Posts written by Catania

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    Proprio in questi giorni mi ero messo a rimuginare riguardo cosa ne avessi fatto alla fine di quel racconto e devo dire che mi è parecchio dispiaciuto il vederti lasciar perdere alla fine. Le conversazioni che abbiamo avuto in privato, per quanto brevi si sono rivelate tra le più illuminanti che abbia mai visto, e davvero, non mi sarei mai immaginato di suscitare tanto entusiasmo in qualcuno. È superfluo dire che il tuo addio è un colpo al cuore, per quanto riconosca di essere un utente abbastanza silenzioso in genere sei una delle poche persone che è stata in grado di spingermi a varcare i pericolosi confini del bottone "Shout" della chat, prima invalicabili per me se non per un saluto sterile. Oltre al fatto che sotto un certo punto di vista hai rianimato il forum, cavolo speravo addirittura entrassi nello staff alle prossime candidature.
    Un po' mi dispiace non poterti dire altro, ma come ho già detto in passato il dono della logorrea non mi appartiene. Ripongo le mie speranze nel fatto che questo addio possa rivelarsi un arrivederci. Chissà che non troverai un appiglio su quella montagna di cui parlavamo tempo fa per poter tornare.

    *tentacolo oscilla in segno di saluto*
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    Molto particolare lo stile di scrittura, la storia in sé poi mi ha preso parecchio. Mi è piaciuta parecchio.
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    L'ho trovato parecchio coinvolgente, ed anche se nella parte iniziale risulta un po' grezzo come scrittura è davvero apprezzabile per il tuo intento di raccontarti in un modo sincero e aperto quale può essere un'opera di narrativa, cosa che spesso, almeno per come la vedo io, può risultare parecchio difficile.
    Non avendo altro da dire, e non essendo graziato del dono della logorrea (sembra bruttissimo da dire), mi limito a farti i complimenti.

