I Possessori Del Tempo

[Titolo Provvisorio]

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  1. Rory
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    Angolo dell'autrice: Ciao, raga, ho deciso di scrivere qui essenzialmente perché questo è un racconto non finito (anzi, si può dire "appena iniziato", visto che sarebbe l'intro di quella che spero diventerà una long). Le idee non mi mancano, ma siccome sono proprio le nozioni storiche che mi mancano, la scrittura procede moooolto a rilento t.t E poi ho una paura matta di creare buchi di trama, quindi penso a 100mila cose prima di scrivere.

    Alla fine il canovaccio è questo: il mondo non è popolato solo da normali esseri umani senza poteri, quanto anche di creature con poteri paranormali (anche se lo scopo iniziale era quello di scrivere una storia quanto più "reale" possibile, anziché creare un fantasy come tanti altri). La storia però è essenzialmente incentrata sui "possessori del tempo", quindi tratterà di viaggi temporali (e qui scappa l'asino, perché parlare di viaggi temporali è come camminare costantemente sulle sabbie mobili). Non voglio dirvi altro.
    Era già presente questo topic qualche anno fa sul forum, ma chi l'ha letto vedrà che ho stravolto completamente l'inizio (nonché le dinamiche, lo stile e a tratti i personaggi, che tendono ad essere più maturi. Almeno c'ho provato lol).
    Bene, dopo questa premessa, non mi resta che augurarvi buona lettura: spero che chi avrà la bontà di leggere questa schifezzina vorrà anche dirmi sinceramente che cosa ne pensa.


