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    #1

    La febbre a metà agosto. E proprio nel mezzo delle ferie, poi. La cosa lo rendeva nervoso: proprio non gli andava giù di aver pagato, tra lui e sua moglie, trecento euro per i voli e altri trecento per l'alloggio nell'albergo a quattro stelle per poi passare la vacanza a letto. Senza contare i soldi per mangiare e quelli che avrebbe speso in medicine. Steso sul letto, colpì con un pugno fiacco il materasso sotto di lui.
    Già quella mattina, quando si era svegliato, Luca non si sentiva tanto bene. Si era alzato con i muscoli delle braccia e delle gambe sfibrati e con dei brividi gelidi e continui che gli attraversavano la schiena. La cosa era strana, aveva riconosciuto: nonostante si trovassero a Vienna, la temperatura oscillava sempre tra i venticinque e i trenta gradi. Aveva però ignorato l'allarme - e adesso se ne pentiva amaramente: se avesse passato la mattinata a letto, forse la situazione sarebbe migliorata - e aveva deciso di affrontare la mattinata in città, camminando sotto il sole che si faceva man mano più cocente. I brividi erano aumentati e adesso, invece che gelidi, gli mettevano addosso una sensazione di caldo che gli si appiccicava alla pelle. Lo sguardo si andava appesantendo, sempre più spesso nelle sue pupille scorrevano immagini nere e brumose. E il peggio era che a metà giornata, vinto dalla spossatezza dei muscoli che sembravano pezzi di mattone secco, aveva chiesto a Ester di tornare per qualche ora in albergo e riposare almeno un poco. Si concedeva solo due settimane di ferie all'anno, una d'estate e una d'inverno, e il fatto di dover passare anche solo poche ore in albergo, sprecando il suo tempo e i suoi soldi, accresceva il suo nervosismo.
    E adesso eccolo lì, abbandonato sul letto senza forze, con i muscoli che, nonostante le due ore di riposo, non accennavano a sciogliersi. Da qualche minuto un mal di testa non troppo doloroso, ma decisamente fastidioso, gli martellava nel cranio. Era come se grattasse le ossa con l'estremità di un pezzo di ferro. L'ambiente della camera da letto era confortevole: la carta da parati color ocra, i copriletto rossi, la sedia di legno tenuta vicino al piccolo scrittoio. Sopra la sua testa pendeva un quadro di un paesaggio fluviale dai contorni un po' confusi. O almeno gli parevano confusi: in quel momento non portava gli occhiali per la miopia e osservava il dipinto dal riflesso nello specchio a muro di fronte al letto. Regnavano un ordine e una pulizia perfetti. Avrebbe quasi apprezzato quella stanza, se non fosse stato per l'odore: un misto di spirito per lavare a terra e varichina che dava la nausea. E poi qualcos'altro, un tanfo più sottile, come... no, non riusciva proprio a paragonare quell'odore strano a niente. Forse, ma proprio a volersi allargare, avrebbe detto che assomigliava al misto di spezie che si diffondeva al mercato rionale nella sua città. Piacevole all'inizio, ma sempre più stucchevole con il passare dei minuti.
    Aveva già letto e riletto giornali che si era portato dall'Italia - e per forza, si disse: non era previsto un periodo di malattia -, la televisione in stanza passava solo programmi in tedesco e il cellulare era a caricare a qualche metro di distanza. L'unica alternativa per trascorrere quel tempo morto, quindi, era leggere l'ultimo romanzo di Jessica Horsing, l'autrice preferita di Ester. Ma erano già dieci interminabili minuti che cercava di andare avanti con la lettura e qualche sbadiglio iniziò a spalancarsi sulla sua bocca. Lo scroscio della doccia che lavava il corpo di sua moglie stava assumendo i contorni di una ninna nanna e il suo sguardo stava perdendo la lucidità.
    Che noia, cazzo. Luca non era un assiduo lettore, se poi era costretto a leggere quel genere di romanzi smielati che gli facevano rivoltare lo stomaco... No, no, meglio fare qualcos'altro. Gettò a lato il libro, che piombò sul materasso e lo fece stridere. Poi si domandò se avrebbe dovuto dire a Ester della febbre. Era orientato verso il no. La conosceva bene: se gliel'avesse detto, Ester l'avrebbe obbligato a letto per tutta la vacanza. Un incubo. Non aveva portato con sé un termometro e quindi non poteva nemmeno misurarsi la temperatura. Però la sentiva, come una presenza fisica nel mezzo delle tempie, lì dove da qualche minuto batteva quella fastidiosa emicrania. Si augurava che fosse ancora bassa, non più di qualche decimo, così almeno sarebbe stato capace di uscire e godersi la visita alla città invece di restare a marcire in quell'hotel. Ma non ci avrebbe giurato e anzi quel calore esagerato nel petto gli suggeriva che la febbre era altissima. Alta così come non poteva nemmeno immaginare.
    Sbuffò verso l'alto e cacciò una risata nervosa. Devo darmi una calmata, si disse ancora ridendo, questa volta a voce più bassa. Probabilmente erano solo pochi decimi e le membra imballate erano solo colpa del viaggio del giorno prima. Gettò un'occhiata all'orologio: le tre e quattordici. All'improvviso ebbe voglia di lasciare la stanza, ma le sue gambe rimasero immobili, più dure che mai. Lo scroscio della doccia procedeva incessante, sempre con quell'effetto soporifero. Luca si tirò su a sedere contro lo schienale del letto e agitò la testa per scrollare via quel sonno.
    Fu allora che vide l'ombra.

    #2


    Fu allora che vide l'ombra.
    Anzi, a dire il vero non vide l'ombra. Ne vide il riflesso.
    All'inizio non fu in grado di definire cosa fosse. Un tocchetto nero e affusolato che spuntava dall'angolo del soffitto e si dirigeva verso il centro, orientato in diagonale. La direzione che prendeva, notò, era quella verso il quadro sopra la sua testa, quello con il paesaggio fluviale, esattamente a metà del letto matrimoniale. Doveva essere spesso un paio di centimetri e lungo tre, ma non seppe dirlo con precisione: gli sembrava che quella cosa oscillasse, come mossa da un vento che non c'era.
    Un insetto, pensò dopo qualche secondo, nonostante sapesse benissimo che non si trattava di quello. La cosa era troppo grande per essere una mosca o una zanzara e dalle forme troppo irregolare perché fosse di uno scarafaggio. Ma che cosa, allora, se non un insetto? Non gli veniva in mente nulla. Intanto rimase fermo sul letto con lo sguardo fisso sul riflesso della cosa e sul suo ondeggiare perpetuo.
    Solo allora si rese conto del colore della cosa. Nero, certo. Ma non si trattava un nero normale: era un nero profondo come l'abisso che catturava subito lo sguardo. Sembrava quasi uno squarcio buio nella parete. Non poté far altro che rimanere ipnotizzato da quella tonalità mai vista e rimase paralizzato per qualche secondo, la schiena tesa in avanti e la bocca un po' dischiusa. Un brivido violento gli scosse la schiena e lui rannicchiò un pochino le gambe verso il petto.
    Per un attimo un'idea assurda gli attraversò la mente. Quella cosa era davvero uno squarcio, un portale che si apriva su un mondo o un universo di cui non conosceva l'esistenza. O qualcosa del genere, insomma: non riusciva ad articolare quel pensiero e l'unica cosa che aveva in testa era il rumore del ferro che grattava contro il cranio. Frr frr.
    Avrebbe controllato subito, comunque. Strisciò verso il bordo del letto adagio, con lo sguardo fisso su quella cosa e i muscoli dolenti e tesi pronti a scattare. Si arrestò quando giunse al momento di balzare giù dal letto. Aveva una sensazione angosciante nel petto che non gli dava tregua.
    Non poteva perdere di vista la cosa. O almeno non poteva perdere di vista il riflesso della cosa. L'avrebbe aggredito e lui, indolenzito e spossato dalla febbre com'era, non avrebbe avuto la forza di reagire. Si alzò piano, si defilò man mano dallo specchio e poi con un balzo si voltò.
    All'angolo del soffitto non c'era niente. La carta da parati color ocra, pulita e priva di qualsiasi macchia. Quello e basta. Luca esaminò meglio lo spazio circostante, arricciò gli occhi, fece qualche passo avanti per mettere a fuoco: niente.
    Si liberò in una risata stridula e sottile. Uno squarcio verso un altro mondo: che stupido che era stato, pensò ancora ridendo. Poi la risata si tramutò in un violento accesso di tosse e Luca si ritrovò piegato in due con le mani intrecciate sulla pancia, un dolore scoppiettante nell'addome e la sensazione che gli organi volessero scappare dalla bocca. Il ferro che aveva in testa non grattava più: ora spingeva nel tentativo di perforargli il cranio.
    Dopo un minuto buono si calmò. Lacrime miste di riso e tosse si andavano seccando sulle guance, lasciando una scia appiccicosa, e i muscoli delle gambe si afflosciarono come nodi troppo molli.
    Si gettò di nuovo sul letto con la pancia all'ingiù e strisciò verso il cuscino. Dopo un po' si girò e guardò lo specchio.
    La cosa era di nuovo lì, nell'angolo tra la parete e il soffitto alla sua sinistra. Ondeggiante come prima, con quel nero infinito e duro che sembrava assorbire tutta la luce circostante. Le irregolarità dei contorni ora erano più marcate, ma la cosa più spaventosa era un'altra: la cosa si era allungata almeno di un paio di centimetri. Ora la sproporzione tra la lunghezza e lo spessore era evidente e la distanza che la separava dal quadro con il paesaggio fluviale era diminuita.
    Luca rabbrividì.
    Che cazzo è? Perché prima non l'ho vista? Senza accorgersene scalciò e colpì il romanzo di Jessica Horsing, che cadde a terra con un colpo. Si rotolò sul letto e scattò verso destra, lì dove c'era la porta. Voltò le spalle per un momento solo allo specchio e per quell'attimo fu convinto che quella cosa che doveva essere per forza un mostro sarebbe fuoriuscita dalla parete e gli sarebbe saltata addosso, divorandolo con denti aguzzi e neri. Ma riuscì a raggiungere l'angolo tra la porta e la parete e si voltò verso lo specchio, le gambe tremanti, le spalle strette, gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite.
    La cosa non si era mossa. Anzi, si disse in quel momento: l'ombra non si era mossa. Come poteva chiamare una cosa che spuntava apparentemente dal nulla, con una forma insensata e che poteva vedere solo tramite lo specchio? Forse ombra non era la parola esatta, ma era l'unica che gli veniva in mente e quello bastava. Non aveva voglia di arrovellarsi sulle parole quando aveva una cosa - un'ombra - nera che gli pendeva sulla testa e prometteva di aggredirlo da un momento all'altro.
    Bene, dunque. Dopo la discussione linguistica posso dirlo: l'ombra è ancora qui. Il pensiero gli strappò un'altra risata nervosa che durò pochi secondi e poi gli morì in gola. I muscoli sofferenti delle gambe minacciarono di cedere e Luca dovette ricorrere a chissà quale forza per reggersi in piedi; il corpo era tutto un fremito nervoso e inarrestabile. Il cuore gli batteva forte nel petto e le tempie pulsavano. In testa, il frusciare del ferro che grattava era aumentato di volume. Frr frr.
    In quel momento Ester si affacciò dal bagno con i capelli ancora bagnati raccolti in un asciugamano. Gocce d'acqua le scorrevano sulla pelle olivastra e sulle curve del corpo nudo. «Che sta succedendo? Cos'è tutto 'sto casino?» Le sopracciglia le si aggrottarono quando vide Luca rannicchiato in quell'angolo.
    «Niente. Pensavo avessero bussato alla porta e mi sono alzato di corsa per andare ad aprire, ma non c'è nessuno. Forse l'ho immaginato» disse Luca. Fu sorpreso dalla sua stessa abilità nel mentire e si lasciò andare in un sorriso che a lui stesso, sebbene non potesse vederlo, parve rassicurante.
    Ester lo squadrò per un attimo. «Sei sicuro di stare bene? Sei pallido».
    «Sto benissimo, amore. Dev'essere il caldo».
    «Ma non fa caldo qui!» disse lei ridendo. Luca ne fu sollevato: era riuscito a eludere le domande di sua moglie. Non avrebbe mai voluto confessarle che vedeva un'ombra che veniva fuori da una parete senza motivo.
    «Lo so, ma sai, a camminare sotto il sole... Hai finito col bagno, così vado a lavarmi?» Era stato lui a voler tornare in hotel per il pomeriggio, ma adesso non vedeva l'ora di uscire da quella stanza.
    «Devo asciugarmi i capelli, ma lo faccio fuori. Puoi andare» disse Ester uscendo dal bagno ancora nuda. Camminando verso il letto, passò una mano sulla patta dei pantaloni di Luca, strizzò un poco e ammiccò. Lui fece un sorriso forzato e corse in bagno. Una volta dentro, si accasciò sul lavandino reggendosi con le mani e respirando con la bocca aperta. Le gambe erano logorate e spasmi continui attraversavano i muscoli, causandogli saette di dolore.
    Fingere costava fatica.
    Si fermò per un momento ad ascoltare il suo cervello. Frr frr.

    #3

    La febbre peggiorò nel pomeriggio. Non poté misurarla, ma sentiva il corpo accaldato e il cervello bollente. Per contrasto, l'aria frizzante della città gli provocava brividi di freddo.
    Si sentiva stanco. Stanco come non poteva nemmeno immaginare. Aveva la sensazione che le sue gambe dovessero cedere da un momento all'altro, i muscoli delle cosce erano anchilosati e anche solo tastarli gli stringeva morse doloranti in profondità. Non voleva mostrare a sua moglie che aveva la febbre, perché Ester l'avrebbe costretto a passare la vacanza in camera e non c'era nulla di peggio in quel momento. Per questo cesellò i momenti in cui chiedere di riposare un poco, tenne a bada l'arsura della bocca che gli faceva venire voglia di scolarsi litri e litri d'acqua e soprattutto evitò di far trasparire quel groppo d'ansia che si era bloccato all'inizio della gola, come un gomitolo di lana che mozzava il respiro e soffocava.
    Però, notò con piacere, da quando era uscito dall'hotel quella sensazione si stava pian piano acquietando. Arrivò alla conclusione che non c'era nessun'ombra che spuntava dalla parete: doveva averla immaginata. Forse era solo una macchia sullo specchio, oppure una crepa nel muro che da quell'angolazione non era riuscito a individuare. La spiegazione non lo persuadeva per niente: una macchia non era visibile solo allo specchio, non si muoveva e soprattutto non si allungava nel giro di trenta secondi.
    Probabilmente si era trattato di un'allucinazione. Era stata la febbre a provocarla, si disse, e la stanchezza e la calura accumulata nella mattina. Quest'idea era più convincente, ma la prospettiva di soffrire di allucinazioni, anche se per un solo momento di debolezza, non era rassicurante. Proprio per niente. Già sentiva nelle narici l'odore spiritato dei manicomi e non serviva a nulla ripetersi che i manicomi ormai non esistevano nemmeno. E, insieme a quello, gli effluvi nella stanza, quel miscuglio rivoltante e strano di spezie. Chissà se aveva immaginato anche quello. Ricordava di aver letto da qualche parte che le allucinazioni erano i primi sintomi di qualche malattia, ma ora non ricordava di preciso quale. La sua mente suggeriva Alzheimer, ma forse la soluzione era cancro al cervello. Credeva però di essere arrivato a quelle due patologie perché erano quelle che lo spaventavano di più e, rincorso da quell'ombra di cui non riusciva a spiegarsi l'origine, la sua mente riusciva a evocare solo pensieri terrificanti.
    Però il segnale d'allarme nella sua testa cinguettava debolmente, il gomitolo in gola si andava dipanando con lo scorrere del pomeriggio. Anche il frusciare del ferro nella testa perse d'intensità e si ritrovò a udirlo solo un paio di volte nel pomeriggio, più irritante di prima. Frr frr.

    #4


    La sera si sedettero al tavolo di un fast food in pieno centro. Di lì potevano vedere il punto in cui Brandstätte si incrociava con Stephanspaltz e il campanile della chiesa che avevano visitato appena mezz'ora prima, ma di cui Luca aveva già dimenticato il nome. C'era un bel movimento in città, con ragazzi e famiglie che sfilavano sul corso e qualche uomo in vestiti da teatro che pubblicizzava l'opera della sua compagnia spargendo volantini. Luca sentì i muscoli che si scioglievano e formicolavano, come se il sangue fosse tornato a scorrervi. Aveva lo stomaco chiuso e ribollente di un liquido acido, ma ordinò lo stesso un panino col merluzzo per non insinuare sospetti nella mente di sua moglie. Ester era così apprensiva.
    Si erano conosciuti al liceo, ma non si erano mai considerati più di tanto e avevano finito per perdersi di vista dopo la maturità. Poi a ventisei anni si erano rincontrati in una discoteca, dove avevano ballato insieme ed erano finiti a letto, troppo ubriachi per riconoscersi a vicenda. Era uno dei tre ricordi più dolci che Luca conservava di quei pochi anni di vita insieme: il motivo dei gemiti di Ester alla loro prima volta, quella sensazione sconosciuta che l'aveva preso al petto e non l'avrebbe lasciato mai più. Era come se una boccetta, in equilibrio su qualche coronaria a pochi centimetri dal suo cuore, si fosse riversata in quei momenti, spargendo il suo liquido misterioso ma magnifico nel sangue. Poi il giorno dopo Luca le aveva scritto - erano i tempi dei primi sms e lui era riuscito a ricavare il suo numero da amici in comune. Una settimana dopo Ester non aveva ancora risposto e, più tardi, Luca avrebbe detto di aver avuto la sensazione che quel liquido che scorreva nelle vene si stesse rinsecchendo. Ricordava ancora quella tristezza pesante che lo aveva preso in quei giorni e ricordava anche che non era stato capace di spiegarsi perché ci teneva tanto a rivederla. L'aveva capito solo quando lei gli aveva risposto, perché delle scosse elettriche l'avevano preso ai polsi e avevano rinvigorito lo scorrere di quel liquido.
    Arrivò un cameriere alto e con i capelli di paglia che trasportava un vassoio. Posò due piatti sul tavolo senza parlare, fece lo stesso con i bicchieri e poi si voltò e tornò verso il bancone, sempre muto. Ester lo seguì con lo sguardo, la bocca arricciata, e quando quello scomparve dalla loro vista si voltò verso Luca e ridacchiò. «Mah, che cortesia...»
    Luca si sforzò di ridere a sua volta. «Questi nordici son così».
    «Ti sta piacendo Vienna? Sei muto come un pesce in questa vacanza. Quasi penso che ti stia stancando di me». Rise ancora, questa volta con un suono pieno e contagioso. Anche Luca scoppiò a ridere, ma sentì lui stesso come i muscoli si tendevano e rivelavano un volto smunto e tormentato. Un volto da pazzo.
    La bocca di Ester, arricciatasi di nuovo, si dischiuse in poco. Le sopracciglia si aggrottarono e gli occhi tra il marrone e il grigiastro si fissarono in quelli di Luca. «Secondo me non stai bene. Sei pallido, te l'ho già detto». Si allungò sul tavolo e allungò una mano verso la fronte di Luca.
    Lui gettò la testa all'indietro e si lasciò sfuggire un: «No!» mormorato appena. Quel movimento improvviso gli lanciò una fitta di dolore nel cranio, ancora una volta come se quel ferro stesse cercando di traforargli le ossa.
    «Fammi toccare la fronte». Le sopracciglia erano sempre più rivolte verso il basso.
    Luca si arrese. Non poteva fare altro, perché ogni mossa avrebbe acuito il senso di pericolo di sua moglie. Mi conosce troppo bene, non sarei mai riuscito a nasconderglielo. Il pensiero gli accese una scintilla di nervosismo, ma fu anche una carezza dolce al cuore e contribuì ad affievolire la fitta nella testa.
    Ester poggiò il dorso della mano sulla sua fronte. «Scotti un poco. Come ti senti?»
    «Non granché bene. Sono un po' stanco, forse». Ester poteva leggere i suoi dolori, ma mai avrebbe intuito nulla riguardo la faccenda dell'ombra e non sarebbe certo stato lui a rivelarle i dettagli.
    «Perché non me l'hai detto prima?»
    Ebbe paura. E se Ester gli avesse strappato via anche quel pensiero? Cazzo, l'avrebbe preso per pazzo. Non poteva permetterlo. Corrugò la fronte, come se le rughe che si formavano potessero trattenere il segreto. «Non volevo passare la vacanza a letto, quindi non te l'ho detto».
    «Eh sì, perché io sono la rompiscatole che non ti fa uscire se hai la febbre!» Parlò con tono duro, ma le sue labbra trattenevano a stento un sorriso.
    Luca fece un sorriso stanco, poi si passò una mano tra i capelli. «Ho un mal di testa di quelli...»
    «Piccolino...» disse Ester, allungando le vocali e con una sfumatura ironica. Sorrise. «Poi misuriamo la febbre. Se hai più di trentasette e mezzo chiamiamo direttamente le pompe funebri, no?»
    «Molto simpatica». Il siparietto comunque spense quell'ultima fiammella di preoccupazione che era rimasta accesa nella mente a causa dell'ombra. Ora sentiva solo la pesantezza della testa, lo sguardo sfocato ai lati e i nodi delle gambe che si scioglievano, ma senza mai alleviare del tutto quel dolore. Accusò un grande bisogno di mettersi a letto e dormire.
    Finì il panino con il merluzzo, che si rivelò surgelato e di qualità pessima. Poi pagò il conto e si avviarono mano nella mano verso l'albergo. Li aspettavano trenta minuti buoni di camminata, ma quelle dita che si incrociavano alle sue ebbero un effetto corroborante e sentì almeno un poco di energia nelle gambe.

    #5


    Fu durante il cammino che il pensiero dell'ombra tornò a farsi spazio nella sua mente.
    La vedeva. Era enorme, nera, gli incombeva addosso. Quelle irregolarità erano denti aguzzi che l'avrebbero divorato e il nero infinito l'avrebbe trascinato in chissà quale altro mondo disumano.
    E ne sentiva il peso sulle spalle. Iniziò a camminare curvo, il respiro si fece greve e mozzato. Dovette sforzare i polpacci fino a sentire le vene che pulsavano e si ingrossavano per non caracollare.
    Adesso non era più così sicuro che si fosse trattato di un'allucinazione. Anzi, si era quasi persuaso che non fosse stata una visione. E, per quanto un'allucinazione non fosse sintomo di una salute scoppiettante, si trattava di qualcosa che riusciva a capire.
    Non riusciva a capire quell'ombra, invece. Si sforzava, spremeva le meningi fino a sentire quel rumore ferroso nel cranio: nulla. Le solite due ipotesi: un insetto o un'allucinazione. E la consapevolezza che non si trattava né dell'uno né dell'altra.
    «Ti piace l'hotel?» chiese a un tratto Ester.
    O Dio. Ti prego, fa che non l'abbia visto anche lei. «Perché me lo chiedi?» chiese Luca con la voce che era un tremito.
    «No, così... me l'aspettavo più bello. E tu?»
    Tacque per un attimo. Non aveva per nulla preso in considerazione quell'eventualità e ora l'idea gli sferzava il cuore come una tempesta di sabbia su un vetro. Una morsa gli strinse il petto, lo sguardo si velò di nero. Mosse il braccio libero in modo meccanico, cercando un appiglio che non trovò, e stirò i muscoli delle cosce: aveva sentito qualcosa di freddo che si insinuava lì dentro.
    «Ehi, allora? La febbre ti sta facendo diventare anche scemo?» insisté Ester. La voce gli arrivò lontana, sfocata.
    «Ehm... sì, bello, bello. Però quello del viaggio di nozze era più bello» farfugliò.
    «Sì, lo penso anch'io. Senti, ho portato delle medicine con me, in hotel ti prendi qualcosa». C'era una nota di apprensione nella sua voce.
    Luca emise un mugolo d'assenso, ancora terrorizzato dall'idea che anche sua moglie avesse visto l'ombra. Sentiva lamelle in testa che sfregavano e scintillavano e lanciavano scosse elettriche mandando in corto circuito la sua mente. Il gomitolo d'ansia in gola si fece più spesso e gli prosciugava la gola.
    Calma, si disse. Cerca di ragionare. Non può averla vista. Te ne saresti accorto prima. Ma non ne era convinto: se sua moglie poteva frugargli tra i pensieri a piacimento, lo stesso non valeva per lui. Si ritrovò a scrutare il viso di Ester, le sue sopracciglia aggrottate, la bocca come un bocciolo di rosa. Sentì il nodo in gola sciogliersi e credette di capire.
    No, Ester non sapeva. Era un bene, perché questo rafforzava l'ipotesi - nonostante tutto sempre meno credibile - che si potesse essere trattato di una visione momentanea. E poi, qualunque cosa fosse, non gli sarebbe piaciuto condividere il peso dell'ombra con Ester.
    Ma c'era qualcosa in petto che lo faceva tremare e lo riempiva di panico, impedendogli di ragionare con lucidità. Era come... come un presentimento, forse? Non riusciva a definirlo e gli pareva una sensazione mai provata prima. Quel che sapeva era che non gli piaceva. Non gli piaceva per niente.
    Man mano che si avvicinavano all'albergo i muscoli si facevano più rigidi: gli sembrava di camminare su dei trampoli di legno. Anche lo sferragliare dei ferri nel cranio aumentò di frequenza, questa volta con una nota più stridula. Si accorse di sudare dalle mani, una cosa che non gli succedeva da quando, adolescente, tentava di adescare le prime ragazzine.
    Due dubbi grossi e rumorosi gli riempivano la testa. Primo: cos'era quell'ombra, perché l'aveva vista e perché si stava preoccupando così tanto? Secondo: c'entrava qualcosa sua moglie con quella storia assurda? Era quest'ultima domanda che lo faceva tremare. Se qualcosa... qualcosa di neanche lontanamente immaginabile si fosse intrufolata nella loro stanza?
    L'idea era folle, lo sapeva, e si maledisse per aver solo immaginato una cosa del genere. Ecco, ora inizio a credere nei mostri, si disse e soffocò una risatina che partiva dallo stomaco. Però la possibilità che potesse accadere qualcosa a Ester era angosciante più dell'ombra sconosciuta e del mondo parallelo che si apriva oltre quel nero profondo.
    Quando Ester aveva risposto a quel dannato sms, otto anni prima, si era sentito ribollire. Si erano dati appuntamento per qualche sera più tardi e le cose erano filate lisce, naturali. Come se il destino avesse prestabilito la loro storia e loro si fossero solo limitati a seguire i suoi dettami. Nel giro di un anno lui le aveva presentato i genitori e lei aveva fatto altrettanto; in tre anni avevano programmato il matrimonio.
    Già, il matrimonio. Il secondo dei ricordi più dolci che avvolgevano come un tessuto di seta il suo cuore. Ogni attimo di quella giornata gli appariva nitido nonostante fossero passati quasi cinque anni, e così probabilmente sarebbe stato per sempre. Il velo di sudore sulle labbra di Ester, il ciuffo di capelli che si scompigliava di continuo e che lei ravviava con cura maniacale. Il modo in cui lei aveva detto: «Sì, lo voglio», con le labbra che si muovevano al rallentatore. In quel momento, ricordava ancora, aveva provato l'impulso irrefrenabile di gettarcisi, su quelle labbra, e divorarle di baci prima che qualcuno provasse a portargliele via. Ma aveva aspettato, aveva ripetuto anche lui quel Sì, lo voglio con la voce che era un filo sottile e tremolante. La notte avevano fatto l'amore quattro volte, un record a cui non sarebbero mai più arrivati nel resto della loro vita coniugale. E per fortuna, si diceva sempre: a quei ritmi, ci sarebbe rimasto secco nel giro di una settimana.
    Si risvegliò dai pensieri quando un soffio di vento fetido di benzina gli alitò in faccia e un clacson strombazzò a pochi passi da lui. La mano di Ester strinse forte la sua. Luca barcollò un po' all'indietro e si aggrappò al palo di un semaforo, poi osservò l'autista della macchina che l'aveva quasi investito lanciargli chissà quale imprecazione. Lontano, perso nell'eco, gli arrivò alle orecchio la voce di sua moglie che urlava.
    «Che cazzo fai? Che cazzo ti è preso?» gridò Ester dopo qualche momento. Il suo viso era sbiancato, se non per due macchie rosse e rotonde come una monetina stampate al centro della guance. Aveva ancora le sue unghie conficcate nella mani di Luca e lui avvertì un bruciore tenue, anche questo lontano.
    «Scusami, amore... Ero distratto. Sono un po' assonnato». Non era vero. Stanco, sì. Forse stremato era più corretto. Non sapeva nemmeno quale forza lo tenesse ancora in piedi. Però ciò che gli si parava davanti agli occhi lo rendeva vigile, lo sfregare dei ferri nel cranio si fece più violento e assomigliava a un codice d'allarme. Frr frr.
    Erano appena arrivati di fronte al loro hotel.

    #6

    L'ombra c'era.
    E come poteva essere altrimenti? C'era sempre stata, l'aveva seguito passo passo in quella giornata stremante. Come un germe freddo che rosicchiava le gambe; un essere ignoto che lo pedinava a distanza e si burlava di lui, ghignando con quei denti aguzzi e neri.
    La vide appena entrato in camera, di sguincio nello specchio di fronte al letto. C'era prima una parte lunga, quasi rettangolare, i cui margini brulicavano di particelle nere indefinite. Poi si apriva una zona più affusolata, il nero si diramava verso il basso aprendosi in mille tocchetti appuntiti. O in mille denti aguzzi. Si ritrovò di nuovo a fissare quel colore per qualche secondo: ci aveva pensato per tutta la giornata, l'immagine gli era rimasta incastrata negli occhi e si era ripresentata ora per ora. Ma adesso, a vederla dal vivo... Era diversa. Era viva. Come se quel brulicare che individuava ai lati fosse il rimestare di qualche mostro nascosto appena oltre quel nero incommensurabile, quella coltre scura che divideva il mondo da chissà quale inferno.
    Si sentì mancare. Lo sferragliare in testa si fece violento e insopportabile: si portò le mani alle tempie e contrasse il viso in una smorfia di dolore. Altre ombre informi si allungavano sulla sua retina, mutavano forma continuamente, stringevano la morsa sui suoi occhi. Poi, quando lo sballottamento passò, notò un altro particolare che lo fece rabbrividire. L'ombra, che al pomeriggio non era che un frammento di pochi centimetri, ora si estendeva in diagonale per almeno un metro. A separarla dal quadro che pendeva al centro del letto matrimoniale, quello raffigurante il paesaggio fluviale, era rimasto un altro metro. Forse anche meno.
    Ester era avanzata di qualche passo. Luca invece era rimasto sulla porta, la spalla poggiata alla parete, le gambe di cemento. Un dolore improvviso gli artigliava lo spazio appena sotto la nuca. Si sforzò di trascinare avanti le gambe e si avvicinò al letto matrimoniale, con lo sguardo rivolto verso lo specchio. Gli passò per la mente di controllare se l'ombra esistesse ancora solo nel suo riflesso nello specchio oppure si estendesse anche sul muro, ma pensava di sapere già la risposta ed evitò di voltarsi. Non voleva concedere nemmeno un secondo di disattenzione a quel... a quel mostro.
    «Ecco qui, prendi» disse Ester, ancora chinata sulla valigia. Si rialzò e gli tese una bustina di Oki. Lui la afferrò tra le dita tremanti.
    Si sdraiò sulla sua parte di letto e sentì subito gli occhi pesanti. No, ti prego, no. Non posso addormentarmi. Non con quella cosa sul muro che può divorarmi da un momento all'altro.
    «Misura la febbre, tieni» disse Ester passandogli il termometro. Luca strappò l'estremità della bustina di Oki e si versò il contenuto nella bocca, diluendo poi la polvere mandando giù una sorsata d'acqua. Si spogliarono, si infilarono il pigiama. Luca sentiva brividi gelidi che gli attraversavano il corpo.

    #7

    Ester gli si avvicinò piano, si sedette al fianco, poggiò una mano sul suo petto. Risalì verso i capelli solleticando la pelle, indugiò qualche secondo sulle labbra, accarezzandole e tirandole. Poi passò qualche minuto a scompigliargli i capelli, con le labbra arricciate e una ruga verticale al centro della fronte. Luca cercò di ricambiare quelle tenerezze con qualche sorriso, ma si accorse di non avere la forza per essere convincente. Gli venivano fuori solo facce macilente e ghigni pallidi, notò, e la ruga sulla fronte di sua moglie divenne più profonda. E poi non poteva perdere di vista l'ombra. Gli parve quasi che si fosse allungata di un altro centimetro, accompagnata da qualche gorgoglio che non parlava alle orecchie ma all'anima, ma non poteva esserne sicuro con tutti quei movimenti turbolenti e indefiniti lì intorno.
    Poi Ester gli sfilò il termometro e controllò la temperatura. «36.7. Ancora non sei moribondo» scherzò Ester. Il suo viso si era un po' disteso, sulla sua bocca si stava abbozzando un sorriso.
    Luca si sforzò di sorridere a sua volta. «Certo che sei di una simpatia...»
    «Lo so!» esclamò Ester, chinandosi su di lui e baciandogli l'angolo della bocca. Si tirò giù fino a stendersi e con una mano continuò a scompigliare i capelli del marito, accennando di quando in quando una tiratina violenta. Con l'altra mano scese giù, all'inizio della sua coscia, e prese a solleticare e stringere.
    Luca rimase fermo, le braccia paralizzate e strette lungo i fianchi. Le irregolarità dell'ombra ora si stavano allargando e prendendo forma. Prima li aveva scambiati per denti aguzzi e taglienti, ma ora ne riconosceva l'identità. Non erano denti.
    Erano artigli. Lunghi, con il segno netto e distinto della nocca al centro. E si tendevano e si arricciavano, fendevano l'aria, bramavano già il succo della loro preda. Luca lo sapeva: era lui che cercavano. E non aveva nessun'idea su come difendersi.
    Intanto i baci di Ester si fecero più arditi. Le loro lingue si incrociarono, la mano di lei passò all'interno coscia. La sua bocca emetteva mugolii gravi.
    Luca se ne stava immobile. Lo sguardo sempre fisso sullo specchio, il cuore che si dimenava nel petto. Graffiò il copriletto sotto di lui, che stridette. Qualcosa di freddo cominciò a formicolargli all'altezza dei polsi e delle caviglie.
    La mano di Ester salì verso l'alto, si intrufolò nei pantaloni di Luca, scostò per un attimo le mutande. Poi tornò fuori e lei salì a cavalcioni sul marito, staccandosi dalle sue labbra. Aveva il viso un po' arrossato, i capelli arruffati, un sorriso mangiucchiato sulla bocca. Si passava la lingua sulle labbra e ogni tanto se le mordicchiava.
    Luca conosceva bene quell'espressione e, in qualsiasi altro momento, avrebbe provato il solito solletico che iniziava a prender forma nei suoi pantaloni.
    Non quella sera, però. Accusò una stretta forte allo stomaco, come di qualcosa che si torceva.
    «Cos'hai?» chiese lei con la voce arrochita. Una goccia di sudore sulle sue labbra tremolò e poi cadde sul petto di lui.
    «Te l'ho detto, sono stanco. Non ho voglia adesso».
    Lei annuì, sorridendo con gli occhi un po' vuoti. Poi si accasciò sul suo viso e gli baciò la guancia.
    Fu allora che il terrore lo prese al petto e gli causò uno spasmo alle gambe.
    L'ombra. Così non posso vedere l'ombra. Fece uno sforzo per spostare sua moglie dall'altra parte del letto, ma aveva le gambe stanche e riuscì a produrre solo uno sbalzo con il ventre.
    «Puoi... puoi spostarti? Ho dolore ovunque» sussurrò lui. Fece due colpi di tosse e si schiarì la voce.
    Ester rotolò verso l'altra parte del letto, baciandogli un'altra volta la guancia. «Hai mangiato qualcosa che ti ha fatto male?»
    «Non credo» disse Luca. L'ombra non si era mossa e soprattutto non l'aveva aggredito mentre lui non poteva vederla. Un po' della tensione accumulata in quei secondi sbollì e i muscoli del suo viso si rilassarono... ma solo un poco. Il pericolo non era scomparso.
    «Mh... Ma da quando non ti senti bene?»
    Si accorse di non ricordarlo. «Da... da stamattina, più o meno. O forse all'inizio del pomeriggio». Però gli sembrava già passata un'eternità.
    «Ma cosa ti senti? Ti fa male da qualche parte?»
    «Le gambe. Sarà perché ho camminato troppo. E poi...» E poi ho dei ferri in testa che sfregano e fanno rumore. Frr frr. «E poi un po' di mal di testa. Ma ho preso l'Oki, vedrai che domani sto meglio».
    «Va bene. Io ho un po' sonno. Ti va bene se spengo la luce?»
    No che non gli andava bene. Non gli andava bene per niente. Però non poteva creare altri sospetti, quindi rispose: «Certo, fai pure. Mi metto a dormire anch'io».
    Lei gli sorrise, qualche ruga si formò intorno alle sue labbra. Si girò su un fianco, cliccò l'interruttore e nella stanza scese il buio. Dopo qualche minuto dalla sua bocca cominciarono a venir fuori ronfi scostanti e Luca fu sicuro che stesse dormendo.