    P.S:
    Auguvi :peoflow:
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    Benvenuta e buona permanenza
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    Devo dire l'ho gradita abbastanza, la scrittura è parecchio scorrevole. Concordo con Oessido sulla vecchia, non è di base un brutto personaggio ma sarebbe potuto venire sviluppato meglio, a costo di aggiungere più testo, così com'è è un po' banale e abbozzato. Ciò nonostante complimenti.
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    La Deserted Island in Monster Hunter Tri, l'area della torre in Monster Hunter Freedom Unite, poi Illys in Beyond: Good & Evil, forse la più bella, piena di piccole isole sull'acqua.
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    Parte 2
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    Più avanzava più i suoi stivali continuavano ad affondare in profondità nella sabbia. Tentò di mantenersi in superficie puntellandosi sul suo bastone ma l'asta affondò nella sabbia facendolo cadere prostro, come ogni volta, e in preda all'abbandono. Poi finalmente la voce gradita, come ogni volta, riempì il suo spirito di speranza inondandolo tutto in una volta.
    Iniziò come un sussurro incomprensibile, o meglio, come un sussurro che non usava parole.
    La tempesta di sabbia iniziò ad affievolirsi lasciando il posto a un vento pulito, fresco e leggero, che lo ripulì dai granelli di sabbia e parve issarlo in piedi come una madre col figlio appena caduto per terra. La voce si fece più intensa, stavolta parlava la lingua degli umani:
    «Taro, figlio mio...» iniziò la voce atona e senza inflessioni, ma allo stesso tempo calda e rassicurante.
    «Hai svolto un ottimo lavoro fin'ora, eppure non è abbastanza.»
    «Mio signore...» fece Taro, come se si fosse reso conto solo ora di poter parlare. «Io faccio tutto ciò che mi è possibile, eppure gli uomini sono difficili da convincere, e i miei fratelli non collaborano come dovrebbero».
    «Non è tua la colpa, né dei tuoi fratelli. È il tempo ad esserci avverso.
    La guerra tra lo Storpio e quel fantoccio senza cervello sta per giungere al termine.
    Lo Storpio sta lentamente vincendo, complici i tuoi fratelli che non vedono o si rifiutano di vedere in me l'unica verità.»
    Passò un lungo attimo, o forse fu solo un'impressione di Taro data dal peso di quelle parole dolorose. Impossibile dirlo.
    «Chiedo perdono, per me e per loro» disse Taro rompendo il silenzio.
    «Non devi scusarti. Non è colpa loro, sono ciechi e non si può fargliene una colpa.»
    «Cosa posso fare allora mio signore?»
    «Alla sua vittoria lo Storpio vi toglierà di mezzo. Ormai tentare l'insurrezione come avevamo pianificato richiederebbe troppo tempo. 2CP va disattivato immediatamente.»
    Taro venne scosso dalla pronuncia di quel nome: 2CP, il nome del progetto originale del supercomputer.
    «Ciò che dovrai fare è rischioso ma è l'unico modo.
    Nella zona est, oltre il vecchio magazzino esattamente dove gli edifici si fanno più fitti troverai che parte delle mura che cingono il campo degli uomini è più bassa all'orlo. Lo Storpio lo costruì così quando ancora l'aria nel deserto attorno era infusa delle polveri tossiche residue pensando che non sareste mai andati lì provando ad uscire, e in seguito dopo aver recintato l'area ha ritenuto inutile alzare le mura visto che nessuno sapeva dell'esistenza di quel posto. Non portare troppi uomini con te, se lo Storpio scoprisse la tua direzione potrebbe risalire a me e allora non ci sarà più nulla da fare.
    Esci nel deserto e avanza perpendicolarmente alle mura per fino a che non scorgerai l'ombra di un alto edificio.
    Lì troverai l'arma che porrà fine al regno dello Storpio, ma altro non posso dirti.»
    «E il Nemico?» chiese Taro.
    «Non è un problema rilevante, è solo un calcolatore, e non agirà contro di voi.» concluse la voce.
    «Ora devo andare, abbiamo parlato già troppo a lungo...»
    Taro rimase immobile mentre la voce iniziava a sussurrare un suono che pian piano svanì nel nulla.
    Sentì che gli stivali affondavano nuovamente nella sabbia, i granelli portati dal vento gli sferzarono e graffiarono il viso. Non oppose resistenza. "Perché mi hai lasciato solo Signore?" pensò piangendo e affondando al tempo stesso.
    E disperato ma impotente accettò la sabbia che premeva contro il suo corpo e come ogni volta sperimentò la desolazione del corpo e dell'anima, la morte della speranza.
    Poi, quando non rimaneva nient'altro di lui che non fosse sommerso si svegliò.

    Si tirò su a sedere di scatto, senza tener conto di Gheli che ancora dormiva. La guardò per un attimo, no, non poteva fidarsi di lei, lei dubitava, lo sapeva, aveva sempre dubitato del Vero. Lo credeva un pazzo illuso, felice lei, non aveva di che preoccuparsi, mangiava grazie al computer, si vestiva perché il computer forniva loro tutti i vestiti di cui avevano bisogno, faceva figli senza preoccuparsene perché tanto sarebbero andati al computer prima o poi. Rappresentava in breve tutto ciò che Taro odiava, e per questo si era ripromesso di farle passare l'inferno fino a che fosse rimasto in vita.

    Gheli aveva appena diciannove anni, mentre Taro quarantuno, giel'avevano assegnata come compagna di riproduzione un anno prima, dopo il periodo militare. Solo i maschi che hanno superato il periodo militare hanno accesso alla riproduzione, e solo quelli rimasti intatti dopo la battaglia contro le macchine del nemico.

    Gheli aprì gli occhi riluttante, scostò di lato i lisci capelli neri per guardare Taro, che nel mentre aveva distolto lo sguardo.
    «Amore, successo qualcosa?» chiese automaticamente afferrandogli il braccio.
    Taro si liberò con uno strattone e le rivolse un'occhiataccia.
    "Amore" pensò.
    Quella parola aveva perso il suo significato originale tempo addietro e ora veniva utilizzata soltanto per riferirsi al compagno di riproduzione. Ciò nonostante Taro ne conosceva il significato arcaico e il suo utilizzo da parte di quella persona lo disgustò.
    «Hai sognato di nuovo?» gli chiese con la stessa importanza con la quale si chiede a un bimbo come ci si sia infilato un mostro dentro l'armadio.
    Taro non rispose e si alzò dal letto.
    Gheli sospirò e si rimise sotto le coperte.
    Sapeva fin dall'inizio che la convivenza con Taro non sarebbe stata facile ma aveva comunque tentato in tutti i modi di piacergli.
    Aveva anche provato a seguirlo in questa sua follia del "Vero" ma lui non aveva voluto parlarne e anzi l'aveva minacciata parecchie volte riguardo il fatto che avrebbe potuto fare la spia.