    __________________________________


    I Possessori del Tempo







    I due chiusero all’unisono i propri orologi da taschino e li riposero all’interno delle giacche eleganti — ma non abbastanza eleganti da ritenere sconveniente per due giovani signori passeggiare a quell’ora della notte — con le quali decisero di abbigliarsi al fine di confondersi con i pochi passanti ancora in piazza.
    Correva l’anno 1767, a Basingstoke, una cittadina sufficientemente lontana dal centro di Londra da essere considerata una zona fuori mano, ma non quanto bastava affinché i suoi divertimenti e le sue stranezze non la toccassero. Di giorno il mercato, la principale attività del posto, era un gran schiamazzo di cameriere che acquistavano verdure e burro e ordinavano la carne per il giorno dopo, per i propri signori, nonché gente di ogni risma intenta a svolgere i propri mestieri nel tentativo di campare un altro giorno.
    Sempre nelle vicinanze della cittadina, ma lontano dall’ambiente che caratterizzava il mercato, passeggiavano invece sui marciapiedi le signorine, alla ricerca di nastrini, cappellini e orpelli vari nei negozi di fiducia, e i gentiluomini, che con celata noia le accompagnavano aventi l’ingrato compito di consigliarle.
    La differenza tra la città e la provincia era proprio a quell’ora di notte, quando tutti dormivano e solo gli individui della più bassa società avevano l’abitudine di calcare le strade. Stava proprio in quei due, o tre, pub aperti, i quali potevano accogliere solo qualche briccone, persone che non riuscivano a staccarsi dalla pinta neanche a pagarle: mentre a Londra la vita era frenetica tanto di giorno quanto di notte — cambiava solo chi la frequentava — in campagna era quasi tutto morto.
    Fortuna volle che i due giovani signori, una volta abbandonato il vicoletto buio e nascosto nel quale comparvero, proprio all’angolo della piazzola dov’era situato un edificio industriale piuttosto grande per quei tempi, sul quale cancello era apposta un’insegna titolata May’s Brewery, trovarono una taverna aperta. Fu un sollievo sapere che non avrebbero dovuto aspettare l’indomani per iniziare a portare a termine il loro scopo.
    L’interno del locale non tradiva le aspettative: morte erano le strade, morte erano le quattro persone ancorate a uno dei tavolini. L’unico accenno di vita che ebbero tre di loro fu alzare lo sguardo appena udirono il cigolio della porta d’ingresso che si apriva, il quarto se ne stava con la schiena rivolta verso la porta e il viso nascosto nel gomito, goffamente appoggiato al tavolo. L’unico dei presenti che pareva non voler smettere di scrutarli in un misto tra incuriosito, stranito e, probabilmente, anche un po’ infastidito per l’ora tarda in cui i nuovi ospiti decisero di introdursi, era proprio il locandiere. Costui non perse tempo a studiarli nell’aspetto, nel tentativo di capire se fosse gente raccomandabile o di malaffare; ma in pressappoco meno di qualche secondo, scartò la seconda ipotesi, dati l’abbigliamento e il loro portamento distinto.
    Tuttavia non riusciva comunque a inquadrarli in un particolare ceto sociale: indossavano entrambi un lungo cappotto di lana scuro, forse marrone, ma era difficile dirlo con certezza data la luce soffusa delle poche candele ancora accese, che nascondeva del tutto il loro l’abbigliamento, se non per il colletto della camicia e il fazzoletto da collo, che sembrava essere fatto di lino. Indossavano inoltre un cappello a cilindro molto raffinato, del medesimo colore del cappotto. Non davano l’idea di essere blasonati, probabilmente appartenevano alla bassa nobiltà, magari erano cavalieri, arricchiti o nobili caduti in disgrazia.