    #8

    L'ombra si vedeva anche senza luce. Era stato stupido a non pensarci prima: era così scontato.
    Era nera più del buio e per questo le sue forme risaltavano. Luca osservò la parte iniziale, sempre con quel brulicare ai lati. Di cosa si trattava? Sembravano mosche che banchettavano su un cadavere. Cercò di mettere a fuoco per individuare qualcosa di sensato, ma dopo pochi secondi quel movimento turbolento e sconclusionato gli diede la nausea. Fu costretto a girare lo sguardo per non vomitare. Più avanti, gli artigli. Adesso gli pareva di distinguere la curva di demarcazione tra il dito e l'unghia, che, pur se sepolta in quell'oscurità, era stranamente lucida. Come una lama che scintilla al sole.
    Passò ore intere supino sul letto con gli occhi fissi sull'ombra. Il russare di Ester, il ticchettio dell'orologio da polso che aveva dimenticato di sfilare. Fuori ogni tanto sfrecciava qualche macchina e una volta un gruppo di ragazzi, probabilmente ubriachi, intonò una canzone in tedesco. E poi, in testa, sempre quel rumore di ferri. Frr frr.
    Osservò come quegli artigli diventavano sempre più lunghi. Si appiattirono, presero la forma di spiedini di ferro appuntiti. A separarli dal quadro al centro del letto, poco più di mezzo metro. Anche intorno a quelli, adesso, si era formato quel pullulare insensato. O forse il pullulare c'era già prima e lui lo stava notando solo adesso: il terrore gli inibiva il ricordo. Gli sembrava quasi che i suoi muscoli si stessero ritirando, la sua pelle avvizzendo. L'effetto dell'Oki lo faceva sudare, ma erano gocce gelide che si seccavano subito e lasciavano la pelle appiccicaticcia, sporca.
    A un certo punto gli occhi tornarono a farsi pesanti. I muscoli delle cosce, sempre in tensione fino a quel momento, si rilasciarono, spargendo nel sangue come un liquido anestetico. Provò a dare un'occhiata all'orologio, ma aveva il polso paralizzato e da lì non riusciva a distinguere l'orario. Dio, fa che questa notte passi in fretta.
    A restituirgli vigore fu un gemito di Ester, che nel frattempo si era messa supina. Il terrore si riaccese, lo sferragliare in testa tornò a farsi sentire. Ester: doveva proteggerla. Avvicinò una mano alla sua pancia e cominciò ad accarezzarla, tentando di cogliere con i polpastrelli il primo pulsare di quella vita che si stava formando.
    Ecco, il terzo ricordo più dolce. Solo a pensarci il cuore si scioglieva, la paura diventava solo un segnale d'allarme lontano e sfocato. Avrebbero avuto un bambino. Ester era al secondo mese di gravidanza e la protuberanza sulla pancia ancora non si notava, ma ogni tanto, poggiando l'orecchio al suo ombelico, Luca udiva qualcosa. Non era ancora né il battito del cuore né lo scalciare del bambino, ma qualcosa - una sorta di segnale che gli sussurrava nell'orecchio - annunciava la presenza di un essere nuovo. L'avevano scoperto un mese prima, durante uno dei controlli di routine a cui lei si sottoponeva, ed era stato per quello che si erano concessi quel viaggio imprevisto. Ancora gli risuonavano nella mente le parole di Ester quando, di ritorno dall'ospedale, gli aveva detto, con la voce che era un filo a un passo dallo spezzarsi: «Amore, sono incinta». E a riecheggiare nella mente era pure il pianto di felicità in cui erano scoppiati entrambi, i singhiozzi ripetuti e alternati di entrambi... il suono dei loro gemiti e dei loro ansiti a letto, mezz'ora dopo l'annuncio.
    Ma adesso c'era qualcosa di più incombente a cui pensare. Nei giorni precedenti avevano fantasticato insieme per ore sulla futura vita del loro figlio. Sarebbe stato maschio o femmina? E avrebbe avuto gli occhi marrone-grigio di lei o quelli neri di lui? Cosa sarebbe diventato da grande? Ora tutte quelle domande soffocavano: doveva prima di tutto assicurarsi che quel bambino avesse un padre pronto ad abbracciarlo.
    E, con il passare dei minuti, con l'ombra che si allungava senza sosta sopra la sua testa, la prospettiva di arrivare vivo di lì a sette mesi gli pareva remota. Due lacrime grosse si affacciarono sui suoi occhi e tremolarono per qualche secondo insieme alle palpebre. «Ti prego, risparmiami... fallo per mio figlio» mormorò. Non parlava con Dio, che in quel momento gli pareva un'entità distante e senza vita: parlava all'ombra.
    Ma quella non gli avrebbe dato retta. Luca lo capiva dall'avanzare spietato e senza ostacoli dei suoi artigli, dal modo in cui quel brulicare si faceva folto e rivoltante. L'ombra non l'avrebbe risparmiato: era lui a dover scappare. Ma si sentiva legato con delle cinghie a quel letto e in ogni caso non sarebbe potuto fuggire via così, lasciando sua moglie in hotel. No, avrebbe aspettato la mattina. Allora avrebbe ragionato sul da farsi... be', se ci fosse arrivato, naturalmente. Per ora doveva limitarsi solo a stringere i denti e sopravvivere.
    Il sole arrivò prima del previsto. Scorse il primo rossore al di là delle tende della finestra, quando gli artigli dell'ombra si tendevano a una ventina di centimetri dal quadro. Un'emicrania selvaggia gli martellava nel cranio e i muscoli delle braccia e delle gambe formicolavano, come addormentati. Però era felice: nel sonno, la soluzione gli era balzata agli occhi senza che ci stesse pensando. Ed era una cosa così ovvia che si stupiva per non esserci arrivato prima.
    Una volta che i suoi muscoli si furono sciolti, si alzò. Baciò sua moglie prima sulle labbra, poi sulla pancia. Tese l'orecchio e udì la vita nel corpo di lei. Fu tentato di scendere più giù, ma non era il caso. Non con quell'ombra ancora sulle loro teste; più tardi, magari. Camminò con passo felpato fino alla porta e uscì.
    Quando tornò, cinque minuti dopo, fu assalito dall'idea che, mentre lui era via, l'ombra avesse preso sua moglie. Temette di averla persa per sempre e il cuore gli si strinse. Ma poi aprì la porta ed Ester era ancora lì, che stiracchiava le gambe e sbadigliava, inarcando la schiena.
    «Mi hanno chiamato dalla reception» disse lui.
    «Perché?» chiese lei. La frase morì in uno sbadiglio.
    «Dobbiamo cambiare stanza. Dicono che è arrivata una prenotazione sbagliata... una coppia che aveva prenotato per una doppia, ma si è portata dietro il figlio, se non ho capito male. Le triple sono finite e questa stanza è l'unica abbastanza grande per metterci un altro letto».
    «Ah. E da quando tu capisci così bene l'inglese?» rise lei.
    Luca si sentì arrossire. Sperava che lei non intuisse la bugia e rise a sua volta. «Dai, prepara le valigie. Dobbiamo andare al piano di sopra».
    «Ancora cinque minuti» si lagnò lei, infilandosi di nuovo sotto il lenzuolo.
    «Va bene. Le valigie le faccio io, dai» disse Luca. Si chinò e iniziò a prepararle. Aveva ancora un po' le gambe indolenzite, ma il frusciare in testa era scomparso.
    In dieci minuti furono pronti. Prima di lasciare la stanza, Luca lanciò un'ultima occhiata all'ombra. Hai finito di perseguitarmi, stronza. Gli artigli di quella si piegarono all'indietro, poi di lato, in qualcosa che assomigliava a un sorriso.

    #9

    Giornata fantastica, pensò Luca per tutto quel pomeriggio. Avevano passato la mattina a dormire e a fare l'amore nella nuova stanza. Poi verso ora di pranzo erano usciti, avevano pranzato in un McDonald's nella zona dell'albergo e dopo si erano mossi verso il centro.
    Si sentiva felice per la prima volta durante quella vacanza. Prima c'era stata quella fiacchezza che preannunciava la febbre, poi l'ossessione e la notte insonne a causa di quel... di quell'ombra.
    Ecco, l'ombra. Il ricordo ancora lo turbava. Non riusciva a darsi una spiegazione e, per quanto si sforzasse di trovarne una almeno credibile, il tutto sfociava nella solita ipotesi: era stata un'allucinazione dovuta a una follia momentanea.
    Niente di reale, quindi.
    Ma ricordava benissimo come aveva creduto reali quegli artigli che si tendevano verso la sua testa e il colore profondo dell'ombra. Ogni tanto il terrore, come una presenza fisica - un groviglio di serpenti che strisciava nelle vene -, lanciava un'altra sferzata, a ricordare la sua debole ma continua presenza. E nella sua testa era stampata pure l'ultima immagine dell'ombra, la maniera tremenda in cui gli artigli si erano ritirati in quel sorriso sghembo.
    A parte che per quei ricordi troppo nitidi, la giornata trascorse tranquilla. Nessun dolore alle gambe, le braccia libere dall'indolenzimento. Anche la febbre era scomparsa - o almeno erano spariti tutti i suoi sintomi. E soprattutto non udiva più il rumore di ferri in testa: solo adesso si rendeva conto di quanto fosse stato fastidioso. Ancora qualche ora con quel frusciare terribile nel cervello e sarebbe impazzito, ne era sicuro.
    Fu con una condiscendenza che pensava di non aver mai avuto fino ad allora che accettò la scelta di Ester per quanto riguardava il posto in cui cenare. Era un ristorante di quelli costosissimi e con piatti probabilmente pessimi, con l'insegna in bella vista in una strada a pochi metri dalla piazza centrale, da cui potevano guardare uno scorcio della facciata del palazzo municipale. Luca non sapeva perché, ma l'imponenza di quell'edificio così cupo gli mise addosso un po' d'inquietudine. Il sole calante entrava di sguincio nella strada e illuminava di rosso solo una striscia sul muro. Mangiarono di fretta: Luca non vedeva l'ora di tornare in albergo e, a giudicare dagli sguardi che ogni tanto gli lanciava sua moglie, con gli occhi un poco lampeggianti e il movimento della lingua sulle labbra, anche per Ester valeva lo stesso. Felice com'era, anche al pensiero di ciò che lo aspettava di lì a poco, anche il cibo gli piacque.
    Camminarono mano nella mano, ogni tanto in diagonale senza rendersene conto, sospinti dal vento. Una volta deviarono in una strada sbagliata e poi, da quel punto, girarono per tre volte in tondo prima di ritrovare la via giusta. Luca aveva l'odore acre della pelle di Ester nelle narici, raffiche di desiderio che solleticavano appena sotto l'ombelico e si allungavano verso il basso. Contorceva le mani sudanti e con quella destra stringeva convulsamente le dita di Ester, che ricambiava quei movimenti, aumentando il vigore di quel solletico.
    Quando entrarono nella hall dell'albergo il desiderio aveva consumato il viso di Ester. Luca la conosceva, conosceva quegli occhi lucidi come sul punto di piangere. Sapeva il significato della bocca dischiusa in cui si intravedevano dei denti piccoli e candidi, riconosceva i colpetti che la lingua dava sulle labbra. Persino il profumo, in quei momenti, si faceva riconoscibile: prendeva una nota particolare, di frutta aspra e qualcos'altro insieme, qualcosa di indefinito e senza nome, che assumeva forma solo sotto le sue narici. Un odore inebriante, che smuoveva il sangue.
    Si ritrovò ad osservarla. Il viso arrossato, una goccia di sudore in precario equilibrio sul labbro. La lingua scorse in quel punto e la portò via. La pelle era perfettamente levigata, se non per il solco creato da una vena sul collo che pulsava frenetica. Un neo al centro del naso, che di solito passava inosservato, in quel momento richiamava l'attenzione: era un particolare che lo faceva impazzire.
    E poi il desiderio che prendeva forma come una stella lampeggiante nel fondo dei suoi occhi.
    Era troppo per sopportare ancora. La trascinò di forza verso la camera, lei cacciò una risata arrochita. Arrivati di fronte alla porta, tirò fuori la chiave magnetica dal portafogli. Prima di entrare, Luca afferrò Ester da dietro, cingendole i fianchi, e la strinse a sé, poggiandole un bacio umido tra il collo e la spalla. La sentì fremere nel suo abbraccio.
    Lei spinse la porta ed entrò nella stanza. C'era un buio fitto, le tende erano chiuse e conferivano all'ambiente un'aria soffocante. Luca armeggiò con la chiave magnetica, tentando di infilarla nello spazio apposito con il solo aiuto della luce nel corridoio. Quando ci riuscì, le luci della camera si accesero tutte insieme, costringendolo a strizzare gli occhi. Ester lo stava aspettando seduta sul bordo del letto, con le gambe un po' tremanti, il sudore del viso che scintillava sotto la luce improvvisa. La pelle olivastra nella luce abbacinante. Luca si avvicinò, si inginocchiò e le baciò le labbra. Poi si allontanò dal suo viso, le rivolse un sorriso e vi si avvicinò di nuovo. Qualcosa di nero - troppo nero - svolazzò nell'angolo dell'occhio destro.
    Il secondo bacio fu freddo, inanimato. Ester gli morse il labbro e gemette, lui rimase immobile con gli occhi sbarrati.
    Sbarrati e rivolti all'angolo sinistro dello specchio, dove a scrutarli c'era un'ospite indesiderata.

    Edited by DamaXion - 13/10/2017, 15:06
  2. .
    CITAZIONE (Ilsignorottopiumato @ 12/7/2017, 09:07) 
    Eccomi eccomi. Lo avevo detto io che ci venivo qua sotto. Sì sì, eccome. Due giorni fa lo scrissi, due giorni dopo lo feci. Perchè son cornacchia con le piume sia fuori che dentro il cranio, e che quindi ha la memoria che ci arriva fino a un certo punto. E che vuoi farci? Mica niente figurati. Lascia, lascia fare; che le cose vanno come devono andare e quando cadono son lì che fanno un gran casino, e tutti che stan là a prendersi una di quelle gran fife di quelle coi fiocchi. Non sia mai però che nessuno le levi da in mezzo tutte quelle cosacce, no no. Stan fermi piantati lì dove si trovano a mettere in piedi i bei discorsi. Di quelli a cui alla gente fa bene a interessarsi perchè son lunghi e importanti e pertinenti alla situazione. Che poi alla situazione ci si può anche pensare più tardi che prima abbiamo da parlarne quel tanto che copra gli ascolti ai T.G. Non sia mai che si rimanga a corto di roba da dire che il mondo è comare fatto e finito, e se ci molla va un pò a capire dov'è finiremo. Cianciamo dunque, cianciamo prima che la lingua abbia tempo di interrogare il cervello, e che Dio ce la scampi se mai accadesse. BLUE WHALE. L'ho detta bene. L'ho detta scandendo. In modo che tutti capiscano ciò che c'era da capire, ma poco altro che poi si rimane a secco di trasparenza. Ma bisogna fargielo capire o no a questi che la belenottera in questione non è saltata fuori da uno zapping accidentale su discovery channel? Sì che bisogna. Bisogna dire che il cetaceo non è saltato fuori da un bel niente. È saltato giù piuttosto. Giù dal palazzo che sta là in via della frittata che così ci infiliamo pure l'ironia della sorte. Ci si dice pure che questo animale tanto animale non è, e che anzi c'ha la peluria sul mento di quelle che vedi col microscopio master race giù alla NASA ( mica NASO); tiene due braccia due gambe e somiglia incredibilmente al nipote dell'amica di una consuocera che casualmente hai incrociato in cassa all'IKEA (dove ci stavano gli infissi per le finestre della camera del ragazzo in questione tra l'altro). Hai presente no? Quello che somiglia al figlio di tutti (tutti uguali sti ragazzi), pure al tuo. Adesso aspetta, aspetta se quelli non prendono paura, e si mettono a gridare più forte di noi, che così ce ne stiamo senza fare nulla almeno per un pò. Vai di paranoia poi, che la gente comincia a vedere morti ovunque che al confronto Haley Joel Osment è cieco come una talpa. Spingi, spingi che adesso abbiamo un gran da fare per le mani. Che tutti ora son convinti che il proprio figliUolo possa cominciare a pensare di essere una belenottera azzurra. E magari si immagina pure che le balene sappiano volare e spiccar lunghi balzi. E che se la cosa poi andasse mai a finire in caciara poco male, che poi ci sta il branco di iene che c'ha fame e non si lamentano di che mangiano. Va a capire che forse forse quello zapping su discovery channel era bene lasciarlo fare. Pigia, pigia il pulsante.

    Insomma ci stà sto ragazzino col nome di uno di quei nonni che ha fatto la guerra no? E succede insomma che viene avvicinato da quest'altro che si chiama Alessandro, che tipo è un adulto, che tipo è un poliziotto e che chiede al ragazzino di seguirlo in un posto tranquillo. Già io qua penso: "Guarda se adesso non tira fuori l'armamentario d'ordinanza, quello senza matricola". Ma no, non succede. E meno male sto a dirmi, che queste son cose brutte da leggere. Sto Alessandro invece fa all' Armando (Commissario, sa l'Armando...) che ci vuole dare un compito, che la scuola non è abbastanza e devono mettercisi in mezzo pure le forze dell'ordine a scartavetrare gli zebedei. All'Armando viene detto che deve """infiltrarsi""" in un certo sito e farsi adescare apposta da un certo curatore così da poterlo arrestare. Qui un pò storco il becco (E fa pure male), perchè di vedere un poliziotto che chiede a un ragazzino di svolgere praticamente il suo lavoro, non me lo aspetto nemmeno in un film di Spielberg. Ma ci dò il beneficio del dubbio, che sto Alessandro qui pare poliziotto quanto io vescovo, e per me gatta ci cova, ci puzza, e ci caca pure sopra. Si scambiano i numeri di telefono, raccomandandosi di non dirlo a nessuno, manco al parentame (Aiha, il becco). Senza tirarla ancora troppo per le lunghe, all'Armando l'idea sconfinfera e ci va fino in fondo. Troppo in fondo, perchè (così fa trasparire) quello ci rimane imbrigliato mica poco nella cosa. Tanto imbrigliato che non arriva nemmeno al telefono per chiamare il diligente e per nulla sospetto agente Alessandro. Infine... infine boh. Devi dirmelo tu. Che questa cosa oramai io la voglio vedere finita che uno quando vede una bella gonna poi mica gli basta no, no. Invoca Eolo il dio dei venti perchè faccia il suo lavoro che diamine. Quindi nulla. Vai avanti che io aspetto. Che nel frattempo faccio roba che nemmeno puoi figurarti. Del tipo che mi siedo su questa specie di sedia bianca piena di acqua e dopo un poco accade che... (Continua)

    Sono uscito indenne dai flussi di coscienza di Joyce e Faulkner, ma questo mi ha lasciato tramortito. Sul serio. :wacko:
  3. .
    Il porticello della città esala vapori che sanno di uova marce. È lo zolfo, dicono gli altri abitanti del posto. Dovrei esserci abituato, ma faccio ogni giorno la stessa strada e questa puzza mi dà ogni volta una nausea più forte.
    Sarà che sto invecchiando.
    Questa mattina, poi, c'è anche l'odore della pioggia che ha appena smesso di cadere. Un temporale come ne capitano tanti, in questo periodo. Però per qualche motivo mi tengono sveglio a rigirarmi nel letto, ad aspettare il primo mattino. Ho qualcosa in testa che è come un terremoto: mi scuote tutto dalle fondamenta. Adesso il mare è una tavola. Nuvoloni grigi coprono ancora il sole, ma la brezza mattutina li spazzerà via. Succede sempre così.
    Il bar El Globo è incastrato in un vicolo sulla strada opposta al lungomare. È un posto commerciale, o almeno così pensava Jack quando ha comprato il locale. Però è sempre vuoto, soprattutto ora che è inverno e che nessuno ha poi tanta voglia di uscire. Prima di raggiungerlo, però, passo dal giornalaio. Gazzetta dello Sport, La Repubblica e il quotidiano locale. Prendo ogni giorno lo stesso.
    Qualche minuto di cammino e sono di fronte al locale. Chiuso, dice l'insegna apposta sulla porta. Io busso con le nocche sul vetro.
    Passa qualche secondo e Jack viene ad aprire. Poi si volta senza salutarmi e torna alla sua panca, reggendosi il fianco con una mano.
    La stanza puzza del suo sudore. Acre, pungente, con un fondo di vecchio. È quasi peggio delle uova marce.
    «Devi affittare una casa, Jack. Sei vecchio, non puoi dormire su quella panca del cazzo tutti i giorni» dico, e indico la panca di legno su cui è seduto, impregnato di sudore. Ha le guance paonazze e i capelli zuppi. Non capisco come faccia a essere così accaldato: qui dentro si gela.
    Lui mi ignora. «Caffè?».
    «Sì» dico. «Però sono serio. Hai bisogno di un letto, così ti rovini. Che ne dici di dormire da me, per un po'?»
    «Non mi rompere i coglioni, Ale'» dice lui, riempendo la moka di polvere. «Il bar non lo lascio. Già non si lavora, metti che vengono i ladri?»
    Ma chi cazzo deve venire a rubare in 'sta baracca?
    Non glielo dico, però. È l'unica cosa a cui tiene veramente.
    Subito l'aroma del caffè satura la stanza. Sembra quasi riscaldarla. In ogni caso, sostituisce la puzza di sudore, quindi è un bene.
    Porto la tazzina all'unico tavolo che c'è nel locale. È sporco di qualcosa, forse salatini. C'è anche un insetto, uno di quelli che si fanno a palla quando avvertono il pericolo. Lo allontano con un soffio. Sorseggio e penso a quale giornale leggere per primo.
    Jack intanto è accasciato sul bancone con le mani sul viso. Si stropiccia gli occhi e fa smorfie strane, che gli creano rughe profonde attorno alla bocca. Sul suo mento a punta sopravvive la peluria di qualche giorno, mentre il resto del viso è liscio e pulito.
    Sorrido. È sempre stata la sua cosa più buffa: da giovane si dannava perché non gli cresceva la barba, a parte quei peli ispidi e neri sul mento. Adesso è uguale, solo che i peli sono bianchi e più duri.
    «Jack, quale leggiamo per prima?» gli urlo. L'eco rimbalza sui muri. Jack, Jack, Jack. Mi fa strano: quello non è il suo vero nome. Si chiama Giovanni, naturalmente, anche se non ricordo perché l'abbiamo inglesizzato.
    «Quali hai?» risponde lui, rimanendo nella stessa posizione di prima.
    «I soliti».
    «Ah. Quello del posto allora».
    Devo arricciare gli occhi per distinguere le lettere: è tutto buio. L'unica lampada rilascia una luce troppo fioca, il sole ancora non s'intravede e anche i miei occhi stanno invecchiando. Leggo ad alta voce. Lo faccio ogni mattina, perché così almeno passiamo il tempo e non c'è quel silenzio imbarazzante che ci separa. Con il tempo, non so perché, i nostri rapporti si sono raffreddati. Parliamo poco e quasi solo per litigare o per ricordare i tempi passati.
    Nel frattempo, lui si prepara quell'intruglio di acqua e medicine che prende ogni mattina.
    Di solito qui non succede mai niente. È un bene, ma ogni tanto ci si annoia. «"Cent'anni fa il mistero del battello Ferrandi". Sentito, Jack?»
    Lui mugola, ancora intento a ingollare quella bevanda. Poi dice: «Mi sta sul cazzo quella storia».
    È un vecchia leggenda che circola in città da prima che nascessimo. Nessuno può affermare con sicurezza che la vicenda sia reale né ricorda di conoscere i coniugi Ferrandi. Però è l'unica storia interessante che gira in questo listo e si tramanda di padre in figlio da qualche generazione, ogni volta con una versione più personalizzata dei fatti. Io non la ricordo benissimo, a dire il vero.
    Qualcosa che cigola.
    Sono i cardini della porta.
    All'inizio penso che sia stato il vento. Poi, però, nel bar entra una figura piccola e secca. Indossa abiti pesanti che sembrano zuppi.
    «Mi dai una gassosa?» chiede, ancora prima di raggiungere il bancone. È un bambino.
    Anche Jack pare sorpreso. O almeno così mi pare di capire dallo sguardo che mi lancia.
    Intanto il piccolo con un balzo sale sulla sedia al bancone, che è più alta di lui. Poi la sua bocca si corruga e il suo naso si raggrinzisce quando osserva la sporcizia sul tavolo. Jack è lì imbambolato che lo osserva.
    «Mi dai una gassosa?» ripete il bambino. A osservarlo meglio, mi rendo conto che è zuppo. Sulle mani e sul piccolo squarcio di collo visibile la pelle è avvizzita. I capelli neri sono attaccati alla fronte e le scarpe sono sporche di una poltiglia fangosa. Sembra appena sfuggito a un temporale, ma fuori non piove.
    «Sì... sì, subito» balbetta Jack. S'inginocchia, afferra una bottiglia di vetro e la riversa in un bicchiere. «Ecco».
    «Grazie!»
    Il bambino inizia a succhiare grossi sorsi dalla cannuccia e accompagna ogni sorsata con un sospiro. Una fitta lancinante mi trafigge il cervello e mi viene quasi da urlare.
    «Che ci fai qui a quest'ora?» chiede Jack. Sulla sua fronte nascono rughe che conosco bene: è dubbioso.
    «Mi andava una gassos» dice il bambino, alzando le spalle.
    «E i tuoi genitori?»
    Il ragazzo tace, continuando a sorseggiare dalla cannuccia. Delle gocce d'acqua gli colano lungo tutto il corpo. Ne osservo una che, dalla nuca, s'infila nella camicia e gli percorre la schiena. Il suo corpo si piega all'indietro e trema per un attimo.
    «Sono andati in vacanza qualche giorno fa. O forse era qualche settimana fa. Dicono che tornano presto». Guarda fisso Jack negli occhi.
    «E tu con chi stai?»
    «Con mio zio Marco. È venuto da un paese vicino per stare con me per qualche giorno». Il suo corpo resta immobile, il suo sguardo ancorato in quello di Jack.
    Passa qualche secondo. Jack piega il viso su un lato, il bambino fa lo stesso e sorride. Un'altra stilettata mi trapassa la testa.
    «Come ti chiami?» gli chiedo io.
    «Andrea». Non si volta: sembra divertirsi nel guardare gli occhi del mio amico. Poi dà un ultimo sorso alla gassosa e si accorge che è finita. «Me ne dai un'altra, per favore?»
    «Prima paghi, però».
    Andrea si porta una mano al mento. Poi però il suo viso s'illumina e lui inizia a frugarsi nelle tasche. «Ecco!» esclama, cacciando una moneta e agitandola in aria. La superficie argentea sembra coperta da una patina verdastra e traslucida.
    Jack l'afferra, aguzza la vista, se la rigira tra le mani. «Che razza di moneta è?»
    «Non lo so, ho solo questa io...»
    «Ale', vedi qua!» dice Jack e mi lancia la moneta. Io la prendo al volo.
    È viscida. Da vicino, quella patina verde sembra non esserci. E capisco cosa intendeva Jack: non è né in euro né in lire. Forse è di qualche paese straniero. La tengo in mano e inizio a giochicchiarci, mentre ascolto il proseguo del dialogo.
    «Non hai altri soldi, vero?» chiede Jack.
    «Ora no... però dopo può passare zio Marco a pagare». Il labbro di Andrea trema.
    «Non se ne parla».
    «Dai, Jack, dagliela. Gliela pago io» dico io.
    Jack mi guarda e sembra confuso. È più paonazzo di prima e i suoi peli sul mento stillano sudore. «Va bene, tieni...» dice, riempendo lo stesso bicchiere di prima.
    Il bambino si attacca di nuovo alla cannuccia. Una lama di luce s'intrufola nel bar e gli illumina un lato del viso.
    Mi prende un colpo al cuore. Una schiuma rosacea gli bolle sulla bocca. Aguzzo la vista, ma quella sembra rimanere. Ma forse è solo un gioco della luce che investe la pelle bagnata del ragazzo. Oppure sono io che sto iniziando a non vedere più come una volta, soprattutto dopo una notte insonne.
    «Zio Marco mi porta ogni sera al faro e mi fa conoscere i suoi amici».
    Io guardo Jack, con un dubbio che mi martella in testa: qui vicino il faro non funziona più. Anzi, non ha mai funzionato, da quel che ricordo io. Però il mio amico non ricambia lo sguardo e scruta Andrea.
    «C'è Paul che è grande e grosso» continua il bambino. «Ha le braccia che sono tentacoli e mi alza ogni volta per la caviglia e mi fa volare. Ha il viso tutto pieno di...» S'interrompe, abbassa lo sguardo e agita le mani, afferrando qualcosa nell'aria. «Tipo di brufoli, o di tagli. Non lo so».
    Che diavolo vuol dire?
    «Poi c'è Max. Lui invece è piccolo, ha le mani arancioni e sottili, ma se stringe fanno male. Ha anche gli occhi piccoli piccoli». Chiude le dita in un cerchio minuscolo e dice: «Così».
    «Conosco anche Ariel. Lei è rotonda e trasparente. Però ha il contorno nero e ruvido». Mentre parla, la sua guancia si contrae. Sale verso l'occhio e tutto il corpo del bambino si scuote. Poi si rilassa.
    Jack guarda ancora il bambino, reggendosi la testa con le mani. «Perché hanno questi nomi strani?»
    Io ridacchio, ma lui non distoglie lo sguardo dal bambino e piano piano si avvicina al suo naso. Ha la bocca serrata e il respiro affannato.
    «Perché...» Ticchetta le dita sul bancone, poi le pulisce sui pantaloni. «Non lo so, perché. Lo zio mi ha detto di chiamarli così. Tranne Ariel, quello me l'ha detto lei».
    «E dov'è ora, lo zio Marco?» chiede Jack.
    «A casa. Ora si sta riposando: è stato agitato tutto la notte».
    Mi accorgo che sto iniziando anch'io a sudare. Eppure sento ancora il freddo che mi morde le ossa. Mi asciugo qualche goccia con la manica della giacca.
    «E dove abita lo zio Marco?»
    «Lì, al faro! Però non passa tutto il tempo lì. Solo la notte, di solito. Poi va sott'acqua». Passa qualche secondo, poi Andrea contrae ancora il muscolo della guancia e si dà una botta sulla testa. «No, no, mi sono confuso. Non va sott'acqua. Lo zio Marco... lo zio Marco non sa nuotare». Per la prima volta distoglie lo sguardo da Jack.
    Mi pare di vivere in un sogno. Diavolo, vedo i contorni sbiaditi, e mi sembra tutto così folle. Perché quelle sono chiaramente le fantasie di un bambino, ma c'è qualcosa che non mi torna.
    È tutto bagnato.
    La cosa più strana è che Jack pare credergli. Non l'ho mai visto così pensieroso di recente.
    Andrea è tutto bagnato e ha piovuto tutta la notte.
    «E dove vivono questi tuoi amici?» chiede Jack.
    «Anche loro... no, non lo so. Li vedo sulla spiaggia e poi al faro, ma non so dove abitano».
    È tutto bagnato e ha piovuto tutta la notte. Ha le scarpe sporche. Prima pensavo fosse fango, ma forse è la sabbia che gli si è attaccata alle scarpe durante la tempesta.
    Però perché dovrebbe vivere al faro? Davvero i suoi genitori sono in vacanza o è tutto uno scherzo? Lo guardo fisso, mi sforzo, ma tutto finisce a quell'unica constatazione. L'emicrania mi sta mangiando. Ma ha davvero parlato dei suoi amici, poi? Credo di averlo sognato.
    Un'inquietudine strana, fredda come quella stanza, mi entra nel petto e me lo svuota. Per un attimo mi sento nudo.
    Il bambino dice: «È meglio se vado. Zio Marco si arrabbia, è già tanto che sono fuori». Poi salta giù dalla sedia e corre fuori.
    Quando la porta sbatte, sospinta dal vento, sento Jack che caccia un urlo. «Cazzo, sto diventando pazzo...» La sua voce è bassa, colma di rimpianto.
    «Che c'è?» gli chiedo.
    «Di cos'ha parlato, quel bambino? Perché, se ha parlato di amici di suo zio con dei nomi del cazzo, ho appena dato retta alle sue stronzate». Mentre parla si mette una mano in testa e si gratta i capelli grigi.
    Io rido, cercando di sollevarlo, ma lui non reagisce. «Dai, lascia stare. È solo fantasioso». Non ci credo del tutto.
    Passa qualche minuto. La mia inquietudine si dissolve e rimane solo il mal di testa. Dev'essere stata la confusione della notte insonne, e poi il bambino raccontava con una voce davvero seria. Non c'è da preoccuparsi. Però mi piacerebbe sapere di più sulla vicenda.
    Anche Jack sembra tranquillizzarsi. Si prepara anche lui un caffè: non lo fa quasi mai.
    Io continuo a leggere il giornale per conto mio.
    Cent'anni fa il mistero del battello Ferrandi.
    Il mio sguardo scorre velocemente sulle parole. Man mano i ricordi affiorano e una fastidiosa sensazione di familiarità mi confonde.
    E a un certo punto lo sguardo si fa infestato di mille puntini bianchi. No, devo aver letto male.
    Sbatto gli occhi e riprendo la lettura.
    I corpi del piccolo Andrea Ferrandi, figlio dei due coniugi, e del fratello del signor Ferrandi, Marco Ferrandi, proprietario del faro poi lasciato abbandonato in seguito alla vicenda, non furono mai ritrovati.
    Stringo forte i pugni e la moneta che ho nella mano mi incide la pelle. Ecco, la moneta! Devo controllare una cosa. La metto sul tavolo e la esamino.
    Una morsa mi stritola il cuore. Per un attimo il mio sguardo si fa di nuovo confuso e sono costretto a ricontrollare: ho letto bene. La nausea mi stritola tutto e mi sento cadere nel vuoto.
    Al centro della moneta c'è un semibusto maschile. Tutt'attorno, una scritta circolare: Vittorio Emanvele III Re D'Italia - 1917.

    Edited by Tommas02 - 22/6/2017, 12:17
  4. .
    Armando camminava verso la fermata del bus, inghiottito da una folla di suoi coetanei. Trascinava le gambe dietro il busto esile e i capelli neri e appiattiti, appena mossi dal vento, gli solleticavano la fronte. Procedeva a testa bassa, perché il sole di fronte a lui scagliava raggi abbaglianti nei suoi occhi e gli dava fastidio, quindi trasalì quando una mano si posò sulla sua spalla.
    Era un poliziotto. Lo riconobbe da quella divisa blu che Armando adorava. Basso, dai lineamenti morbidi, i capelli castani tagliati corti. «Ragazzo, seguimi un attimo». La sua voce era impostata, ma allegra. Quindi si mosse verso il marciapiede opposto, dove non c'erano tanti ragazzi e la strada era più larga.
    Armando sentì un liquido rancido risalirgli nello stomaco. Non aveva fatto nulla di male e lo sapeva, e poi il poliziotto non sembrava arrabbiato. Però si fermò a pensarci e faticò a tenere il passo dell'agente davanti a lui. Alla fine lo raggiunse, col fiato spezzato.
    «Eccoci qua» disse il poliziotto, abbassandosi sulle ginocchia. Ora che i loro visi erano vicini, Armando riconobbe l'essenza del dopobarba di suo papà. «Come ti chiami?»
    «Armando» rispose lui, tremante.
    «Oh, non aver paura. Io mi chiamo Alessandro. Dammi anche del tu». Gli tese la mano e Armando la strinse forte.
    «Quanti anni hai?»
    «Tredici, quasi».
    «Davvero? Sembri più grande!» disse l'agente, ridendo, e anche Armando rise, con un po' d'imbarazzo.
    «Mi sembri un ragazzo intelligente. Ti va di darci una mano?»
    Armando annuì.
    L'agente si grattò il mento liscio per un attimo, pensoso. Poi disse: «Hai sentito parlare della Blue Whale?»
    Armando annuì di nuovo. Nel mentre, percepì un groppo che si formava in gola, come se stesse facendo qualcosa di proibito. Perché glielo chiedeva? Forse qualche suo amico era finito nei casini? Anche se non parlava quasi mai con i suoi compagni di classe, gli sembrava fosse tutto a posto, quindi non credeva che riguardasse loro.
    «Bene. Quindi sai anche come funziona, giusto?»
    «Sì».
    «Meglio così. Però, prima di chiederti aiuto, devo dirti che questa è una cosa per ragazzi forti. Non preoccuparti, non c'è nessun pericolo, ma non vogliamo femminucce. Tu sei forte, Armando?» chiese, con un giocoso sorriso di sfida.
    «Certo».
    «Allora ci puoi aiutare. Come saprai, ci sono degli uomini che influenzano e ricattano questi bambini. Noi vogliamo arrestare questi uomini prima che contattino altri bambini. Ed è qui che c'è bisogno di te».
    Armando tese le orecchie, Alessandro continuò: «Devi contattare uno di questi uomini. Così noi riusciamo a scoprire chi è e da dove scrive e possiamo trovarlo. Te lo chiedo di nuovo: te la senti? Sei forte?»
    «Certo» ripeté Armando. Lui non era debole, no, per niente.
    «Allora possiamo continuare. Ti spiego bene come fare». Alessandro parlò per qualche minuto e Armando fece attenzione a non perdersi neanche una parola. Poi l'agente ripeté per essere sicuro che il ragazzo avesse capito. Alla fine, prima di congedarsi, si scambiarono i numeri di telefono per tenersi in contatto. «Mi raccomando, non dire nulla ai tuoi genitori, altrimenti si preoccupano per una cosa innocua. Al massimo glielo dici dopo, quando l'avremo arrestato: sarai il loro eroe» disse Alessandro. Sul viso di Armando si allargò un sorriso orgoglioso.
    Si salutarono e solo allora il ragazzo s'accorse che il bus era arrivato. Si affrettò per non perderlo e riuscì a salirci per un pelo, di nuovo col fiatone.
    Pensò per tutto il viaggio alle parole dell'agente. Si sentiva felice perché gli era stato assegnato quel compito e già immaginava il momento in cui Alessandro avrebbe arrestato quell'uomo. Non aveva paura, perché lui l'aveva rassicurato. E in fondo, quali rischi ci potevano essere? Nessuno, lo sapeva. Continuò a fantasticare, e questo bastava ad aumentargli il battito. Si ripeté in mente le parole dell'agente, a stamparle per non farle fuggire. Dopo mezz'ora, il bus si fermò e lui quasi non s'accorse che era arrivato a casa. Tutti i ragazzi erano già scesi e sul mezzo non restavano che lui e una vecchia zingara. Balzò giù, facendo il giro più largo per evitarla.