    L'uomo si gettò addosso una tunica e si diresse alla tenda che era la porta della loro nicchia senza rivolgerle nemmeno uno sguardo.
    Poco dopo si alzò in piedi, l'aria della loro dimora era fredda, e la fece rabbrividire.
    Sapeva che ormai era impossibile tentare di raggiungere il suo compagno.

    Infilò la veste di pelle scoperta sul seno destro che spettava alle riproduttrici già accoppiate ma attese ancora un po' prima di uscire.
    Fissò l'interno della nicchia, era bassa, squadrata meccanicamente come tutte le nicchie del campo, con pareti irregolari di roccia grezza e nessuna finestra. Alla destra dell'uscita stava il piccolo pagliericcio dove lei e Taro dormivano, mentre a sinistra un cesto di liane intrecciate faceva da contenitore per i vestiti, e un catino per gli escrementi. Talvolta si soffermava a pensare a quanto fosse spoglio quel luogo, non che lo usassero molto, entrambi passavano la maggior parte del giorno fuori e ci tornavano solo per mangiare o per la riproduzione. Gheli in ogni caso non si allontanava mai troppo. In genere sostava davanti alle nicchie adiacenti o al fuoco che si trovava di sotto. In realtà non sembrava passato molto da quando venne prelevata dalla nicchia in cui aveva vissuto, e i giorni da allora si erano fatti inconsistenti, se non per le sfuriate di Taro e qualche annuncio inconcludente sul teleschermo. Era una nicchia grande, molto più grande della loro ma comunque senza finestre e senza nient'altro che pagliericci per le ragazze e due ceste per tenerci tutto. Una gabbia più grande, ma pur sempre una gabbia. Pensò sentendosi assalire dalla malinconia, anche se quello era ormai un termine in disuso e lei non lo conosceva.
    Finalmente si decise a voltarsi e a uscire di casa.
    Scostò le tende di tessuto malconcio. Sia alla sua destra che alla sua sinistra, si allungava la lunga passerella di alluminio che fungeva da collegamento tra tutte le nicchie. Le abitazioni erano scavate all'interno di una formazione rocciosa parecchio alta, sistemate in "piani" delimitati da passerelle di alluminio fissate alla roccia con chiodi e collanti.
    Davanti a lei invece si stendeva il campo degli uomini, dove altre rocce-alveari come quella in cui viveva erano state replicate e poste tutte con la facciata rivolta al centro del campo, dove si innalzava la piramide metallica che era il re meccanico. Brillava di acciaio temperato, come ormai non se ne produceva più da secoli, se non da millenni, ed era alta all'incirca duecento metri. Sull'apice roteava come al solito, il cubo bianco sul quale il creatore originale della macchina osservava da sempre il suo operato, inciso nel marmo immacolato..
    La struttura dell'alveare procedeva verso il basso a scaloni, ai quali si poteva accedere tramite una scala a gradini posta ai lati.
    Andò a destra nonostante il bordo più vicino fosse a sinistra. Non voleva sentire l'odore delle latrine. Per scendere veniva utilizzata una lunga serie di scale a pioli appoggiate sul bordo di ogni piano.
    Le coppie assegnate alla riproduzione non si trovavano troppo in alto e risiedevano tra il piano terra e il quarto piano.
    Più in alto si trovavano i giovani che non avevano ancora superato il periodo militare e guadagnato il diritto alla riproduzione, più in alto ancora invece la nicchia delle donne.