    Il primo ad aver messo piede nella taverna era di sicuro più giovane dell’altro, dai tratti ancora da fanciullo, imberbe, e a prima vista dava l’impressione di non avere più di ventuno o ventidue anni, mentre la sua corporatura era media, ma ben strutturata. La persona che l’accompagnava, invece, aveva tratti più mascolini, naso sottile e diritto e mento prominente, sembrava inoltre avere qualche anno in più. Diversamente da quello più giovane, doveva sicuramente superare i sei piedi di altezza, data la corporatura imponente e robusta, inoltre non indossava né guanti né portava il bastone da passeggio. Suppose quindi che poteva essere un valletto o un cameriere, e ciò poteva anche dare un indizio sulla condizione sociale nella quale vivevano i nuovi ospiti, dal momento che era buona regola che un lord si facesse accompagnare da più domestici. Ad ogni modo, non aveva la benché minima idea del perché un giovane signore dovesse accompagnarsi a un suo servo, a quell’ora di notte, né del perché si presentarono proprio nel suo locale che sapeva essere poco più di una bettola. Ma questo, si disse, non gli era dato saperlo.
    La differenza del loro portamento si manifestò anche nel seguitare della serata. Quello più giovane si avvicinò al bancone un po’ sgangherato della zona bar, dov’era situato il proprietario della tavernetta e, con un sorrisetto da gentiluomo che mal celava un atteggiamento fin troppo sopra le righe, disse: “Due birre, per favore. La migliore che avete!”
    Il locandiere, solerte, non se lo fece ripetere e stappò una bottiglia di vetro targata May’s contenente un liquido opaco all’interno, prese due pinte e le riempì della bevanda richiesta.
    “Sir Jonas, versatene un altro po’ anche a me!” esclamò sguaiatamente uno dei quattro ubriaconi seduti a un angolo della taverna, quello di spalle al muro e col viso completamente rivolto verso il bancone, quando i due posarono le labbra sul bordo del bicchiere.
    Il locandiere emise un sospiro, uno di quelli di chi è abituato a subire passivamente da anni situazioni spiacevoli e imbarazzanti, e rispose: “Andatevene e fatevi una dormita, Tom”.
    “Andiamo! solo un altro goccetto!” lamentò lui, alzando in cielo la pinta. “Parlate come se non vi pagassi, figlio di un marinaio!”
    “Domani vi sveglierete vomitando, statene certo” continuò sir Jonas, sebbene la finta seccatura che trapelava dalla sua voce fu smascherata da un sorriso sghembo e amichevole. I due signori assistettero interessati alla scena, quando il locandiere prese un’altra bottiglia e zoppicò fino ad arrivare al tavolo dei quattro. Quando poi, dopo avergliela lasciata, fu ritornato al bancone, l’uomo lanciò un’occhiata di scuse ai nuovi ospiti.
    “Un bel caratterino” disse a bassa voce il più giovane con un sorriso benevolo, evitando opportunamente l’occhiataccia del compagno seduto sullo sgabello affianco. Il locandiere emise uno sbuffo divertito e al contempo triste.
    “La guerra esiste con il solo scopo di togliere” esordì, con aria cupa, come cupe e vecchie erano le mura di quella taverna, dopodiché con un cenno del capo indicò quello ubriaco. “Per esempio, al signore lì al tavolo ha tolto la lucidità: sono passati già quattro anni da quei fatidici sette, ma pensa ancora di essere un furfante pirata della Malaysia, quanto a me…” mormorò sommesso, dandosi delle pacche sulla gamba offesa, come a voler sottolineare ciò che era già evidente. I due diedero uno sguardo fugace all’uomo per cui il fronte l’aveva portato a essere, come era uso dire dal ventesimo secolo in poi, uno Scemo di guerra, dopodiché continuarono a sorseggiare le proprie bevande.
    “Però vedo che non portate un bastone!” commentò con semplicità il gentiluomo, senza badare che quella domanda potesse risultare fuori luogo in quel frangente. Il locandiere sorrise, mostrando sul viso tutti i segni dell’invecchiamento che la battaglia gli aveva procurato.
    “Sfortunatamente quello vecchio che avevo dal dopo guerra era diventato molto fragile e si è spezzato una settimana fa. Mi dico sempre di comprarne un altro, ma non ho mai tempo”.
    Il giovane annuì pensieroso, rispondendo di buon grado con uno sguardo inespressivo alla schiaritura di voce emessa dall’accompagnatore. Quest’ultimo si sporse verso sir Jonas e prese dalla tasca interna della giacca un foglietto piegato in tre.
