    «Sì, ma... Nicola, pensaci, potrebbe essere altro. Forse ci stiamo sbagliando» disse Marco. Aveva fatto un altro passo indietro.
    «Cosa?»
    «Non lo so. Ma, anche se fosse vero, perché dobbiamo farlo noi? Possiamo chiamare la polizia». Prese un respiro e sussurrò: «Non è per niente rassicurante».
    «E secondo te non ci ho pensato? E cosa gli diciamo? C’è mio fratello che cerca di parlarmi. È sepolto sotto terra e mi chiede aiuto. Davvero?» Nicola guardava Marco con aria torva, il naso arricciato e gli occhi come fessure.
    «E poi potrebbe essere troppo tardi…» mormorai io.
    «Come?» dissero Nicola e Marco, in coro.
    «Ho detto che potrebbe essere troppo tardi. Se Samuele fosse allo stremo…»
    «Tu ci credi?» mi chiese Marco, con gli occhi strabuzzati.
    Io scrollai le spalle. «Cos’altro potrebbe…» Mi bloccai. Un brivido mi attraversò dalla nuca alle ginocchia. All’improvviso, mi ero reso conto che non volevo immaginare cosa altro potesse essere.
    Il sole stava cominciando a scendere. Non avevamo orologi ai polsi – roba da grandi, all’epoca – ma dalle ombre che, lentamente, cominciavano a strisciarci attorno, potevo desumere che fossero circa le sei. Più o meno. Avevamo due ore abbondanti prima del tramonto.
    «Facciamolo» dissi io. Pensavo che avevamo l’occasione per salvare una vita. Saremmo diventati eroi.
    Nicola mi fece un sorriso largo. Questa volta, anche i suoi occhi sorrisero e si illuminarono, e l’effetto non era più sinistro. Solo d’incommensurabile, tenera felicità.
    «Non ha senso…» sussurrò Marco. Si passò una mano tra capelli, li scompigliò, chiuse per un attimo gli occhi.
    «Devi aiutarci, Marco» disse Nicola. «Ci sono due pale. Le ho portate qui stamattina. Potemmo alternarci… uno riposa e gli altri due scavano, sapete, e poi si fa il cambio».
    Marco sospirò. «Va bene. Ma fino al tramonto. Poi io vado, e se volete continuiamo domani». Scosse la testa, come per scacciare qualche ultimo dubbio.
    Sulla bocca di Nicola si allargò lo stesso sorriso. «Grande!»
    Facemmo la conta per chi doveva iniziare a scavare. Nicola disse che lui non si sarebbe fermato in nessun caso, e che quindi solo noi ci saremmo alternati. Venne fuori che io dovevo scavare per primo.
    E ci mettemmo all’opera.
    Per Dio, cominciammo a scavare.

    Edited by RàpsøÐy - 20/12/2017, 16:22
  14. .
    Anche secondo me la narrazione della battaglia manca un po' di enfasi. Ho trovato anche questa seconda parte un po' frettolosa, specialmente nel finale, e penso che, approfondendo la vicenda e i vari personaggi (Atali'i e Maua per esempio), ne verrebbe fuori qualcosa di davvero bello. Anche perché non ho colto del tutto il rapporto che c'è tra il capo, la sciamana e la ragazza... cioè, si intuisce a grandi linee, ma avrei preferito fosse approfondito.
    Però nel complesso la storia mi è piaciuta. Non so perché, ma in generale quando leggo sui forum mi annoio dopo qualche riga; qui invece mi hai preso sin dall'inizio, anche perché (te l'ho già detto ahaha) l'incipit è coinvolgente. Immagino che tu volessi mantenerla su queste dimensioni e non dilungarti troppo, e il risultato secondo è buono. È molto originale l'ambientazione, anche perché, come già detto, le ambientazioni medievali hanno rotto le scatole, per essere fini :D

    Edited by Tommas02 - 3/12/2017, 22:59
  15. .
    Mi è piaciuto molto l'incipit. Dà subito l'idea della situazione in cui Atali'i si trova.
    Per il resto anch'io, fin qui, ho trovato la narrazione un po' frettolosa, ma capisco. La storia però mi piace, è intrigante. Forse mi sarebbe piaciuto qualche indizio in più nella prima parte... Insomma, mi sono chiesto come Atali'i arrivi alla conclusione che dietro la natura che marcisce c'è la donna morta. C'è la resistenza del capo, certo, ma quello non è necessariamente legato alla morte della ragazza. Però è un fantasy e Atali'i è una specie di semidio, quindi secondo me non è un difetto. :)
76 replies since 22/8/2016
.