Lungo i binari

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  1. Tommas02
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    #1

    Avevo dodici anni quando vidi per la prima volta un corpo morto. Era sepolto sotto un metro di terra, pochi chilometri fuori dal paese, sotto i binari di una ferrovia su cui passavano solo treni merci.
    Certi avvenimenti possono avere diversi effetti su un dodicenne, penso adesso. Prima ipotesi: nessuna conseguenza, almeno nell’immediato. La mente raccoglie quelle immagini, le isola in qualche angolo irraggiungibile dagli artigli della razionalità, e quelle rimangono lì, inerti… fino a quando qualcosa non le riporta in vita. Ma spesso quel qualcosa non arriva mai, e allora questa è l’ipotesi migliore che ci si possa augurare.
    Numero due: gli eventi popolano i tuoi incubi, aprono spifferi gelidi su pareti che dovrebbero rimanere chiuse. Mesi – no: anni di tormento, il timore di scovare un viso decomposto per metà nascosto tra i vestiti, l’impressione di scorgere il tremito di una mano proprio accanto al letto, quando le luci sono spente e chiudere gli occhi è la porta per un ricettacolo di pensieri bui. Poi, con il tempo, l’incubo si deteriora; le ombre sui muri smettono di somigliare al frenetico ticchettio di dita che non dovrebbero muoversi e i sogni non sono più così terrorizzanti. Ma c’è sempre un’eredità… un puzzo di foglie morte che ristagnano nel fondo dell’anima. Sepolte quanto basta per ignorare la loro esistenza, ma non abbastanza per evitare che i vapori fetidi ogni tanto risalgano e tornino a infettare la mente.
    E poi la terza opzione.
    Prima un grande senso di confusione. Le immagini si accavallano nella mente, si scompongono e assumono i contorni di un sogno, in cui tutto è sbiadito e lento e annebbiato. Dopo poco, però, la nebbia svanisce, e da questa viene fuori una domanda. Un dubbio che ti rosicchia man mano, il tarlo che si insinua nella pelle e risale fino al posto in cui giacciono i segreti inconfessabili… quelli, e i sensi di colpa.
    Credo che questo sia quello che è capitato a me. Che sta capitando a me: il tarlo è ancora vivo, e non dà segni di cedimento.
    Allora avevo dodici anni, l’anno prossimo ne compirò quaranta. Quasi trent’anni; un buon arco di tempo per dimenticare, sufficiente per acquietare le acque ribollenti della coscienza. Eppure a volte mi sembra ancora ieri.
    È che a volte non sono del tutto sicuro che fosse morto. Soprattutto quando, di notte, il suo urlo di terrore vibra ancora nei miei polpastrelli.