    “A dire la verità noi stiamo cercando una persona che sappiamo essere passata da queste parti” cominciò mentre spiegava il foglio, per poi porgerlo al locandiere affinché potesse studiarne la figura. Era un ritratto a matita molto ben fatto di un uomo dai tratti aquilini, sopra i quaranta di età date le rughe sulla fronte e agli angoli della bocca, dai capelli corti e ricci scuri e sguardo greve, appesantito dalle folti sopracciglia arcuate e dagli occhi infossati nelle orbite.
    “Si chiama Viktor Weber” insisté il gentiluomo.
    Il locandiere lanciò un’occhiata ai due ospiti e notò come all’improvviso l’espressione di quello più giovane fosse divenuta seria e composta; ogni traccia di vanità ed ego percepita in antecedenza parvero sparite in un soffio. Non poté fare a meno di chiedersi, a quel punto, chi fossero quei gentiluomini — giacché non li aveva mai visti passare da quelle parti —, nonché con quali propositi avessero varcato la soglia del suo locale. Non davano l’idea di essere né magistrati né pubblici ufficiali. Non riusciva nemmeno a spiegarsi come fosse riuscito a confidarsi così facilmente con dei perfetti estranei: lui, che si era sempre ritenuto un uomo vigile e sulle sue, lontano dallo stereotipo dell’uomo campagnolo, loquace e pettegolo. Gettò uno sguardo al tavolo degli altri quattro frequentatori, cosa che il più giovane degli ospiti non mancò di notare, ma decise di non voltarsi e confutare lui stesso verso chi quello sguardo era rivolto: sir Jonas già dava l’impressione di sentirsi un’anima costretta a subire torture in uno dei gironi dell’inferno e non c’era bisogno di un’ulteriore prova. Forse era alla ricerca di un segnale, forse di una risposta, sembrava sudare freddo. O forse era tutta apparenza perché non voleva subire interrogatori di alcun tipo. A ognuno il suo gregge, direbbe il contadino, e la giustizia degli uomini non è mai troppo benevola con chi non ha le spalle coperte. Questa era la legge che avevano dovuto imparare le persone comuni dell’epoca.
    Ad ogni modo la sua espressione doveva aver tradito lo smarrimento nato dalla strana piega che aveva preso la discussione, dal momento che il gentiluomo dall’apparenza di un valletto si affrettò a dire: “Signore, non siamo qui per arrecarvi fastidio, dunque se non può risponderci non vi disturberemo ulteriormente”.
    Sir Jonas tossì leggermente e annuì, dando segno di non sapere nulla. Dunque, una volta finite le rispettive bevande, quando fu deciso che era momento di levare le tende, pagarono e si avviarono verso l’uscita. Il locandiere vide che sul bancone furono lasciati tre scellini, cifra che corrispondeva al salario che guadagnava in due giorni pieni di lavoro, nonché il bastone da passeggio che il giovane signore aveva lasciato appoggiato sulla fiancata del bar. Ma quando sir Jonas fece per restituirglielo, il gentiluomo che lo portava, riesumando il parte il suo tono vanaglorioso, esclamò: “Se lo tenga lei, a me non serve!”
    La porta della taverna si chiuse dietro alle loro spalle e il locandiere fu subito raggiunto da uno dei quattro ospiti abitudinari della taverna, il signor Wellington, che fino a quel momento se n’era stato per le sue, con il capo e le braccia posate sul tavolo come chi si trova in uno stato di sonno catatonico per la sbornia. Ciononostante, era difficile dire se fosse davvero ubriaco: aveva gli occhi iniettati di sangue, capelli scompigliati e gli indumenti sgualciti dal tempo, ma sembrava del tutto cosciente.
    Prese il bastone, strappandolo dalle mani di sir Jonas, senza badare alle proteste dell’uomo, e lo studiò nei minimi particolari: il fusto era in legno di ebano liscio ed elegante, con l’impugnatura ergonomica a uncino in ottone intarsiato in ghirigori dalla forma astratta.
    Non era un bastone tipico dell’epoca Georgiana, di questo ne era più che certo.
    “Wellington, cosa volevano quei signori da te?” chiese il locandiere, visibilmente preoccupato. Il signor Wellington sorrise affettuosamente prima di afferrare uno dei coltelli che teneva nascosti nei propri stracci.
    “Niente, sir Jonas, ma vi ringrazio di avermi coperto!”