    Abitava in una villa in campagna. Era distante qualche chilometro dal primo centro abitato, ma per i suoi genitori non era un problema: vivevano tra la casa e l'ospedale, che era lì vicino. Lui invece passava tutto il tempo lì, tra computer e studio.
    Varcò il largo cancello verdastro. A separarlo dalla casa c'era un vecchio orto, ora contaminato di erbacce e arbusti selvatici. Camminò alzando le ginocchia, perché, con l'erba che gli arrivava alle ginocchia, temeva che qualcosa potesse spuntarvi da un momento all'altro a divorargli le gambe. Passò affianco alla piscina. Sul pelo dell'acqua affioravano cadaveri galleggianti di vari insetti. Aprì la porta ed entrò in casa, abbandonando lo zaino nell'atrio.
    A quell'ora non c'era nessuno. I suoi genitori erano a lavoro e la casa era fredda e umida. Salì al primo piano, dove c'era la cucina, e accese la stufa. Poi al secondo si cambiò i vestiti e al terzo andò in bagno. Lì s'affacciò sul balcone: c'era un panorama spettacolare. Il grano dorato che si stendeva per chilometri, le vigne e gli uliveti dei loro vicini, un fiumiciattolo che si arrampicava sulla collina. Se abbassava lo sguardo, però, vedeva la carcassa di un trattore arrugginito e mucchi di fieno sporco, quindi si godeva solo ciò che era lontano. E poi soffriva di vertigini e al terzo piano erano parecchi i metri da terra.
    Scese in cucina e mangiò velocemente. Aveva lo stomaco chiuso per l'emozione e lasciò il piatto di pasta riscaldato quasi pieno. Quindi corse in camera sua, dove si buttò sul letto e accese il portatile.
    Riepilogò ancora le indicazioni che gli aveva dato Alessandro. Non ce n'era bisogno: ormai le conosceva a memoria. Poi iniziò a navigare su internet, scorrendo velocemente le chat con i suoi contatti virtuali per godersi ancora un po' l'attesa.
    Quando ne ebbe abbastanza, iniziò con le operazioni. Prima però stese una lista di ciò che doveva fare su un foglio, perché non voleva dimenticarsene, magari perché troppo preso da quell'impresa.
    Impostò la navigazione in incognito e si iscrisse a VKontakte. C'erano solo messaggi in inglese e in altre lingue strane che non capiva, ma Alessandro gli aveva detto che era normale. Poi scrisse anche lui un messaggio: #f57. Era quello che avrebbe attirato il curatore. Adesso, ricordò, c'era solo da aspettare. Quindi ripose il portatile sulla scrivania, lasciandolo acceso, e restò a fantasticare sul letto. Poi pensò di informarsi meglio su quello che stava facendo - aveva già sentito qualcosa in TV, ma non era abbastanza - e cercò "Blue Whale" su Google. Lesse vari articoli, ma gli parve subito una cosa stupida e dopo poco lasciò perdere. Poi decise di mettersi a studiare, nonostante non riuscisse a concentrarsi. Rimase sul libro di storia per un paio di ore, con i concetti non gli entravano in testa e la voglia matta di andare avanti in quell'avventura.
    D'un tratto il computer emise un trillo. Armando sentì il cuore balzargli in gola e si girò di scatto. Era una notifica su VKontakte.
    Buonasera, Armando. Sono il tuo curatore.
    Buonasera.
    La sfida inizia domani. Da domani dovrai fare tutto quello che ti dico. Vediamo se riesci a vincere.
    Ce la farò.
    Vedremo. Lasciami il tuo numero di telefono. Ti scrivo lì.
    Va bene.

    Cosa fare, adesso? Pensò di comunicare il tutto ad Alessandro, che gli aveva lasciato il numero, ma decise di aspettare. Si vergognava e voleva fosse lui a contattarlo per primo.
    Nel frattempo, gli arrivò un messaggio su Whatsapp.
    Prima sfida: inciditi sulla mano "f57" con il rasoio e mandami la foto. L'utente che l'aveva inviato non aveva una foto profilo e il suo numero era nascosto. Armando scrisse il messaggio da mandare ad Alessandro, lo rilesse e corresse qualche passaggio. Al momento di inviarlo, però, ebbe un'incertezza e cancellò tutto. In fondo aveva ancora un giorno intero.
    I suoi genitori tornarono a casa. Cenarono insieme e Armando mangiò di nuovo poco. Gli chiesero se fosse successo qualcosa, lui disse di no e loro non insistettero. Andò a letto e non riuscì a dormire fino all'una di notte, pensieroso sul da farsi e con una strana sensazione di vuoto che non riusciva a definire.

    La mattina si svegliò distrutto. Guardandosi allo specchio, notò due grosse borse sotto gli occhi e i capelli ancora più piatti del solito. Andò a scuola e trascorse la giornata in un limbo di pensieri, la noia che coltivava i suoi dubbi. A un certo punto credette che quei pensieri gli avrebbero graffiato il cervello come cocci di vetro spaccati e immaginò la scena, con lo stridore freddo e il sangue che sgorgava dalla polpa giallastra.
    Poi le cinque ore terminarono. Camminando verso la fermata della circolare, cercò con lo sguardo Alessandro, credendo di scorgere il suo viso in quello di ogni passante. Forse s'era messo in una situazione più grande di lui, si disse, ma non c'era da preoccuparsi: avrebbe retto il tutto senza problemi. Non aveva nessuno con cui parlarne, e questo gli dispiaceva, perché non se la sentiva di raccontare i suoi problemi ai suoi contatti virtuali.
    Tornato a casa, mangiò tanto, pur senza grande appetito. Avvertiva una voragine spalancata nello stomaco. Poi salì in camera, si mise a studiare controllando nervosamente il telefono.
    Il messaggio arrivò poco dopo le quattro. Mandami la foto entro le ventidue.
    Doveva scrivere ad Alessandro. E di fretta: altrimenti avrebbero perso quell'uomo. Non poteva permetterlo. Pensò a come formulare quel messaggio, sostituendo parole e virgole, obiettando ogni volta. E se Alessandro si fosse dimenticato di lui? Era possibile, altrimenti sarebbe stato lui a scrivergli per prima. Avrebbe fatto la figura dello scemo. Non riuscì ad inviarlo e si rassegnò alla sconfitta.
    Alle nove di sera, però, il curatore gli scrisse ancora: Manca un'ora, ci sei?
    Armando non rispose. Però, dopo dieci minuti, gli arrivò un altro messaggio: Ah, il solito codardo. Sapevo ti saresti arreso.
    Poi, ancora: Hai perso, ragazzo.
    Anzi: hai perso, bambino.
    Eppure pensavo fossi forte.

    Era troppo. Armando sentì il cuore stringersi, come sconfitto da quelle parole: non poteva dargliela vinta. Però ormai era troppo tardi per scrivere ad Alessandro: mancavano solo dieci minuti alle dieci. A quell'ora, il curatore avrebbe fatto perdere le sue tracce. Ci rimuginò per quel poco tempo che aveva, senza trovare una soluzione. Si maledisse per non essersi deciso prima e arrossì per la vergogna. Sentiva il cuore affondargli in un liquido denso, viscoso, e la sconfitta privarlo della sua dignità.
    Quando l'orologio segnava le nove e cinquantasette, prese una decisione. Corse in bagno, prese la lametta per la barba di suo padre. S'incise quella scritta sulla pelle. #f57. Gli fece male, ma quel sangue che scorreva lo liberò dall'ansia che lo stava opprimendo. E poi l'arresto del curatore avrebbe ripagato quel poco dolore che provava.

    Edited by DamaXion - 9/7/2017, 15:19
  5. .
    So che è abbastanza lunga. Dovrei dividerla in due parti?



    «Padre, la cercano. Nella 104». A parlare, riconobbe Don Andrea prima di voltarsi, era stato un giovane cameriere con il viso pieno di foruncoli. Si chiamava anche lui Andrea, se non ricordava male. Il cappellano attese pochi secondi, poi, sentendo ancora alle proprie spalle il respiro del giovane, rispose: «Va bene, cinque minuti e arrivo». Quindi aspettò che quello attraversasse il ponte di passeggiata della crociera e scomparisse in qualche scomparto interno della nave.
    Respirò a pieni polmoni l'aria salmastra. Era buio e solo ogni tanto dai piani superiori, insieme a quella fastidiosa musica da discoteca, arrivava qualche fascio di luce colorata. Il prete sospirò. Sapeva di cosa si trattava. Gliel'avevano comunicato poco più di un'ora prima: un passeggero si stava sentendo male. Febbre alta, sputava sangue dalla bocca. Ogni tanto, gli avevano detto, cominciava a raccontare storie strane, insensate. Il medico di bordo non aveva saputo individuare la causa del male e il comandante aveva detto che sarebbero arrivati sulla terraferma solo la mattina dopo. Troppo tardi, probabilmente, si era detto Don Andrea, pur non avendo alcuna conoscenza medica: l'aveva intuito quando, mentre il capitano diceva che non sarebbero mai riusciti ad attraccare quella sera, il medico aveva abbassato lo sguardo.
    Non capitava quasi mai che un passeggero morisse sulla nave. Da quando il mare era diventato tutto ciò che i suoi occhi potevano sopportare, era successo solo due volte. Quando, vent'anni prima, una donna era scivolata nella doccia e si era fracassata il cranio, l'onere dell'estrema unzione era toccato a un altro cappellano. Cinque anni prima, invece, lui ci aveva provato con un malato terminale, il cui ultimo desiderio era stato quello di trascorrere gli ultimi giorni sul mare. Quello aveva rifiutato il sacramento. Don Andrea ricordava ancora il volto di quell'uomo e la sua rassegnazione beata, ma incrinata negli occhi da qualche inquietudine ignota. Era per quello che la morte lo spaventava così tanto.
    Si concesse ancora qualche secondo appoggiato al parapetto. I raggi candidi della luna annegavano nell'abisso dell'oceano. C'era alta marea e le onde facevano ballare la nave, tanto che il religioso dovette reggersi alle sbarre per non scivolare all'indietro. In lontananza, l'intermittenza di un faro. Chiuse gli occhi e si godette ancora per qualche attimo quell'armonia. Sospirò ancora, poi si voltò e s'incamminò sul ponte. Andò verso l'ascensore. La 104. Primo piano. Mentre la macchina lo portava giù, s'aggiustò il colletto della tunica e distese qualche piega che s'era formata sulla veste. Poi le porte si aprirono e lui si diresse verso la stanza. La porta era socchiusa e l'altro cappellano, don Gianni, appoggiato al muro di fronte, faceva da guardia. Non che ce ne fosse bisogno: a quell'ora tutti dormivano o spendevano i propri soldi al bar o al casinò ai piani superiori.
    «Come sta?» mormorò don Andrea.
    L'altro alzò le spalle, come a scusarsi. Poi aggiunse: «Ancora non capiscono cos'ha».
    Don Andrea annuì. Quindi, deciso che entrare di colpo sarebbe sembrato indiscreto, bussò, nonostante la porta aperta. Una voce strozzata gli rispose: «Avanti».
    Era una stanza singola. C'era solo un letto attaccato alla parete più vicina, un piccolo scrittoio e una finestra rotonda, da cui non entrava che poca luce fioca. Per il resto la stanza era buia, se non per una piccola lampadina poggiata sulla scrivania, che emetteva un bagliore sporco e tremulo. Il malato era a letto e sull'unica sedia di legno, spossato, sedeva il dottore.
    «Allora?» chiese don Andrea al dottore, convinto che l'ammalato fosse in stato d'incoscienza.
    «Padre, è lei? Devo parlarle» rispose invece quello, con una voce che era un filo fragile. Il medico, nel frattempo, fece un cenno chiaro. Sta per andare.
    «Certo, certo. Come ti chiami?» chiese il prete.
    «Oliver. Oliver Ferri».
    Don Andrea annuì, poi estrasse dalla tasca della tunica la boccetta che serviva per l'unzione.
    «Dottore, può restare fuori per un po'?» chiese il malato.
    Il medico parve un po' preso alla sprovvista, poi tentò di abbozzare una protesta: «Guardi, in realtà... potrebbero esserci delle complicazioni, quindi...»
    «Non si preoccupi, la chiamerò io se serve. Tanto è una cosa da pochi minuti» intervenne il cappellano, aprendo il suo libro delle preghiere. Era buio e non riusciva a leggere bene le pagine.
    Il medico si guardò attorno, cercò una frase per ribattere, poi abbandonò la stanza in silenzio.
    Don Andrea guardò il malato. Aveva gli occhi infossati e circondati da un alone nero e i lineamenti aguzzi. La sua immagine si rifletteva sul muro in legno e la violenza delle onde la deformava, disegnando una successione di figure macabre.
    «Puoi togliere quelle cose? Non è per questo che ti ho fatto chiamare» disse Oliver. La sua voce ora era più ferma e il prete pensò per un attimo che quella storia della malattia sconosciuta fosse tutta una stronzata. Poi però il malato tossì per quasi un minuto e il suo viso si fece tutto rosso. Quando si riprese, disse: «Scusa se sono diretto, ma mi sto rendendo conto che il tempo stringe. E la storia che devo raccontarti è abbastanza lunga».
    Il cappellano, con un po' d'imbarazzo, mise da parte gli strumenti per l'unzione. «Dimmi, di cosa si tratta?»
    Quello non fece caso alla domanda e continuò: «Ho voluto parlarne con te perché gli altri non ci credevano. Ho accennato qualcosa, ma mi zittivano, mi prendevano per pazzo». Attese qualche secondo, poi un piccolo sorriso si formò sulle sue labbra: «Lo sono davvero? Chissà. Forse tu puoi credermi. Forse sei l'unico su questa nave che può farlo». Poi Oliver ebbe un altro accesso di tosse e chiese a don Andrea di portargli un bicchiere d'acqua. Il prete ne riempì due: uno per il malato e uno per se stesso. Sentiva la gola ardere.
    Il malato scolò l'intero bicchiere in un sorso, poi lo lasciò sul comodino affianco a lui. Quello traballò, il vetro riflesse la luce della lampadina. «È una storia che... che inizia quando ero bambino. Sai, Ferri non è il mio vero cognome. Quello non lo conosco, o forse adesso non lo ricordo più. Comunque, sono stato adottato. I miei genitori, quelli veri, sono morti quando io ero piccolo. Un incendio che si è mangiato tutto il palazzo dove vivevo. Sono morti tutti gli abitanti e anche qualche persona che passava lì sotto».
    Ci fu qualche secondo di silenzio, poi Oliver disse una sola frase: «Sai, il fuoco è bastardo». Sembrava un pensiero slegato dal resto del discorso. Don Andrea guardò il malato e non riuscì a capire se i suoi occhi fossero immersi in una riflessione profonda o se invece si stessero vuotando di ogni vitalità.
    «Sono stato l'unico che si è salvato. I pompieri hanno scavato e hanno trovato il mio corpo dopo non so quante ore dall'inizio dell'incendio. Non ebbi neanche un'ustione, una bruciatura, almeno per quello che mi hanno raccontato anni dopo. Il bambino del miracolo, mi chiamavano.
    «Non posso ricordare quell'incendio, ovviamente. Ma lo conosco, l'ho visto mille volte nella mia testa, posso replicare a memoria tutti i particolari. Non avevo mai visto le facce dei miei genitori fino a qualche anno fa, ma le avrei potute disegnare lineamento per lineamento, ruga per ruga. Ho visto mille volte il terrore sulle facce dei miei mentre le fiamme li carbonizzavano».
    Il racconto di quell'uomo era così vivido. Anche don Andrea, nell'ascoltare, vide davanti a sé quello scenario. Si sentì scottare da quel fuoco, poi un brivido freddo gli percorse le spalle.
    «I miei genitori adottivi non mi hanno mai fatto vedere foto dei miei veri genitori. Non so perché, forse non volevano ferirmi. E anch'io, fino a pochi anni fa, ho evitato quelle immagini. Te l'ho detto, le conoscevo già, ma speravo che quei volti fossero solo quelli che la mia mente immaginava. Avevo paura. Poi qualche anno fa mi sono fatto coraggio e ho cercato nei cassetti della mia vecchia casa delle foto dei miei veri genitori. Le ho trovate.
    «Erano così come li vedevo nel mio incubo. Certo, non avevano quella smorfia terrificata sul viso, ma erano loro».
    «Sei sicuro di non aver mai visto quelle foto prima di allora? Magari di sfuggita, quando eri piccolo?» lo interruppe don Andrea. Non era convintissimo, ma quella gli sembrava l'unica soluzione ragionevole al problema.
    «Fanno tutti la stessa domanda» sussurrò Oliver con un sorriso amaro. «No, non le ho mai viste, ne sono sicuro. Ma anche se fosse... Conoscevo anche il viso del pompiere che mi ha salvato. Ho fatto ricerche anche su quello. Coincide».
    Don Andrea era interdetto. Stentava a credere a quella storia, ma qualcosa di oscuro e pesante, ancorato alla base del suo petto, non gli permetteva di bollarla come l'ultima follia di un moribondo. «Forse...» azzardò, ma quello subito lo interruppe.
    «E nel sogno c'è anche un suono. È un orologio a pendolo che batte le undici e mezza. E sai i giornali a che ora riportano l'accaduto?»
    Don Andrea tacque. La risposta non era necessaria. Intanto l'acqua nel suo bicchiere era finita e approfittò di un momento in cui il malato riprendeva fiato per riempire entrambi i bicchieri.
    «So che non ci credi, anch'io mi rendo conto che è assurdo. Però ascoltami, fino alla fine della storia. È importante». Il prete annuì, e intanto sentiva quel peso che gli si era attaccato al petto farsi più pesante.
    «Un giorno, quando avevo sette o otto anni, ero a scuola, e vidi una fiammella comparire sulla faccia della mia maestra. Era piccola, bluastra, dai contorni malvagi. Ora non so cosa vuol dire "malvagia", ma i bambini certe cose le intuiscono. Glielo dissi, ma lei rise. E lo dissi anche ai miei genitori: risero anche loro. Però il giorno dopo la fiammella c'era ancora, e il giro dopo ancora anche. Durò per un po'. E sai qual era la cosa più strana? La fiammella cresceva. Alla fine era diventato un fuoco enorme. Potevo sentire il calore che emanava, ascoltare il suo scoppiettio.
    «Poi la maestra scomparve. Doveva fare un servizio, ci dissero. Poi inventarono che si era trasferita. Al suo posto venne una supplente temporanea, ma i mesi passarono, finì l'anno scolastico e al ritorno a scuola la maestra non c'era ancora. Era morta, l'avevo letto sui manifesti funebri attaccati a qualche centinaia di metri dalla scuola».
    Oliver tacque. Forse voleva studiare la reazione del prete. Don Andrea, intanto, si alzò per aprire la finestra. La stanza sembrava all'improvviso essersi fatta più stretta e gli mancava l'aria.
    «A quattordici anni fu la volta di mia nonna. Non quella vera, quella adottiva. Quando la vidi la fiamma era già abbastanza grande e calda. Quella volta lo capii subito, ma non ebbi il coraggio di dirlo a nessuno. Per qualche motivo avevo intuito che non c'era più nulla da fare. Morì tre mesi dopo per un cancro rapidissimo che ora non ricordo.
    «Poi a ventun anni vidi quella fiamma sul viso di mia madre. Quella volta glielo dissi: "Perché non ti fai qualche controllo? Ti vedo poco bene". Lo fece. Le trovarono le arterie ostruite. Ancora qualche mese e avrebbe avuto un infarto. L'avevo salvata, ma lei iniziò a guardarmi in modo strano. Era diffidente, mi evitava, cercava di non toccarmi. Spingeva perché me ne andassi di casa. Come se fossi un mostro. Aveva intuito qualcosa, forse aveva ricordato quella fiamma sul viso della maestra di cui le avevo parlato anni prima. Non lo so».
    Don Andrea aveva la testa che strabordava domande. Innanzitutto, perché stava dando conto a quella storia? Erano tutte stronzate, era ovvio. Però lo stavano inquietando e sentiva una vena sulla fronte pulsare nervosamente. Riempì ancora il bicchiere: aveva le labbra secche.
    Intanto Oliver s'era fermato. Respirava con la bocca aperta e il suo ansito era rumoroso, frenetico.
    «Chiamo il dottore?» chiese il prete, allarmato.
    Quello tossì un poco, poi fece di no con la testa. Ancora qualche secondo e riprese: «A un certo punto decisi di restare in casa il più possibile. Perché, sai, in giro c'era troppa gente. E molti di quelli che incrociavo sarebbero morti a breve. Vedevo le fiamme sui loro visi, e non faceva differenza che fossero vecchi o giovani, io sapevo che di lì a poco sarebbero morti. Poi magari incontravo la stessa gente qualche giorno dopo e vedevo le fiamme che erano cresciute. Non potevo intervenire, mi avrebbero preso per pazzo. E proprio per questo faceva male. Scottava.
    «Poi, un anno dopo l'episodio con mia madre, mio padre morì in un incidente stradale. Ci avevo parlato pochi minuti prima che partisse per andare a lavorare e sul suo viso non avevo visto nessuna fiamma. Per questo quando me lo dissero pensai a uno scherzo. Poi credetti che quella maledizione fosse finalmente andata via, scomparsa, morta anche lei. Non era così: solo il giorno dopo rividi quella maledetta fiamma sulla faccia di un ragazzo che camminava per la strada».
    «Perché? Cioè, voglio dire, come mai con tuo padre non è successo?» chiese don Andrea. E solo allora si accorse che l'inquietudine era diventata paura. Aveva bisogno di altra acqua.
    «Non lo so. Ho pensato che forse... forse un incidente sfugge ai piani superiori, ecco. Non so come spiegarlo. O forse vedo queste fiamme solo quando ci sono delle malattie, ma non ne sono sicuro».
    A quel punto qualcuno da fuori bussò, e don Andrea, che era tutto immerso nella follia di quel racconto, trasalì. «Chi è?» urlò senza volerlo.
    Dalla porta s'affacciò la testa del medico. «Padre, non vorrei essere...»
    «Manca poco. Non ci interrompa».
    Quello tentennò, poi annuì e tornò a nascondersi oltre l'uscio.
    Voltandosi verso Oliver, don Andrea notò la condizione in cui riversava. Il sudore gli scendeva a fiotti dai capelli e il viso s'era fatto tutto rosso, come se quell'uomo stesse spendendo le ultime energie per attaccarsi alla vita e concludere il suo racconto. «Sicuro di non volere che il dottore...»
    «No, no, facciamo subito. Solo un po' d'acqua» mormorò il moribondo con voce strozzata. Il prete riempì ancora i bicchieri, Oliver bevve, poi riprese: «È stato uno strazio vivere così. Vedere la gente, sapere che la morte li avrebbe presto portati via in qualche modo. Avevo paura di me stesso, ho iniziato ad evitare gli specchi: temevo di vedere sul mio viso la stessa fiamma che incendiava le altre persone. Ho paura della morte perché non me la spiego, non so cosa c'è dopo. E se ci penso, se provo ad immaginare, vedo ancora delle fiamme, vedo il fuoco che continua a perseguitarmi. Già, le fiamme erano sul viso degli altri, ma a bruciarmi ero io.
    «Poi, ieri mattina ho cominciato a sentirmi male. Non è un dolore umano, questo lo so, e non lo dico per fare il valoroso. È semplicemente un male diverso. Dev'essere per questo che il dottore non capisce cos'è. Allora mi sono guardato allo specchio. La fiamma c'era ed era già enorme».
    Tacque. Don Andrea pensò di essere finalmente giunto alla fine del racconto. Ancora il terrore che gli intorpidiva i pensieri. Una vaga nausea gli aveva preso la gola.
    «Non l'ho chiamata per liberarmi, anche se averlo fatto mi fa sentire più leggero. L'ho chiamata per altro.
    «Non mi chieda perché, non lo so neanch'io. Ma credo che questa... questa cosa che mi ha rovinato la vita, quando morirò, si attaccherà a qualche altra persona. È una cosa che intuisco e credo di non sbagliarmi. Dev'essere una specie di demone, che ha deciso che è arrivata l'ora di liberarsi di me e di rovinare un altro». Ricominciò a tossire, il suo viso divenne bluastro. Nella penombra, don Andrea notò le vene che sembravano troppo gonfie anche per un moribondo. Poi prese a dimenarsi sul letto.
    «Il dottore... il dottore... Voglio un calmante» ebbe la forza di dire. Il prete corse fuori, il dottore si precipitò sui suoi strumenti, ma non c'era tempo. Oliver era morto.
    Dopo qualche minuto, don Andrea e l'altro cappellano, don Gianni, s'avviarono verso la loro stanza. Prima però, su richiesta di don Andrea, si fermarono sul ponte di passeggiata. Il prete si poggiò sul parapetto, poi controllò l'orologio. Era passata quasi un'ora e mezza. Il buio s'era fatto più fitto, ma le onde s'erano calmate. Nonostante ciò, il senso di nausea continuava a disturbargli la gola. Il vento ululava un lamento malinconico. Don Andrea fissò l'abisso nero sotto di lui, immaginò una fiamma che divampava con uno scoppio. Sbatté gli occhi e quando li riaprì c'era solo il mare. Tirò un respiro di sollievo — tutto frutto della sua immaginazione —, ma la paura non era scomparsa. Un religioso come lui non avrebbe dovuto credere alle follie di un moribondo, si disse. Per un attimo ci credette. Eppure... quella voce strozzata, ma lucida, che aveva narrato quella storia non poteva essere quella di un pazzo.
    «Allora? Che ti ha detto? L'estrema unzione non dura così tanto» chiese don Gianni, ridacchiando.
    «Oh, niente. I soliti deliri» si sforzò di sorridere don Andrea, mentre lottava per scacciare la convinzione che tutta quella storia fosse vera. Il buio non aiutava.
    Dopo ancora qualche minuto si ritirarono nella loro stanza. Si cambiarono e si misero a letto, ma don Andrea non dormì. La notte è terreno fertile per storie dell'assurdo. E quindi credeva di vedere quella fiammella bluastra e malvagia ovunque, intravedeva il viso di quell'uomo nelle ombre che si riflettevano nei muri, nelle pieghe che si formavano sul lenzuolo; quando, in seguito a una folata di vento, un'ombra svolazzò sulla parete, il prete credette che quel demone di cui parlava l'uomo fosse venuto ad impossessarsi della sua anima. Alla fine s'addormentò, ma il suo fu un sonno travagliato. Sognò prima un incendio, poi i volti dei suoi cari divorati da qualche fiamma immaginaria e folle.
    Quando si svegliò ancora non albeggiava. Tutto sudato, don Andrea scattò verso il bagno, inciampando su un gradino ed emettendo un urlo stridulo. Si guardò allo specchio. La sua immagine era pulita, limpida, senza nessuna fiamma. La cosa lo rassicurò.
    Tornando in stanza, realizzò che il suo urlo aveva svegliato il suo compagno.
    «Che succede?» disse don Gianni, sbadigliando.
    «No, niente, stai tranquillo. Torna a letto». Il tono di voce di don Andrea era allegro e scanzonato.
    Don Gianni annuì. Stava per rimettersi a letto con un altro sbadiglio, quando la sua bocca si bloccò, aperta e a mezz'aria.
    «Che c'è?» chiese don Andrea.
    «La tua faccia» disse don Gianni. «Sulla tua faccia c'è una fiamma».

    Edited by Tommas02 - 7/5/2017, 20:21
  6. .
    #10

    Si risvegliò furente. Per tutta la notte aveva sognato la libertà. Annusava l'aria fredda, saltava sui prati, rincorreva il sole. A fare da sottofondo c'era quel mugolio ininterrotto, che a Orazio pareva nient'altro che l'ululare selvaggio del vento. Ogni tanto quelle fantasticherie svanivano, inghiottite dalla bruma del suo sonno vacillante; subito però si ripresentavano, visioni nitide dai particolari definiti. Già viveva nei luoghi del suo sogno, sentiva la sua anima fluire in quelle atmosfere, spandersi nell'aria.
    Quando riaprì gli occhi c'erano la roccia e il silenzio. Sentì la collera montargli per tutto il corpo, la schiena fremette dal nervosismo. Si tirò su e poggiò la schiena al muro. Per un po' restò così, la delusione che albergava nel suo sguardo fisso a terra. La rabbia si spense, venne la rassegnazione. Non ne sarebbe mai uscito. Un groppo secco s'era aggrappato all'ingresso della sua gola. Aveva sete, ma se provava a ingoiare la sua saliva un dolore tremendo gli incendiava il collo, e le fiamme si diffondevano lungo tutto il corpo, attenuandosi man mano. Poi si scrollò di dosso l'intontimento del sonno. Aveva un fastidioso male agli occhi — doveva essere la luce — e le gambe bianchicce, che nel sonno dovevano essersi addormentate, ora stavano riprendendo colore. Il sangue che tornava a scorrere gli fece prurito. Tirò su l'orlo dei pantaloni per grattarsi. L'irritazione del giorno prima s'era ingrandita. Grosse croste s'aprivano lungo tutta la gamba; a collegarle, piccole screziature rossastre ramificate. L'eritema s'era allargato anche sul polpaccio, e ora, a guardarlo, maleodorante e così simile a una cancrena, trasmetteva un che di macabro. Il dottore aveva detto che si trattava di una cosa da nulla e Orazio si fidava, però la situazione non prometteva bene.
    Intanto, insieme alla mente, s'era risvegliato anche lo stomaco, che ora si ritorceva e grugniva. Da quanto tempo non mangiava? Erano usciti di lì proprio per la fame, ma prima l'eccitazione della scoperta di quella possibile via d'uscita, poi il nervosismo della prigione e della terra e infine la stanchezza per il lungo sforzo avevano acquietato i loro bisogni, che ora però si ripresentavano impetuosamente. Si stese su un lato, accartocciato su se stesso, cercando di soffocare ancora per qualche tempo quell'istinto. Provò ancora a mandar giù della saliva, ma ad ogni mandata lo stesso dolore tornava a lancinargli la gola. Tentò quindi la via del sonno. Gli parve d'addormentarsi sul serio, seppur di un sopore leggero e fragile. Stavolta non sognò: la fame gli spremeva ogni forza e anche il solo immaginare rendeva la sofferenza più viva. Nel mentre, tornò ad udire il mugolio di prima, che doveva essersi interrotto mentre Orazio era sveglio. Se prima la voce che lo emetteva aveva un'aria di vaga familiarità, ora non riusciva a riconoscerla. Quel guaito morbido si faceva sempre più fitto e acuto, come espressione incompiuta di un dolore indicibile. Divenne presto un gemito, poi un lamento continuo; a volte, non mancava di arrivare qualche urlo rauco. E allora Orazio riprovava quella sensazione di familiarità. Non riuscì comunque a concretizzare l'intuizione in un volto: provandoci, la fame tornava ad urlare. Quando poi fu sveglio del tutto, riconobbe quella voce. No, non si sbagliava, non c'erano dubbi.
    Tentò di tirarsi su e, aggrappandosi al muro e arrancando in cerca di un appiglio stabile, ci riuscì. Gli altri erano già in piedi e s'erano riuniti a circondare il malato. Solo un uomo era ancora addormentato a pochi metri di distanza dal gruppo. Orazio li raggiunse, gli altri gli fecero spazio.
    Era il tipo con lo sfregio. La barba incolta racchiudeva le smorfie esasperate che gli provocava quel dolore. Le labbra dischiuse, che esalavano quei gemiti sofferenti, lasciavano intravedere due incisivi sottili e giallastri. La cicatrice sulla guancia pulsava, pustole rosse gli calcavano la fronte, le vene del collo s'erano ingrossate. Orazio ebbe l'impressione che stessero per scoppiare, quasi trasportassero troppo sangue. Tutto il viso era paonazzo e tumefatto. Le braccia, abbandonate lungo i fianchi, di tanto in quanto si scuotevano per tutta la loro lunghezza; e quelle convulsioni che le percorrevano parevano ripercuotersi per tutto il corpo, già agitato dalla febbre.
    «Che ha?» chiese Orazio, guardando il medico.
    Quello abbassò lo sguardo, poi sussurrò: «Non lo so. Febbre, credo». Ma lo disse con un'intonazione che ricordava una domanda.
    Elsa teneva la mano al tipo con lo sfregio e lo fissava, cercando di scrutare forse oltre l'imperscrutabilità del suo dolore. Così calma, padrona delle proprie emozioni, nulla pareva avvicinarla a quella bambina volubile che aveva tremato di fronte alle ombre di un vicolo e s'era rallegrata per un pericolo scampato. Orazio si sentì orgoglioso di averla conosciuta, anche solo per qualche ora, nel suo animo più intimo e fragile. Il malato, mosso dai tremiti, stringeva forte le dita di Elsa. Le loro mani incrociate. Il bianco della morte, il rossore della vita. Orazio sentì qualcosa nel petto che veniva a mancare. Poi un continuo martellare lì dove c'era il vuoto. Voleva non pensarci, ma non ci riusciva. Sebbene si vergognasse al solo pensiero, la parola che descriveva quella lacuna gli rimbalzava in mente, prepotente. E giallastra, per qualche motivo. Gelosia. Aveva di fronte un moribondo e s'ingelosiva perché una donna che non amava gli teneva la mano! No, non poteva essere, si stava sbagliando! E continuò così, prima riconoscendo quel sentimento e la sua viltà, poi negando e cercando di dimostrare a se stesso che si trattava d'altro. Intanto, Elsa ogni tanto lo chiamava: «Giovanni, Giovanni...» E il febbricitante rispondeva sempre con una nuova convulsione, un'altra stretta a quella mano rosea.
    Dopo un po' i suoi tremiti si placarono. I lineamenti del viso s'erano distesi e rivelavano una placidità paradisiaca. Le vene ora segnavano appena il collo gracile per la fame. Il petto si sollevava e si riabbassava regolarmente. Persino la cicatrice pareva essersi calmata, incavata nella poca carne che rimaneva sulle gote di quell'uomo. L'unica cosa che segnasse la sua sofferenza era il pallidume di cui s'era dipinto il suo viso. Il bianco che gli avvolgeva il volto, smorzato ai lati solo da qualche chiazza rossastra che permaneva, gli conferiva l'aria di una morente statua di gesso.
    Mentre Elsa continuava a stargli vicino, notò Orazio, gli altri si discostavano piano dal malato, strisciando all'indietro sul pavimento. Orazio fece lo stesso senza volerlo. Poi prese a guardare il soffitto: voleva distrarsi.
    Negli ultimi minuti riprese lo strazio finale di quell'uomo. Tornò a tremare — e a stringere la mano di Elsa —, il volto si rifece rosso, tendente al bluastro. Le convulsioni adesso gli agitavano anche il petto, respirava con la bocca a grandi bocconi. Poi tornò calmo. Con l'altra mano graffiò il pavimento, che stridette. Il suo petto si sollevò per l'ultima volta, lui emise l'ultimo ansito dolente. Poi il suo capò si abbandonò sul collo, il busto parve collassare su se stesso. Dalla bocca semiaperta colava un filo di saliva. Il capannello che s'era formato prima si diradò. Elsa rimase lì, agli occhi due lacrime grosse che tremolavano, trattenute dalle ciglia lunghe.
    Negli sguardi che si scambiarono gli altri, Orazio notò qualcosa che andava oltre il sollievo per quel dolore che era terminato. Non ne fu sicuro, ma in quelle occhiate c'era un altro sentimento; qualcosa che, almeno vagamente, s'avvicinava alla felicità. Solo più tardi, rimuginandoci, capì anche il perché.