    Quando Nicola sbucò nel palchetto del paese, tutto trafelato ma bianco in viso, io e Marco ce ne stavamo stravaccati sotto l’ombra di una grossa quercia a torso nudo, con in mano una bottiglia di coca. Ancora di vetro, all’epoca.
    Era un pomeriggio di metà agosto. L’aria era pesante e umida, le erbacce incolte del prato non tremavano nemmeno un poco. Neanche un filo di vento. Sudavamo dalla fronte, dal naso, dal petto nudo su cui stava spuntando la prima peluria. Stavamo usando le magliette come degli asciugamani, ma in poco tempo quelle si erano inzuppate, e ora non riuscivano a detergere la pelle bollente.
    Ci stavamo annoiando. A metà degli anni Ottanta il paese era più popolato di adesso, certamente, ma rimaneva un centro di mille e cinquecento anime o poco più. C’era una buona percentuale di ragazzi – mentre adesso i giovani emigrano appena ne hanno la possibilità – ma la maggiore affluenza era a luglio. Ad agosto qualche famiglia andava via per le vacanze, e nel periodo di ferragosto c’era il picco di partenze. Restava qui solo chi non poteva permetterselo. Io e Marco, appunto. E poi Nicola, solo che il suo problema non era economico; nemmeno sognavamo di vedercelo sbucare così, apparentemente pieno di vita, nel mezzo di un pomeriggio in cui il sole prendeva a pugni sulla nuca.
    «Ragazzi» ansimò. Il collo era rosso e il cuoio capelluto pareva bruciare, ma le guance erano pallide. Riprese fiato per qualche secondo, piegato sulla bici, poi disse: «Dovete venire con me. Devo farvi vedere una cosa».
    «Cosa c’è, Calv?» disse Marco.
    Calvin era il soprannome di Nicola. Aveva i capelli che erano ispide setole bionde e la pelle lattiginosa proprio come l’eroe dei fumetti di Calvin & Hobbes.
    Nicola scosse la testa. Ora non sembrava più pallido: era cereo. «Non… non saprei spiegarvelo. Per favore, seguitemi. È importante». Notai che la voce gli tremava e che non riusciva a tenere ferme le mani.
    Io e Marco ci scambiammo uno sguardo. Nessuno dei due aveva voglia di mettersi a pedalare con quel caldo, verso chissà quale metà… ma si trattava di Calv. Dovevamo seguirlo, anche se si fosse rivelata l’idiozia peggiore del mondo. Ci scambiammo un cenno. «Andiamo» facemmo in coro. Ma a quel punto Nicola si era già avviato, e noi potevamo vedere la sua bici scintillare sotto il sole baluginante e il retro della sua maglietta inzuppato di sudore. Montammo su anche noi e lo seguimmo.
    «Dove ci porta?» mi chiese Marco.
    «Non ne ho idea». Nicola pedalava forte ed era già una cinquanta a di metri davanti a noi. Si dirigeva verso l’uscita a nord del paese, quella che porta verso le cascate.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Sfrecciavamo nell’aria immobile, e il movimento ci rinfrescava un po’ il viso. Il sudore si stava asciugando, ma sentivo il sole colare come un secchio di petrolio sulla mia schiena. Ne avrei ricavato qualche bruciatura dolorosa.
    «Sai, mi fa piacere che sia venuto. Era da tanto» dissi poi.
    «Anche a me. Forse questo vuol dire che si è ripreso… almeno un poco».
    Annuii.
    Eravamo usciti dal paese. Non c’erano macchine in giro, ed ero sicuro che non sarebbe passato nessuno: la strada era in genere poco trafficata, e quella era un’ora di quiete. La distanza tra noi e Nicola era diminuita – ora circa venti metri – e la sua pedalata si era infiacchita. Muoveva le gambe con fatica e solo allora notai come fossero secchi i suoi polpacci. Sotto l’orlo dei pinocchietti, le sue gambe erano un fusto leggero di legno morbido, e dalla pelle lattiginosa si intravedevano le vene verdi. Faceva quasi impressione.
    Poi Nicola svoltò a destra e imboccò una strada sterrata. La vegetazione ai lati era fitta, fronde verdi ci cadevano davanti agli occhi. Nell'aria, il ronzio di qualche insetto, e in lontananza si avvertiva già lo sciabordio delle cascate.
    Fu allora che capii. E anche Marco lo fece, perché mi disse: «Va alla ferrovia».