    ***





    I due gentiluomini erano ormai lontani dalla tavernetta e imboccarono un’altra stradina di terra battuta, sui quali lati erano presenti delle casette in pietra tutte uguali. Avevano la tipica forma con il tetto a triangolo, dai colori tendenti su tonalità marrone o tegola, tra loro divise da qualche metro di viale con scarsissimo verde. Sembrava più una cittadella industriale o di passaggio, che una vera e propria zona nella quale vivere. Non era un caso che, a differenza di tante altre contee lontane dal centro, si poteva contare sulle dita il numero delle famiglie residenti a Basingstoke.
    Qualche anno più tardi la situazione migliorò dal punto di vista commerciale, grazie al gran successo che ebbe la May’s Brewery, e i signori che in quel momento erano intenti a passeggiare in strada lo potevano ampiamente confermare, perché la birra era davvero ottima.
    D’altro canto però, da un punto di vista puramente romantico, nessuna contea inglese, dopo l’avvento della prima rivoluzione, fu in grado di ammirare la bellezza del cielo notturno.
    Herbert Bennet, questo era il nome del più giovane, lo osservava come un pittore osserva la tela. Assorto, concentrato, ammaliato dalla bellezza sconvolgente del cosmo, delle scie luminose create da un tappeto di stelle che sembrava lambire di fuoco fatuo le poche nubi presenti. Era uno spettacolo meraviglioso, pressoché surreale che solo quell’epoca poteva regalare.
    Camminava con una particolare agitazione nel cuore; si sentiva come il vincitore di una lotteria, convinto che il dado tratto fosse quello giusto.
    “Ma certo, lasciamogli tre scellini, neanche fossi un duca che elargisce oblazioni di due soldi a un poveraccio” recriminò quello che fra i due era sicuramente il più meditabondo e razionale, “e lasciamogli anche il bastone, ovviamente! che tra l’altro proviene dall’epoca Vittoriana, che importa! ti avrebbero dovuto chiamare Herbert il paladino dei disagiati!”
    Herbert faceva finta di non ascoltare e mentre suo fratello parlava, tenendosi a due passi di distanza, lo scimmiottava di nascosto. Anche perché, se fosse stato scoperto, una bella e sonora pacca sulla nuca non gliel’avrebbe tolta nessuno. Ed era ben cosciente del fatto che fosse meglio stargli lontano quando era infuriato, tanto più se lo si faceva irritare apposta.
    “E piantala, Peter!” rispose seccato, guardandosi intorno, quasi come se la cosa non lo toccasse, “era un pover’uomo, non è la fine del mondo fare beneficenza di tanto in tanto”.
    Peter si arrestò per un attimo nel tentativo di ingoiare la bile sorta a causa della strafottenza del fratello e tentò in tutti i modi di non alzare la voce quando esclamò: “Non fare l’idiota, sai bene a cosa mi sto riferendo! non puoi comportarti come se fossi un individuo comun…”
    Tuttavia il giovane non riuscì a terminare la sua frase che Herbert gli si fiondò addosso, scaraventandolo a terra, per poi ruzzolare qualche metro insieme a lui. Contemporaneamente al momento in cui caddero, un barbaglio illuminò la strada e un fragore esplose proprio a pochi centimetri dai loro corpi, levando un polverone che gli offuscò la visuale, non consentendogli di capire cosa stesse accadendo precisamente.
    Il più giovane dei due si alzò all’istante per estrarre da sotto il mantello un boomerang che teneva attaccato alla schiena, dalle dimensioni di un suo braccio, e lo scagliò repentinamente verso la figura poco lontana. L’arma, costituente una pistola che non apparteneva sicuramente a quell’epoca, data la forma della canna squadrata e il materiale metallico scintillante con il quale era stata costruita, fu sbalzata via ed Herbert corse scattante verso costui. Neanche un battito di ciglio che il malfattore di ritrovò piegato in avanti, con il braccio rivoltato dietro la schiena, in una presa che gli bloccava i movimenti.
    “Maledetti stronzi, a chi appartenete?” sbottò, cercando di liberarsi invano, “siete del Concilio?”
    La presa di Herbert si fece ancora più stretta, mentre gli girava il polso fino a che non urlò di dolore: una sottile intimidazione a farlo tacere.
    Nel frattempo Peter, che ebbe tempo di recuperare la vista, gettò uno sguardo sull’enorme solco formatosi sul terreno a seguito del proiettile fulmineo, distante proprio qualche centimetro da lui. Promise a se stesso, anche se non lo avrebbe mai ammesso ad alta voce, che da quel momento in poi ci avrebbe pensato due volte prima di dare dell’idiota al fratello. Ma giusto due volte: non voleva dargli tale soddisfazione.