    #11

    Passarono minuti di silenzio plumbeo. Ogni tanto, qualcuno sospirava. Altri tossicchiavano, s'agitavano, strisciavano contro il muro. Erano gesti fatti di proposito: quella tranquillità era estenuante.
    Il corpo di Giovanni, abbandonato lì vicino al muro, sembrava già essere più piccolo, come se il soffio della morte l'avesse rattrappito. Per qualche motivo, pareva che la luce tetra della stanza confluisse verso di lui e s'infilasse nelle sue membra. Dove la carne si piegava per le rughe o per i tagli, la sua pelle era più scura e sembrava emanare un calore che non gli era mai appartenuto. Lì invece dove i lineamenti erano tesi — ai lati del collo, ad esempio, notò Orazio — la pelle si colorava di sfumature più pallide. Dalla posizione in cui si trovava Orazio, le braccia sembravano sproporzionate rispetto al resto del corpo e la tuta pareva ancora gonfiarsi, come mossa da un respiro che non viveva più. Dalla bocca semiaperta i denti gialli di fumo, come una lama fredda, riverberavano la luminosità del posto.
    Elsa s'era appena allontanata ed era tornata al suo angolo, con un'espressione come d'attesa. Lo sguardo fisso sul nulla, le mani nervose che tormentavano l'aria. Orazio tornò a guardarla, stando attento a non essere notato. Per un attimo il suo cranio rasato lo disorientò: era strano vederlo su una donna. Però riscontrava una certa armonia guardandole tutto il viso e non riusciva ad immaginarla con i capelli. Poi la sensazione morì e rimase a fissarla senza pensare, mordicchiandosi appena il labbro. Quando lei accennava un movimento, lui scattava all'indietro non solo con la testa, ma trascinando tutto il corpo, e si sentiva prendere da una stretta di vergogna al petto. Ma quelli di Elsa non erano nient'altro che tremori improvvisi, capelli mossi da qualche vento misterioso, lo sbatter d'occhi di un momento: se si muoveva, lo faceva per inerzia. O forse era Orazio ad immaginare tutto, pervaso da quell'ansia di essere scoperto che lo rendeva sospettoso per ogni cosa.
    Ecco che ritornava la fame. La sentì come un liquido freddo che gli percorreva lo stomaco. Allora, per evitare di contorcersi a terra per tentare di alleviare il dolore, si concentrò su Elsa, in cerca di qualche particolare che lo distraesse. Scoprì un neo sporgente, appena sotto l'occhio, che non aveva mai notato. Era piccolo, ma adesso, guardandole il viso conscio di quel dettaglio, gli pareva già diverso, se possibile ancor più grazioso. Notò poi che, pensando, si mordeva le guance dall'interno, e le si creavano due piccole fossette ai lati della bocca. Gli piacque anche quello. La vista di un altro neo sulla testa invece lo disturbò: non era abituato a vederne lì. Per qualche minuto quello studio acquietò la sua fame, ma poi quella tornò. Ormai dovevano essere giorni che non mangiava — anche se non poteva saperlo, in realtà —, ma non se ne preoccupava. Ormai non c'era motivo di farlo.
    Dopo un po' capì che a breve si sarebbero addormentati. Un primo torpore gli stava già intorpidendo i pensieri, sentiva i muscoli cedere alla forza del gas. Non poteva sentirne l'odore, ma era sicuro ci fosse. Anche gli altri si stavano abbandonando al sonno. Nel lento scivolare a terra, però, conservavano quell'espressione di beatitudine stampata sul viso. Orazio capiva il perché e provò un pizzico d'odio nei confronti di quei volti. In realtà — ma questo non osò ammetterlo — parte di quell'odio era rivolto a se stesso: anche lui, pensandoci adesso, colto da quella nebbia soporifera, si sentiva invadere dalla stessa vaga felicità. Subito però tornava a guardare il corpo esanime di Giovanni e rabbrividiva. Non poteva essere già diventato un mostro. Quindi tentava di pensare ad altro e tornava a riflettere sulla possibile via di fuga che aveva trovato. Presto però il sonno brumoso sopraffece la sua volontà e dormì del solito sonno ovattato.

    Per un attimo ebbe la forza di riaprire gli occhi. Aveva la testa bloccata, ma i suoi occhi ancora appannati riuscirono a trascinarsi per la stanza. Gli altri erano legati al muro. Pomi neri occupavano le loro bocche e impedivano loro di parlare. Anche Orazio doveva averne una, ma non la sentiva: forse il gas era troppo forte.
    All'ingresso della stanza c'era un uomo. L'unica cosa che Orazio riuscì a notare, perso in quella distesa di nebbia e confusione, fu la sua altezza. Sembrava troppo alto. Forse era solo un'illusione.
    Presto si riaddormentarono.

    Al risveglio loro erano liberi e l'uomo legato vicino all'ingresso della stanza. Aveva i capelli rossicci e adesso non pareva poi così alto. Gli occhi color nocciola persi in un mare di disperazione, mugolii strozzati sputati dalla bocca imbavagliata. Doveva essere giovane, pensò Orazio, ma magari s'ingannava. Lì dentro tutto annegava nel viscidume dell'invecchiamento e anche lui, adesso, doveva apparire molto più anziano di quanto non fosse quando c'era entrato. Intanto il ragazzo riprendeva man mano conoscenza. La fronte si corrugava dai dubbi, ma gli occhi continuavano a vagare nel nulla, morti in quella speranza che fosse tutto un sogno. Orazio tentò di immedesimarsi in quei dubbi. Cosa aveva pensato lui quando si era risvegliato lì? Non ricordò. Volle rievocare l'accenno di una qualche paura, l'ansia delle prime rincorse alla salvezza, la speranza di scoprire che era tutto un brutto sogno. Provò a rivivere anche uno solo di quei sentimenti. Nulla. C'era solo la fame. Quella era l'unica cosa che ricordava esistere anche prima.
    Gli altri erano già in piedi al centro della stanza. Confabulavano, Elsa al centro. Mentre si avvicinava, Orazio notò che il corpo di Giovanni era sparito.
    «Che facciamo?» diceva qualcuno con voce sommessa.
    Elsa guardava davanti a sé. Sembrava concentrata nel creare un contatto empatico con il nuovo arrivato, che però pareva non notarla nemmeno: troppo invischiato nel terrore per farlo. Gli altri tacevano ed evitavano anche di guardarsi.
    Nel frattempo, incominciò la voce: «Buongiorno, concorrenti. Come state oggi?» Si guardarono per qualche secondo, come se quel suono li avesse per un attimo risvegliati dalla placidità in cui erano riversati. Orazio sentì una scossa d'odio percorrergli il sangue, ma si trattava di qualcosa di debole: sentimenti consumati dalle grotte.
    «Oggi, come vedete, tra di voi c'è un nuovo compagno. Si chiama Marco, ha ventisette anni, lavora in un centro estetico». Quello sembrava non fare alcun caso alle parole della voce metallica e muoveva gli occhi in cerca della fonte di quel suono. Loro in tutto quel tempo non ci erano riusciti.
    «Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi, oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...» — un brivido di paura che stringe lo stomaco del nuovo arrivato — «oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...» Il ragazzo ora aveva gli occhi sbarrati sul gruppo dei prigionieri e, nonostante fosse riuscito in qualche modo a sfilarsi il bavaglio, aveva la bocca spalancata come incapace di emettere qualsiasi suono.
    «Liberiamolo subito» disse uno. Orazio ricordò la fame. Elsa annuì, quindi si avvicinò al ragazzo col coltello in mano. Orazio se l'era fatta sotto a quel punto, ricordò allora. Si ritenne patetico. Poi lei lo slegò e lui si alzò incerto, con un'espressione di gratitudine che gli si scioglieva sul viso. Elsa lo condusse al centro della stanza, dove c'erano gli altri. Quasi tutti però s'erano allontanati, quindi a presentarsi furono solo Orazio e altri due uomini. Anche loro si allontanarono ed Elsa restò un po' a chiacchierare con il nuovo arrivato.
    Orazio osservava da lontano le sue labbra che si muovevano. Cercava di leggerne il labiale o forse s'era solo incantato sulla forma di quelle colline rosse. Ogni tanto il ragazzo parlava un po' troppo forte e la sua voce si diffondeva per tutta la stanza, perdendosi negli strascichi dell'eco. Orazio capiva che quella ormai era una consuetudine: era lei che dava il benvenuto a chi arrivava lì. Però non poté fare a meno di provare la solita stretta al petto, l'ennesimo pezzo di carne che pareva venir meno. Si odiò per quello e tentò di pensare ad altro, ma oltre Elsa c'era solo la fame. A pancia vuota non riusciva nemmeno a pensare a quella via di fuga e d'altronde adesso, a diverse ore di distanza, tutto quello gli sembrava una follia. Doveva averlo immaginato, di sicuro. Forse era un inganno. Non poteva essere vero. Si decise per lasciar perdere per sempre quella storia e tornò a soffrire la fame.
    Poi però la gelosia si fece insopportabile. Decise d'avvicinarsi a loro due e intrufolarsi nella conversazione, sebbene non ne avesse alcuna voglia. Il tipo si presentò e parlò un po' di sé. Orazio finse di ascoltare. Quando Elsa parlava, notò, lo sguardo di Marco si faceva curioso come quello di un bambino; allora interveniva ancora, per spezzare l'interesse che albergava in quegli occhi. Appena lo faceva si sentiva un vile, un vigliacco. Però, ammetteva, quando lo sguardo di quello cambiava intonazione una parte dentro di lui sorrideva.
    Poi il sonno tornò. Orazio ne fu sollevato: al risveglio sarebbe andato tutto meglio. Non ebbe tempo di pensare che la rassegnazione alla sopravvivenza stava inghiottendo la speranza di scappare. Si lasciò cullare da quel gas e dormì bene come non faceva da tempo.

    L'odore che annusò al risveglio lo rese euforico. Per un attimo lo seguì con il naso e lasciò lavorare la sua immaginazione, ma subito scattò in piedi. Quando però s'accorse di essere il primo si fermò e aspettò che anche gli altri si svegliassero.
    Elsa, affianco a lui, era già sveglia, ma ancora sdraiata. Fissava il soffitto con le mani incrociate dietro la testa e sembrava consumata da un dubbio che non aveva senso di esistere, perché la soluzione era sempre la stessa. Allora Orazio si sedette accanto a lei e poggiò una mano sul suo ginocchio, iniziando ad accarezzarlo con calma. Era troppo magro e sarebbe riuscito a raccoglierlo nella stretta della sua mano. Lei si voltò e gli mostrò un sorriso forzato. «Non ho fame».
    «Qualcosa devi mangiare» suggerì Orazio.
    Lei scosse le spalle. Orazio non capì. «Dai, vieni» disse, tendendo una mano per tirarla su, ma si sentì ridicolo e subito la ritrasse. Lei però accettò la stretta e si fece trascinare, seppur con una certa riluttanza.
    Anche gli altri nel frattempo s'erano alzati. Alcuni già divoravano pezzi di carne. I soliti occhi famelici e rossi degli animali, le tute che s'imbrattavano d'olio. Per qualche momento la fame venne meno, ma poi tornò. Marco invece s'era appena svegliato e sembrava già riconoscere gli odori che lo circondavano. Dovette sbattere più volte gli occhi per mettere a fuoco l'ambiente e nel rialzarsi sbatté la testa contro il muro. Si sedettero insieme: Orazio da una parte, Marco dall'altra, Elsa al centro.
    Orazio all'inizio era riluttante. Certo, la fame era tanta, ma al solo pensare a chi apparteneva la carne che aveva davanti sentiva un liquido acido risalirgli per la gola. I suoi ansiti ruggenti in punto di morte gli rimbalzavano ancora nelle orecchie, ricordava lo scuotersi selvaggio del suo corpo alle strette del dolore. Ed Elsa, poi? Gli aveva tenuto la mano e aveva sussurrato il suo nome, tentando di calmarlo. Si sentiva male per lei. Però non potevano andare avanti così: dovevano mandar giù qualcosa. Quindi, piano, afferrando la carne con la punta delle dita per sporcarsi il meno possibile, iniziavano a mangiare. Non era malaccio, Tra un morso e l'altro Elsa lasciava trascorrere tanto tempo e s'allontanava dalla tavola, respirando a grandi bocconi quell'aria contaminata. Orazio invece ingurgitava il più veloce possibile per non aver tempo per pensare.
    Appena si sentì sazio s'allontanò dal tavolo e si rintanò nel suo angolo. Mentre si alzava, però, notò un particolare che fece sì che un brivido gelido gli percorresse la schiena. Sulla tovaglia, ad ogni posto, c'era il ritratto in miniatura di Giovanni. Lì sotto, apposta come una firma, c'era il suo nome. Quella, per qualche motivo, sembrava fosse proprio la firma di Giovanni e non un falso del loro padrone.
    La sensazione di avere lo stomaco pieno era soddisfacente e per qualche minuto godette di quell'intontimento tipico che si ha dopo le grandi mangiate. Poi però vennero i rimorsi. Come aveva potuto? L'altra volta non conosceva l'uomo che aveva mangiato, ma si era comunque ripromesso che non l'avrebbe mai fatto. E ora ci era cascato di nuovo, guidato dall'istinto come il peggiore degli animali. Certo, capiva che bisognava mangiare per continuare a vivere, però, se vivere gli costava quello strazio, tanto valeva morire! Così, preso da quest'avvilimento, sentì un grande bisogno di piangere. Trattenne per quanto riuscì, ma poi dovette sfogarsi. Prono, con la testa nascosta tra le braccia per non farsi notare. Sentiva però il corpo scuotersi ad ogni singhiozzo e quindi capiva che per gli altri non doveva essere difficile realizzare che stava piangendo.
    Alla fine gli tornò in mente la via di fuga. Ora più che mai gli sembrava una strada improbabile. Allo stesso tempo, però, era l'unico lume in una strada che altrimenti era troppo buia e cupa. Tanto valeva provarci, no? Provò ad organizzare mentalmente la fuga, ma uno smarrimento profondo gli ottenebrava il pensiero e la disperazione di prima, al notare che non riusciva a mettere in piedi nessun'idea valida, tornava a farsi sentire. Quindi si alzò, vacillando per un dolore all'anca appena provato. Si avvicinò ad Elsa. Sembrava smarrita quanto lui. «Devo parlarti» disse piano per non farsi sentire.
    «Dimmi».
    «Non qui. Nel sentiero».
    Lei lo guardò negli occhi, intuì che doveva trattarsi di una cosa seria, poi annuì.

    #12
    Mentre camminavano pensò a come raccontarle il tutto. Quali parole usare? Non voleva tradire la sua speranza, ma nemmeno svalorizzare quella scoperta. Era tanto assorto da quel pensiero che quasi non s'accorse che, percorsi quelli che dovevano essere cinquanta metri, Elsa s'era fermata e ora lo guardava dal basso, con un'espressione accigliata e viva. Lui aveva proseguito per qualche passo in più, quindi dovette tornare indietro.
    «Dimmi» disse lei.
    «Non rischiamo di essere ascoltati?» Non era davvero preoccupato: voleva solo qualche altro secondo per riflettere.
    «No, non credo. Però se vuoi andiamo ancora un po' avanti».
    Orazio annuì. Proseguirono, lui continuò a cercare le parole in qualche anfratto della sua mente. Fu ancora lei a fermarsi, e stavolta Orazio pensò di percepire una punta d'impazienza nel movimento dei suoi piedi che frenavano.
    «Allora?»
    «Bene, sì...» disse Orazio. Erano di fronte, vicinissimi. Orazio poteva percepire il respiro di Elsa che spirava lento; e lo sentiva avvolgente, il rivestimento di una seconda pelle. Era come se quel soffio, con il suo abbraccio, scandagliasse le sue emozioni, in cerca di qualche segno d'incertezza, di una speranza ridicola. Si sentì oppresso e accusò il bisogno di poggiarsi al muro alle sue spalle. Il cuore gli batteva forte come se qualcuno gli avesse davvero rubato un segreto. «L'altro giorno...» — esordì, e subito provò l'impulso di correggersi: i giorni lì non esistevano — «...no, ecco, l'altra volta, quando siamo andati di là per cercare il cibo, è successa una cosa».
    «Cioè?» Il viso di Elsa, con quella luce proveniente dal basso, era oscurato per metà. Della parte superiore spiccavano solo gli occhi verdi e splendidi.
    «Ricordi quando siamo arrivati alla fine dell'altra strada?»
    Elsa annuì.
    «Ci siamo un po' riposati. Eravamo seduti con la schiena alla parete, no? Mentre mi rialzavo ho sentito un rumore». Qualche secondo di silenzio. «Non vorrei sbagliarmi, ma credo fosse una parete di cartapesta».
    Elsa non sembrava stupita. Contratta, forse un po' spaventata. La sua voce ancora sicura, ma già incrinata da qualcosa, ebbe la forza di emettere una sola parola: «Quindi?» Poi il suo volto cambiò. Il corrucciarsi della fronte, un brivido fulmineo che le attraversò le spalle, il tremore pallido delle labbra: pareva che qualcosa di oscuro, fino ad allora inghiottito dagli abissi della sua coscienza, stesse riemergendo adesso, talmente vigoroso da sconvolgere l'aria. Non sembrava che il preludio di un temporale: quello doveva ancora scoppiare.
    Orazio ebbe paura. Non poteva capire tanto da quell'espressione, ma qualcosa intuiva. Non sapeva se continuare o meno con il suo racconto, ma prima di aver deciso Elsa parlò: «No, ti stai sbagliando». La sua voce era meccanica, ma rotta dal terrore.
    «Non credo. Io lavoro con la cartapesta e non potrei...»
    «No, ti stai sbagliando» ripeté lei.
    «Aspetta. Può darsi, ma voglio controllare».
    «Non c'è niente da controllare. Niente!» gridò. Poi, impaurita, sussurrò: «Ti prego, davvero, non c'è niente, stai sbagliando».
    Era evidente, agli occhi di Orazio, che Elsa non stesse lottando per distoglierlo dal suo proposito. La sua era una guerra contro sé stessa, contro quei fantasmi che solo allora poteva avvertire; combatteva per convincersi che davvero non c'era nulla da vedere.
    Poi Orazio parlò. Le disse di stare calma, ma senza grossa convinzione: era assorbito dal suo viso. Ora era bloccata, la bocca dischiusa, le membra pallide. Il respiro era irregolare, il petto s'alzava e s'abbassava senza sosta, come in preda a delle convulsioni. I ricordi continuavano a fluire, sempre più veloci, intuì Orazio. Tacque: non c'era nulla che potesse calmarla.
    Dopo qualche minuto lei s'accasciò a terra. Aveva lo sguardo distrutto e sembrava davvero di ritorno da una guerra. Il suo respiro però s'era fatto più calmo e il volto aveva ripreso colore. Orazio strisciò accanto a lei con cautela. Le poggiò una mano sulla spalla, udì il suo respiro strozzato. Passò del tempo. Ogni tanto un tremito le percuoteva il corpo, e allora anche Orazio si sentiva scombussolato. Freddo. E intanto lei mormorava: «È già successo, no, non è vero, è già successo...»
    Dopo un po' Elsa cominciò a parlare. Lo fece con una voce atona, che solo a tratti si rompeva, lasciando trasparire una parte di quel tormento.
    «È già successo. Non so come possa averlo dimenticato.
    «Era da un po' che ero qui. O almeno credo. Molti di quelli che c'erano allora sono morti. Qualcuno è ancora qui, ma non saprei dirti chi. Sembra tutto svanito, non esiste più nulla».
    Per qualche secondo si fermò, come se volesse rammendare i fili del suo pensiero. Poi proseguì: «C'era un ragazzo. Non ricordo come si chiamava, ne sono passati tanti qui. Mi chiese di andare in giro, qui, per cercare qualcosa da mangiare. Un po' come hai fatto tu e come fanno tutti, quando arrivano qui. È normale.
    «Ci andammo. Credo facemmo la stessa strada, gli stessi vicoli che abbiamo visto insieme. Ora non li ricordo: questi vicoli mi fanno troppa paura. E arrivammo alla fine dell'altro percorso».
    Qui si prese più tempo. Respirò a fondo. Orazio, guardandola, ebbe l'impressione che Elsa stesse cercando di convincersi per l'ultima volta che ciò che stava raccontando era solo uno scherzo dei suoi ricordi.
    «Mi disse la stessa cosa. Il rumore della cartapesta. Non volli crederci, ma in fondo ci speravo. Quindi ne parlammo tutti insieme e mettemmo su un piano per fuggire. Eravamo divertiti e ci scherzavamo su, come fosse una stronzata qualsiasi, ma ci speravamo tutti. Poi arrivò il gas e ci addormentammo, ripromettendoci che il giorno dopo ci avremmo provato.
    «Quando ci risvegliammo quel ragazzo non c'era. Anzi, non c'era mai stato: è sparito dalla memoria di tutti. Ricordo che al risveglio eravamo confusi, avevamo un forte mal di testa. Decidemmo che era colpa del gas. Solo adesso che tu hai ricacciato la stessa storia mi è tornato in mente. Deve averci stordito, o tolto la memoria. Qualcosa del genere».
    Elsa tacque. Pareva sfiancata da quel racconto. Orazio, immobilizzato, strinse forte i pugni. Aveva paura. Provò a riflettere, ma anche la sua mente pareva imbalsamata dal terrore. Dopo un po' disse: «E adesso?»
    «Non lo so. L'altra volta quel bastardo l'ha saputo, ma forse perché ne abbiamo parlato nella stanza ad alta voce». Non sembrava convinta.
    «Quindi secondo te non dovremmo dire niente agli altri?» Sebbene capisse che quella era la decisione più saggia, Orazio provò un po' di rimorso: se quel pezzo di merda aveva insabbiato quella storia un motivo c'era e gli dispiaceva non indagare fino in fondo.
    «Sì, almeno fino alla prossima volta che userà il gas. Poi decideremo». Orazio annuì.
    Non ebbero la forza di rialzarsi. Quando lui accennò un tentativo, Elsa disse: «Qui è tutto sorvegliato. Ci sono telecamere ovunque. Microfoni, registratori. Ci vede e ci sente sempre. Anche adesso». Orazio rabbrividì, poi si sentì in colpa. Se avesse lasciato perdere quella storia tutto questo non sarebbe successo. «Scusa» sussurrò, ma lei non sentì.
    «Come ti senti? Sei stanco?» chiese Elsa.
    «Non tanto». Non lo era per nulla: il panico soffocava ogni altro istinto.
    «Dobbiamo resistere al sonno. Se non dormiamo, non può venirci a prendere». Orazio pensò che fosse una follia, poi disse di sì. Non c'era altra strada.
    Tornarono nella stanza. Trascorse del tempo, loro tentarono di dissimulare le proprie paure chiacchierando con gli altri, ridendo alle proprie battute. Orazio notò che venivano osservati come se fossero una coppia d'innamorati di ritorno da un'imboscata e, imbarazzato, sentì il bisogno di giustificarsi: «Dovevo solo parlarle di una cosa».
    Poi il gas arrivò. Orazio era vigile, le orecchie dritte. Ne veniva della sua vita. Quel vapore, che nel frattempo prendeva anche una consistenza densa e lattiginosa, stroncava però ogni proposito. Graffiò con le unghie contro il pavimento e il suono che ne provenne gli causò un brivido freddo, che lo aiutò a resistere per un po'. Poi, quando quell'effetto fu svanito, prese a colpirsi sullo stomaco per provocarsi dolore. Era inutile: il sonno, malgrado la sua opposizione, continuava a penetrare nella sua mente e nei suoi muscoli. Per un po' fu tentato di arrendersi e lasciarsi andare prima al torpore, poi alla morte: in fondo stare lì dentro non era tanto meglio. La prospettiva quasi lo affascinò, ma quando immaginò il lento deperire delle sue membra la paura si ravvivò. Si rotolò a terra, batte la testa contro il pavimento, ma tutto ciò non faceva altro che sfiancarlo ancor di più. Poi, ormai quasi vinto, si graffiò la coscia. Il sangue che sgorgava lo tenne ancora un po' aggrappato alla veglia.
    D'un tratto cominciò ad udire un rumore. Era lontano e ancora smorzato dai rumori abituali di quella grotta, ma c'era. Non erano dei passi: era un frusciare metallico e estenuante. Si faceva sempre più vicino e Orazio sentiva il suo cuore aumentare i battiti. Provò caldo, scoprì una vena che pulsava ferocemente sulla fronte. Ora il sonno non c'era più: di nuovo il terrore. Il terrore e l'avanzata di quel fruscio inquietante. Poi, quando ormai doveva essere a pochi passi, il rumore s'arresto. Ci fu un breve schiocco e Orazio dovette reprimere un urlo che avrebbe rivelato il suo stato vigile. Poi il fruscio riprese, stavolta percorrendo il percorso inverso, e si perse nello stillare falso dell'acqua, nel vociare dei vicoli, nei pensieri che s'intorpidivano.
    Quell'ultima prova lo aveva sfiancato. Percepiva il pericolo ormai lontano e non aveva la forza di chiedersi nulla. S'abbandonò al sonno, con in mente non più di una punta d'ansia.
    Al risveglio era ancora lì. Fu un grande sollievo: nel sonno, aveva visto il candore esagerato di qualche ospedale. Poi si guardò intorno. A quel punto, pensava di svelare a tutti la sua scoperta e tentare finalmente la fuga. Però qualcosa non gli tornava.
    Gli altri si guardavano intorno, come smarriti. E solo allora Orazio realizzò tutto. Gli tornò in mente quel rumore udito nella sua sfiancante veglia e si maledì per non aver ipotizzato la sua provenienza. Prese a guardarsi intorno anche lui, ma svigorito, con il cuore già annegato nel pentimento e nella disperazione. Non trattenne due lacrime che gli rigarono le guance.
    Elsa era sparita.

    #13
    Provò a cercarla, con la consapevolezza che non l'avrebbe trovata. Nei vicoli che s'infilavano negli anfratti di quelle grotte trovò il silenzio per piangere. Idiota, stupido idiota! Come aveva fatto a non pensarci prima? Nella notte estenuante, con in mente solo la propria salvezza, non aveva neppure ipotizzato che il loro piantone cambiasse obiettivo. E quel rumore — che, adesso capiva, doveva essere quello di una macchina elettrica con un contenitore per il trasporto — non aveva insinuato in lui nemmeno il minimo dubbio. Probabilmente, si disse per rincuorarsi, anche se avesse capito cosa stesse succedendo non avrebbe potuto far nulla: sarebbe stato solo e tramortito dal gas soporifero contro quel bastardo eccitato dall'ennesima delle sue infamie. Ma l'idea non lo confortava. Si maledisse, desiderò esser morto.
    Trascorse del tempo. Orazio si asciugò le lacrime, ma queste continuavano a scendere copiose. Cosa fare adesso? Senza Elsa pareva aver perso la bussola. Il piano di fuga, che gli sembrava nitido anche nel torpore della notte, ora non aveva più nessun senso. Solo un ammasso di speranze e pensieri, vagheggiamenti e idiozie. Ci provava, a ricomporre i pezzi di quel puzzle, ma una nebbia dolorosa e grigia gli sporcava la ragione. E intanto i segni della lunga veglia cominciavano a farsi sentire. Quel gas sembrava essersi impadronito delle sue ossa e dei suoi muscoli. Un accenno di sonnolenza tornò a provocargli sbadigli; se prima c'era l'euforia della fuga a eccitarlo, ora che questa era sparita nulla prometteva di trattenerlo sveglio. Mai, da quando era cominciata quella prigionia, s'era sentito così perso. Chiuse gli occhi e, mezzo inghiottito dai sogni, finalmente la vide.
    Elsa era nuda e supina sul pavimento freddo. Il suo volto era una maschera di dolore sfregiata, il suo corpo un mosaico di pieghe e tagli. A metà della sua altezza, il busto si piegava innaturalmente verso un lato, come fosse spezzato in due. Allungava una mano verso di lui, strisciando le unghie contro la pietra, e mormorava con voce acuta: «Aiuto, aiuto».
    Quest'immagine bastò a terrorizzarlo. Provò a scattare in piedi, ma le sue gambe non ressero lo sforzo. Quindi, inginocchiato, infilò la testa fra le gambe per non vedere altro che il buio. Ma Elsa era proprio lì, nella zone d'ombra della sua mente, nell'oscurità in cui Orazio cercava riparo; e il suo ansito agonizzante si faceva sempre più lontano, la sua voce sempre più flebile e rotta. Cosa voleva dire quell'immagine? Solo un frutto della sua mente ormai fuori di giri? La ragione lo spingeva verso questa soluzione, ma lì dentro nulla era razionale. E se fosse stata una richiesta d'aiuto? Doveva cercarla e soccorrerla. Ma dov'era? Dove poteva averla portata?
    Provò a ragionare. Si sentiva più sveglio, quasi lucido. Decise che era ora di parlarne con gli altri e non si diede il tempo di cambiare idea. Uscì quindi dalla viuzza in cui s'era rintanato e tornò nello spiazzale centrale. Solo pochi erano però rimasti lì: gli altri, come lui, stavano cercando Elsa nei vari vicoli. Urlò per richiamarli e udì l'eco del suo grido rincorrersi per tutta quella strada.
    Dopo qualche minuto erano tutti riuniti. In sei, stavolta. Mancava la settima persona.
    «Non l'ho trovata» disse il medico.
    «Nemmeno io» continuò un altro. Gli altri annuirono, ma ad Orazio non interessava. Per lui era ovvio che non l'avrebbero trovata.
    «Devo parlarvi» esordì. «Non interrompetemi, se volete chiedermi qualcosa fatelo alla fine. Vi prego, è una cosa importantissima».
    Un sì generale.
    «Ieri io ed Elsa abbiamo parlato. Ve ne sarete accorti, sì». Si fermò per un attimo: non sapeva da dove cominciare. «Allora, so che è stata rapita. Fatemi spiegare.
    «Un po' di tempo fa siamo andati di là, in quei vicoli, a cercare da mangiare. È successo prima che Giovanni... be', prima che Giovanni morisse. E da quella parte, alla fine della strada, c'è un muro. Penso sia di cartapesta. Ieri l'ho detto ad Elsa e mi ha detto di aver ricordato una cosa.
    «Tempo fa, quando lei era appena arrivata qui, successe una cosa simile. Un ragazzo disse di aver sentito lo stesso rumore e loro si organizzarono per una fuga. Poi però si addormentarono, credo per il gas, e quando si risvegliarono quel ragazzo non c'era più e loro non ricordavano più nulla».
    «Io adesso qui sono il più anziano, ma non ricordo nulla del genere» disse un uomo. Sembrava perplesso.
    «Credo vi avesse fatto perdere la memoria o qualcosa del genere. Elsa l'ha ricordato solo quando io le ho raccontato ciò che avevo scoperto, magari tu non ricordi e basta. O forse non eri nemmeno qui quando è successo. Comunque avevo detto di non interrompermi, fatemi andare avanti.
    «Bene, vi dicevo, ieri per causa mia ha ricordato questa cosa. Era distrutta. Non volevamo parlarne con voi, perché speravamo che quello non ci avesse sentito. Non volevamo essere rapiti come quel ragazzo lì. Magari morire. Quando è arrivato il gas abbiamo provato a resistere, a non addormentarci. Non ci siamo riusciti. E non capisco perché abbia preso lei».
    «Senza di lei siamo persi» disse il medico. Nessuno ebbe la forza di ribattere.
    Orazio omise la parte in cui lui era sveglio ed Elsa veniva rapita sotto il suo naso: in un caso del genere meglio essere il più puliti possibile.
    «Non voglio crearvi false illusioni. Non so se questa via d'uscita sia vera o meno. Però vorrei almeno provarci. Non ci costa nulla».
    «Secondo me è una stronzata» disse il tipo allampanato con cui aveva parlato la prima volta. Com'è che si chiamava? «Voglio dire, non per te, ma se ci tiene qui perché dovrebbe lasciarci anche una possibilità di fuga?»
    «Magari si diverte così. Che ne sai, cosa passa nella mente di un pazzo» disse il medico. «E poi, se prima hanno rapito quel ragazzo e ora hanno rapito Elsa, forse ha paura che scappiamo, no?»
    «Quello non ha paura di niente» disse il tipo alto, con un deciso moto di ribrezzo.
    Discussero per un po'. Ognuno, restio alla speranza, cercava di dare vita a dubbi insensati. Poi si decisero per fare un tentativo. Si misero in marcia. Molti non ricordavano la strada, altri, al vedere le ombre, con quei sussurri indistinti e impazziti, rabbrividirono. Dopo poco giunsero di fronte a quello che doveva essere il muro di cartapesta. Nessuno si azzardò a tastarlo per verificare se non fosse di pietra come tutto il resto: temevano di spezzare quella già fragile speranza.
    «Allora, al mio tre corriamo verso il muro e proviamo a buttarlo giù. Nessuna esitazione, mi raccomando». Orazio attese una risposta che parve non arrivare. «Bene, andiamo. Uno...»
    «E se non è di cartapesta?» domandò qualcuno.
    «Al massimo prendiamo una bella botta e torniamo a dormire» disse Orazio, tentando di emettere una risata rassicurante. Era nervoso anche lui.
    Passò qualche secondo.
    «Se non c'è niente, da quella parte?»
    Orazio ci pensò per qualche attimo. Se la prospettiva lo scoraggiava, quella di finire intrappolato in una sorta di spazio vuoto lo inquietava di più. «Non pensiamoci adesso. Proviamo a buttare giù 'sto cazzo di muro e poi vediamo. Okay?»
    Silenzio. Poi un coro: «Okay».
    «Bene. Uno...», un respiro profondo.
    «...due...», gli occhi chiusi, l'immagine di Elsa agonizzante.
    «...e tre!»