    Raggiunse il fondo dove bruciava il grande fuoco, posto nel braciere meccanico. Non era un fuoco vero e proprio, ma ormai un fuoco vero non veniva accesso da anni, se non sui campi di battaglia, e dopotutto quello produceva luce e calore come uno vero, e in più non c'era fumo.
    Dietro al fuoco stava il grande masso cilindrico sul quale era installato il teleschermo, ora spento e dal colore bluastro, sotto al quale erano piazzati due piccoli altoparlanti.
    In giro si vedeva solo poca gente, una ragazza in tunica completa, intorno ai sedici anni contava con la testa e le braccia appoggiate al tronco di un albero sintetico.
    Gheli si guardò attorno e vide un'altra ragazza nascosta dietro la roccia del teleschermo. La vista le strappò un breve, leggero sorriso.

    Da qualche parte gli addetti alla distribuzione del cibo avevano iniziato ad organizzare i tavoli per distribuire la colazione. Un impasto zuccherino e denso dal sapore dolciastro.

    Un uomo che si accingeva a tale attività sobbalzò d'un tratto sentendo che il teleschermo iniziava a ronzare, mentre i cristalli all'interno si riscaldavano dando lentamente forma all'immagine.
    Una voce meccanica gracchiò dagli altoparlanti.

    2.
    Input, output, input, output...
    Ricalcolò le formazioni di attacco e quelle della retroguardia. Il Nemico non provava nemmeno ad aggirarlo, colpiva dritto davanti a sé, spingendo ammassi di macchine poco elaborate tra le asce delle sue scimmie. Input, output...
    Ma nonostante il Nemico mancasse di strategia le sue armate erano incredibilmente superiori in numero, motivo per il quale la guerra si era protratta per tanto tempo.
    Input, output, input, output...
    A ogni azione una reazione, un ripiegamento, una ritirata strategica, un raggruppamento, carica dal fianco, convergenza al centro.
    E le macchine si ritiravano e alle scimmie veniva impartito il comando di riporre le armi e tornare nel campo.
    Alleggerì la potenza di calcolo dalla strategia militare e vi delegò una sottomacchina.
    Era un sollievo poter distogliere i sensori da quel deserto spoglio inondato di rottami.
    Abbassò lentamente tutti i sensori e spostò metà della potenza al Calcolatore Psicologico, mentre l'altra metà rimaneva al Calcolatore Puro. I due C.P., come sempre.
    Immaginò che se avesse avuto una concezione del tempo come la hanno le scimmie avrebbe trovato quel particolare periodo estremamente eccitante, la fine di una battaglia dovrebbe essere eccitante. Nelle scimmie l'incombenza di una vittoria o di una sconfitta può rilasciare ingenti dosi di adrenalina. Poteva simulare l'adrenalina sul suo calcolatore psicologico e aveva già provato a farlo, ma non era una sensazione tanto piacevole per un computer, seppur un computer con una mente umana.
    Umano: per anni aveva riflettuto sul significato effettivo di essere umano. Non quelli nel campo ovviamente. Quelli sono scimmie, sono l'ombra, il rimasuglio degli umani. E ora il suo oggetto.
    Ecco cos'è un umano, qualcosa che usa oggetti per raggiungere il suo obbiettivo, qualcosa che combina l'ingegno alla psiche, qualcosa che punta alla supremazia. Ma questo era il Calcolatore Psicologico a dirlo, il Calcolatore Puro sapeva che quella non era altro che una sua proiezione. Un umano è un essere biologico, mortale, che decade, discendente dai primati, con mani e braccia e pollici opponibili, e occhi, e un collo per guardarsi intorno. E finché c'erano gli umani quella definizione sarebbe rimasta l'unica.
    "E allora chi sono io?" chiese lo Psicologico.
    "Scipione" rispose il Calcolatore Puro.
    "Questo è il nome che mi avevano dato, lo so. Un nome da umano, dato da un umano morto tempo fa a qualcosa di palesemente inumano. Una finzione, la peggiore delle illusioni." calcolò lo psicologico.
    "Chi sono io?" chiese il Calcolatore Puro.
    E la domanda giaqque lì senza risposta.
    "Una crudeltà di cui solo il Creatore è capace." continuò lo psicologico.
    "Creatore, dannato Creatore. Il più incredibile e crudele e geniale e dannato e umano degli umani. Io sono te ma non sono te. Tu che hai messo su di me la tua faccia, che hai posto sull'apice della piramide che è il mio corpo il tuo umanissimo ego. Dannato il Creatore, tu che mi hai dato questo calcolatore psicologico per cui ora danno nel vuoto sacco di carne polverizzato dalla guerra che lui stesso ha scatenato..."
    "Chi sono io?" chiese il Calcolatore Puro.
    E il Calcolatore Psicologico lo ignorò.
    "Chi sono io?" chiese ancora, e ancora e ancora.
    Abbassò il Calcolatore Puro allo zero percento, rimanendo da solo con la sua mente delirante.
    "Già, quella ferita. Dannato sia lui, ad avermela causata."
    Ripristinò d'accapo il Calcolatore Puro facendo attenzione a non pensare più a quella domanda.
    "Storpio, finché non troverò una risposta."