    #2

    Il fratello di Nicola era scomparso nel nulla un mese prima. Si chiamava Samuele. Era tre anni più grande di Nicola, e per il nostro amico Samuele non era solo un fratello maggiore: era un oggetto di divinazione. Quando non veniva in giro con noi, se ne andava a giocare alla campana con il fratello, o a vedere i suoi amici più grandi che succhiavano i primi tiri a qualche sigaretta spiegazzata, rubata dal pacchetto dei genitori. Quella era la prima volta, dal giorno della scomparsa, che Nicola tornava da noi. Allora pensavo fosse un buon segno. Ancora non si era ripreso, ma per quello avrebbe speso lunghe notti a sognare di ritrovare Samuele vivo in qualche angolo del mondo; però, pensavo, come inizio andava bene.
    Io e Marco ci eravamo fatti una nostra personale teoria sulla scomparsa di Samuele. Nei paesi ci si conosce un po’ tutti, e ogni gesto di rilievo si riempie di un’epicità che all’inizio non gli apparteneva. E allora il gesto si diffonde, nuovi eroi provano a replicarlo, la leggenda diventa vita. Dura qualche tempo, poi sopraggiunge la noia, ci si rende conto della banalità. Ma, per quel che dura, tutti la seguono. E quell’estate, in paese, andava forte lo scansa-treno.
    Il tutto era partito da un ragazzo più grande. Si era ritrovato, mezzo ubriaco con un gruppo di amici, a inciampare sui binari del treno proprio quando un mostro sbuffante correva a cento metri di distanza. Si era rialzato, poi era inciampato di nuovo… alla fine, con un balzo, era riuscito a scansare il treno merci di pochi metri. Era rotolato giù per un breve dirupo di terra e si era slogato una caviglia e lussato una spalla, ma giurava che quella fosse l’esperienza più esaltante mai fatta in vita sua. Allora anche gli altri ragazzi avevano cominciato con lo stesso gioco, prima saltando giù quando il treno si trovava a una decina di metri di distanza, poi azzardando sempre di più. Ancora nessuno si era fatto male, ma noi ragazzi avevamo scommesso che presto qualcuno si sarebbe procurato qualcosa in più che una semplice lussazione. Perdemmo. Il gioco durò una settimana sola: fino alla scomparsa di Samuele, appunto.
    Quello di cui ci eravamo convinti io e Marco era che Samuele fosse morto tentando questa prova. A convincerci era stata l’unica traccia lasciata da Samuele prima della sparizione: una Superga nera un po’ infangata e maciullata dalle rotaie, misura quarantatré. La polizia l’aveva ritrovata sui binari del treno. Ecco la nostra versione dei fatti: in piena notte, Samuele, sull’attenti da un lato del binario, aveva tentato di attraversare il passaggio proprio all’ultimo momento. Ma aveva calcolato male i tempi, o il suo balzo era stato goffo; fatto sta che la stringa della sua scarpa si era impigliata in una delle aste dei binari e gli si era sfilata. Allora il convoglio l’aveva travolto, trasportandolo per qualche chilometro e spappolando i suoi organi e le sue ossa sui binari.
    Ci sono alcuni dettagli che non tornano, ve lo concedo. Alcune mancanze si possono spiegare, altre sono completamente insensate. Prima di tutto: Samuele era solo quando aveva tentato il salto, perché nessuno affermava di averlo visto dopo le sei di quel pomeriggio. Ma una cosa del genere si tenta per la fama, per attirare gli sguardi persi delle ragazze. Non è un gioco da fare da soli. Ma forse Samuele si stava solo esercitando per una futura esibizione in pubblico, ci eravamo detti io e Marco. Seconda cosa: come mai nemmeno il conducente del treno merci colpevole del misfatto aveva avvisato la polizia? Avevamo dodici anni, ma già capivamo che per lui non ci sarebbe stato nessun problema dal punto di vista legale. Insomma, era stato Samuele a gettarsi sui binari all’improvviso. Quell’uomo era senz’altro innocente.
    Non avevamo considerato quanto fosse improbabile che un treno merci percorresse una ferrovia così isolata in piena notte, e nemmeno ci eravamo chiesti come potesse un corpo spappolarsi contro i binari di una ferrovia, quasi fosse fegato di vitello lasciato a marcire. E anche l’unico indizio a favore, quello della scarpa, ora mi sembra assurdo, se relazionato al resto della storia. Un treno che trascina un corpo intero non lascerà indietro solo una scarpa, no?
    Ma i dubbi non avevano scalfito la nostra convinzione. Era accaduto quello e, tralasciando il dispiacere per la scomparsa del fratello di Nicola, era divertente fantasticare su come le cose fossero andate, dettaglio per dettaglio, sempre più precisi. Pochi mesi prima avevo visto al cinema il primo Nightmare, ed era da lì che traevo le immagini per le nostre congetture. Samuele era uno dei matti del film che, sotto la spinta degli artigli di Freddy Krueger, attraversava i binari e si condannava a morte.
    Terribile, vero?
    Alle volte la realtà è peggio.
    Ovviamente non ne avevamo parlato con Nicola. Sarebbe impazzito dall’orrore, e nell’ultimo periodo la sua sanità mentale già vacillava. Anche se quel pomeriggio sembrava tutto a posto. Un po’ su di giri, eccitato forse senza motivo, ma era ammissibile. Noi due non avevamo idea di come fosse perdere un fratello.
    Arrivammo alla ferrovia e smontammo dalla bici. Nicola, che era arrivato da qualche decina di secondi, faceva ampi gesti con le mani. Grosse gocce di sudore gli imperlavano il collo e i capelli, la fronte aveva il colore del ferro rovente… ma le guance rimanevano biancastre, quasi tendenti al grigio. Lo raggiungemmo di corsa.