    #14
    Ci fu un grosso schianto. Poi delle polveri che si sollevavano e turbinavano nell'aria.
    Si ritrovarono in un breve corridoio di pietra. Dalla fine della via arrivava qualche lama di luce opaca, che moriva dopo pochi metri, soffocata dal buio imperante. Bastava per orientarsi.
    «Che cazzo...» udì Orazio. Qualcuno tossì, per le polveri o per stupore. Lui iniziò ad avanzare cautamente e gli altri lo seguirono.
    Alla fine del corridoio gli si aprì davanti una stanza rettangolare, anche questa di pietra. Da un lato c'era una scrivania, con qualche schermo di computer, un portapenne quasi vuoto e una moleskine nera aperta. Dall'altro una porta. Dal vetro satinato penetrava poca luce soffusa e una macchia rossa sporcava il legno chiaro. Per il resto la stanza era vuota e il rumore dei loro respiri martellava le pareti pesante come ferro.
    Orazio pensò subito alla fuga. A separarlo dalla libertà c'era ormai solo quella porta logora e sporca; il bagliore tenue che lasciavano entrare quei vetri lo cullava di una speranza fino a pochi minuti prima insensata, assurda. E se fosse stata anche quella una trappola? La domanda gli scorse nella mente in un attimo, ma le sue gambe presero a tremare e dovette faticare per reggersi in piedi. L'idea che anche quella fosse un'illusione lo fece precipitare in un baratro nero e senza speranza. Non ora, si disse. Non così vicino.
    Provò a non pensarci, per il momento. Prima doveva trovare Elsa. Dove poteva essere? Se davvero oltre quella porta si celava un inganno — e ancora a quel prospetto il terrore lo invase — allora Elsa poteva essere imprigionata lì. Stavolta a balenargli in testa fu l'idea che lei fosse morta. Si morse il labbro per non piangere, alzò la testa, chiuse gli occhi e inspirò per due volte. Non volle voltarsi verso gli altri per nascondere la propria ansia. Camminava su un filo che separava la salvezza dalla distruzione.
    Solo allora qualcuno dietro di lui parlò: «Cerchiamo Elsa, poi andiamo via. Sempre se quella lì è davvero...» Non terminò la frase, ma dalla voce che si spezzava Orazio intuì che anche in quell'uomo s'era insinuato lo stesso dubbio, che ora scavava solchi d'incertezza nei loro cervelli stanchi.
    «Dove può essere?» chiese Orazio.
    Silenzio. «E se fosse... se fosse morta?»
    Dovette ancora trattenersi dallo scoppiare in lacrime. «Non lo possiamo sapere» disse, udendo l'incrinatura della propria voce «per ora cerchiamola».
    «Sì. Ma dove? Qui non c'è, e lì c'è solo una porta. Non credo l'abbia lasciata scappare». Stavolta a parlare, riconobbe Orazio dalla voce, era stato il medico.
    Allora un terrore più grande s'impadronì della mente di Orazio. «Chi?» urlò, mentre sentiva il ritmo dei suoi battiti che aumentava.
    «Come chi? Elsa!»
    «Ma no! Chi l'ha lasciata scappare? Chi è che ci teneva chiusi qui? E ora dove cazzo è?» gridò ancora, voltandosi verso il resto del gruppo.
    Nessuno parlò. Si scambiarono sguardi, tutti, e Orazio intuì che nelle loro menti stava sgusciando lo stesso pensiero: scappiamo, prima che quello torni e ci faccia fuori tutti.
    Ci fu qualche attimo di silenzio.
    «Elsa... non sappiamo nemmeno se è viva. E dove cercarla, poi?» disse un uomo.
    «Forse è fuori, è riuscita a scappare da sola, forse...» balbettò il tipo allampanato, e intanto continuava con ipotesi strampalate.
    Orazio sospirò. Avevano ragione, non aveva senso restare lì. Però non riusciva a lasciarla sola, pur in quell'impossibilità di cercarla, anche nell'angosciosa probabilità che Elsa fosse già morta. Alzò gli occhi al soffitto. E allora decise.
    «Aspettate. Non sappiamo che ora è, forse lui sta dormendo. E credo che questa qui sia una specie di cantina... non lo so, almeno credo. Quindi qui sopra dovrebbe esserci una casa. Appena sentiamo uno scricchiolio, un rumore, scappiamo. Prima però proviamo a cercarla».
    «Ma dove la cerchiamo? Non c'è nessun posto in cui farlo!» protestò qualcuno.
    «Vi chiedo dieci minuti. Non di più. Poi andate via. Ma prima proviamoci, almeno». Implorò, ma riconosceva come quella dei compagni fosse la scelta più logica. Un pensiero troppo forte gli martellava nella testa: Elsa è morta, vai via prima di fare la stessa fine. Ma qualcosa lo tratteneva: un residuo di speranza insensata che pulsava nel cuore.
    Dopo qualche attimo di silenzio, il medico mormorò: «No, io non me la sento. Vado via». Abbassò la testa.
    «Anche io. Scusate» disse un altro. E piano anche gli altri s'accodarono.
    «Tu che fai?»
    «Io resto... almeno per un po'. Poi vi raggiungo fuori» disse Orazio, forzando un sorriso. Poi li osservò mentre, con un pizzico d'esitazione, scomparivano oltre la porta, chiedendosi se quella fosse davvero una via d'uscita o l'ennesima trappola, stavolta mortale.
    Precipitò in una sorta di stato d'ebetudine, ma durò poco. La paura allarmava tutti i suoi sensi. Si costrinse a pensare, ma, anche sforzandosi, non riusciva ad ipotizzare niente. Allora, preso da un vago senso di nausea, si avvicinò alla scrivania, ci girò intorno e si sedette sulla polverosa sedia di pelle lì vicino.
    Gli schermi mostravano ogni parte delle grotte che fino a pochi minuti prima lo imprigionavano. Di Elsa nessuna traccia. Sebbene fosse ovvio, Orazio accusò una stretta al petto, come di una morsa che gli attanagliava il cuore. La prima speranza che moriva. Dubitava che ci fossero altre soluzioni.
    Il silenzio era inquietante. Enfatizzava ogni rumore, e il respiro diventava uno scricchiolio, la saliva che scorreva nella gola somigliava al picchiare degli stivali sul pavimento. Cominciò a tremare. Poi, disperato, afferrò la moleskine e iniziò a leggere la pagina lasciata aperta.
    Erano poche righe scritte in modo disordinato. Le lettere strabordavano oltre i margini e diverse sbavature macchiavano il foglio. A uno degli angoli s'era seccato un filo di saliva. Orazio iniziò a leggere.
    Mi hanno scoperto, è colpa sua, del capo, la uccido quella zoccola, e prima deve soffrire. Non so come risolvere.
    Poi, qualche riga più sotto:
    Corro, devo correre, lei è di giù, morirà nel frattempo, solo così posso salvarmi.
    Leggendo Orazio accusò un giramento di testa. Lei è di giù. Giù dove? Erano già giù! E allora, se Elsa non era lì, lui era già tornato a prenderla...
    S'immobilizzò. Aveva sentito un rumore. Cos'era? Attese qualche secondo, ma nulla. Doveva averlo immaginato. Tornò alle sue ipotesi. Decise che no, non poteva essere tornato. Quel bastardo era venuto a prenderla nel sonno, ma appena svegli loro s'erano avviati verso quel muro di cartapesta. Il tutto doveva essersi svolto nel giro di qualche ora, calcolò. Nel frattempo, lui dov'era andato?
    La mancanza di qualsiasi soluzione lo sconfortava, l'incedere dei secondi lo inquietava. Lanciò forte la moleskine contro la parete e attese un'intuizione che non arrivò. Tra poco, decise, anche lui sarebbe andato via.
    D'un tratto, mentre lui s'alzava e la sedia rispondeva con un cigolio, udì un altro rumore. Tacque. Una miccia di speranza scoppiò dentro di lui.
    Era un urlo. All'inizio gli parve secco e insensato; poi, però, ascoltando bene, capì cosa quella voce stava urlando. Aiuto.
    Da dove veniva? Non lo capiva. Quindi si avvicinò al muro e iniziò a strisciare per tutta la stanza, l'orecchio poggiato alla parete, sperando che quel grido non s'interrompesse. In una porzione, scoprì, l'urlo si sentiva più forte. Tastò quella parte di muro. Ancora cartapesta. Respirò a fondo, diede qualche botta forte.
    Il muro venne giù e davanti gli si parò una rampa di scalini piccoli e ripidi. Senza darsi il tempo per pensare, iniziò a correre, rischiando di ruzzolare giù da un momento all'altro. Poi, però, a pochi pioli dalla fine della rampa, s'arrestò. Forse quel pazzo era lì dietro e quelle grida avevano lo scopo di attirarlo. O magari stava violentando Elsa. Quel pensiero, più della paura di morire, lo fece desistere dal finire quel percorso. Non voleva assistere, gli avrebbe fatto troppo male.
    Le urla però continuavano a straziarlo nel profondo. La riconosceva, era la voce di Elsa, seppur deformata dal dolore. Doveva andare, provare a salvarla. Anche a costo della propria vita. Con un balzò scavalcò gli ultimi tre gradini, poi girò l'angolo.
    Elsa era nuda, legata supina allo schienale di un letto. La prima cosa che notò Orazio, dalla sua posizione, fu la sporgenza delle ossa. Poi venne il resto.
    Il letto era impregnato di sangue, le lenzuola tinteggiate di un rosso scuro e profondo. Elsa scalciava e si contorceva, come picchiata da tutti i lati dai pugni di un dolore indicibile. Pareva nemmeno essersi accorta dell'ingresso di Orazio nella stanza e, scoprì lui percorrendo con lo sguardo il corpo di lei, non poteva averlo fatto. Due aghi grossi, stillanti di sangue, le infilzavano le palpebre e le chiudevano gli occhi. Lungo le guance le colavano rivoli di sangue misti a lacrime e una scia di sangue coagulato le arrivava fino al collo.
    «Elsa! Elsa!» gridò Orazio. Ebbe l'impulso di scoppiare a piangere, poi di scappare. Desiderò morire. Si gettò ai piedi del letto, continuando a ripetere quel nome: «Elsa, Elsa!». Non sapeva cosa fare. Toglierle quegli aghi dagli occhi? Non le avrebbe provocato ulteriore dolore? Notò però che buona parte del sangue che impregnava le lenzuola era vecchio e secco. La cosa non bastava a rassicurarlo, ma forse non era tutto perduto.
    Poi, mentre pensava al da farsi e quando Elsa aveva finalmente finito di urlare, udì uno schiocco secco. Il suo cuore si bloccò per un attimo.
    Pochi secondi. Ancora quel rumore. Proveniva da sopra.
    Le chiavi che giravano nella toppa.

    #15
    Quando il rumore metallico delle chiavi s'interruppe, Orazio udì i cardini della porta che cigolavano. Poi qualcuno che parlava. Elsa singhiozzava, quindi lui non riusciva a distinguere le parole, ma poteva riconoscere una voce maschile. Subito però quel suono si bloccò.
    Il bastardo doveva aver scoperto i muri di cartapesta venuti giù. Orazio non ebbe paura. Sapeva che la prima cosa che avrebbe fatto quel pazzo sarebbe stato controllare la stanza in cui si trovavano lui ed Elsa. Ammetteva che, con il suo stupido indugio, non solo non era riuscito a salvare Elsa, ma aveva anche messo la firma sulla propria condanna a morte — e ripensava a questa situazione con non più di un pizzico di rimpianto. Però non gli riusciva di aver paura: solo sconforto e rabbia. La morte gli sembrava ancora qualcosa di lontano.
    Dopo qualche secondo la voce riprese a parlare. Stavolta, ascoltò Orazio, era un borbottio confuso e basso. Tese l'orecchio per ascoltare, ma non ne ebbe il tempo: qualcosa lo fece ritrarre.
    Passi pesanti che calpestavano le scale. Dovette sentirli anche Elsa, che iniziò a urlare, ma in quel momento le orecchie di Orazio erano come otturate. Gli parve che tutta la stanza stesse iniziando a tremare, lasciando venir giù un pulviscolo grigio e spesso. E allora la paura arrivò. La sentì come qualcosa di liquido che, prima intrappolato nel suo cuore, ora iniziava a fluire nelle vene, mischiandosi al sangue e al rimpianto.
    Poi dalla rampa di scale spuntò un uomo. Era basso, aveva un viso paffuto su cui si stendeva una barba irregolare. Orazio, che era ancora inginocchiato al letto di Elsa, si ritrasse e iniziò a tremare. Dietro all'uomo comparvero altre due sagome più alte, che Orazio non riuscì a guardare in faccia per il buio che li circondava. Elsa cessò di urlare.
    "Sono loro quelli che mi hanno imprigionato". La frase gli passò per la mente e poi svanì nella sua banalità.
    «Sono loro! È quello il rumore che sentivo!» urlò quello più basso, infervorato. Aveva le guance arrossate e la fronte sudata.
    Gli altri due si scambiarono uno sguardo. Poi spinsero quello al centro verso il muro alla loro sinistra. L'uomo urlò e cercò di dimenarsi, i due alle sue spalle lo bloccarono contro il muro. Solo allora che un primo fascio di luce li raggiungeva Orazio riconobbe la loro uniforme.
    Erano carabinieri.

    «Vai a chiamare un'ambulanza» aveva detto poco dopo l'ammanettamento uno dei due agenti all'altro. Orazio, nel frattempo, trascorse quel tempo accanto ad Elsa, tenendole la mano. Ogni tanto, quando lei mugolava di dolore, lui sussurrava: «Stanno arrivando, resisti», ma senza grande convinzione. Aveva paura che sarebbe stato troppo tardi e avvertiva i minuti scorrere sempre più lentamente. E poi quando lei si lamentava parte di quel dolore diventava anche suo: non vedeva l'ora che finisse.
    Ciò che era appena accaduto l'aveva lasciato inebetito. Ancora non voleva crederci. Temeva anzi che, da un momento all'altro, quelli che si erano presentati come i loro salvatori poi si rivelassero assassini. E se quella fosse stata l'ultima tortura, l'illusione finale? Non era un pensiero così folle, in fondo. Intanto però i due carabinieri avevano portato via quel bastardo. Orazio già non ricordava più la sua immagine. Era basso, quello sì. Forse grasso, ma non poteva dirlo con sicurezza. Il resto si confondeva in un groviglio di incertezza e rancore.
    Alla fine l'ambulanza arrivò. Orazio salì al piano superiore e i medici iniziarono con le manovre di primo soccorso. Poi portarono Elsa su in barella, non senza difficoltà: la scalinata era stretta e ripida.
    «Come sta? È grave?» chiese Orazio al primo medico che si trovò davanti. Era un uomo anziano, dai capelli bianchi e splendenti.
    Quello alzò le spalle, poi disse: «Andrà tutto bene». Orazio però non si rassicurò. Gli era parso di percepire, in quella voce, un tono strano, accondiscendente. Era una bugia, si disse, e tornò ad aver paura, questa volta per le sorti di Elsa.
    In un momento in cui i due agenti sembravano distratti, raccolse da terra la moleskine nera e la infilò nei pantaloni. Non aveva un motivo preciso per farlo, e subito ebbe paura di essere scoperto. Però non poteva più rimetterlo a posto: i carabinieri ora gli stavano facendo domande sulla sua prigionia. Dovette anche stare attento ai suoi movimenti, perché il taccuino minacciava di scivolare lungo le gambe. Non poteva permetterlo.
    Dalla sua chiacchierata con gli agenti, apprese che quel fenomeno di sparizioni aveva mobilitato l'intera città. Erano già passati otto mesi dalla prima, ma solo ultimamente, con le scomparse che divenivano più numerose, il mistero s'era infittito e s'era ipotizzato un collegamento.
    «Come siete riusciti a scappare di là?» chiese uno dei due, ancora quello più esperto. Aveva i capelli neri tagliati corti, un viso duro e inespressivo, ma sembrava gentile.
    «Il muro che abbiamo tirato giù era di cartapesta» rispose Orazio.
    «Sì, abbiamo visto. Ma come l'avete scoperto? Mi sembra strano che lo siate venuti a scoprire dopo tutto questo tempo».
    «Noi... in pratica dormivano dall'altra parte della grotta, non venivamo mai da questa parte. È stato per caso».
    «E gli altri prigionieri che fine hanno fatto?» chiese ancora quello.
    «Sono scappati poco prima che arrivaste voi. Io sono rimasto perché volevo cercare Elsa, cioè, la donna che c'era di sotto».
    Quello, in piedi contro il muro, trascrisse tutto su un foglio di un blocco note. Poi chiese: «E quanti eravate?»
    «Sette».
    Dopo qualche secondo l'altro agente, il più giovane, fece notare: «Ma noi contiamo quasi venti sparizioni».
    «Io non ero qui da molto... però so che molti sono morti. Siamo sempre stati sette lì dentro. Quando qualcuno moriva quello lì subito lo rimpiazzava».
    L'agente più anziano annuì, poi disse: «E ancora non sappiamo se tutte le sparizioni sono realmente legate a questo caso. Probabilmente no».
    Passato qualche minuto, fu Orazio a chiedere: «Come l'avete scoperto?» Li aveva visti entrare in quel sotterraneo al seguito di quel pazzo e solo dopo arrestarlo. La dinamica non gli era chiara.
    «Si è praticamente consegnato. Stanotte è venuto in caserma e ci ha detto che dei ladri gli stavano entrando in casa. Noi siamo venuti qui e vi abbiamo trovato» rispose il più giovane.
    «Pensiamo che avesse capito che voi stavate progettando la fuga. Abbiamo visto le telecamere e i microfoni, quindi se ne avete parlato tra di voi lui l'ha saputo sicuramente. Aveva paura, perché voi eravate sette e lui era solo: pensava che sareste comunque riusciti a scappare e avreste denunciato. Quindi è venuto da noi e ha inventato questa scusa dei ladri, perché voleva far passare voi come gli intrusi in questa cantina».
    Orazio lo guardò perplesso. Decise di tacere.
    Quello però intuì il suo scetticismo e ammise: «Lo sappiamo, è una follia. Ma è l'unica cosa sensata che possa averlo portato a consegnarsi nelle nostre mani. Non credo si fosse pentito».
    Passò del tempo. Poi un altro agente, appena arrivato, gli disse: «Vieni, ti riaccompagnamo a casa». Orazio s'incamminò verso la porta. C'era un piccolo scalino da scavalcare, poi l'aria aperta.
    Chiuse gli occhi, arrancò nel buio, ma riuscì ad uscire. Mantenne ancora qualche attimo gli occhi chiusi. Un vento fresco gli fece rizzare i peli. Aprì gli occhi.
    Di fronte a lui albeggiava. Un rossore tenue si diffondeva lungo una pianura verde e gialla e i primi raggi del mattino gli lambivano il viso. Un insetto gli svolazzò sul viso, poggiandosi per un attimo sul naso. Lo scacciò con la mano. I vapori della rugiada che si scioglieva si mischiavano all'odore dell'erba.
    Camminò su un sentiero stretto di terra, affiancato da arbusti ed erbacce. Era ripido e cedevole, e il carabiniere dovette aiutare Orazio, che non sarebbe mai riuscito a risalire con le proprie forze. Foglie morte scricchiolavano sotto i suoi piedi. Udì anche il fruscio di un fiume che scorreva. Chissà se era quello che stillava in quella grotta?
    Svoltò un angolo e si riscoprì in aperta campagna. Di fronte a lui c'era una volante dei carabinieri. Vi s'incamminò. Poi, prima di entrarci, si girò e guardò la casa di quel bastardo che l'aveva imprigionato.

    #16
    «Dice che qualcuno l'ha costretto a consegnarsi alle forze dell'ordine, ma non sa dire chi». Gliel'aveva detto un agente di polizia pochi giorni dopo il rientro a casa, ma da allora erano passate quasi due settimane e quella frase continuava a rimbombargli in testa. Qualcosa gli diceva che l'uomo che avevano arrestato non mentiva. Era assurdo, ma Orazio pensava davvero che qualcuno l'avesse costretto. In che modo? Non lo sapeva.
    Ritornare alla vita quotidiana era risultato difficile. C'era stata la gioia per aver ritrovato sua moglie, ma era durata poco: era subito ripiombato in uno stato d'inermità. E Marina l'aveva capito. Cercava di aiutarlo, di dargli conforto, ma lui era distante, assorbito da pensieri lontani e da tenebre fitte.
    Lei non lo sapeva, ma Orazio era convinto che quello lì non fosse il vero rapitore. E non perché l'agente gli aveva riportato quelle parole: c'era altro. Quel pensiero gli stava rodendo il cervello.
    Ricordava l'ombra che aveva visto nella grotta quando quel pazzo era venuto a prendere Elsa. Era alta e secca. L'uomo che avevano arrestato era basso e grasso. Potevano essere le luci ad aver allungato il riflesso di quell'uomo, ma Orazio ne dubitava: la differenza era troppa. Certo — si diceva —, quell'uomo poteva aver pagato qualcuno per svolgere quell'ultima mansione, o magari lavorava in coppia, ma nessuna delle due ipotesi lo convinceva.
    Aveva anche visto il video in cui lui veniva rapito. Non ricordava nulla di quei momenti, ma questo gli aveva solo fatto più impressione: l'idea di aver perso per strada quel ricordo lo faceva sentire sbandato. Anche da quelle immagini, comunque, si notava come il rapitore fosse di parecchi centimetri più alto di Orazio, che a sua volta era poco più slanciato del presunto colpevole. In più, il video era stato girato dalle telecamere di sicurezza di una farmacia. La stessa farmacia in cui lavorava l'arrestato. La cosa fece solo acuire i suoi sospetti: un uomo che aveva organizzato tutta quella storia della grotta non poteva essere così ingenuo da smascherarsi nel posto in cui lavorava. E più ci pensava, più le sue convinzioni si ferravano: quello che avevano arrestato non era il vero colpevole. Restava solo da capire se fosse un complice che stava rinnegando il compagno nel momento di crisi o solo l'ennesima vittima di quell'assurda vicenda.
    E poi c'era la moleskine. L'aveva rubata dalla cantina sotto gli occhi degli agenti e subito se n'era pentito. Però il desiderio di leggerla era stato troppo grande. E aveva fatto una scoperta ancora più inquietante.
    Aveva già letto l'ultima pagina in quella cantina, quindi s'era concentrato sul resto. C'erano le fasi del progetto di quella follia — Orazio scoprì che l'idea iniziale era quella di alternare un maschio e una femmina, ma poi per qualche motivo il programma era cambiato —, l'identikit di ogni prigioniero con una fotografia allegata e alcuni disegni che parevano scollegati dal resto. Però, dovette ammettere Orazio, aveva una bella mano. Scriveva in modo ordinato, rispettando i righi, senza sbavature. Ed era freddo, spaventoso per quant'era scientifico. Alcune frasi gli erano rimaste in mente, incastonate forse per sempre. Erano secche e facevano venire i brividi.
    Ormai la ragazza la lascio lì. Sono tanti uomini, magari la stuprano.
    Processo di cottura della carne umana.

    Ma la cosa che spaventava Orazio non era questa. La mano che aveva scritto l'ultima pagina di quell'agenda era diversa da quella che ne aveva scritto le prime pagine. Mentre in quelle iniziali la scrittura era precisa e maniacale, nell'ultima era impaurita. La mano che aveva scritto quelle parole era tremula. Certo, poteva essere che il rapitore, preso dalla paura, avesse scritto quelle ultime pagine in fretta, con chissà quale piano in mente. Ma Orazio ci aveva pensato ed era assurdo. Scrivere ordinatamente anche quella pagina sarebbe costato solo qualche secondo in più e lui avrebbe avuto comunque il tempo di andare dai carabinieri. E poi Orazio aveva trovato la moleskine aperta sul tavolo, e solo dopo gli era chiaro perché fosse lì: chi ce l'aveva messa voleva che qualcuno la leggesse. Perché? Orazio aveva due opzioni: o per volersi vantare all'estremo di quella follia oppure per sviare chi l'avesse trovata. Però, mentre la sua testa si arrovellava sulle ipotesi, lui riconosceva come in quella storia ci fossero troppi punti di domanda, infinite questioni irrisolvibili. Non sarebbe mai stato in grado di affermare ciò che pensava. Nel frattempo, aveva consegnato il taccuino alla polizia, perché verificasse se le due scritture fossero davvero diverse.
    C'era un'altra cosa. Nessuno gliene aveva più parlato, ma ricordava cosa aveva detto l'agente più anziano l'altra volta. Pensavano che il rapitore, impaurito perché sapeva che i prigionieri a poco sarebbero fuggiti, fosse andato in caserma fingendo di denunciare un furto, per poi far passare loro che in quel momento dovevano trovarsi in cantina come intrusi nella casa. Ecco, Orazio ci aveva ragionato, ma, da qualunque prospettiva la vedesse, la cosa non aveva senso. Nessun uomo, nemmeno il più fuori di testa, neanche se stordito dalla paura, avrebbe mai fatto una cosa del genere. Insomma, doveva sapere che quella storia delle sparizioni stava spaventando tutta la città e i carabinieri ci avrebbero messo poco per riconoscere gli scomparsi. E in più indossavano tutti quanti quella stupida veste a colori: quale ladro colpisce così?
    Perché non scappare, a quel punto? Sarebbe passato tempo fino al momento in cui loro sarebbero usciti e lui si sarebbe potuto allontanare di parecchio. Lo stesso agente, tra l'altro, gli aveva detto che avevano controllato e la casa in campagna in cui era stata costruito quel labirinto sotterraneo non apparteneva a nessuno da anni. Era di un vecchio morto tempo addietro senza figli né nipoti ed era rimasta abbandonata lì. Un motivo in più per fuggire: nessun indizio collegava il rapitore a quella casa.
    Mentre era tormentato dal dubbio, l'ordinarietà della vita si faceva sempre più difficoltosa.
    I primi giorni aveva provato ad uscire. Faceva lunghe passeggiate, e poi, tornato a casa, mangiava con una voracità che non sapeva di possedere. Poi, una volta, mentre camminava in un parco, un uomo che correva, nel sorpassarlo, gli aveva dato una spallata. Non si era fatto niente, ma in quel momento s'era riaccesa nel suo animo una fiammella. Il pensiero che anche quell'uomo volesse rapirlo l'aveva attraversato per un momento, lasciandolo folgorato. E nei giorni successivi si era ritrovato a temere tutto ciò che lo circondava: l'uomo che passeggiava parlando al telefono, il bambino che correva per la strada, la madre che lo fotografava di nascosto. Sentiva dei passi alle sue spalle e tentava di respingere l'impulso di guardarsi dietro; ma poi si sentiva preso da un'ansia che gli bloccava il respiro e ansante voltava lo sguardo, scoprendo solo un gruppo di ragazzi innocui. Con il tempo aveva iniziato ad uscire sempre meno e solo nelle ore giornaliere: era primavera appena iniziata, il sole tramontava presto e la notte lo spaventava. Anche la sua fame si era placata. Ormai mangiava solo quando il suo stomaco lo supplicava e ogni boccone era come un verme viscido che gli si rivoltava nello stomaco. Finiva sempre inginocchiato nel bagno a vomitare.
    Intanto si sentiva galleggiare nel tempo che scorreva viscido e lento, la fatica di orientarsi nell'avanzare dei giorni.
    Non dormiva quasi per niente e quando lo faceva aveva sogni strani, che al mattino non ricordava, ma che gli lasciavano una traccia d'inquietudine che solcava il cuore. A volte, quando si faceva buio, cominciava a tremare. Non osava chiudere gli occhi: se lo faceva, i mostri della sua prigionia tornavano a tormentarlo. S'era abituato ai rumori che sentiva nelle vie di quella grotta, ma adesso li sentiva più nitidi, vivi. E immaginava le stesse ombre strane, il cui movimento sembrava però reale, il loro danzare lo faceva impazzire. Il battito gli aumentava e temeva di morire di crepacuore da un momento all'altro.
    Tenere gli occhi aperti non migliorava la situazione. Di fronte a lui, nel letto matrimoniale, c'era sua moglie, e solo qualche unghia di luce entrava dalla tapparella non ben chiusa a svelarne il viso. Però quella luce si prendeva gioco di lui: sfigurava i lineamenti del viso di Marina, e Orazio vedeva in lei ora il mostro ignoto che l'aveva condannato a quello strazio, poi l'espressione mortale che aveva catturato Giovanni, adesso le fattezze di un'altra donna.
    Già, Elsa. Dov'era, adesso? La cercava come si cerca la luce in un baratro senza fondo: di nascosto, senza farsi notare per non passare per pazzo. Pensava di sentire ovunque il suo profumo, che forse s'era incastrato nei pori della sua pelle.
    Poi, un giorno, gli arrivò una chiamata. Era della polizia. Doveva correre in caserma: c'erano notizie.

    #17
    S'erano dati appuntamento in un bar. Era da un po' che Orazio aspettava fremente, seduto a controllare di continuo l'orologio. Era arrivato con mezz'ora di anticipo e a breve sarebbe arrivato anche l'agente. O almeno lo sperava: quel tempo lo stava corrodendo. Era da quando aveva ricevuto la chiamata che ipotizzava di cosa si potesse trattare e subito trovava mille argomenti che smentivano le sue teorie. Auspicava che quell'uomo non fosse il vero colpevole, perché ormai s'era convinto della sua innocenza e scoprire il contrario sarebbe stata una delusione troppo grossa. Ma sperava che quella storia finisse subito, perché, anche se erano passate poche settimane da quando n'era uscito, si sentiva provato. Voleva mettersi tutto alle spalle, ma c'era quella paura infondata, un'ansia irragionevole che non sarebbe scomparsa prima della risoluzione di quella storia. Fino ad allora avrebbe continuato a pensarci, lo sapeva, e questo avrebbe tenuto vivo il dolore.
    Il bar era in pieno centro. Non troppo grande, ma illuminato. Forse anche troppo. C'era una grossa vetrina con dei pasticcini poco invitanti. Orazio, da uno dei tavolini interni, poteva osservare la gente che sfilava sotto una pioggia leggera e fitta. Gli ultimi raggi di un sole rossastro sbattevano sulle persone e allungavano ombre lunghe sui marciapiedi.
    Finalmente l'agente arrivò. Era giovane, magro, capelli corvini e ordinati. Aveva un naso aguzzo che ad Orazio parve quello di un corvo. Si sedette con fare disinvolto e si presentò: «Agente di polizia Igor Malti».
    Ordinarono due caffè, chiacchierarono per qualche minuto, poi l'agente iniziò: «Abbiamo delle novità». Lasciò trascorrere ancora qualche secondo, quasi godesse dell'impazienza di Orazio, poi continuò: «La scientifica ha scavato nella terra che circonda quella casa. Hanno trovato otto corpi. Dicono che il più vecchio è di sette mesi fa, mentre il più recente risale a qualche giorno fa, Sono tutti maschi, e sono tutti stati riconosciuti dalle rispettive famiglie».
    Orazio annuì, poi iniziò a mordicchiarsi il labbro.
    Malti riprese, ticchettando le dita sul tavolo: «Abbiamo parlato con il colpev... con l'indagato. Dice che è stato costretto da un uomo di cui non ricorda il nome né la faccia a costituirsi per conto suo. È stato minacciato, dice» e qui il suo naso si corrugò in un'espressione scettica. «Dice che quest'uomo, quello di cui non ricorda niente, gli ha detto qualcosa come "se non ti costituisci al posto mio tu e la tua famiglia fate una brutta fine". Il tutto puntandogli una pistola alla testa».
    «Come fa a non ricordare né il nome né la faccia?» chiese Orazio.
    «Allora, probabilmente sta inventando stronzate. Insomma, le prove lo incastrano, sta solo cercando di trovare qualche scusa senza senso». L'agente emise un respiro profondo e stanco. «Però non lo diamo per scontato. Dice che si ricorda di un uomo alto, calvo e con un cerotto sulla guancia. Non sarebbe un'assurdità. È una tecnica che usano spesso: il rapito è troppo teso per capire e l'unica cosa che riesce a ricordare è il cerotto sulla guancia. Dobbiamo ancora lavorarci».
    Poi, dopo qualche attimo di silenzio, Malti continuò: «So che gliel'avranno chiesto già altre volte, ma lei è sicuro di non aver mai visto quest'uomo?»
    «Sì. Sicuro». Orazio non riusciva a concentrarsi, ma in ogni caso non sarebbe arrivato a una soluzione. Ci aveva già provato: tutto si bloccava a quella fastidiosa sensazione di essere a un passo dal ricordare, che poi svaniva.
    L'agente alzò le spalle e proseguì: «Abbiamo anche fatto esaminare il taccuino che ci ha consegnato. Effettivamente, la grafia delle pagine iniziali è diversa da quella delle pagine finali. Ed è questo che ci fa venire più dubbi». Abbassò il capo.
    «Sapete di chi è l'altra scrittura?» chiese Orazio.
    «Ovviamente no. L'ultima è quella dell'indagato, la prima non possiamo saperlo».
    «Ah. Certo».
    Trascorse qualche attimo. L'agente girò lo sguardo sul bancone e fece per alzarsi. Orazio lo fermò. «Un attimo, aspetti».
    «So che non dovrei intromettermi, ma io sono convinto che l'indagato,» e solo allora s'accorse di non ricordarne il nome «ecco, che non sia lui il colpevole. Non ha senso costituirsi così. Poi c'è la scrittura che non coincide, e i filmati: lo vedete anche voi che il rapitore è alto e magro, mentre quello che avete arrestato è basso e grasso».
    «Quello alto potrebbe essere un complice» disse l'agente.
    Orazio non obiettò, perché non ne aveva la forza. Aveva omesso il particolare dell'ombra allungata che aveva visto nel sentiero per lo stesso motivo.
    Comunque l'agente si risedette. Si guardò intorno, si morse le guance, poi sussurrò: «Non dovrei dirglielo, ma seguiamo una traccia. Non c'è ancora niente di sicuro. Per favore, non ne parli con nessuno». Poi alzò gli occhi al soffitto, forse già pentito.
    «Certo. Grazie. Posso sapere di che si tratta?».
    «Non ancora. Appena sappiamo qualcosa di più sicuro. La richiamo io e le faccio sapere?»
    «Va bene» disse Orazio, curioso. Subito però lo prese un'ansia che gli soffocava il respiro e desiderò che quella conversazione non si fosse mai svolta.
    Si salutarono e si scambiarono i numeri di telefono. Poi, prima di separarsi, l'agente ripeté: «Mi raccomando, non lo dica a nessuno».
    Fuori era diventato buio. La pioggia s'era fermata e ne restava solo l'odore, ma soffiava un vento gelido. Nonostante si trovasse in pieno centro e fosse circondato da decine di persone, Orazio s'incamminò con le gambe tremule. Ogni tanto, quando le ombre create dai lampioni cambiavano forma, o se credeva di scorgere smorfie malvagie su visi malintenzionati, si stringeva senza volerlo nel cappotto pesante e un brivido gli scuoteva le spalle.

    All'alba tutto diventava migliore. Gli passò per la mente dopo l'ennesima notte insonne, perseguitato da fantasmi che non riusciva ad annegare nel passato. Aveva sentito il loro fiato putrido sul collo, li aveva immaginati che rosicchiavano le sue membra.
    Ora stava guardando il sole sorgere sui palazzi e i primi raggi baluginare sulle finestre. Si sentiva meglio. Non libero, ma più leggero. Era sul balcone e l'aria fredda gli fece rizzare i peli. Pensò di uscire subito: quel profumo frizzantino della rugiada lo ispirava. Aveva già in mente una destinazione, e al solo pensarci il cuore gli si riscaldò. Poi però pensò che forse era meglio non farlo. Era appena l'alba ed era ancora stanco. Aveva tutta la giornata per uscire. E poi sua moglie dormiva ancora e si sarebbe preoccupata se non l'avesse ritrovato.
    No, meglio restare a casa.
    Erano giorni che se lo diceva: meglio restare a casa. Non c'era mai un motivo valido per uscire. Perché fuori c'era qualcosa che lo terrorizzava. Un alone che circondava tutto, persone e animali e alberi. Un'aura malvagia che solo lui riusciva a percepire.
    Nemmeno in casa si sentiva sollevato. Anzi, lì era annoiato e la sua mente non poteva far altro che tornare alle solite congetture, alle ipotesi di sempre. A volte si sentiva esausto, esasperato da quella situazione, ma non riusciva a cambiare la direzione dei suoi pensieri. Era come un tarlo che gli rodeva il cervello.
    Ma almeno lì era sicuro che quell'alone non sarebbe mai entrato. Non di giorno, almeno: la notte cambiava poco. E piano si abituò a quella vita stantia, all'odore di chiuso e di legno vecchio. Solo a volte riusciva a vedere il mondo con una punta d'ottimismo, ma poi aguzzava la vista e l'alone tornava a ottenebrare i suoi occhi e il suo cuore.
    Un giorno arrivò una chiamata. Era lo stesso agente dell'altra volta. Doveva parlargli.

    Erano nello stesso bar dell'altra volta, ma in uno scomparto più riparato dagli occhi della gente. L'agente Malti gli stava mostrando delle foto e nel frattempo spiegava: «Giuseppe Corsi, un uomo di trentasette anni. Alto un metro e ottantasette. Non è sposato, non ha una compagna e non ha dei figli. Vive da solo in un bilocale in pieno centro». L'uomo nelle foto era alto e calvo. Aveva i lineamenti morbidi e sempre lo stesso sorriso sghembo sul viso.
    Intanto Malti continuava: «Abbiamo perquisito l'abitazione. Non c'è niente di compromettente, è ordinata. Insomma, non è la casa di un uomo che ha deciso di fuggire all'improvviso».
    «L'avete arrestato?» chiese Orazio. Ancora non capiva del tutto la situazione, ma aveva una strana sensazione che gli faceva girare la testa. Era lui il colpevole: delle reminiscenze nebbiose gli rendevano quel viso familiare.
    L'agente sembrava contenere a malapena un'eccitazione che gli scorreva nelle vene. Proseguì: «No, non ancora. Non sappiamo dov'è, ma siamo sulle sue tracce e lo troveremo».
    «Come l'avete scoperto?»
    «Sì, ora ci arrivo. Allora, abbiamo ricevuto una denuncia di scomparsa dal suo datore di lavoro, che dice anche di essere il suo migliore amico. Corsi si è dato malato il ventisette gennaio».
    «Il giorno in cui siamo usciti da quel posto...» sussurrò Orazio.
    «Già» esclamò orgoglioso l'agente. «E da quel giorno nessuno l'ha più sentito. Abbiamo chiesto al suo capo se ultimamente avesse notato comportamenti strani o qualcosa del genere, e ci ha detto di no. O meglio: ha detto che è stato sempre un po' particolare. E che al telefono, quando gli ha detto che si prendeva quel giorno per malattia, gli era sembrato strano. Sperava che non gli fosse successo niente di male».
    Orazio ci pensò, mentre l'altro continuava a parlare. Non ascoltò. Poi chiese: «Dove lavorava?»
    «Non ricordo il nome, ma era un'azienda che produce fotocamere, o qualcosa del genere».
    Già, tutto si collegava. L'azienda in cui lavorava produceva ciò che gli serviva per quell'esperimento del cazzo. Poi si perse in un mare d'ipotesi, mentre Malti continuava a parlare e quella voce diventava uno dei tanti suoni di sottofondo ai suoi pensieri.