    Si issò da terra e si avvicinò all’uomo il cui viso corrispondeva proprio al ritratto mostrato al locandiere.
    L’idea che quello storpio sapesse più di quanto faceva supporre gli aveva sfiorato la mente, ma non credeva possibile che Herbert — il suo fratellino, che per tutta la sua adolescenza non aveva fatto altro che pavoneggiarsi per le sue doti più improbabili — avesse fatto congetture tanto veloci e tanto esatte da scovare il ricercato grazie alle informazioni frammentarie fornite loro dal locandiere. Certo, era cosciente delle sue abilità deduttive: aveva sempre amato osservare le persone e studiare i loro comportamenti, ma Peter era piuttosto convinto che non lo facesse per scopi altruistici, quanto per vanteria.
    Che avesse voluto indurre il fuggiasco a uscire allo scoperto, avendo volutamente lasciato il bastone a sir Jonas? Se così fosse, sarebbe stato geniale.
    Ma queste sue opinioni era meglio non esprimerle ad alta voce se non voleva fomentare l’ego del fratello, anche perché era già difficile da sopportare così com’era.
    Peter si abbassò sulle ginocchia, cosicché potesse guardare negli occhi Viktor Weber, prese la lunga catenina d’oro alla quale era attaccato il suo orologio da taschino e con noncuranza apparente lo fece penzolare proprio davanti al naso dell’assalitore, che nel frattempo aveva assunto un’espressione folle, maniacale, carica di bramosia.
    “Tu volevi questo!” constatò il ragazzo, severo.
    Viktor Weber si dimenò come un ossesso, come se fosse stato impossessato da uno spirito proveniente dagli inferi, al fine di svincolarsi da quella presa, prendere uno dei coltelli che teneva nascosti nelle innumerevoli tasche interne della sua giacchetta e piantarglielo in fronte.
    Ma Herbert predisse ogni sua mossa: con la mano sinistra continuava a tenergli il polso, con il braccio destro gli diede una forte gomitata al fianco, allo scopo di distrarlo, e contemporaneamente portò il piede destro davanti a quello dell’avversario. Fece leva sul braccio intrappolato e lo scaraventò col viso sul terreno.
    Il giovane si ritrovò con la manica del cappotto macchiata di sangue, ma non del suo, né era quello di Viktor. Gli ci volle davvero poco per comprendere cosa avesse fatto. Sbarrò gli occhi, furioso.
    “Dannato bastardo!” urlò e, per scaricare la rabbia, gli mollò un altro pugno sullo zigomo scoperto che lo tramortì per qualche secondo.
    L’assassino scoppiò in una fragorosa risata che colse alla sprovvista entrambi i fratelli.
    “Dovresti ringraziarmi, ora che nessuno avrà modo di parlare delle tue stronzate!”
    Fu Peter a rispondere a quelle vili provocazioni e, sferrando un calcio che lo colpì in pieno volto, gli ruppe il setto nasale. Dopodiché si piegò sulle ginocchia e lo afferrò per i capelli al fine di alzargli la testa.
    “Ora, o ci dici dove si trova o farai la stessa orrenda fine che hai dato a quelle persone”.
    “Io non lo so” annaspò Viktor Weber, macchie scarlatte coloravano il terreno, “e anche se lo sapessi, non lo direi di certo a voi”.
    “Scommettiamo?”
    Peter continuò a dargli calci, calpestandogli la testa sulla strada, contundendogli fronte e mascella fino a fargli sputare sangue. Il viso di Weber pullulava ormai di graffi, tagli e rossori.
    Il ragazzo attese che il loro assalitore finisse di tossire prima di esortarlo nuovamente a parlare. Viktor si ritrovò con le spalle al muro: non avrebbe mai pensato che dei cagnolini del Concilio, probabilmente ancora freschi di addestramento, fossero capaci di tale violenza. La cosa lo divertiva e lo irritava al tempo stesso, essere stato messo alle strette da dei bambocci che avevano appena smesso di prendere il latte dalla tetta. E a un tratto, che fosse stato per mano loro, che fosse stato per mano altrui, si accorse che sarebbe morto lo stesso. Non aveva via di scambio: già sentiva la morsa del suo giuramento stringergli la gola. Non aveva più niente da perdere.
    Decise che prima di tirare le cuoia, li avrebbe messi di nuovo alla prova. Sfoggiò uno dei suoi inquietanti sorrisi e, con un filo di voce, chiese: “State cercando lui o la sua prole?”
    Infine esalò il suo ultimo respiro.




    [Continua...]

    Edited by Rory - 10/5/2020, 17:41
     
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