    #3

    Era in piedi tra i binari, ritto su una delle traversine. Guardava fisso davanti a sé, con gli occhi immobili, il sudore caldo che li faceva bruciare. Mi sembrava di vederlo ondeggiare e barcollare e pensai che sarebbe svenuto, ma probabilmente era solo l’afa che faceva tremolare l’aria.
    Marco lo affiancò, e io affiancai lui. Cominciammo a scrutare l’orizzonte, la terra secca tagliata dalla ferrovia. Procedeva dritta e scintillante, si avvertiva il calore accumulato dai binari risalire lungo le cosce. Dopo un centinaio di metri, spariva, inghiottita da una galleria, ma mi immaginavo procedesse ancora per decine e decine di chilometri, sempre riflettendo il sole alto… e anche chiudendo gli occhi i binari non scomparivano. Solo che, invece che di un bianco abbagliante, diventavano blu e freddi, appena intiepiditi da una luce violacea che premeva sulle palpebre.
    Ma non vedevamo niente oltre a quelli e alla terra arsa che continuava per chilometri.
    «Calv? Perché ci hai portati qui?» chiese Marco.
    Nicola si girò di scatto. Per un attimo, colsi nei suoi occhi lo sguardo appannato di chi si è appena svegliato. Poi cambiò, e ora c’erano solo due pupille tremolanti in un oceano vasto. Si chinò e tese l’orecchio verso la terra. «Sentite?»
    «Calv, di cosa cavolo stai…» feci io, poi mi zittii. Avevo avvertito qualcosa.
    Mi chinai e tesi le orecchie. Per qualche secondo ci fu silenzio, e un leggero rumore di terra che si sollevava. La cascata, in lontananza, continuava con lo sciabordio, ma non era che una carezza ai timpani. Poi lo sentii.
    Il terreno vibrava. Non era un tremore continuo e regolare. Qualcosa di diverso… quasi dei colpi. Ce ne furono tre, un suono deciso e secco.
    Afferrai un binario. Era bollente, e presto il calore si diffuse lungo tutto il braccio, ma non lasciai la presa. Volevo capire se quelle vibrazioni erano dovute all’arrivo di un treno, anche se a diversi chilometri di distanza. Ma il binario rimaneva immobile.
    Poi, quando il mio sforzo per cogliere qualche movimento era massimo, il suono ricominciò. Proveniva dal terreno. Mi distaccai dal binario, per lo spavento e perché il palmo della mano mi si stava arrostendo, e ascoltai la terra. Questa volta i colpi furono due: uno secco, come quelli precedenti, e un altro più cupo. Questo mi echeggiò nelle orecchie per qualche secondo.
    «Lo sentite anche voi, vero?» domandò Nicola. Si era rialzato.
    «Sì» dissi io. Solo allora mi accorsi di quanto la mia gola fosse secca, e di come i rivoli di sudore lungo il mio corpo si fossero infittiti.
    Marco annuì. «Cos’è?»
    Il viso di Nicola riprese un po’ di colore. Sulle sue labbra si disegnò un breve sorriso, ma gli occhi erano ancora sperduti e l’effetto fu sinistro. Si passò due volte la lingua sulle labbra. «Conoscete il codice Morse?»
    «Io sì!» esclamai. Ci avevo fatto una ricerca per la scuola.
    Marco era perplesso. «Di che cosa parli?»
    «È un codice di comunicazione» dissi io. «Ci sono dei punti e delle linee combinati tra di loro, e a ogni combinazione corrisponde una lettera o un numero».
    Marco reclinò il viso e corrucciò le labbra. Non aveva capito.
    «Ti faccio un esempio» disse Nicola. «La lettera a si può scrivere così». Si inginocchiò e, con un dito, disegnò sulla terra un punto e un trattino. Sotto il simbolo, incise la lettera a. Poi segnò una lineetta seguita da tre puntini. «Questa invece è la b. E così via. Ci sono le lettere, puoi comporre le parole. Di solito però non si usano questi segni, ma dei segnali acustici».
    «Ho capito. Tranne la parte sui segnali acustici».
    «Un bip più corto per il puntino, uno più lungo per la linea. La lettera a sarebbe: bip biiiip. Più o meno» spiegai io.
    Nicola ridacchiò, ma il terrore non gli scomparve dagli occhi. «Sì, più o meno».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Poi Marco chiese: «E questo cosa c’entra?»
    «Io e Samuele comunichiamo con questo codice» cominciò Nicola. «La sua camera è a fianco alla mia, e perciò quando dobbiamo dirci qualcosa di importante usiamo il Morse. Solo che, invece dei bip, diamo dei colpi sul muro. Con la nocca per il punto, con il palmo per la linea».
    Tacemmo. Io avevo intuito dove voleva arrivare Nicola, e pensavo l’avesse capito anche Marco.
    Infatti fu lui a parlare. «Quindi tu pensi che a fare quel suono sia stato Samuele».
    Per un attimo l’idea dovette sembrare folle anche a Nicola, perché sgranò gli occhi e tirò la testa all’indietro, come se colpito da un pugno.
    «È così, Calv?»
    Nicola annuì. In faccia aveva di nuovo quel colorito smorto.
    «Ma è una cosa folle!» disse Marco.
    «Cos’altro potrebbe essere, se no?» ringhiò Nicola.
    «Qualunque cosa!»
    «Un treno?» suggerii io. Non avevo sentito nessuna vibrazione nei binari, ma non potevo escluderlo.
    «No. Hanno chiuso la ferrovia dal giorno… da quando Samuele è scomparso. E non può essere nemmeno un treno a parecchi chilometri di distanza, perché i binari non vibrano» rispose Nicola, deciso.
    Era vero, dovetti riconoscere.
    «Allora un animale» disse Marco.
    «Un animale sotto il terreno? Che fa dei suoni del genere? Quanti ne conosci, eh, Marco?» La sua voce ora si era incrinata ed era diventata quasi femminea.
    «Ma Calv…» cominciò Marco.
    «Non chiamarmi così, cazzo!» sbraitò Nicola. Teneva le mani strette a pugno e aveva indurito la bocca.
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Io e Marco facemmo un passo indietro. Ero spaventato. Nicola mi sembrava così… fuori. Un matto nel manicomio di Nightmare. Ciuffi di capelli mi ricadevano davanti agli occhi e il sudore mi velava lo sguardo. Sentii il mondo fare le giravolte attorno a me.
    «Ascoltatemi. Per favore» mormorò Nicola. Sembrava spossato e disperato. Non potevo esserne sicuro, ma assieme al sudore, dagli occhi parevano colare lacrime. «So che sembra assurdo. Ma ho passato tutta la mattina qui e sentivo questi suoni... ogni tanto. Ho pensato di essere pazzo. Ma adesso so che lo sentite anche voi, e sono sicuro che non potrebbe essere nient’altro. Samuele sta cercando di parlarmi». Rise e singhiozzò insieme, poi si passò un braccio sugli occhi. «Aiutatemi a decifrare il suo messaggio. Vi prego».
    Io e Marco ci guardammo. Il mondo smise di girarmi intorno, e all’improvviso mi sentivo solo stanco. Stanco e terribilmente convinto. Allora decidemmo, scambiandoci un cenno.