    #18 (Epilogo)
    L'avevano arrestato. Glielo dissero poche settimane dopo la sua ultima conversazione con l'agente. Lo convocarono in caserma per spiegargli la situazione e per chiedergli se lo riconoscesse.
    Parlò ancora con l'agente Malti.
    «L'hanno arrestato in Germania. È riuscito a nascondersi per un mese, forse poco più. Non ha usato carte d'identità, non aveva cellulari, niente di niente».
    «E poi?» chiese Orazio.
    «Ha fatto una stronzata. L'hanno trovato ubriaco che vomitava in una piazza. L'hanno arrestato e poi l'hanno riconosciuto». Nel dirlo, l'agente ridacchiò.
    «Ah. E loro sapevano del...» disse Orazio, ma non fu in grado di concludere la frase.
    «Di ciò che aveva fatto?»
    «Sì».
    «Sì, abbiamo diffuso la notizia anche all'estero. Le avevo detto che probabilmente era fuggito fuori, no?»
    «Sì, forse».
    Poi trascorse qualche minuto di silenzio. Orazio studiò le mattonelle che s'incrociavano a terra. Poi chiese: «Dov'è, adesso?»
    «Ora arriva. Ha già confessato, comunque. Deve solo ricordare quanti ne ha rapiti e quanti ne ha uccisi».
    Al ricordare che lui rientrava tra i rapiti, Orazio sentì qualcosa che gli stringeva il collo fino a togliergli il fiato. Si sentiva già estraneo a quella storia, nonostante i segni che gli rimanevano nel cervello.
    «E... perché? Perché l'ha fatto?» chiese Orazio con la voce che era un filo.
    «Ha detto che era un... un esperimento» rispose l'agente, incerto.
    «In che senso?»
    «Dice che voleva vedere come si comportano degli umani in trappola. Fa paura, lo so» disse Malti, passandosi una mano tra i capelli, provato, come se quello fosse troppo per la sua mente. Poi riprese: «Ha detto che voleva prima mettere un uomo e una donna e lasciare loro due. Poi però ha scoperto che rapire la gente gli piaceva e ha continuato a farlo. Una donna e un uomo alla volta, ha detto. Quando gli abbiamo fatto notare che lì dentro c'era solo una donna e tutti maschi ha fatto una faccia smarrita» Scosse la testa. «L'avrei preso a pugni, cazzo» mormorò tra sé.
    Dopo qualche minuto l'arrestato uscì da uno stanzino, scortato da due agenti. Giuseppe Corsi, ricordò Orazio. Era quello il nome che gli aveva detto l'agente. Era calvo, con la barba di qualche giorno e la stessa bocca storta che gli aveva visto nelle foto.
    Orazio non provò rabbia. Solo scoramento, alienazione e ancora inquietudine. L'agente chiese se lo riconosceva e lui rispose di no. Poi dovette firmare alcune pratiche e poté tornare a casa, con una strana ansia che gli rincorreva i pensieri.
    Il processo si svolse qualche settimana più tardi. Orazio fu chiamato a testimoniare e disse ciò che gli aveva ordinato il suo avvocato. Giuseppe Corsi prese l'ergastolo.
    Quando uscì dall'aula di tribunale, lasciandosi alle spalle quell'odore di incenso e dopobarba, sentì il suo petto alleggerirsi di un peso enorme. Però qualcosa era rimasto, ancorato alle incavature della sua mente. Tornando a casa lo travolse la paura di sempre.

    Per l'ennesima volta assistette all'alba dal balcone. Le giornate si stavano allungando, quindi le sue notti di sofferenza duravano sempre di meno. Si sentiva ancora esausto, certo, ma quell'alone che circondava la realtà pareva farsi più fioco e certe volte addirittura colorato.
    Quella mattina stava bene. Come ogni mattina, pensò di uscire. Stavolta però l'ansia non lo sommerse. Non se l'aspettava: credeva che si sarebbe ritrovato a trovare qualche scusa stupida, come al solito, e invece questa volta si sentiva davvero pronto. Quindi sfruttò il momento, si vestì di tutta fretta e uscì di casa. Prima di superare il portone controllò il telefono. Era carico e segnava le sette e cinque del trentuno marzo.
    Il tragitto per arrivare alla macchina fu difficile. Erano solo poche decine di metri, certo, ma in quello spazio si ritrovò circondato da ombre che gli dicevano: torna a casa. Però si fece coraggio, chiuse gli occhi e accelerò il passo. Una volta in macchina, si abbandonò sullo schienale del sedile, provato. Poi l'accesse e si affrettò a superare le prime curve, per dopo immettersi nella tangenziale.
    Lo separavano quarantatré chilometri dalla sua meta. Aveva studiato quel tragitto forse centinaia di volte e pur avendolo visto solo sul navigatore del suo cellulare avrebbe saputo affrontare ogni curva ad occhi chiusi. Quindi quasi non fece caso all'assenza di traffico, al sole che riverberava sulla carreggiata e al bosco che gli scorreva a fianco. E nel frattempo, man mano che i chilometri scorrevano veloci, sentiva il cuore scaldarsi di un calore che non ricordava più.
    Erano passate meno di due settimane dal processo, ma i ricordi di Orazio erano già confusi, catturati da un vortice d'incertezza. E, si rese conto allora, per la prima volta dopo il processo stava uscendo di casa. Il bruciore delle sue cicatrici s'era fatto più lieve.
    Si sentiva più leggero. La cosa fondamentale era stata mettere una pietra su quella storia. Avvertiva, in effetti, che qualcosa dentro di lui era cambiata: la paura ancora non scompariva, no, ma il fatto che la vicenda si fosse conclusa lo portava a non pensarci più di tanto. Ora l'inquietudine lo strozzava solo se tornava a pensarci.
    S'era anche rassegnato a non indagare sul perché era finito lì dentro. C'era quel ricordo vago, che non finiva mai per concretizzarsi in un'intuizione, e poi il nulla. Cercare ancora l'avrebbe fatto impazzire. Aveva anche paura di scoprire qualche aspetto che l'avrebbe terrorizzato ancor di più ed era per questo che non osava pensarci.
    Ci mise meno del previsto. Il posto era in aperta campagna. Un'insegna a neon un po' logora recitava: "Centro riabilitativo per non vedenti".
    L'edificio all'esterno era di un bianco un po' cupo. Agli angoli dei muri, spuntavano qua e là ciuffi di muschio ed erbacce. Orazio entrò. C'era un corridoio stretto e alto che portava ad una reception. Sulla sinistra, lungo tutta la parete giallognola, campeggiava una scritta nera: "Non si vede che col cuore, l'essenziale è invisibile agli occhi".
    La donna che c'era alla reception era grassa e attempata. Pareva ancora mezza addormentata e rispose con tono acido alla domanda di Orazio. C'era da aspettare un'oretta per le visite, disse. A quell'ora dormivano ancora tutti.
    Lui si sedette su una sedia blu mezza rotta. Il tempo trascorse indefinito, il cuore catturato in un turbinio di emozioni. E se avesse risvegliato i fantasmi che stava imparando a mettersi alle spalle? Era un po' intimorito. Però si sentiva felice, ed era qualcosa quasi d'infantile, ma lo faceva stare bene.
    Quando finalmente quella donna lo chiamò, si sentì strappato a un sogno. Percorse le scale di fretta, mentre l'odore di candeggina gli pungeva le narici. Poi entrò nella stanza che gli era stata indicata.
    C'erano poche persone che vagavano nella stanza. Altre donne — queste ci vedevano — le accompagnavano e chiacchieravano con loro. Il bianco lì dentro era troppo splendido, quasi fastidioso.
    Elsa era seduta su una panca di plastica. La sua accompagnatrice era accanto a lei e parlava gesticolando vistosamente. Orazio si avvicinò e chiese con lo sguardo che questa li lasciasse soli. Lei lo accontentò e si accomiatò da Elsa con due parole sussurrate nell'orecchio.
    Era cambiata. I capelli le erano cresciuti e ora, splendidi e mossi, le cadevano appena oltre le spalle. Aveva gli occhi serrati e l'espressione corrugata, e poche stille di sudore le inumidivano le guance. Quegli aghi negli occhi l'avevano resa cieca.
    «Orazio?» chiese lei, allungando le mani.
    Lui si avvicinò e le permise di toccargli il viso. «Elsa!» esclamò, cercando il tono più gioviale possibile. Però vedere quella scena gli faceva male. Era stata lei a guidare tutti loro nella grotta e non l'avrebbe mai immaginata ridotta così.
    Chiacchierarono per qualche minuto, ma non avevano granché da dirsi. Il loro rapporto s'era sfocato, svanito, e forse era un bene, pensò Orazio. Ma, pensandolo, una morsa stretta gli afferrò il cuore e si sentì come stritolato da una forza troppo grande.
    Elsa sembrava persa. Ogni tanto la sua testa ciondolava inerme sul collo e Orazio si chiedeva se lei fosse addormentata oppure vigile. E poi sembrava inghiottita in un tempo tutto suo. Trascorrevano diversi secondi prima che rispondesse alle domande che Orazio le rivolgeva e la sua voce era sempre rotta e incerta. Orazio cercava di capire ciò che aveva dentro, perché anche lui s'era sentito così fino a pochi giorni prima, ma non ci riusciva. Tutte quelle sensazioni, quelle inquietudini mia rivelate, gli sembravano lontane, malgrado a tratti le intuisse ancora. Già, le sentiva, però sfocate anche quelle, perse in un oblio profondo in cui non avrebbe mai indagato.
    Poi, una volta, mentre Elsa parlava, si fermò all'improvviso. Un rivolo di saliva le colò giù per il mento. Orazio dovette distogliere lo sguardo per non piangere. Fu allora che decise di andar via.
    Venne il momento dei saluti. Orazio l'abbracciò, prima con incertezza, poi più deciso, perché, s'accorse in quel momento, per un po' l'aveva amata. Di un amore strano e instabile, ma l'aveva amata. Le baciò la guancia e sapeva di buono. Poi non ebbe il coraggio di scivolare verso le labbra e baciare anche quelle. La strinse più forte e dopo andò via, dritto e senza guardarsi indietro.

    Edited by WDR - 7/6/2017, 15:04
  7. .
    CITAZIONE ({Barone Rosso} @ 24/1/2017, 09:20) 
    Ehi Tommas, mi è venuto un dubbio:
    come fanno a sapere che è carne umana?
    Nel senso, glielo ha detto il rapitore? Altrimenti l'unica spiegazione è che ne conoscessero il sapore prima di essere rapiti e quindi forse è meglio che stiano lì :asd:

    ahahaha magari è un centro di recupero per cannibali :D
    Allora, io penso che un rapitore sadico che fa mangiare ai suoi prigionieri carne umana non avrebbe alcun interesse a tenerlo per sé. Insomma, troverebbe un modo per farlo sapere, anche solo per soddisfazione personale. C'è anche un altro particolare, ma volevo svelarlo più avanti nel racconto. Bella domanda comunque :)
  8. .
    Il quinto è in smistamento, il sesto è pronto ma devo copiarlo qui :)
  9. .
    #1

    Ti ritroverai ad aver paura
    Nel buio tra le pareti ruvide
    Il freddo ti oscurerà la cura
    Donde arrivano le macchie umide


    Plop, plop. Un lento stillicidio. E il graffiare del metallo sulla pelle.
    Questi suoni, che divorano il buio.

    Del gioco sarò la Commedia
    E tu il mio fedele attore
    Sarai bravo a trovare la via
    Per compiacere allo spettatore?


    Ogni tanto, qualche risolino sommesso. Forse un chiacchiericcio timido, poi un suono che è come lo scorrere dell'acqua, e ancora il vento che scombina i capelli, e per ultimo un odore di umido, di marcio, il tutto in un continuo mutamento di forme e odori. L'unica cosa che permane è il buio.

    Cerca il gigante acquario
    Sfuggendo allo scenario truce
    Ma è tempo che si apra il sipario
    E che torni a te la luce.


    La luce non venne. Almeno, non subito. All'inizio fu solo un grande sbatter d'occhi, mentre immagini confuse gli si accavalcavano in testa. Poi iniziò a distinguere i primi colori - grigio, grigio ovunque -, le prime forme irregolari, seppe dare un volto agli odori che gli pungevano le narici. Dopo qualche decina di secondi poteva dire di vedere di nuovo bene.
    Sedeva di schiena contro un muro. Due gomene spesse da marinaio, ma logore gli cingevano le mani bloccate a terra. Tentò di spezzarle con la sola forza delle braccia e osservando le varie abrasioni lungo tutta la corda avrebbe giurato di riuscirci facilmente. Però quelle non si ruppero. Si rese conto in quel momento di sentirsi debole. Nello sforzo aveva contratto gli addominali e ora gli dolevano. Da quanto tempo non mangiava? Solo a ricordare, ora, gli veniva fame. E poi dove si trovava? Cos'erano quelle pareti irregolari, quel tanfo freddo e umido che pervadeva l'ambiente, e quell'erbetta che spuntava a ciuffi dal pavimento alle sue spalle?
    Lo spazio che lo circondava assomigliava a una specie di caverna. Poteva distinguere l'ambiente solo grazie a una luce smorta e diffusa, proveniente da chissà dove, che dipingeva ombre sinistre sulle pareti della grotta. Nel pavimento in pietra erano incastonate delle lanterne che mostravano la via di quello che pareva essere un sentiero. Provò a seguire il percorso delle luci, ma dopo qualche decina di metri s'apriva un bivio e lui non riusciva a capire quale parte prendesse il percorso. Provò a ragionare, ma l'insensatezza di ciò che gli si presentava, con quella sensazione di essersi incarnato in un brutto incubo, gli ottenebrava la mente. Per un attimo il suo sguardo si fece di nuovo confuso, e vide quello scorcio di mondo turbinare, poi chiuse gli occhi, inspirò forte, li aprì. Era tutto come prima. Nessuna speranza che quel mondo di pietra si dissolvesse.
    S'accasciò contro il muro alle sue spalle, tentando di indovinarne la struttura. Nel tentativo di placare i morsi della fame fece per portarsi le mani allo stomaco, ma queste erano ancorate a quelle corde e il movimento finì per sfiancarlo del tutto. Pregò di qualche lamentela smozzicata, soffiando le parole per provare la densità di quel silenzio. E ricadde di nuovo in uno stato di torpore, la fame che cedeva il passo al sonno, gli occhi che ogni tanto rinsavivano per il terrore. Quando si svegliò era ancora lì. Si chiese se sarebbe arrivato qualcuno, chissà, magari tra qualche ora, o forse tra giornate intere, ma la stessa idea non lo consolava. Capiva che qualcuno sarebbe arrivato, ma quel qualcuno era lo stesso che l'aveva portato lì, quindi non c'era di che rallegrarsi. Non ebbe nemmeno la forza di domandarsi chi fosse, quel qualcuno.
    D'un tratto, mentre i suoi occhi vagavano sulle curve della pietra, in cerca di improbabili vie di fuga, Orazio si accorse che c'era una lama seghettata affianco alla parete. Prima non l'aveva vista, e il pensiero che qualcuno l'avesse messa lì nella sua dormiveglia lo fece rabbrividire. Poi però decise che probabilmente gli era solo sfuggita, senza comunque placare i tremori che gli percorrevano la pelle. Guardò il seghetto con un pizzico di diffidenza. Era vicino al muro, un paio di metri alla sua sinistra, forse anche meno. Non poteva raggiungerlo: le corde gli bloccavano le mani. Con malsana ironia, pensò che la situazione era beffarda: non poteva raggiungere la lama perché aveva le mani legate, e poteva tagliare quelle funi solo con la lama. Cadde ancora nello sconforto e riprese a esaminare la stanza. Dopo qualche minuto, però, ebbe un'intuizione. Certo, non aveva la disponibilità delle mani, ma poteva usare i piedi. Così, concentrando tutte le sue forze nelle braccia per reggersi, si sollevò e ruotò sensibilmente verso sinistra; allungò la gamba, provando un forte dolore all'inguine, e riuscì a spostare la lama con il piede, stavolta strisciando verso il centro; quindi tirò indietro le gambe e con un calcetto spedì il coltello contro il muro. Adesso l'aveva a portata di mano. Prima, però, si prese il tempo di rinforzarsi dopo lo sforzo che gli aveva rosicchiato le già esigue energie, respirando aria putrida a testa in su. Dopo qualche minuto si sentì meglio. Con la mano sinistra pigiò sulla corda e prese a sfregare contro i denti della lama. In poco tempo il cavo si spezzò e lui, nello strofinio, si provocò un graffio sul polso. Poi con la mano libera riuscì a usare il seghetto per rompere anche l'altra corda. Dopo qualche secondo era libero. Si alzò in piedi, strisciando contro il muro, e subito dovette aggrapparsi ad una delle sporgenze della roccia per non ricadere a terra. Vide tutto intorno come offuscato da una patina nera e gli prese una violenta fitta allo stomaco, dovuta alla fame o alla spossatezza o al timore, o ancora a un misto di tutto questo. Quando si fu ripreso iniziò a camminare a passi cauti sulla pietra, diffidente dei tranelli che poteva nascondere quel posto cupo. Solo allora notò cosa indossava. Era una tuta - o forse un pigiama - larga e a righi sottili, e ricordava le uniformi dei carcerati. Questa, però, non era bianca e nera: le righe erano dipinte dei colori più sgargianti, disposti in modo casuale. Partivano con un verde acqua, per poi passare a un rosso cremisi e a un fucsia splendente, e poi continuavano così, in un'accozzaglia di colori contrastanti tra di loro. Anche i pantaloni seguivano lo stesso motivo.
    Una volta superato lo stupore, Orazio tentò ancora di ragionare, questa volta con ordine. Qual era l'ultima cosa che ricordava? In realtà, tutto gli pareva fumo. Sapeva chi era e conosceva il viso di sua moglie - Marina! per un attimo si chiese se anche lei fosse finita in quel folle incubo, senza aver il pensiero di preoccuparsi sul serio: i suoi interrogativi gli bastavano -, sapeva che lavoro faceva e il percorso per raggiungere l'ufficio, con un po' d'impegno avrebbe anche ricordato le fermate del tram. Ma degli ultimi avvenimenti aveva solo il vuoto e la nebbia. Sperò senza vigore che le immagini gli sarebbero ritornate in mente nei minuti successivi e decise di seguire il percorso indicato dalle lanternine.
    Quando arrivò al bivio che aveva visto prima notò che sulla parete che divideva le due strade c'era un interruttore. La via illuminata era quella a sinistra, ma pigiando l'interruttore questa si spegneva e s'accendevano le luci sul percorso a destra. Quale imboccare? Si risolse per quella a destra e proseguì di lì. Il suo sguardo non andava oltre il breve tratto illuminato dalle lampadine sul pavimento.


    #2

    Imboccata la via, il soffitto s'abbassava e le pareti si stringevano, e pareva di procedere in un cunicolo di roccia. Orazio andò avanti per un po', le pareti tremolanti delimitavano una strada dritta. A tratti, quando lo spazio era più stretto, i suoi capelli sfioravano la pietra umida. Dopo qualche minuto s'accorse che, oltre alla luce proveniente dal pavimento, ce n'era un'altra che arrivava da sopra. Scrutò le rocce e le incrinature che le univano, provò a scorgere qualcosa dietro ad esse, ma pareva non esserci nulla. Nessuna traccia di lampadine o lanterne o candele. Ipotizzò potesse trattarsi della pietra che riverberava la luce che giungeva dal basso, ma decise che non era possibile: quello che veniva dall'alto era un bagliore più cupo, misterioso. Più tardi, procedendo ancora sulla strada, s'imbatté in una deviazione. La via continuava dritta, ma sulla destra si apriva un altro vicolo, ancora più piccolo rispetto a quello in cui camminava ora. Forse fu per quello che decise di non imboccarlo. Superato quello, però, sebbene fosse abbastanza sicuro della sua ultima scelta, cominciarono a sovvenirgli i primi dubbi. E se fosse stata sbagliata la sua prima scelta? Ormai era già da un po' che camminava e ancora non intravedeva una possibile meta. L'ipotesi di dover tornare indietro, ora, lo sconfortava. Andò ancora avanti però per quel tragitto, il cuore invischiato in un'inquietudine ancestrale. Ombre minacciose, ma dai contorni non definiti che s'allungavano sulle pareti, per poi scendere sul pavimento e arrivare a lambire il muro opposto. A volte, voltandosi, scopriva che le ombre appena passate, da quell'angolatura, si concretizzavano in immagini reali, e allora quella minaccia appena sussurrata diveniva un urlo a squarciare la sua tenuta nervosa. Quindi provava a scansarli, quei riflessi, timoroso delle insidie che nascondevano, saltando qua e là come un assennato, tra le rare zone illuminate su quella roccia dominata dalle tenebre. Nel frattempo, ai suoi lati s'aprivano ulteriori biforcazioni. All'inizio prese a contarle per non perdersi nel caso avesse dovuto tornare indietro, poi si rese conto che era una cosa insensata: lui proseguiva sempre dritto.
    Clac. Come un cancello che si apre. L'immagine che ne uscì era sfocata e Orazio non riuscì a metterla a fuoco. Subito sparì, inghiottita dallo stesso cancello e dallo stesso rumore di prima. Clac. Poi il mondo che turbina, lo stomaco che divora se stesso.
    Si aggrappò alla parete e impiegò qualche attimo a riprendersi. Provò una sensazione di inadeguatezza, e per un attimo l'assurdità della situazione lo travolse. Solo in una grotta misteriosa. Solo in una grotta misteriosa del cazzo. Solo in una grotta a cercare chissà cosa, a spaventarsi per delle ombre, a succhiare stralci di luce, ad abituarsi al puzzo di umido. Sua moglie, la sua famiglia, il suo lavoro. Sogni, speranze, ambizioni. Tutto sgretolato di fronte al dio del terrore. E volle per un secondo non essere mai nato, il suo pensiero sfiorò una preghiera sconosciuta e poi fuggì. Fu un attimo, poi passò tutto. Già.
    Riprese a camminare. Se mai avesse scoperto chi gli stava facendo ciò - giurò al cielo e a Dio - gliel'avrebbe fatta pagare. Ora si sentiva più debole. Intuiva che doveva esserci un motivo dietro quei continui giramenti di testa, ma non voleva indagare. Era molto più semplice dirsi che era solo stanco pur sapendo di mentire. I suoi passi troppo pesanti facevano vibrare il pavimento e ad ogni rumore il suo cuore sobbalzava. Ad ogni scricchiolio, il ritorcersi del suo stomaco. Ad ogni sussurro immaginato, il lieve avanzare verso il tracollo nervoso.
    D'un tratto, quando ormai iniziava a pensare che avrebbe camminato per sempre su una via infinita, vide davanti a sé una curva. Voltava a destra. Temette fosse uno scherzo dei suoi occhi esausti e quindi affrettò il passo perché quel miraggio non svanisse. Non svanì. Si fermò una decina di metri prima, e a quel punto tutto quell'inseguire assunse un senso, qualcosa di angosciante che però gli metteva addosso una morbosa curiosità. Respirò a fondo, diede una breve scrollata ai capelli. Li sentì sudici. Poi avanzo a passi lunghi e lenti.
    Oltre la curva non c'era nulla. Semplicemente, la strada finiva. Un muro. Sopra, un cartello nero e una faccina beffarda dipinta di rosso. Orazio provò a picchiare le mani contro il muro, ma non ci riuscì. Le braccia a mezz'aria, il respiro affannoso, la bocca dischiusa che voleva urlare, i muscoli contratti. Si lasciò cadere a terra, così, sconfitto, e pianse. Pianse, Orazio, senza aver un motivo vero e avendo tutti i motivi del mondo.


    #3

    Dormì. Quando si risvegliò, per un momento ancora tenne gli occhi chiusi, la speranza irrazionale che quello che aveva visto fosse finzione. Poi li aprì perché non ci credeva. Riprese a camminare nel verso opposto e, nonostante sentisse le forze venir meno, il suo passo era più determinato rispetto a prima, la sua postura più dignitosa. Sferrò un pugno alla parete e questa rimbombò. Camminando, sentì poi un diffuso vibrare come di foglia.
    La strada al ritorno gli parve più breve. Le ombre, prima così terrificanti, ora apparivano innocue, quasi scherzose, e si stupì per essersi inquietato per così poco. E provava una strana soddisfazione a calpestare quel buio che prima evitava, picchiarlo con vigore, come a stabilire una gerarchia tra lui e le tenebre. Quando intuì che il piazzale iniziale era vicino le sue certezze iniziarono a vacillare. E se anche l'altra strada fosse stata un vicolo cieco? Era scoraggiante. Magari avrebbe dovuto esaminare i vicoli che si aprivano nella via principale e di lì cercare un punto di fuga, ma allora gli sovveniva il dubbio che quelle contenessero ulteriori biforcazioni e temeva di perdersi. E poi le energie scemavano, non riusciva neanche ad avere fame. Le labbra secche sfregiate dall'ambiente.
    Ritornato al punto di partenza, desiderò accasciarsi lì e aspettare inerte la sua fine. La sua dignità di uomo non glielo permetteva, quindi decise di proseguire. Prima però si sedette un attimo per riposare le gambe. Pensò ancora senza grande convinzione a com'era arrivato lì. Poi prese a passare le dita a terra, dapprima con dei colpetti al suolo, poi queste andavano alla ricerca delle spaccature nella roccia e accarezzavano l'erbetta che vi cresceva. La sentivano umida. Orazio portò le dita alla bocca e prese a succhiare avido le poche gocce catturate dal pavimento. Tutti quei gesti avevano un che di secco e avventato, come se Orazio fosse preoccupato di nascondere il fatto a occhi indiscreti.
    Quando si stava preparando ad alzarsi per rimettersi in cammino, notò qualcosa alla parete dove si era ritrovato sveglio un po' di tempo prima. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco, poi li sbatté per sapere se era vero. Erano due oggetti argentei e lucidi. Una ciotola e una brocca, o forse qualcosa del genere. Orazio si alzò di scatto e corse: non poteva correre il rischio che gliele portassero via. Nella ciotola c'era una fetta di pane, nella brocca dell'acqua. Non si rifocillò subito. Poteva fidarsi? Qualcosa gli diceva di sì, ma non riusciva a fidarsi del suo istinto. Prima immerse un dito nell'acqua e lo portò alla bocca. Succhiò di nuovo. Era fresca, buona. Bevve di gusto, ingurgitò il pane. Quindi si rialzò e raggiunse il punto in cui s'apriva quel bivio. Pigiò l'interruttore, s'accesero le luci a sinistra.
    Solo una volta imboccata la via realizzò. Aveva appena mangiato e bevuto, ma prima quelle ciotole non c'erano. Voleva significare che qualcuno ce le aveva messe durante la sua assenza. E che quel qualcuno lo stava spiando. Un brivido lungo e freddo gli percorse la schiena.
    Cercò di non pensarci. Insomma, per quanto assurda fosse la situazione, doveva aspettarsi di essere osservato. Percorse i primi metri in quel vicolo e subito notò qualcosa di diverso. Era alto e stretto come l'altro, le pareti ruvide che si stringevano, l'odore di umido. Però qualcosa non gli tornava. Dopo qualche secondo capì. La luce. Questa era più scura, livida, e dall'alto non arrivava altro bagliore, così la strada appariva più buia dell'altra. Forse per questo aveva scelto il percorso a destra, all'inizio, perché, pur nella sua veste macabra, aveva un aspetto che infondeva più sicurezza. Per qualche minuto, le pareti sfilarono spoglie. Le ombre qui non apparivano minacciose e Orazio non sentiva il bisogno opprimente di evitarle. Più tardi, quando ormai era immerso nella penombra, sulle pareti iniziarono a comparire delle foto. Avevano tutte la stessa forma quadrata ed erano catturate in cornici in legno. Appese con un chiodo che si reggeva sulle pareti irregolari, penzolavano, come mosse da un vento che non c'era. Ciò che raffiguravano sembrava non aver nulla a che fare con il luogo in cui si trovavano. Le prime erano in bianco e nero ed erano delle foto di famiglia. Orazio andò oltre, perché quelle erano sbiadite e i contorni dei volti erano irriconoscibili. Poi le foto divenivano più recenti, i colori più nitidi, le forme più originali. E Orazio si appassionò a quella successione, ipotizzò correlazioni tra quel luogo e quegli scatti, la sua mente partì in fantasiose cospirazioni, e per quegli attimi fu libero dall'inquietudine. In tutti i volti che osservò, riconobbe tratti comuni: ora una gobba leggera sul naso, poi una forte rientranza degli zigomi, ancora un'espressione quasi macabra che distorceva il sorriso. Giunse all'ultima foto. Ritraeva un uomo sulla quarantina, capelli corvini, zigomi incavati, una piega macabra che imbruttiva il suo sorriso. Orazio sentì una rabbia atavica montargli lungo tutto il corpo, i nervi fremere per l'agitazione. Era quello quindi il volto del suo rapitore. Aveva voluto raccontare la sua storia attraverso quel seguito di diapositive, partendo dall'origine, dalle storie dei suoi antenati. Se da un lato odiò quel volto subito, dall'altro quel freddo egocentrismo lo affascinò. Ricercò su quel naso l'accenno di quella gobba che avevano i suoi parenti, ma non la trovò. Quando però ricordò ancora una volta - e ancora una volta fu come una pugnalata nello stomaco - che quel pezzo di merda l'aveva imprigionato lì, il fascino svanì e rimase la rabbia. Fredda, famelica. Distruttiva. Staccò quell'ultima foto dalla parete e la scagliò a terra, quindi proseguì il percorso. La roccia riecheggiava i suoi passi infuriati.
    Dopo qualche decina di passi, però, le sue certezze si disfecero di nuovo. Il ciclo ricominciava. Catturate dalle stesse identiche cornici in legno, una produzione in serie che non aveva nulla di ordinario. All'inizio foto di famiglia in bianco e nero, tutte pieghe e angoli, in cui poteva scorgere gli stessi segni comuni dell'altra successione - questa volta gli occhi scuri che spiccavano malgrado la mancanza di colori e un naso all'insù. Poi le immagini si facevano più recenti. L'ultima raffigurava una donna. Anzi, doveva essere poco più che una ragazza. Aveva i capelli mori e gli occhi verdi, il naso a sella e un sorriso largo. Orazio si chiese il perché di quegli occhi chiari, ma la domanda morì, soffocata da mille interrogativi più gravi e più urgenti. Chi erano quelle persone? E perché le loro foto erano lì? Per un attimo pensò che quella potesse essere la moglie del rapitore, ma dopo ancora qualche metro iniziò un'altra successione di foto. Non poteva essere. Questa volta, non seguì lo svolgersi di quella storia. Era confuso, e si rendeva conto che appena riassumeva un pizzico di lucidità arrivava qualcosa di inaspettato a scuoterlo. Era frustante. Nel frattempo, ai suoi lati le foto si susseguivano, e non appena pensava fossero finite il ciclo ricominciava. Smise di contarle dopo poco.
    D'un tratto, mentre camminava, iniziò a sentire dei suoni lievi, smorzati dall'aria umida. Plop, plop. Era sicuro di aver già sentito qualcosa di simile di recente, ma non riusciva a ricordare dove. E poi lo scroscio dell'acqua. Assomigliava allo scorrere di un fiume in piena, o al frastuono di una cascata, ma c'era un che di artefatto, in quel suono, che non lo convinceva del tutto. Era palesemente falso. Orazio era sicuro che fosse nelle intenzioni di chi lo aveva creato. Non cadde nella trappola, però poi pensò che magari anche quello era nelle intenzioni del rapitore. Magari voleva distogliere il prigioniero dall'effettiva presenza di un torrente nei dintorni. In ogni caso, perché questo indizio avrebbe dovuto depistarlo? E a che scopo, poi? Orazio diventava ogni momento più confuso.
    Dopo un po' quel suono cessò e venne il silenzio. Durò poco: ancora qualche minuto e Orazio udì un altro rumore, anche questo mezzo inghiottito dall'aria e dalle tenebre. Un sussurrio indistinto, un sibilare di voci inumane. Il suono si fece sempre più forte, ma le parole rimanevano vaghe, il vociare malvagio, e Orazio si ritrovò a guardarsi intorno con aria diffidente. Il cuore nel petto accelerava, il terrore gli ostruiva il pensiero. Erano parole fredde mai dette, sibili sussurrati in punto di morte, il rigurgitare di un demone, il tutto in una confusione di attimi e lamenti. Rumori di carne viva che lo inseguivano. e Orazio affrettò il passo per non farsi raggiungere. Nulla, in quelle vite impervie, taceva. Quello era il respiro incalzante di quelle rocce.
    Poi anche quello passò. Si sentì sollevato, il cuore liberato da una patina vischiosa. Nella successione di foto appena cominciate, riscontrò una certa familiarità, qualcosa che non riusciva a cogliere del tutto. Proseguì con curiosità. Ma dopo un po' la sua curiosità divenne inquietudine, l'inquietudine si fece terrore soffocante. Arrivò all'ultima foto, e subito capì che quella era anche l'ultima successione. Quello nella cornice, intrappolato in un momento di inconsapevolezza, era Orazio.
    Si sentì mancare, il pane appena mangiato gli risalì in gola. Cosa voleva significare tutto quello? Percepì una nuova presenza incombere alle sue spalle e aumentò ancora la falcata, prima impercettibilmente, poi arrivò quasi a correre. Dopo qualche minuto c'era una curva. Identica a quella che aveva trovato al termine dell'altra strada. Non sapeva se pregare che non finisse allo stesso modo o se invece sperare il contrario. La prospettiva di trovare una via di fuga che non sapeva nemmeno se esistesse lo sconfortava, ma ciò che c'era dietro l'angolo lo spaventava. Inspirò, girò l'angolo, mise a fuoco.
    Era uno spiazzale simile a quello da cui era partito. Questo, però, era un cerchio perfetto, dalle pareti levigate e lisce. Orazio vide sette persone legate alla parete com'era intrappolato lui quando si era svegliato per la prima volta. I volti tutti spigoli, il cranio rasato, gli occhi spenti. Non fu in grado di riconoscere differenze d'età o di sesso: quell'umidità pareva cancellare tutto. Indossavano tute simili alla sua, ma i colori di molte erano sbiaditi, le maniche di tutte graffiate. Solo alcune conservavano un certo nitore, ma quei colori lucenti si avviavano già all'ingrigimento. In bocca avevano dei pomi neri con una cinghia che partiva dal collo e che impediva loro di parlare. Nell'aria, però, risuonavano i loro mugoli disperati, i loro lamenti che sapevano di selvaggio. Li guardò tutti, Orazio, sconvolto da quelle espressioni stravolte da ciò che stavano affrontando. Riconobbe la donna con i capelli mori e gli occhi verdi, non trovò l'uomo con i capelli corvini e il sorriso strano. Poi si sentì mancare, la testa prese a girare. S'accasciò a terra e cadde in un sonno d'ovatta.


    #4

    Più tardi anche gli altri si addormentarono. Se l'aspettavano: accadeva ogni volta che arrivava qualcuno. Il sonno durava poco e al loro risveglio si ritrovavano con le mani e la bocca libere. Questa volta la prima a ridestarsi fu Elsa. Al solito, c'era un coltello al centro della stanza. S'affrettò ad afferrarlo e lo nascose nella tuta, facendo attenzione a non tagliarsi. Poi un po' alla volta anche gli altri si risvegliarono, chi scattando sull'attenti appena aperti gli occhi, altri cercando di aggrapparsi ancora un attimo al sonno perduto. Elsa guardò le facce di tutti, osservò le pieghe speranzose che si creavano su quei visi spigolosi, le vide trasformarsi in grinze scorate. Ormai s'era abituata, ma rimaneva sempre quel pizzico di dolore, un tocco di amarezza che la consuetudine non poteva cancellare.
    Quando furono tutti in piedi si portarono al centro del cerchio. Il nuovo arrivato era legato all'ingresso della stanza, ma anche lui tra poco si sarebbe risvegliato. Era sempre così. Nel frattempo, i prigionieri si guardavano, cercavano pensieri non pronunciati sui volti altrui, annusavano l'aria portata con sé da quell'uomo. Sapevano tutti cosa avrebbero deciso, ma quello era una sorta di rituale consolidato che tutti ricordavano esistere da sempre.
    Passò un po' di tempo, forse minuti. Attendevano. Qualcuno prese a passeggiare nervosamente per la grotta, altri s'accasciarono di nuovo a terra, Elsa rimase lì con altri due prigionieri. Non parlavano. Uno di quelli che si erano appoggiati alla parete osò sussurrare: «Che ne dite?» Elsa non riconobbe la voce - in quella grotta umida che riverberava ogni suono era impossibile - e rispose: «Vedremo». Passò altro tempo e finalmente la voce arrivò.
    «Buongiorno, concorrenti. Come state oggi?»
    I volti contratti d'odio smorto, il freddo rimescolarsi del sangue, le orecchie mezze tese. Ma non era mai odio puro o sangue che ribolliva. Al sentire quel suono c'erano ogni volta le stesse reazioni spezzettate, complete di nulla. Elsa s'era abituata anche a quello e lo odiava. Non capiva come quelle pareti potessero soffocare anche l'odio, renderlo fiacca insopportazione.
    «Oggi, come vedete, tra di voi c'è un nuovo compagno. Si chiama Orazio, ha...» gracchiava intanto la voce metallica. Elsa non l'ascoltò: ormai conosceva quella cantilena a memoria. Guardò invece il nuovo prigioniero. Era di media altezza, aveva i capelli neri e un viso anonimo. Una lieve ruga gli calcava il centro della fronte. Provò a riconoscersi in quei lineamenti, tentò di ricordare le sensazioni che aveva provato quando s'era trovata per la prima volta in quella grotta, le inquietudine e le paure, le speranze e la fortuna. Cercava di rievocare un odio atavico, ma non ci riusciva mai. Ormai la sua vita era quelle rocce e i vicoli sparsi e una livida apatia.
    Dopo un po', il viso di quell'uomo prese a contrarsi. Mugolò qualcosa, forse stava sognando. Poi ebbe come un brivido e i suoi occhi si dischiusero.