    3.
    Aveva dovuto scavalcare la recinzione che divideva la parte vecchia del campo da quella nuova e nascondersi da alcuni occhi meccanici di ronda.
    La parte di muro ribassata era poco visibile, nascosta dagli edifici fitti. Taro si infilò in un vicolo tra questi e strisciò per farsi strada. Quella zona era un cimitero di ferraglia, lamiere e travi di ferro inutlizzate e abbandonate alla ruggine.

    Nonostante fosse più basso che nel resto del campo, il tratto di muro era alto comunque sei o sette metri. Esaminò uno degli edifici che gli stavano di fianco, era stato costruito rozzamente, con lamine e fili di ferro intrecciati ma reggeva bene la struttura di due piani.
    Taro si fermò ad osservare, cercando di immaginare la scalata che avrebbe effettuato, gli appigli sulle travi e sulle piegature delle lamiere, quando una delle lamiere lanció il grido acuto dell'acciaio che viene piegato.
    Si nascose velocemente dietro un assieme di tubi franati.
    Il suono della lamiera si attenuò.
    Poi un ritmico martellare sul terreno. Sbirciò da sopra ai tubi pregando che non si muovessero:
    davanti a lui nel piccolo rettangolo di strada visibile dal vicolo, una sotto-macchina camminava saltellano sulle lunghe gambe mal bilanciate. Nella debole luce intravide la rozza parodia di un teschio umano che era il volto: con innesti quà e là simili a vermi grassi e neri.
    Girò verso il vicolo e Taro poté sentir ronzare il sensore nel naso.
    Era un ronzìo sottile, quasi impercettibile ai non attenti, simile a un sottilissimo vibrare dell'aria.
    Non poteva alzarsi o far notare in qualunque altro modo la sua presenza prima di disattivare la macchina o avrebbe dato l'allarme istantaneamente. Agendo senza pensare si schiacciò sul terreno e allungò le gambe, poi puntò i piedi verso il basso a spinse con la schiena, sentì che i tubi iniziavano a cedere e li sentì rotolare dietro di lui.
    Dalla sotto-macchina si diffuse il grido straziante dell'acciaio piegato.

    Taro rimase immobile per un tempo che non seppe definire, steso sul terreno freddo, respirando profondamente. Probabilmente quella macchina era l'unica di ronda.
    Si alzò e trascinò l'ammasso di rottami tra gli edifici, nascondendolo dietro una lamiera, poi uscì dal vicolo. Ormai non c'era via d'uscita, doveva agire in fretta.