    #4

    Mettemmo su in pochi minuti un piano.
    Io avrei ascoltato il suono e riferito a Nicola. Lui avrebbe decifrato la combinazione su un foglio che aveva portato con sé. A Marco, invece, sarebbe toccato segnare le lettere sulla terra. Era un ruolo quasi inutile, ma non volevamo escludere nessuno, e Marco era quello che ne sapeva di meno di codice Morse.
    «Non metterti sui binari» mi suggerì Marco, spostandosi su un lato. «Mettiti qui, a lato. Si sente meglio. Credo… credo provenga da qui giù».
    Mi chinai nel punto che mi aveva indicato e accostai l’orecchio al suolo.
    «Stai attento a distinguere il colpo con le nocche da quello con il palmo. Quello con le nocche è secco, l’altro rimbomba di più».
    Per qualche minuto non sentii niente. Il sole si stava abbassando, ma l’aria era ancora insopportabile, e in quella posizione il sudore mi entrava nelle orecchie. Mi sembrava di avere un mare che galleggiava nel cervello.
    «Allora? Non senti niente?» chiese Nicola, la voce nervosa.
    Feci di no con il dito: non volevo spostarmi. Il suono poteva arrivare da un momento all’altro.
    E fu così. Tre tocchi secchi in serie mi esplosero nell’orecchio. «Tre punti!» esclamai.
    Nicola fece frusciare il suo foglio. «Tre punti… esse. Segna, Marco».
    Qualche secondo di silenzio. Poi un altro colpo secco e, dopo un attimo, un altro più cupo. «Un punto e un trattino».
    «Lettera a» fece subito Nicola. La sua voce tremava.
    Poi un colpo deciso, uno ovattato, altri due decisi. «Punto, trattino, punto punto».
    «Elle».
    Sorrisi, la testa nella terra, e un po’ di polvere mi entrò in bocca e nel naso. Mi fece prurito alla gola, ma continuai ad ascoltare. «Punto punto punto e trattino».
    «La vi».
    «Punto e trattino. Di nuovo la a» dissi io. Il prurito, adesso, era diventato uno sfregamento violento alla base della gola.
    Mi feci ancora più vicino alla sorgente del suono. Terra secca si appiccicava alla mia guancia bagnata. Il cuore galoppava nel petto, potevo sentire i meccanismi del mio cervello ruotare e cigolare. Ci fu un colpo sordo, rimbombante, e poi…
    E poi lo sfregamento si fece insopportabile e mi ritrovai a cacciare fuori la terra che si era infiltrata nel naso e in bocca. L’accesso di tosse durò qualche secondo, giusto in tempo per udire l’ultima combinazione. Due colpi secchi, questa volta. Questa la ricordavo: era la i.
    Nicola si era chinato su di me e mi scuoteva per le spalle. «Allora? Hai sentito altro?» Urlava, ai lati del collo spiccavano i tendini tesi.
    Io mi scrollai la terra dal viso e sfregai le mani per togliere quello che ne era rimasto appiccicato. «L’ultima era la i. Due puntini. La penultima…» Avevo sentito un suolo suono cupo, prima che il bruciore mi scoppiasse in gola. Ma non potevo essere sicuro che ci fosse stato solo quello, perché il suono della mia tosse avrebbe coperto quello proveniente dal terreno.
    «Due colpi profondi, vero?» La sua voce ora era al massimo dell’eccitazione e gli occhi scintillavano. Non erano più quelle biglie trasparenti di prima, no.
    Sì, era probabile, decisi. Non mi era parso di avvertire l’inizio di un nuovo suono rimbombante, appena prima dell’accesso di tosse? Mi pareva di sì. Non potevo esserne sicuro, ma… «Sì, due colpi profondi».
    Ci fu qualche secondo di silenzio. Nella concentrazione che avevo messo nell’ascolto, e poi per l’attacco di tosse, avevo dimenticato la sequenza di lettere.
    «La parola allora è...» disse Marco, scavando le ultime due lettere nella terra.
    Fu Nicola a mormorarlo. «Salvami».