    «Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi, oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...»
    Appena sveglio, Orazio non capì se quel vociare metallico fosse uno strascico del suo sonno. Lo sentiva ancora rimbombare nelle orecchie, unica certezza in un mondo ancora appannato. Poi prese a sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco lo scenario.
    Dov'era? Si ricordava la grotta e i due percorsi, aveva una vaga rimembranza delle sequenze di fotografie, dello scrosciare finto, del sussurrio che lo rincorreva. Però poi come si era addormentato?
    Dopo qualche attimo il mondo prese colore. Allora gli tornò in mente lo spiazzale in cui era finito il suo percorso. Per un attimo ebbe timore, un brivido gelido gli attraversò il collo. Poi altre domande s'ammucchiarono nel cervello, le più se l'era già fatte, altre non avevano risposta. Tentò di ricordare per l'ennesima volta com'era finito lì, ma non ci riuscì. Qualcosa vedeva, ma era solo una giravolta di forme confuse. Prima aveva sperato che tutto gli sarebbe stato chiaro più avanti, ora iniziava a dubitarne. Poi rivide le sue foto in quella galleria e provò un'ansia più profonda. Perché erano lì e chi ce le aveva messe e come le aveva avute? Era confuso, ma se prima la sua mente riusciva a ipotizzare soluzioni improbabili, ora le sue congetture s'appannavano sul nascere e non facevano in tempo a partire.
    Ora, incastrato in una trappola per topi, la sua paura più grande non era la morte, né il dolore o l'aspettativa di dover passare molto tempo in quel posto. Temeva di dimenticare. Al ripensare ai colori di fuori, questi gli apparivano sbiaditi, quel grigio lì dentro li stava appassendo. Valeva lo stesso per i visi delle persone e per i loro risi acuti — si domandò se avrebbe mai rivisto una persona ridere —, per il sapore dei cibi e l'odore del polline o del gesso o della benzina, e forse anche per quello dell'alcol etilico, che odiava, sì, ma che ora, nell'umidità imponente, avrebbe annusato con fare voluttuoso.
    Si concentrò su ciò che aveva davanti agli occhi. Gli altri prigionieri questa volta erano in piedi, radunati in un cerchio al centro di quello spazio. Parevano confabulare tra loro, ma senza intenzione di nascondere le loro frasi.
    Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi...
    Ancora quella voce, questa volta più umana. Orazio la sentì addirittura intima: sussurrava solo nel suo orecchio. Provò ad alzarsi anche lui e a raggiungerli, ma si accorse di essere legato a terra. Era di nuovo stanco, di un torpore annidato nelle ossa, e sentiva il respiro pesante e sibilante. Provò a dire qualcosa, ma gli venne fuori solo fiato acido. Per un momento pensò d'aver dimenticato anche il suono della propria voce.
    D'un tratto, i sette che stavano al centro smisero di parlottare e tornarono vicino alle pareti. Rimase lì solo uno, e Orazio riconobbe in quello la donna della foto, quella con gli occhi verdi e i capelli mori. Di capelli non ne aveva più, gli occhi parevano essersi scuriti, ma forse era solo la luce. Il volto magro accentuava la concavità del naso. La sua tuta, i cui colori erano tanto schiariti da sembrare tutti uguali, era troppo larga e nascondeva — o forse divorava — un corpo secco, senza più forme. La donna girò di poco la testa verso i suoi compagni, cercò un cenno d'assenso senza rivolgersi a nessuno di preciso, poi tornò dritta. Sembrava soddisfatta e Orazio non capì per cosa. Poi infilò la mano nella tasca dei pantaloni.
    Quando tirò fuori il coltello, Orazio sobbalzò. Sentì il cuore fermarsi e poi battere troppo forte. Poi ci fu il terrore accecante.
    ...oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...
    La donna avanzò verso di lui, stringendo forte la lama tra le dita. Vene sporgenti spaccavano la pelle diafana. I due si guardarono negli occhi, Orazio la osservò avanzare e lei studiava l'inutile accartocciarsi di lui contro la parete. Si fissavano ancora mentre Orazio tentava di indietreggiare scontrandosi col muro, mentre pregava di mugoli sommessi e gemiti acuti. Era il contatto empatico tra assassino e vittima, si disse lui.
    Ad ogni passo, il terrore si faceva più grande. Ogni metro percorso era l'avvicinarsi della sua morte. Adesso - si rese conto - non valeva nulla tutto ciò che temeva di dimenticare. Se avesse avuto scelta, avrebbe barattato tutte le bellezze che ricordava in cambio di qualche giorno ancora di respiro, anzi, qualche ora bastava. E magari fumare una sigaretta, o baciare sua moglie. Banalità che in una grotta a pochi secondi dalla morta diventavano enormità. Pensava a questo, Orazio, mentre guardava l'incedere deciso della sua morte.
    La donna arrivò sopra di lui. A guardarla dal basso, appariva altissima. S'inginocchiò, avvicinò la testa alla sua, aggiustò l'inclinazione del coltello. Da questa angolatura i suoi occhi apparivano più chiari, di un verde smeraldo percorso da giochi di luci. Orazio si stupì di quel dettaglio notato in punto di morte. La donna s'avvicinò ancora - ormai dovevano essere a pochi centimetri -, quindi deviò la testa verso la spalla di lui. «Ti prego» si ritrovò a sussurrare Orazio nell'orecchio dell'altra, senza volerlo sul serio. Poi contrasse gli addominali, strinse i denti in un'espressione già agonizzante. Sentì un liquido viscido e caldo colargli lungo le gambe.
    La donna tagliò le corde che lo legavano a terra. Orazio se ne accorse solo mentre lei si rialzava e tendeva la mano libera verso di lui. Dopo qualche secondo di esitazione, l'afferrò e lasciò che quella lo tirasse su. Era libero, pensò. Si corresse subito: imprigionato o morto, non faceva differenza. Gli venne da ridere di quella paura che gli aveva appena invaso le viscere e si chiese come avesse potuto farsi sconfiggere. Si sentì prima buffo, poi, sentendo le sue gambe imbrattate di urina, ridicolo. Si affrettò a coprirsi e sperò che la donna che aveva davanti non si fosse accorta del fatto che se l'era fatta sotto.

    5

    Adesso era in piedi. Imbambolato, si guardava intorno, studiava lo spazio circostante. Intanto la donna lo fissava col busto voltato, come se lo aspettasse per fargli strada. Orazio mosse qualche passo incerto verso di lei. Ancora non si sentiva al sicuro. C'era qualcosa di losco, in quell'aria - forse un odore, forse un riflesso sui visi, forse la tensione tagliente -, che lo rendeva diffidente.
    Cominciava ad avere freddo, di un gelo che s'infiltrava nei vestiti e li gonfiava con i suoi soffi. Camminando, sentiva i muscoli atrofizzati, le ossa scricchiolanti. Una strana fiacchezza s'era impadronita della sue membra e muoversi gli costava troppa fatica. E poi gli arrivava l'odore acre della sua urina, la sentiva coagularsi sulle cosce e appiccicarsi ai pantaloni. Era rivoltante.
    Si fermarono dopo pochi passi, poco distante dalla parete. Qualcuno si avvicinò, i più rimasero dov'erano ed evitavano lo sguardo di Orazio. Altri invece lo spiavano, gli mandavano sguardi guizzanti e timidi. Alzavano gli occhi e subito li abbassavano. Quelli che si erano avvicinati gli tesero la mano, lui le strinse.
    «Giovanni» disse un uomo con uno sfregio che gli percorreva la guancia.
    «Daniele» fece un altro, occhi azzurri e labbro leporino.
    «Franco». L'ultimo era allampanato, più magro degli altri. Oltre la pelle diafana si scorgeva il verde delle vene.
    Si guardarono per qualche momento. Orazio iniziava a provare un pizzico di imbarazzo. Aveva appena invocato aiuto di fronte a loro, aveva preso a calci la propria dignità, si era pisciato addosso. Una fitta vuota al centro del petto. Poi la donna che l'aveva salvato disse: «Io mi chiamo Elsa, tu?»
    «Orazio».
    Tornò il silenzio. Orazio voleva parlare, indagare, andare a fondo, cercare un modo per salvarsi, il perché di quelle assurdità. Non disse nulla. Dopo un po' l'uomo con gli occhi azzurri tornò al suo posto. Orazio si accorse di aver già dimenticato i nomi di tutti. Quindi anche gli altri si ritirarono e rimasero solo lui e la donna.
    «Vieni, sediamoci» disse lei, e si sedettero sulla roccia, abbastanza distanti dagli altri. C'era puzza di umidità e di legno vecchio. Anche a terra credette di sentire una sottile patina di bagnato, ma forse era solo la sua immaginazione. In fondo aveva le gambe impregnate di urina.
    «Come hai detto che ti chiami?»
    «Elsa».
    Anche in quella stanza, notò Orazio, si diffondeva una luce cupa e innaturale, simile a quella che aveva trovato nei due percorsi. Non capiva da dove provenisse. Le pareti della stanza erano levigate, il soffitto anche. Nessuna crepa in cui potesse nascondersi una lampada. Eppure la luce c'era. Sommessa, non disegnava ombre sul pavimento, ma c'era. Mentre ancora studiava la stanza, Orazio chiese: «Da quanto tempo sei qui?»
    «Oh, tanto» disse Elsa. «Non posso esserne sicura, ma devono essere passati mesi.»
    Orazio annuì. Si aspettava quella risposta. «E gli altri?»
    «Pure. Un po' di meno, io ora sono la più vecchia»
    Orazio ricordò le sequenze di foto. Il primo doveva essere stato quell'uomo col sorriso macabro, ma sapeva di non averlo visto. Chissà che fine ha fatto? si chiese. Lo sapeva.
    Trascorsero minuti, i due non parlarono. Orazio sentiva un ticchettio secco, ma forse anche quello era fantasia, forse era solo il battito della sua follia.
    «Com'è lì fuori?» chiese Elsa.
    Orazio non capì. «Eh?»
    «Voglio dire, com'è la situazione? È successo qualcosa?»
    Orazio continuava a non capire, ma non voleva fare la figura dello stupido. «Oh, il solito» sussurrò. Benché tentasse di far rimanere quelle parole solo tra loro due, non ci riusciva: la stanza rimandava l'eco in tutti gli angoli. Poi osò una battuta: «Il cielo è sempre azzurro, il mare blu...» Elsa fece una risata di circostanza. Quelle parole del resto erano suonate strane anche alle orecchie di Orazio. Cos'erano l'azzurro e il blu? Lì non esistevano colori, lì c'erano solo rocce grigie e tute sbiadite. La sua era nuova, ma i colori sgargianti erano falsi, troppo lucidi per qualsiasi cosa esistente. Già faticava a ricordare l'azzurro del cielo e il blu del mare. Allora capì la domanda di Elsa: lei voleva ricordi, stralci di quella terra ormai lontana. Quella grotta divorava, con la carne e i nervi, anche il mondo che c'era fuori. Prima o poi anche i ricordi s'ingrigivano ed Elsa voleva evitarlo.
    Dopo un po' di tempo iniziò a sentire uno strano odore. Era pungente, ma non sgradevole. Gli ricordava forse quello del polline nei prati. Però col passare del tempo i muscoli si facevano più rigidi, una stanchezza più profonda si prendeva la sua testa. Si guardò intorno con lo sguardo già annebbiato. Pareva che tutti quanti stessero accusando lo stesso problema. Però loro si arrendevano. Quasi tutti avevano già mollato, il volto reclinato sulla spalla, le pieghe incattivite del viso che man mano s'addolcivano, i lineamenti che riesumavano una vaga beatitudine.
    «Che sta succedendo?» ebbe la forza di chiedere a Elsa. La sua voce era impastata e non celava un tremito di paura.
    «Ci addormentano» disse Elsa, come fosse la cosa più normale del mondo.
    Orazio non ebbe il tempo di riflettere su quelle parole. S'addormentò ancora, la solita bruma che gli divorava i pensieri.

    #6

    Al risveglio annusò un insieme di profumi. Sopraffacevano l'umidità e il legno marcio, il suo sudore pungente e l'asprezza del freddo.
    Anche questa volta si ritrovò intorpidito, strizzava gli occhi e non riusciva a mettere a fuoco. Però c'erano quegli odori ed erano nitidi. Familiari, anche. Tentò di seguirli, Orazio, con lo sguardo ancora appannato seguì la loro scia. La sua mente disegnava bistecche succulente e tavole imbandite.
    Aveva ragione. Al centro della stanza c'erano un tavolo di legno e otto sedie, anche quelle in legno. C'era sopra del cibo - o almeno Orazio ci sperava -, ma dal basso non riusciva a riconoscere cosa.
    Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi, oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...
    Allora Orazio ricordò. Quella voce. L'aveva ritenuta un rigurgito del sonno, ma c'era stata sul serio.
    Gli altri prigionieri si stavano già alzando, ma senza fretta. Doveva esserci cibo in abbondanza, o forse avevano perso anche la voglia di mangiare. Anche lui si sollevò, le ginocchia scricchiolarono nel movimento.
    «Che è successo?» chiese a Elsa, che era lì vicino.
    «Adesso mangiamo». La sua voce era mesta, un po' vergognata.
    «Sì, ma il tavolo prima... prima non c'era, giusto?» Il dubbio gli venne davvero. Era un'assurdità, certo, il tavolo prima non c'era. Ma non riusciva a credere neanche a se stesso.
    «Ce lo hanno messo mentre dormivamo».
    «Chi?» chiese Orazio, ma subito si pentì di quelle parole. Sperò che il vuoto le inghiottisse.
    «Non lo so. Chi ci tiene rinchiusi qui, immagino». Anche lei, camminando, trascinava le gambe e tratteneva a stento un respiro affannato. Parve accorgersi che Orazio aveva notato quel particolare e spiegò: «È ogni volta così. Deve essere il gas». Poi, senza lasciargli il tempo di domandare, continuò: «Hai sentito quell'odore, no?» Lui capì.
    A tavola quasi tutti già mangiavano. I loro occhi, nel masticare famelico, prendevano screziature rossastre ai lati, che davano loro un aspetto animalesco. Fili di bava che penzolavano dai menti, olio caldo sulle guance. Non masticavano, infilivano tutto in bocca e mandavano giù. In piedi erano rimasti lui, Elsa e il tipo con lo sfregio. Gli altri due si scambiarono uno sguardo, forse di rimostranza, di un dubbio però troppo cedevole per sopravvivere. Si sedettero, Orazio li imitò.
    A tavola c'era carne in abbondanza. Semplice o speziata. Solo allora riuscì a riconoscere i vari profumi che l'avevano colpito prima. Anche lui iniziò a mangiare, prima con timidezza, poi con voracità. Anche lui, pensò, doveva avere lo stesso aspetto animalesco degli altri. La carne era stopposa, un po' amara. Forse erano le spezie. Tutti tacevano, si udivano solo il battere dei denti e i vassoi che vibravano.
    D'un tratto, mentre ancora mangiava, notò una lieve sporgenza nella roccia. Era lontano, quindi non capiva di cosa si trattasse. Arricciò gli occhi, ma la vista non si fece più nitida. Continuava a non capire. Si alzò e aggirò il tavolo, sentendo gli sguardi di tutti che gli si appiccicavano addosso come bava. Fece qualche passo e s'avvicinò, diffidente.
    Era un occhiello nero incastonato nella roccia. C'era un'apertura argentea al centro. Una telecamera. Quel figlio di puttana li spiava.
    Prima venne l'odio. Lo sentiva galleggiare nelle vene. Poi s'insinuò un dubbio che presto divenne agitazione. Perché li filmava? Era solo un sadico che si godeva l'agonia delle sue prede o c'era altro? Provava uno strano presagio, ma non sapeva spiegarlo. Tornò al suo posto, si sedette. Tutti stavano ancora mangiando e fingevano di non essersi nemmeno accorti del suo movimento. Riprese anche lui a mandare giù quella carne, nonostante quell'ansia gli pesasse sulla bocca dello stomaco. Aveva fame e non sapeva quando avrebbero mangiato di nuovo.
    A un certo punto notò una cosa. Elsa e lo sfregiato non mangiavano. Di tanto in tanto sollevavano pezzi di carne tenendoli stretti tra due dita, quasi ne avessero schifo. Davano uno o due morsi, i loro volti si contraevano in espressioni contrite. Le guance s'indurivano, i muscoli del collo si tendevano. Poi abbandonavano la carne sulla tovaglia e s'allontanavano con la sedia dal tavolo.
    Orazio iniziò a sospettare. C'era qualcosa che non andava, ma non capiva cosa. Quei due si comportavano in modo strano. Poteva essere la mancanza d'appetito, certo, ma allora perché quei visi schifati? No, non poteva essere quello il motivo. Orazio pensava e intanto li guardava di sottecchi. Sembravano averci rinunciato, avevano gli occhi socchiusi, il viso gettato all'aria e le braccia che stringevano i braccioli della sedia.
    La risposta gli arrivò come una bufera mentre guardava lo sfregio di quell'uomo. Erano due lembi di pelle tesi uniti da una cicatrice. Lì sotto, la carne viva che pulsava. Allora sentì lo stomaco rivoltarsi, la gola stringersi in un modo.
    «Che carne è, questa?» chiese. La voce gli venne fuori tremula, prese a balbettare dall'agitazione.
    Nessuno rispose. Cessò per un attimo quel rumore di denti che sbattevano. Tutti lo guardavano in silenzio, qualcuno teneva la testa bassa. Orazio cercò gli sguardi di Elsa e dello sfregiato. Quando li incrociò, anche loro chinarono la testa.
    Allora seppe che l'intuizione era fondata, sentì un liquido acido percorglierli la gola.
    Stavano mangiando carne umana.

    #7

    Passò del tempo, forse giorni. Nulla scandiva il passare delle ore e Orazio si sentiva sempre più confuso. Il tempo trascorreva lento, con fare strisciante percorreva i loro corpi, seghettava pelle e capillari. Le vesti iniziavano ad incollarsi addosso, i capelli si facevano sempre più sudici, le unghie nere e lunghe. Le labbra gli si seccavano e ogni tanto si spaccavano, lasciando colare rivoletti di sangue dentro la bocca. Gli faceva schifo. Poi ricordava l'ultimo pasto consumato, quel sapore ferroso e ruvido, riviveva l'ansia e il subbuglio dell'inconsapevolezza, e sentiva un liquido acido e grumoso venirgli su per la gola. Non poteva ancora credere che quella che aveva mangiato era la carne di un uomo. Quello era ormai l'incubo che s'era appropriato dei suoi pochi momenti di sonno, l'odore che gli pizzicava le narici negli attimi più inaspettati. Da quella volta non avevano più visto cibo, ma per Orazio era un sollievo.
    Parlavano poco, ma non c'era mai silenzio. Il ronzio e i gemiti del sonno di qualcuno, il fruscio della stoffa dei pantaloni contro la roccia, lo scalpiccio di passi di chi vagava senza meta nella stanza. A tratti ricompariva lo stillare misterioso di quel torrente forse finto. Costante, il battito del proprio cuore nel petto. Orazio a volte riconosceva anche le pulsazioni di Elsa, che dormiva affianco a lui. Avevano un che di energico che non c'entrava nulla con quella prigione. Solo lei osava rompere il silenzio. A volte, quando tutti erano svegli, lei li richiamava e si riunivano in cerchio. Chiacchieravano un poco, si raccontavano storie. Di tutti i tipi. C'era un uomo che raccontava aneddoti divertenti; Orazio dubitava che fossero cose che gli erano davvero accadute: gli sembrava di aver già sentito tutte quelle vicende, forse come barzellette. Comunque le sue storie provocavano le risate sganasciate di tutti e anche Orazio si ritrovava a sorridere. Elsa e il tizio con lo sfregio raccontavano storie più serie, a volte racconti letti sui libri, altre vicende personali. Orazio però non riusciva mai ad ascoltare il secondo: guardava la cicatrice che pulsava e ricordava quella carne. Doveva distrarsi. Non parlavano mai della loro prigione: quella c'era ed era naturale ci fosse. Solo Orazio osò tirare fuori l'argomento. «Da quand'è che siete qui, voi?» chiese, tentando di mantenere una voce disinteressata, come se quella fosse una domanda come un'altra. Non lo era. Se ne accorgeva dalle reazioni degli altri, dai loro occhi bassi e dalla loro mestizia, dal corpo che si abbandonava allo sfinimento, preda di una consapevolezza che loro volevano celarsi. Solo Elsa rimaneva impassibile. Forse il tempo passato lì aveva inaridito il dolore, forse quello era il suo carattere e null'altro. Però Orazio l'ammirava perché non soffriva, o almeno non lo dava a vedere. Gli altri vivevano invischiati nel male che non volevano notare. Allora Orazio immaginava le loro turbe. I tentativi di evadere, lo stesso sconforto che stava provando lui. Il tempo che passava e loro non potevano tenere il conto. Li capiva, Orazio, ma si sentiva troppo preso da se stesso, dai suoi turbamenti, quindi incalzava con quell'argomento. Scoprire qualcosa era di vitale importanza. Un'altra volte chiese se anche loro si fossero accorti delle telecamere. Alcuni annuirono, altri dissero di no, ma mentivano. Leggeva la paura nei loro volti. Quella volta Elsa lo prese in disparte e gli aveva parlato. «Qui le abbiamo viste tutti, le telecamere. Non sappiamo a cosa servono».
    Orazio non rispose.
    «Cioè, ne abbiamo discusso e ci siamo fatti tante idee, ma tanto tempo fa. Non c'era quasi nessuno di quelli che ora sono qui e molti di quelli che c'erano allora sono morti».
    Ancora, Orazio tacque.
    «Non è l'unica cosa strana. Il resto lo noterai col tempo. L'importante qui è restare uniti, sempre. Lui vuole dividerci e ci riesce spesso. Da quando sei arrivato tu non parliamo molto, ma è normale. Le cose cambieranno presto».
    «Importante per cosa?» chiese Orazio, ironico. Era uno dei suoi momenti no, si sentiva succube degli eventi. Nulla aveva un senso in quel posto.
    «Per sopravvivere».
    In effetti le cose migliorarono. Quelle che prima sembravano riunioni forzate ora risultavano spontanee. Si scambiavano battutine, parlavano delle loro vite, raccontavano ancora storie. Orazio passava molto tempo a chiacchierare con Elsa. Era una commessa di un supermercato quando era entrata lì dentro, doveva finire gli studi di economia. Lui non l'avrebbe mai immaginata così giovane: adesso aveva il cranio rasato, rughe rade ma profonde le calcavano il viso, il corpo era secco come quello di un moribondo. Spesso s'incantava nei suoi occhi, verdi e grandi come ampolle, e quel verde nelle sue iridi ora splendeva di smeraldo, ora s'offuscava, poi ancora splendente. Era come se quel colore oscillasse. Come olio nelle ampolle.
    A volte si faceva prendere dallo sconforto. Quello c'era sempre, sì, ma in quei momenti lo sentiva più profondo, vivo. Come una bestia che s'attorciglia sul cuore e lo avvinghia. La luce della libertà si faceva sempre più tenue. Rimaneva abbandonato sul pavimento come senza vita, gli occhi aperti, le braccia un po' storte che giacevano lungo i fianchi. Si mordicchiava le labbra e lasciava che il suo sguardo vagasse nell'aria. S'era accorto che in quello stato il tempo pareva scorrere più in fretta, quindi ogni tanto tentava di raggiungerlo. Si raccoglieva in meditazione e cercava il suo nirvana: l'avvilimento. Però più ci provava, meno ci riusciva. Erano momenti che non andavano cercati, quindi li lasciò al proprio corso.
    Affrontò una serie di problemi che non aveva calcolato in precedenza. Innanzitutto doveva andare in bagno. Naturalmente lì non poteva esserci un gabinetto. «C'è un bagno qui?» chiese comunque, provocando i risolini degli altri. «Allontanati e cercati un vicolo» suggerì Elsa e lui così fece. Si trovò un vicoletto laterale al percorso principale è s'acquattava lì. Si sentiva schifato e anche un po' umiliato, ma non c'era altra soluzione. Solo allora, nelle ore successive, prese a notare il puzzo che aleggiava forse da sempre nell'aria, ma che solo ora si faceva insopportabile. Gli faceva rivoltare lo stomaco. Per un po' di tempo non riuscì neanche a respirare col naso e fu costretto a boccheggiare, poi si abituò.
    Un'altra volta, appena sveglio, si ritrovò una ciocca di capelli neri tra le dita. Iniziò subito a tastarsi la testa, in cerca di chiazze in cui i capelli iniziavano a mancare. Ne trovò diverse. Quello di perderli era sempre stato uno dei suoi più grossi timori, ma ora non riusciva a disperarsi. Anche gli altri lì dentro non li avevano più e non poteva certo pensare che fosse stato un barbiere.
    A volte pensava. La sua vita, il suo lavoro, le banalità. Pensava a sua moglie e ai figli che non avevano mai avuto. Era un sogno che ora non sentiva più proprio. Chissà se Marina l'aspettava ancora o se magari s'era arresa alla rassegnazione. La immaginò a piangere nella stanza e non provò dolore né malinconia né nulla. A volte si sfogava con Elsa, che pareva assorbire tutta la sua rabbia, ma non poteva dirle tutto. C'erano cose che non riusciva a confessare neanche a se stesso.
    «Stavi con qualcuno lì fuori?» le chiese una volta. Stavano chiacchierando da un po', lui appoggiato alla parete, lei lì di fronte con la schiena un po' curva. Le loro gambe s'incrociavano e Orazio provava un solletico piacevole all'altezza della coscia.
    Lei abbassò lo sguardo, come persa in una malinconia vagabonda. Qualche gocciolina di sudore aveva interrotto il suo corso sul labbro e ora non voleva andar via, aggrappata a una delle tante spaccature su quella bocca rossa. «Sì» disse, poi passò a raccontare di lui. Orazio non l'ascoltò: s'era trovato a provare un pizzico di fastidio quando lei aveva iniziato a parlarne, una specie di vuoto nel petto, come di carne che mancava. La guardava, le studiava gli occhi in cerca di un qualche residuo di amore, e intanto le sue parole gli scivolavano addosso.
    «Ci pensi ancora?» chiese. Poi, temendo che le sue parole potessero essere fraintese, aggiunse: «Te lo chiedo perché io sono sposato e non riesco proprio a pensare a mia moglie».
    Elsa abbassò la testa, chiuse per un attimo gli occhi. Con le punte delle dita ossute aveva cominciato a ticchettare sull'osso della caviglia di Orazio, e lui ora sentiva anche lì lo stesso solletico di prima. «Ogni tanto sì, però poco».
    «E all'inizio com'era?»
    «Uguale, credo. Pensavo solo a me stessa e a come uscire da qui. Ora ho più tempo per pensare» disse, e poi un sorriso amaro apparve sulle sue labbra.
    «Già. Forse è lo stesso per me» disse Orazio. Lei annuì. Dopo qualche secondo, però, sussurrò: «Sai, non lo ricordo per nulla».
    Orazio tacque, forse per rispetto. Aveva sentito un rimescolio nello stomaco che era come nausea. Per un attimo aveva sentito come proprio il dolore di Elsa. Poi ripresero a parlare di altro.
    Poi la fame tornò. Non c'era niente da mangiare da nessuna parte, il solo pensiero di farlo gli provocava ribrezzo. Però sentiva il suo stomaco brontolare, il gorgoglio dei succhi gastrici. Si stringeva la pancia con le braccia per placare quel bisogno, si rosicchiava le unghie e ingoiava la propria saliva. Non serviva a nulla. Si contorceva, rotolava sul pavimento, ma i morsi della fame si facevano sempre più forti. Anche gli altri dovevano sentirlo, perché s'erano fatti più silenziosi, forse concentrati, come se ogni parola pronunciata sottraesse loro la poca energia rimasta. Lui però non riusciva a sopportarlo. Strane cicatrici comparivano su tutto il corpo, i ciuffi di capelli che cadevano diventavano sempre di più, ma lui non aveva la forza per preoccuparsene.
    «Cerchiamo un'uscita» disse a Elsa a un certo punto. Il suo tono era implorante.
    Lei lo guardò strano. «Eh?»
    «Ho fame. Cerchiamo un'uscita o almeno del cibo».
    «Orazio, qui non c'è niente».
    «Ti prego».
    «Abbiamo rivoltato questo posto da cima a fondo, non troveremo un'uscita».
    Insistette ancora per un po', poi, quando era sul punto di desistere, Elsa si rassegnò. «Va bene, ma cerchiamo di fare subito. Ho paura lì fuori» sussurrò perché nessuno l'ascoltasse. Si avviarono nel sentiero che lo aveva portato lì. Percorsi i primi metri, Orazio aveva già perso la speranza, ma si costrinse a continuare.

    #8

    Ora erano in quel vicoletto e procedevano a passo lento. Subito Orazio si ritrovò inghiottito da quello spazio. La stanza di prima c'era ancora, lì vicino, bastava voltarsi ed eccola a pochi passi, però la sua mente la faceva già lontana. Per qualche motivo, girarsi e tornare indietro gli pareva già impossibile. La via era stretta, il soffitto basso e umidiccio. Camminando, i capelli chiazzati di Orazio vi strisciavano ed emettevano un fruscio ovattato. Gli dava fastidio, quindi si abbassò e proseguì con la schiena curva. Poteva sentire l'alito di Elsa che gli spirava addosso e l'odore dei loro sudori che si mischiavano. A volte, forse perché le energie scemavano, si ritrovava a perdere l'equilibrio, e la sua spalla s'incrociava con quella di Elsa. Riconosceva l'osso sporgente e i muscoli rinsecchiti appena oltre la veste molle. La sentiva debole e temeva di farle male, ma allo stesso tempo quel contatto gli piaceva.
    Le lanternine incastonate nel pavimento emettevano una luce fioca e cupa. A volte, forse perché ci camminavano sopra, il bagliore tremolava, e sui muri si disegnava un tremolare d'ombre inquietanti, l'inseguire frenetico dei propri incubi. Allora Elsa s'accartocciava su se stessa; stringeva forte i pugni, serrava i denti, tratteneva per un attimo il respiro. Poi il mondo tornava immobile e i suoi nervi s'allentavano.
    Lei - Orazio - aveva quest'impressione - tentava di affrettare il passo, ma non riusciva a star dietro alla propria fuga. Camminava fiera, ma si tormentava le labbra. C'erano pochi momenti in cui il suo passo si faceva davvero più svelto e deciso, e per un attimo il suo volto s'illuminava di convinzione, però poi quella si spegneva, la camminata s'irrigidiva, il buio riprendeva a far paura. Le colavano stille di sudore lungo la nuca.
    Per un po' ci fu silenzio, poi cominciarono i rumori che aveva già sentito. Prima i sussurri. Erano le stesse voci incomprensibili che si rincorrevano, il bisbigliare di un animo folle. Si affievolivano - quel percorso non doveva essere stato pensato perché lo si percorresse al contrario, ma quello non faceva altro che acuire il terrore. E per qualche motivo Orazio aveva l'impressione di essere spiato. Elsa, invece, veniva percorsa da continui brividi lungo tutto il corpo. Ogni volta era come una sorpresa. Orazio s'accorgeva dell'elettricità dei peli di lei che si rizzavano, vedeva le sue labbra carnose scoprirsi per quel brivido e rivelare un interno corroso da piaghe indistinte. Poi quel rumore cessò e ci fu il silenzio. Elsa continuava a tremare, lui le si avvicinò per rasserenarla. Era incredibile come quella donna che sembrava non avere paura di nulla adesso congelasse dal terrore. Però era anche delicato, dolce in un modo assurdo.
    Poi ci fu lo stillicidio del torrente. Orazio se l'aspettava, ma per Elsa anche quella doveva essere stata una sorpresa. Si è dimenticata tutto, chissà da quanto tempo non viene qui si domandò Orazio. Sobbalzava al ritmo di quel lento palpito d'acqua. Ogni tanto si sfregava le braccia e le gambe, si alitava sulle mani a coppa, come sommersa davvero dal gelo di quell'acqua. Il respiro le veniva fuori come un ansito smozzicato, a volte emetteva mugoli interrotti. Poi anche quel suono sparì e Elsa parve tranquillizzarsi.
    Camminando, Orazio notò che le foto alle pareti erano scomparse. Dove prima c'erano le cornici la parete era più lucida. Quel particolare gli strappò un altro brivido d'ansia: qualcuno s'introduceva lì quando voleva e loro non se ne accorgevano. Ormai, riflettendoci, lo riteneva normale, ma il suo animo non rispondeva alla ragione, e lui non poteva evitare di galleggiare in un'angoscia continua e inconscia. Accanto a loro, i vicoletti scorrevano via veloci. S'angolavano verso la loro stanza e loro non potevano scorgere che l'inizio di qualche sentiero diroccato, subito avvolto dal buio. Incrociarono qualche pozzanghera - da dove veniva? - e Orazio si scoprì a specchiarsi nell'acqua putrida. Non riconosceva la sua immagine. Catturato tra le macchie marroni in quell'acqua verdastra, vide un volto deformato. Gli zigomi sporgenti, il naso un po' storto, la bocca consumata dalle stesse piaghe di Elsa. I capelli umidi gli cadevano sulla fronte in lunghi ciuffi divisi, ispidi e duri come setole. Per istinto si passò una mano in quella zazzera, come a esaminare ancora quante chiazze s'erano formate.
    Passò oltre. Camminarono ancora in quel silenzio ovattato solo dal respiro di Elsa. Dopo qualche minuto giunsero al piazzale in cui Orazio s'era risvegliato la prima volta. Non era simmetrico come l'altro spiazzale. Appena entrati, la strada proseguiva bassa per qualche passo e poi il soffitto s'impennava e si faceva più liscio. A terra, tra gli spiragli nelle rocce, i soliti ciuffi di erba incolta. A sinistra s'apriva l'altro percorso, quello che finiva con un vicolo cieco. Le stesse lampade incastonate nel pavimento illuminavano la via, ma il bagliore era più intenso.
    Arrivarono al centro della stanza, poi insieme si fermarono. Tacquero per pochi secondi, poi Orazio chiese: «E ora?»
    «Torniamo indietro» sussurrò Elsa.
    Orazio fece finta di non aver sentito e indicò l'altra via. «Andiamo di lì?»
    «Ma non sappiamo cosa ci può essere». La sua voce era un singhiozzo.
    «Io ci sono andato. La prima volta, quando mi sono risvegliato qui. Non c'è niente».
    Elsa parve tentennare per un attimo. Che anche in lei si fosse accesa una scintilla di speranza? Orazio non poteva dirlo, ma sfruttò l'occasione: «Dai, andiamo» disse, e l'afferrò per il braccio strascinandola via.
    Fecero i primi passi e Orazio subito s'accorse che la via era più larga. Non camminavano più separati solo da pochi palmi, i loro corpi che a tratti si sfioravano, i loro respiri che s'incrociavano. Ora erano distanti, troppo distanti. Fu come una stretta di malinconia, quella che s'avvinghiò al suo cuore. Piano, prese a indirizzare il suo passo di sbieco, senza farsi notare. Un centimetro alla volta, Elsa si faceva sempre più vicina. La morsa che gli aveva stretto il cuore si sciolse, tutto sembrava andare bene anche in quel posto del cazzo.
    Lei non tremava più. Guardandola di sottecchi, Orazio notò nel suo sguardo un colore diverso, un barbaglio di curiosità che aveva sostituito il terrore. Era ancora intermittente. I suoi occhi ripiombavano in quell'abisso, ma sempre meno spesso. Orazio cercò anche un contatto tra le loro dita e lo trovò. Le loro nocche si solleticavano, i graffi s'incrociavano.
    Questa volta il tragitto fu breve. I vicoli ai loro fianchi scorrevano via veloci, non c'era niente che potesse provocare angoscia. Presto Orazio riconobbe la curva oltre la quale sarebbe finito il loro cammino. Dovevano solo tornare indietro ed esplorare uno a uno tutto i vicoli che avevano trovato. Ci avrebbero messo ore e Orazio si sentiva stanco solo all'idea. Decise di arrivare fino alla fine e poi confrontarsi con Elsa.
    Quando vide che la strada terminava lì, Elsa si voltò verso di lui e lo guardò contrariato. La fronte corrugata, le labbra imbronciate. Sembrava una bambina a cui avessero tolto il giochino preferito. «Finisce qui?»
    «Già».
    «E adesso?»
    «Dovevamo cercare una via d'uscita, no?»
    Elsa annuì.
    «Allora dobbiamo vedere i vicoli»
    «Tutti?»
    Orazio fece cenno di sì. Elsa prima sbuffò, poi assentì anche lei. Si girò e sembrava già pronta per rimettersi in cammino. «Riposiamoci un attimo, sono un po' stanco» disse accasciandosi alla parete dietro di lui.
    Prima udì uno scricchiolio, poi qualcosa che frusciava. Non erano i suoi vestiti. S'immobilizzò dallo stupore. Quello era il rumore della cartapesta. Non poteva sbagliarsi. Ci aveva lavorato per anni e, sebbene fossero passati anni dall'ultima volta, quel rumore gli era rimasto dentro, in un posto a metà tra le orecchie e il cuore. Forse Elsa intuì qualcosa dalla sua espressione stupita, perché gli chiese: «Che c'è?»
    «No, nulla, nulla, tranquilla. Andiamo» disse, e si risollevò da terra.
    Doveva essere un abbaglio. Uno scherzo della mente, forse era la stanchezza, forse lo stomaco vuoto, forse un rigetto della coscienza. Però non riusciva a convincersi. No, conosceva quel rumore troppo bene. E l'aveva sentito sul serio. E se fosse quella, la via d'uscita che cerchiamo? Già sentiva il cuore liberarsi in mille esaltazioni. Rivide i colori e i volti delle persone. A quel punto, però, tornò l'incertezza. Non illuderti, Orazio, calma. Ipotizzò di tornare indietro e verificare, ma non poteva: Elsa non doveva sapere niente. O almeno, non ancora. Gli sembrava troppo volubile, in quel momento, e non poteva pensare cosa potesse essere in grado di fare. E poi c'erano le telecamere: se davvero qualcuno li spiava, non era un bene che sapesse che lui aveva scoperto come fuggire di lì. Gli altri dovevano saperlo, e subito: bisognava fuggire tutti insieme. Sempre che davvero si potesse uscire di lì, certo.
    Intanto entrarono nel primo vicolo. Elsa camminava più veloce e lui non riusciva a starle dietro. Del resto non gli interessava neanche: se davvero c'era una via d'uscita, lui l'aveva già trovata. Seguì comunque i suoi passi, preso da una sorta di fibrillazione che faceva scadere tutto il resto in noia. Il primo che esplorarono era buio, impolverato e finiva dopo pochi passi. Il secondo era simile. Dopo poco Orazio disse: «Senti, torniamo indietro, qui non c'è niente. Questi servono solo per sviarci». Elsa prima cadde in uno sconforto un po' ingenuo, poi annuì e riconobbe che Orazio aveva ragione. Si ritirarono trascinando i passi dalla stanchezza. Orazio accentuò ancora il contatto tra le loro braccia, e questo, insieme alla possibilità di uscire di lì, gli faceva fremere la pelle. Si sentiva cullato come da una febbricitante felicità. Stavano per arrivare allo spiazzale centrale. «Sei stanca?» chiese Orazio.
    «Un po'» disse Elsa alzando le spalle.
    «Ci riposiamo qualche minuto?»
    «Va bene».
    Proseguirono e ci arrivarono. Elsa si lasciò subito scivolare a terra. Lo stava facendo anche Orazio, quando la terra prese a tremare.
    Venne giù una fitta pioggia di piccole pietre. Poi due forti scatti metallici. Elsa cacciò un urlo acuto e breve. «Tutto bene?» le gridò Orazio, senza ascoltare risposta. Aveva la vista offuscata, quel rumore aveva risvegliato un malessere strano, nauseante. Sbatté le palpebre, tentò di mettere a fuoco.
    Si ritrovò sdraiato a terra. Si tirò su a sedere, la vista venne meno per qualche altro attimo. Poi tornò.
    Il pavimento era cosparso di quelle pietroline che erano precipitate sulla loro testa. All'inizio di ognuno dei due percorsi, dall'alto, era scesa un cancello metallico. Sbarre metalliche verticali bloccavano la via. Erano spesse, tra l'una e l'altra non c'era tanto spazio.
    Elsa era ancora a terra. Si stropicciava gli occhi con il dorso delle mani. Quando riprese la vista, la bocca rimase aperta. Prima fu stupore, poi angoscia, poi terrore.
    Erano intrappolati in quella stanza. Dagli angoli del soffitto, sempre più forte, cominciava a venir giù una polvere granulosa e marrone.