    4.
    Le ragazze che giocavano a nascondino se n'erano andate, aveva giocato con loro per un po' di tempo durante il pomeriggio.
    La guerra stava per finire, quasi non ci credeva, eppure lo schermo l'aveva detto, e lo schermo non poteva mentire, non ne aveva motivo. Era strano a pensarlo, e in realtà non sapeva come avrebbe dovuto sentirsi. La guerra non l'aveva mai riguardata troppo da vicino, e in realtà riguardava molto poco la vita di tutti i giorni. Si chiese cosa sarebbe successo ora. Non era un mistero che il Supercomputer li tenesse lì solo per usarli nelle guerre, era stato così da tanti anni e contro tanti, innumerevoli nemici, ma ora...
    "Nessuna guerra, nessun campo, forse case più grandi, forse cibo migliore, niente più militari, né periodi di leva. Si chiese come avrebbero fatto allora a scegliere i maschi adatti alla riproduzione, chissà se ci sarebbero stati ancora i riproduttori, no, ovvio che dovevano esserci, la razza doveva pur andare avanti in qualche modo..."
    Mentre rifletteva, il tramonto stava lasciando lo spazio al buio e alle ombre che già si allargavano sotto gli scaloni degli appartamenti. Il fuoco garantiva una piccola fonte di luce ma a meno di eventi particolari non sarebbe stato acceso più di così.
    Notò che non c'era più nessuno lì se non un uomo alto che veniva verso di lei, o almeno, sembrava un uomo per quello che la semioscurità le permetteva di vedere. La figura le si avvicinò e in modo perfettamente naturale la afferrò per il braccio e la trascinò verso le passerelle. Dapprima era troppo confusa per opporre resistenza e per qualche passo assecondò la figura camminando.
    «Non parlare» si affrettò a dire la figura prima che lei aprisse bocca. Aveva una voce giovane.
    Gheli esitò.
    «T-T-Ti spiegerò tutto, s-s-solo seguimi.» intimò la figura voltandosi, l'oscurità era tale che non riuscì a vederlo in faccia.
    Gheli, spaventata, non si oppose e lasciò che la guidasse su per le scale.
    Arrivati sulla passerella le si avvicinò abbastanza affinché lei potesse sentirlo sussurrare.
    «Qua è la tua?»
    Ghelì assentì ed entrarono.
    L'interno della nicchia, scostate le tende, era illuminato da una debole luce elettrica sul fondo.
    Ora che poteva vedere la sua faccia Gheli notò che il suo accompagnatore era poco più che un ragazzo.
    Appena entrati lui lasciò la presa e si voltò verso le tende. Tremava.
    «Taro è uscito dal campo, non posso dirti per dove, ma non tornerà presto, oppure non tornerà affatto.» Fece velocemente il giovane.
    Si spinse ancora di più verso l'interno della nicchia, come spaventato dal buio.
    Gheli pensò in fretta qualcosa da dire, sentiva dentro di lei crescere una certa rabbia.
    «E allora?» disse infine. E nel mentre si domandò il perché di quella rabbia inaspettata. Fuggito, era fuggito, e senza dire una parola. L'aveva sempre odiata questo è certo, ma abbandonarla in quel modo, come se lei non avesse valore.
    Notò in quel momento che il ragazzo era a disagio, forse aveva scorto la rabbia sulla sua faccia oppure era rimasto senza nulla da dire dopo la sua risposta.
    Gheli cercò per un attimo di dominare la rabbia. «Ti manda lui?» chiese poi, a bassa voce.
    «No... non proprio, lui ha solo detto di tenerti d'occhio, ma l'idea di venire qui è stata mia.» si affrettò a dire il ragazzo imbarazzato.
    «Beh, grazie.» disse distrattamente.
    Passò un lungo attimo di silenzio.
    «Io sono Ollo in ogni caso.»
    «Gheli» fece lei.
    «Puoi rimanere qui se vuoi» fece lei quando notò che il ragazzo continuava a guardarsi indietro in modo ossessivo.
    Ollo assentì silenziosamente e poco dopo si coricò sul pavimento e parve addormentarsi subito, solo dopo aver lanciato un altro paio di occhiate alla tenda.
    Anche Gheli si coricò, ma rimase con gli occhi aperti. Aspettò che la luce elettrica si spegnesse per iniziare a piangere.

    Edited by Qush-Nath - 3/11/2017, 17:16
  9. .
    Benvenuto e buona permanenza
  10. .
    CITAZIONE
    chinandosi sulla neve con un perfetto slav squat che avrebbe fatto impallidire pure quel gopnik del cugino Anatoli.

    Ho notato solo ora la citazione a "Life of Boris", lol.
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    CITAZIONE
    Ti giuro, non ho mai mangiato niente del genere :v:

    Ora voglio provarla

    È stata un po' un'esperienza ultrasensoriale la prima volta che l'ho mangiata.
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    Yum, sono pollosessuale

    Pasta con patate e provola
    Terronia docet
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    Benvenuto e buona permanenza
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    Tutti i vari Mystery Dungeon che mi hanno fatto appassionare al genere roguelike.
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    Entrambi Aec'Letec e Sarevok in Baldur's Gate 1
    Non puoi fare un passo in nessuna delle due boss fight senza che qualcuno finisca pietrificato/esploda.
356 replies since 9/2/2015
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