    #9

    All'inizio Elsa non s'accorse di quel flusso granuloso. Camminava a piccoli passi nella stanza, cacciando brevi strepiti alternati a qualche singhiozzo. Ora il suo cammino si faceva cadenzato e nevrotico; le sue mani, preda di un accesso d'ira, si chiudevano e si riaprivano ripetutamente, sfregavano contro la stoffa dei vestiti, s'arrossavano sulle nocche e sui dorsi. Subito però i suoi passi annegavano in una sorta di flemmatica indolenza, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le spalle lente e storte. E il suo viso sembrava riflettere le pose umorali del suo corpo. La rabbia, infiltrata nelle pieghe del suo viso, enfatizzava la durezza dei suoi lineamenti. La luce cupa, il labbro tremulo e nervoso, l'inarcarsi del sopracciglio, tutto sembrava dipingerle il volto di un pallidume furioso e sublime. Poi però la rabbia svaniva e veniva lo smarrimento: le guance s'afflosciavano e la testa si reclinava sulla spalla. Lo sguardo rintronato, gli zigomi appassiti, Elsa sembrava smorta come una regina spodestata.
    Orazio studiava la polvere che veniva giù agli angoli del soffitto. Ne prese un pizzico tra le dita e la lasciò scorrere. Dalla consistenza, riconobbe, doveva essere terra mista a sabbia. Guardava le sorgenti di quei fiumiciattoli, che non promettevano di fermarsi, e sentiva sprofondarsi nello sconforto. Perché anche quello? Non bastava la tortura di quella prigione? Qualcosa però non gli tornava. Sebbene intorpidito dalla paura, intuiva che la terra non li avrebbe sommersi. Non sarebbero morti lì, non avrebbe avuto senso. Cercò di intrufolarsi nei pensieri di quel sadico e il suo presentimento gli parve più saldo. Quella non era una punizione. Era un avvertimento. Arrivò a stupirsi della sua lucidità e per un attimo dubitò di se stesso. E se fossero state solo congetture insensate, figlie di una qualche esaltazione? Ora aveva altro a cui pensare, ma l'euforia per la scoperta di qualche minuto prima ancora gli scorreva nelle vene. Si rassegnò alla nebbia dell'incertezza e tornò a guardare Elsa.
    Lei la lucidità l'aveva persa del tutto. Ora, aggrappata alle sbarre che li impigionavano, sussurrava al vuoto preghiere d'aiuto. Aveva agli occhi le screziature rosse di un'invasata e le vene sul collo che sporgevano. Orazio le si avvicinò. «Stai calma. Usciremo presto».
    Lei si voltò lenta. «Perché ci ha rinchiusi?» Non gli lasciò il tempo di rispondere e continuò: «Te l'avevo detto che non dovevamo uscire, te l'avevo detto!» Quindi riprese a mugolare frasi indistinte.
    «Ascolta, tra poco ne usciremo. Ne sono certo». Orazio in realtà questa certezza non l'aveva. Il flusso sembrava solo farsi più spesso e una prima patina di terra s'era posata sui loro piedi. Infilatasi nelle unghie, ora pizzicava. L'intuizione di prima già vacillava, ma non volle pensarci. Dopo qualche minuto Elsa parve tranquillizzarsi. I suoi occhi presero un'intonazione placida, le vene sul collo s'erano sgonfiate e ora disegnavano morbidi solchi sulla sua pelle. «Non dovevamo farlo» disse. Non era un rimpianto né un rimprovero. «È ciò che vuole dirci, non dovevamo farlo. Ma perché?».
    Orazio fece finta di non sentire la domanda e rispose: «Sì, lo penso anch'io». Si scambiarono uno sguardo che durò qualche secondo. Poi lei chiese ancora: «Ecco, ma perché?»
    Orazio aveva un'idea, ma non osava crederci. Anche questa poteva essere frutto di quell'esaltazione euforica di prima.
    Quella lì è davvero l'uscita e lui ha capito che io adesso lo so. Ci ha spiato di sicuro, qui ci sono telecamere ovunque. Vuole intimidirci.
    A questi pensieri un'ebbrezza onirica lo riavvolgeva. Si sentiva un genio. Tra poco sarebbero stati fuori di lì. Lui, Elsa, il tipo con lo sfregio, tutti, e sarebbe stato grazie a lui. Avrebbe rivisto il sole.
    Subito però si ripresentavano i dubbi. Magari era davvero una punizione. Forse era un modo per sviarlo: fargli credere di aver trovato l'uscita e lasciarlo a gongolarsi in questa convinzione. O forse non c'era un senso. Quel figlio di puttana si divertiva a torturarli e lui tentava ancora di combattere. Intanto Elsa lo guardava, aspettando ancora una risposta. Aveva un'aria un po' accigliata e la fronte tutta rughe come corrosa da quella domanda. Perché? Orazio non rispose: non voleva che Elsa sapesse della sua scoperta. Prima doveva accertarsene. Lei però — Orazio ebbe questa sensazione — in qualche modo aveva intuito. Quell'espressione tutt'a un tratto perplessa non lo convinceva. Perso com'era nelle sue supposizioni, decise di lasciar perdere.
    Poco dopo, comunque, seppe di aver ragione almeno su qualcosa. Il fiume di terra, una volta che questa era arrivata alle ginocchia, s'interruppe. Le sbarre che li rinchiudevano tornarono su con la stessa violenza con cui erano scese. La terra tremò ancora per un breve attimo. Elsa si rivolse ad Orazio con lo sguardo fisso sulla strada che avevano davanti: «Andiamo?» La sua voce era calma. Sembrava rinsavita.
    Tornarono alla loro stanza camminando veloce. Poco prima di arrivare Elsa si fermò. Orazio, che le era qualche passo indietro, la raggiunse e attese.
    «Mi nascondi qualcosa?» disse lei. Aveva un'aria che era a metà tra quella di una bambina furba e quella di chi riconosce che qualcosa non torna.
    «No. Perché?»
    «Così. Mi sembri strano».
    «Sono un po' scosso forse» suggerì lui.
    «È da prima che ti vedo così».
    Lui fece spallucce, poi ripeté: «No, non ho niente». Elsa lo squadrò, lui scostò lo sguardo. Poi s'incamminarono di nuovo.
    Evitarono di parlare agli altri di quello che era successo. Orazio temeva che ogni parola potesse fornire un indizio sulla sua scoperta. Elsa sembrava strana. Aveva salutato gli altri, poi s'era rintanata in un posticino. Fronte corrucciata, braccia conserte, gambe incrociate. Orazio la guardava. Ogni volta che lei alzava lo sguardo, lui spostava il suo e fingeva di guardare il vuoto; poi, appena qualche secondo dopo, tornava a fissarla. Così per un tempo indefinito, in un rincorrersi di sguardi carichi. Dalla nuca di lei colavano lente gocce di sudore, che s'infilavano nello spazio tra la schiena esile e la maglietta. Il cranio nudo riverberava la luce strana della stanza.
    Dopo un po' Orazio iniziò a provare un fastidioso prurito alle gambe. Lunghi filamenti rossastri si ramificavano dai piedi fino al punto in cui era arrivata la terra. Guardò Elsa e capì che anche per lei era lo stesso. Entrambi presero a grattarsi e un uomo — quello che raccontava barzellette idiote — chiese loro: «Che è successo?»
    Orazio ed Elsa si guardarono. Lei fece un cenno, poi parlò: «Non lo sappiamo. Forse...» e stava per inventare qualcosa, ma l'uomo la interruppe. «Siete stati a contatto con della sabbia?»
    I due si guardarono ancora. Un brivido d'ansia percorse la schiena di Corrado. E se li avessero spiati? Non c'era nessun motivo di aver paura, lo riconosceva. Però anche quell'idea lo faceva temere. Doveva custodire gelosamente quella scoperta.
    A parlare fu ancora Elsa. «Non lo so, forse, in qualche vicolo... perché?» Era brava a fingere, riconobbe Orazio.
    «Sono un medico. Non ve l'avevo detto?» rispose l'uomo. «Potrebbe essere un parassita. Lo conosco perché è molto diffuso, l'irritazione è quella. Si chiama... no, ora non mi viene in mente».
    «È pericoloso?» chiese subito Orazio.
    «No, no, fa solo un po' male. Poi passa da solo» rise quello. Orazio annuì, non del tutto rincuorato.
    Passò poco tempo. Orazio era sognante, ma i morsi della fame lo costrinsero a riprendersi. Li aveva dimenticati, assorbito com'era dai suoi vagheggiamenti. Ora però erano tornati. Insieme a loro, venne anche un torpore improvviso e nebbioso. S'addormentò presto, ma non del tutto. Nel dormiveglia, sentiva il rado mugolare di una voce conosciuta.

    Edited by RàpsøÐy - 5/3/2017, 15:48
  10. .
    Linda ha trent'anni, le mani troppi grandi e un triste spazio vuoto nel sorriso, lì dove dovrebbe esserci l'incisivo destro. Slanciata, capelli crespi, vene gonfie le percorrono i polpacci. Lavora in comune, si occupa della concessione degli edifici per attività culturali. Tradotto: firma i fogliacci che la gente le porge. A trent'anni, si trucca ancora come farebbe una bambina di dieci: ogni giorno, i brillantini le cospargono il viso, il mascara fucsia le cola delle ciglia e il fondotinta le infanga le guance come pozzanghere sporche. I colleghi, di sottecchi, si prendono gioco di lei, ma lei se ne frega. Riconosce di avere il viso sghembo e ridicolo, forse anche una risata stridula, ma le importa poco.
    Linda ha trent'anni e forse l'unica cosa che le appartiene è la sua età. La mamma è morta di cancro - al pancreas, fulminante, di quelli che non ti concedono il tempo di ricevere il colpo, ma ti lasciano tramortiti su un sentiero buio -, i nonni di vecchiaia, non ha fratelli né sorelle né amici. Le rimangono il papà e il marito. Non sa per quanto, saperlo è l'ultima cosa che desidera.
    Per quanto ancora può essere definito padre un corpo appassito, degli occhi vacui, due gambe ormai inutili? Il papà di Linda aveva i capelli bianchi e folti, il volto squadrato e le mani callose. Il dolore germinava sul suo volto come pustole infette, ma i suoi occhi erano ancora vivi. Poi, quando la mamma è morta, se n'è andato anche lui. Alzheimer. Ricorda ancora la lettera che comunicava l'avanzare lento ma inesorabile della malattia: ha cercato, tra le scanalature che formavano quelle righe nere, un segno colorato, una semplice macchia, qualcosa che le dicesse: "È tutta una presa per il culo". Ora gli occhi del papà di Linda inseguono qualcosa che non esiste più - forse un ricordo di gioventù, o il filo conduttore dei propri pensieri, o il corpo gracile di quella che amava - e poi, dopo vane ricerche, semplicemente, annegano. A fondo, in un mare di dolore e merda. I suoi zigomi sono affilati, le sue mani tremule. Linda evita sempre di più le visite: ogni volta, sentire quella voce che adora, incrinata dalla deriva della sua mente, chiedere chi è quella ragazza che siede accanto a lui la strozza. E poi l'ospedale puzza di candeggina e alcol, e le fa schifo.
    Poi c'è Marcus. L'amore che si cerca per tutta la vita, Linda l'ha trovato. Sette anni prima, lui era poco più che uno sbarbatello. Aveva le braccia secche e gli occhi incavati. Forse era per le braccia che si è innamorata di lui, pensa, per quegli stuzzicadenti così vicini allo spezzarsi. Poi è cresciuto e si è irrubostito, mentre Linda non è cambiata di molto. Lo stesso fisico slanciato e largo, gli stessi capelli ribelli, le vene che sono aumentate di numero. Marcus ha qualche anno in più di lei, l'alito che puzza sempre di alcol e una calvizie incipiente. Poi è arrivata quella lettera, qualche settimana dopo la morte della mamma e in corrispondenza alla malattia del papà. Anche lì, ha cercato, tra le scanalature che formavano quelle righe nere, un segno colorato, una semplice macchia, qualcosa che le dicesse: "È tutta una presa per il culo". Ma era tutto vero: Marcus doveva andare in Libia per il Governo, e in fretta. In guerra, a migliaia di chilometri da lei. Tra le armi e le malattie e la fame, a migliaia di chilometri da lei. In questi casi il tempo per salutarsi non basta mai, e i baci umidi di saliva e lacrime che si erano scambiati prima della sua partenza erano e sarebbero stati in ogni caso troppo pochi, così come le loro notti d'amore ora appaiono distanti, sfocate.
    Ogni due settimane, si scrivono. Dopo nove mesi, si sono scambiati trentaquattro lettere, diciassette ciascuno, tutte le settimane, tranne una: le poste hanno combinato un gran casino e la lettera dalla Libia ha fatto un giro immenso prima di arrivare a lei. Ricorda ancora quella settimana: l'ansia che attanaglia le viscere, il timore e la paura, l'idea di rivedere Marcus che si liquefà alla fredda luce della verità. E se fosse morto, o gravemente ferito, o malato? si chiedeva ogni giorno. Non ha mai ceduto al desiderio di scrivergli: se l'avesse fatto, si diceva, avrebbe dato corda alle sue paure e magari Marcus sarebbe morto sul serio. La relazione che legava le due frasi era sconosciuta anche a lei. Comunque, alla fine la lettera è arrivata. L'ha scartata con mani frementi, mentre il postino la guardava un po' stupito, e lei sperava che il mittente fosse Marcus in persona e non qualche personaggio più in alto. Alla fine l'ha avuta vinta: lui era vivo.
    Però ogni giorno la nostalgia si fa più forte. Le manca il tocco irruente delle sue braccia, le sue labbra che dal collo scendono verso il ventre e scavano luoghi proibiti, i suoi abbracci poderosi e il suono fanciullesco della sua voce. In ogni lettera, Marcus conclude con: "Il mio amore si fa sempre più forte. Tornerò presto. Ti amo". Ma quel presto ancora non arriva, e a ben pensarci appartiene al futuro, mentre le sue esigenze sono qui, ora, e il futuro non può far altro che accrescerle. Pregusta l'idea di averlo affianco presto, ma le idee non riempiono un letto vuoto né infrangono i silenzi pesanti di un tavolo che puzza di minestre e bolliti sfatti.
    Qualche volta, assieme a quelle parole disordinate, arriva una foto. A Marcus è cresciuta la barba e la divisa militare gli sta bene. A Linda piace, almeno. Anzi, la eccita, e solo Dio sa quant'è difficile tenere a bada i propri istinti in quei momenti. Le spalle si sono ingrossate, il viso presenta venature in cui Linda legge tristezza. Oh, povero Marcus.
    Poi un giorno arriva un'altra lettera. La differenza le balza subito all'occhio: di solito, l'intestazione è scritta a penna e la calligrafia rozza di Marcus impiastriccia il foglio. Qui è stampata. Il postino le consegna la busta, con la solita espressione un po' stupita continua a fissarla. E lei sa, la verità è migliaia di insetti che le divorano il torace, ma non vuole crederci. Si aggrappa a ipotesi che non capisce. Saluta il postino e torna in casa. Il solito tanfo di minestre e bolliti. Si porta in camera da letto, si sdraia, scarta la lettera.
    È ancora lì quattro ore dopo. Con le dita segue il segno di quelle righe fredde stampate sulla carta - Marcus usava la penna come una zappa e quasi scavava il foglio, così lei soleva percorrere quelle lettere calcate, cercando di indovinare su quale parola si trovasse e sentendosi in qualche modo più vicina a lui -, ma l'inchiostro stavolta non ha inciso nulla. Il suo corpo è tutto un tremito. Rilegge la lettera - per qualche motivo il fato ha deciso che a rovinarle la vita ci debba sempre essere una lettera -, e ancora una volta cerca, tra le scanalature che formano quelle righe nere, un segno colorato, una semplice macchia, qualcosa che le dica: "È tutta una presa per il culo". Ma le parole non cambiano. Al Governo rincresce comunicare che eccetera eccetera. Se non fosse per la situazione, l'idea che il carnefice si dispiaccia per la morte della vittima farebbe quasi sorridere.
    Linda - tastando con le mani la superficie ruvida di una fune - pensa che le idee, pur non avendo voce o consistenza, a volte ti lasciano appesi alla speranza. Perché, se prima le mancavano le sue labbra calde e le sue strette imprudenti - Linda stringe più forte, sino a quando non le fanno male i palmi -, ora le manca l'idea di poter tornare a baciare un giorno quelle labbra, il desiderio che quel silenzio a tavola si infranga - Linda sale sulla sedia e fissa il vuoto sotto di lei, anche da mezzo metro soffre di vertigini -, ora tutto ciò che ancora ha le sta per venire meno.
    Linda si impicca alle sei di un pomeriggio buio. Qualcuno la ritroverà tre giorni dopo, con le vene sulle gambe sgonfie e lacrime coagulate sulle guance pallide.

    Edited by Tommas02 - 21/10/2016, 07:43
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    È bellissima, complimenti!
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    Be', sì, in effetti l'ha stuprata. Però a pronunciare la frase è una bambina di sette anni, a quell'età di solito non esiste ancora nessun'idea sul sesso.
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    È nel buio delle notti fredde che la verità ti si infila nella pelle. Ti massaggia lo stomaco e te lo trapassa, per poi salire sino al cervello. Ed è al gelo che Guenda si rende conto di aver ammazzato per la prima volta. Proprio lei, filantropa convinta, amante di tutte le forme di vita, dalle più nobili alle più viscide, quelle in cui qualcuno cataloga l'uomo. Ma non è pentita: sa che ciò che ha fatto è giusto e lo ripeterebbe mille volte ancora, se ricapitasse qualcosa del genere.
    Il gelo però si riempie di un odore che sa di morte. No, si ripete che non è pentita, però... ecco, forse un po' spaventata. Dalla possibilità che venga scoperta - perché nonostante sia sicura di essere nel giusto, capisce che sarebbe in guai seri se gli sbirri venissero a saperlo -, o forse da un futuro lontano e incerto. Non ha mai creduto in Dio e santi e Paradiso, ma quando ti macchi di un peccato che tutti i catechisti ti ricordavano essere mortale, qualche dubbio ti viene e la prospettiva delle fiamme eterne non pare poi così improbabile.
    Accarezza con il dorso della mano la schiena inerte di suo marito, prova a udirne il respiro regolare o i battiti del cuore. Non ci riesce.
    Ma la sua paura ha anche qualcosa di recondito che fatica a confessarsi. Il letto che cigola, il parquet che scricchiola, le pareti che tremano. Un alito pesante che le soffia sul viso girato di lato, che si rifiuta di sollevare. È per la paura che ha adottato quella soluzione, che non riesce comunque a rassicurarla: in qualche modo, sembra che i morti tornino sempre a tormentare i vivi.

    «Mamma, mamma... papà mi ha fatto la pipì in bocca». Gliel'ha detto all'ultimo rossore del tramonto, la voce piagnucolante e due lacrime stanche a bagnarle gli occhi. Il sole disegnava sul suo viso ombre scure che si rincorrevano e le finivano negli occhi storti. Guenda l'ha guardata per qualche secondo, incantata da quelle onde nere. Poi ha fissato i riflessi rossastri del sole sui suoi capelli, le sue lacrime solitarie allo stesso modo arrossate dal crepuscolo. Quindi una collera tremenda le è montata lungo tutto il corpo ed è stato in quel momento che ha deciso. La morte era l'unica punizione adatta.

    Una bambina di sette anni. Una bambina strabica. Come ha potuto? Ancora adesso, a due giorni di distanza, con uno strano groppo in gola che non è dovuto solo al gelo, l'odio le riempie le vene. Si sente ferita nel profondo, umiliata, strappata alla dignità. E tutto ciò non fa che confermarle la giustezza delle proprie azioni.

    La vendetta è un piatto che va servito freddo, dicono, e così Guenda ha deciso di prepararla. D'altronde cosa c'è di più gelido del profilo ossuto della morte?
    Ha imparato che pianificare un omicidio è molto più semplice che realizzarlo sul serio. Si rischia di cadere in illusioni megalomani, un po' come si fa quando si sogna troppo in grande, e quando poi sei sul punto di farlo le mani ti tremano come quelle di un ammalato e prendi a sudare come se il sole ti bruciasse le carni, nonostante un freddo che ti pervade le ossa. Il trucco per condurre la vittima in cantina, il coltello che si infilava nel collo, la facilità con cui sollevava un corpo già molle: tutto nei suoi piani era perfetto. E non è andata troppo male, no, ma non ha calcolato un particolare che si è rivelato importantissimo per i suoi incubi.

    A pensarci, ancora rabbrividisce.
    Il sangue. Quando il coltello si è infiltrato nel collo, schizzi rossi le hanno imbrattato il vestito e la faccia, le hanno accecato gli occhi e tappato il naso. Ma non le orecchie: non dimenticherà mai le urla di una persona che muore. Sente ancora di puzzarne, crede che lo farà per sempre.
    Un altro scricchiolio sulle assi del legno. Si ripete che è un'illusione, ma non ci crede.
    Ma per sottrarla ai suoi timori basta un'immagine, che emerge da stanze che vorrebbe serrare con la chiave. Suo marito e sua figlia, all'inizio abbracciati. Gli stessi capelli corvini, lo stesso tagli affilato degli occhi castani. Poi vede lui che se la scopa, che si scopa una bambina strabica di sette anni, e nonostante sappia che non è mai successo, le viene voglia di ripetere ciò che ha fatto due giorni prima.

    Legare un corpo morto al soffitto della cantina non ha molto senso, si è detta a cose fatte. Prima però non ci ha ragionato su e l'ha semplicemente appeso lì. Forse per esporlo a mo' di trofeo, per ricordare com'è che vanno le cose in quella casa. È stato semplice: anche in vita non pesava tanto, ma la differenza con il suo corpo morto era impressionante. Forse, si dice Guenda, è un relitto spogliato dai peccati che gravavano sulla sua anima. Ormai era troppo stanca per toglierlo di lì e in fondo neanche voleva farlo, nonostante si rendesse conto che tutto ciò aveva un che di macabro.
    È tornata di su, ha aspettato. Poi è andata a letto, ha dormito un sonno di piombo. Sino a un certo punto.

    È quando scoccano le quattro di notte che la paura si fa insopportabile. Per qualche motivo, Guenda sa che con l'avvicinarsi dell'alba i morti hanno meno tempo per prendersi la loro rivincita e quindi devono affrettarsi. Le è già successo nelle due notti precedenti e sa che le succederà anche questa notte. Infatti, non appena il rimbombo delle campane lontane la raggiunge, sente il terrore bloccarle il corpo. Cerca di contenerlo, ma al primo soffio di vento, all'udire - o forse all'immaginare - lo scricchiolio minaccioso in cantina, ancora una volta, quel bisogno di controllare è irrefrenabile.
    Prende la molletta accanto al letto, la mette sul naso. Quindi avanza a tentoni, piano. Imbocca le scale, arriva in cucina. Fuori, la pioggia che sferza le finestre. Attraversa il salotto, sbatte contro il divano, per un attimo si disorienta. Subito ritrova la strada grazie alla luna che si infiltra nelle imposte dischiuse. Si incammina lungo la seconda rampa di scale, dove la luce è lasciata accesa da due giorni. L'odore di decomposizione la colpisce come una mazzata, nonostante la molletta, pochi metri prima di entrare in cantina.
    Fissa il corpicino attaccato alla corda. Pende ancora e forse ondeggia, come mosso da un vento inesistente. Il collo è reclinato in una posizione innaturale, nero, anche le gambe sono nere. Le mosche gli ronzano attorno.
    Guardandole il viso, Guenda nota ancora ombre scure che si rincorrono e le finiscono negli occhi storti.

    Edited by Tommas02 - 14/9/2016, 04:04
  14. .
    Dopo una ventina di chilometri, la statale ventuno subisce un'innalzatura vertiginosa. Il percorso si fa ricco di tornanti, l'asfalto cosparso di buche. Su un lato, ci sono - anche se trascurate dai più a causa dell'alta velocità di passaggio - due croci di pietra conficcate nel terreno, incise con una data e due iniziali, ormai coperte dal muschio e scavate dalla pioggia. Sono quelle di un pilota aereo e della sua spalla morti in un incidente molti anni addietro. Proseguendo ancora per qualche chilometro, sull'altro lato si apre una stradina. Piccola, buia, nascosta tra le steppe incolte. Ai pochi occhi che riescono a coglierla sembra un'illusione. Ma esiste e si stende per diverse centinaia di metri. Imboccandola, si prosegue prima su una strada sterrata, poi sulle foglie umide, che si incollano alla suola delle scarpe. Il bosco digrada ai lati e pare di passeggiare sull'orlo di un pericoloso precipizio. Si cammina, cercando di ignorare il fruscio delle code dei serpenti che frustano la vegetazione e il ronzio incessante degli insetti. Il volo obliquo delle falene e l'ululo dei lupi. Uno scalpiccio di passi, che qualcuno cerca di camuffare con scarso successo.
    A un certo punto, illuminato da una luna che non osa infiltrarsi tra le fauci del bosco, si nota un cartellone. Campeggia sul nulla e presenta una scritta mezza mangiucchiata: è quella di un distributore di benzina. Poi appare l'insegna di un McDonald's, che si illumina a scatti irregolari solo nella parte destra.
    Fondato anni addietro e con notevole spreco di denaro, l'autogrill è rimasto abbandonato nel giro di qualche mese. Isolato com'era, i clienti erano pochi e di conseguenza i soldi insufficienti. Ora rimangono i ruderi, il bosco e la paura. Quella non muore mai.
    Guardo la luna piena, mi rincuora un po'. Sono le tre di notte, mi fa male la testa e ho la nausea.
    E non so come mi trovo qui.
    Cerco una cabina telefonica nei dintorni. Non c'è, ovviamente. Mi piego sulle ginocchia. Non ricordo nulla, o quasi. La musica, l'alcol, le sirene della polizia. E poi?
    Entro nel McDonald's: magari avranno un telefono, anche se lo credo improbabile. Avrò comunque un luogo riparato in cui dormire. Il vecchio locale puzza di urina, alcol, marijuana. Forse anche sangue. Mi faccio luce con l'accendino, riesco a vedere a malapena ciò che c'è a due metri da me. Cocci di vetro a terra, un materasso sporco, sedie di plastica rotte. Poi le macchie di umidità sul muro. Ma nessuna traccia di un telefono. Rassegnato, mi accascio sul materasso. Sento come una patina appiccicosa avvolgere il mio corpo e vengo scosso da un brivido. Poi colgo un ragno zampettare sul mio viso. Lo scaccio schifato.
    Cerco ancora di ricordare, ma non riesco. Mi sento svanito, il cervello leggero di un fantasma, lo stomaco in subbuglio. Mi alzo per andare in bagno, facendomi ancora luce con l'accendino. Il cesso è sporco e puzza, c'è un ronzio indefinito nell'aria. Dopo aver pisciato, vado d'istinto al lavandino, ma ovviamente non c'è acqua. Ci sono due mosche: una mi ronza intorno e mi saltella addosso, l'altra è immobile sul lavello. In quel silenzio, mosso solo dal ronzio dell'altra, sembra quasi che mi stia fissando. Vomito nel lavandino.
    È a quel punto che il gas nell'accendino finisce. Cerco di riaccenderlo, non ci riesco. Spero di trovarne un altro nelle tasche, ma invano. Respiro, il buio mi scorre addosso come lava rovente. Ricordo la strada sino al materasso e dovrei essere in grado di arrivarci. A tentoni, proseguo. Trovo la porta, la sorpasso; cammino rasente al muro, cercando di capire quando devo discostarmi.
    Un paio di passi dietro di me. Attutiti da qualcosa di morbido, ma comunque distinguibili. Il cuore mi sale in gola. Lo scalpiccio si fa più fitto, io prendo a correre verso quello che credo che sia l'ingresso. Inciampo nei cocci e mi taglio, ma devo rialzarmi e proseguire. Di sfuggita, mi pare di vedere il mio inseguitore, ma sono sicuro di essermi sbagliato: non può esistere qualcosa del genere. Supero il portone e subito sento il vento freddo sferzarmi il viso. La luce è sollievo lieve. Continuo a correre, ma ormai sono a corto di forze e sento quella cosa sempre più vicina. Mi piomba addosso quando sono ormai in prossimità del bosco, mi sbrana le caviglie e risale verso le cosce. Il dolore mi acceca, cerco di divincolarmi e mi ritrovo sdraiato supino, il mostro ai miei piedi. Rivedo il suo volto peloso, le sue fauci enormi, mi si ripresenta il calore del suo abbraccio. Poi guardo in alto, verso quelli che saranno gli ultimi colori della mia vita.
    In cielo c'è la luna piena.

    Edited by Tommas02 - 11/9/2016, 04:06
  15. .
    Tre di notte. È estate, e fa caldo. La stanza è avvolta da un buio soffocante. Accaldata e nuda, tranne che per un paio di slip ormai sudati, una ragazza si rigira nel letto. Mai come questa notte, trovare la posizione giusta le sembra un'impresa ardua. Si gira da un lato, un'ondata di calore improvviso le soffia sul viso, poi dall'altro e viene presa da una nausea strana, quasi delicata. Si stende supina, ed è come se quell'oscurità le piombasse addosso togliendole il fiato. Chiude gli occhi, li riapre, non vede niente. Neanche la propria sagoma. Deve tastarsi per assicurarsi che i suoi seni non siano spariti, che il buio non abbia inghiottito le sue braccia, che i mostri che coltiva sotto il letto non le abbiano divorato il torace.
    L'oscurità ovatta, oltre che la vista, tutti gli altri sensi. Di tanto in tanto la ragazza sente il letto sfuggirle, i muri dissolversi e le pare di precipitare in un baratro immenso, nero, caldo. La bruma che si stringe attorno a lei. Persino i rumori esterni — automobili che sfrecciano e musica che dà alla testa, che si ripresentano ogni notte forti e sgradevoli — sembrano svaniti in quel buio. Quasi le mancano. L'unico suono che sente è il battito del suo cuore, martellante ed estenuante. E le sembra di sentire un profumo dolciastro, che non può identificare con nulla se non con l'odore della sua paura. Per un attimo lo paragona a quello dei fiori di zucca, poi si rende conto di aver sbagliato. Quest'odore è sgradevole, ma possiede qualcosa che l'attrae. Un richiamo magnetico che solo la paura la spinge ad ignorare.
    «La mamma...» sibila una voce al suo fianco.
    I battiti del suo cuore che si fanno più forti. Poi capisce e quasi sorride per quello spavento inutile: è la voce di suo fratello. Però, nonostante sia familiare, quel sibilo è inquietante. I brividi le inondano il corpo nudo, i peli si rizzano per qualcosa di ancestrale. E sente di doversi coprire, forse per ripararsi da quella voce strisciante, così cerca di afferrare il lenzuolo sotto di lei. Si muove, cerca, annaspa: nulla. Si raggomitola su se stessa, sia per ripararsi che per difendersi da quel freddo improvviso che l'ha assalita.
    «Dormi?»
    Lei non risponde.
    «Ehi, rispondimi...» Ancora lo stesso sibilo, stavolta piagnucolante.
    «No, sono sveglia» mormora lei. Non appena le parole abbandonano le sue labbra, si sente liberata da quell'ansia inspiegabile che si stava radicando nel suo cuore. Si lascia sfuggire un gesto esultante che il fratello non può vedere, ma non appena si distende torna a sentire il bisogno di essere racchiusa su di sé.
    «Fa caldo» dice lui.
    «Già».
    Silenzio, poi un fruscio, poi di nuovo nulla.
    «E allora perché sei così... così rinchiusa, ecco».
    «Perché...» Si interrompe: non vuole dirglielo, e non saprebbe neanche come spiegarglielo. Cos'è, paura o ribrezzo o senso di abbandono? «Forse ho la febbre» dice infine, ma quelle parole suonano false anche a lei e ha subito la sensazione che suo fratello si sia accorto della bugia.
    «Ah...» sibila infatti, quasi ridacchiando. Lei immagina il suo ghigno sul viso, o forse lo vede sul serio. Luce malvagia che fende il buio. È largo, dentato, violaceo. Marcio.
    Ancora i brividi. Poi lui dice: «Ma quanti anni hai?»
    «Non lo sai?»
    «Non mi ricordo».
    «E perché lo vuoi sapere?»
    «Così posso sapere quanti anni ho io».
    Lei non capisce. Ha paura e freddo e vuole fuggire, ma si sente catturata da quel letto. «Ventuno, diciamo». Il giochino che fanno i bambini di aumentare la propria età le è sempre sembrato stupido, ma in questo momento si aggrappa a quella che crede l'ultima, disperata possibilità. Forse sarà utile.
    «Ah...» sibila ancora lui, e ancora si rende conto della bugia. La ragazza intuisce che lui ha capito. Lei ha appena diciassette anni. Ancora quel ghigno, che non capisce se sia reale o meno.
    «Senti, la mamma... la mamma sta male».
    «Come?» chiede lei.
    «Sta male, piange tutto il giorno».
    «Tu come lo sai?»
    «Io... io la sento».
    Ancora un fruscio, poi il rumore accorto di un piede che sfiora terra.
    «E perché sta male?»
    «Oh, sta male perché...» e all'improvviso la sua voce si fa più forte e vicina «perché, ecco, quella brutta cosa dell'aborto».
    La ragazza ricorda. È una storia vecchia di nove anni, quasi. Sua mamma era rimasta incinta, lei ricorda di aver sperato che fosse un maschietto, ma in fondo al cuore ha detestato l'idea di avere un fratellino. Poi il bambino è morto al settimo mese e lei è stata quasi contenta. Oggi si odia per quella felicità. La mamma ha passato brutti momenti, sì, ma ormai sono passati nove anni e non ricorda di averla vista triste negli ultimi mesi. Non capisce di cosa stia parlando suo fratello.
    Il buio assoluto la lascia senza fiato. Poi un viso più nero dell'oscurità stesso, ma percorso da una luce che non ha nulla di umano, le si presenta a pochi centimetri dal naso. Brandelli di pelle che penzolano dalle guance, labbra violacee e consumate, un buco sul naso. Vi si affaccia un verme. E torna sentire l'odore dolciastro di qualche minuto prima. In quel momento ricorda.
    Lei è figlia unica.
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