    #5

    «Che si fa adesso?» chiesi dopo diversi secondi di silenzio. Mi sembrava di avere un oceano di sangue nel cranio, e quel sangue velava e confondeva ogni mio pensiero. La voce mi venne fuori esile e nessuno mi udì.
    Marco passeggiava in cerchio intorno al punto dove mi trovavo io, le spalle ciondolanti. Scalciava, sollevava manciate di terra, stringeva e apriva le mani. Biascicava qualcosa tra sé, ma riuscii a udire solo qualche parola atona. «Salvami salvami da che».
    «Allora? Che facciamo adesso?» ripetei. Avevo la voce acuta di un bambino spaventato, e, be’… adesso penso che lo fossi. Ma trent’anni fa quella voce mi parve ridicola, e mi schiarii la gola, tentando di darmi un contegno.
    Ancora nessuna risposta.
    Nicola, accucciato sui polpacci, aveva portato le mani agli occhi e ne stava massaggiando la parte inferiore, muovendo piano i polpastrelli. Respirava a fondo; un respiro irregolare e asmatico. I gomiti sembravano lance appuntite a bucare la pelle.
    Durò per qualche minuto. Il mondo sembrava assorto nello stesso monotono ritornello: Marco che camminava e scuoteva la testa e mormorava parole insensate, Nicola che si massaggiava gli occhi, come a volersi schiarire i pensieri. Io ripetei ancora due volte la stessa domanda, ma con voce sempre più flebile.
    Poi Nicola si alzò, barcollando sulle gambe secche. Alla destra dei binari, camminando verso la cascata, c’erano dei rovi secchi e folti. Fu verso quelli che Nicola cominciò a camminare. Aggirò gli arbusti e sparì dal nostro sguardo; quando vi ritornò, dopo qualche secondo, trasportava con entrambe le mani un borsone nero. Aveva la bocca contratta in un’espressione di sforzo. Lo lasciò cadere di fronte a noi, e dall’interno provenne un cozzare metallico.
    «Ch-che roba è?» chiese Marco. Si era allontanato di un passo dal borsone.
    Nicola si chinò e fece scorrere la cerniera. «Samuele è là sotto».
    Marco scosse il capo. «No… Non lo so, non lo so, cavolo. Che c’è lì dentro?»
    «Ecco» disse Nicola mentre si tirava su. Teneva in mano una pala. «Scaviamo».
    «Cosa?» chiesi io. Quasi lo urlai: ero già inquietato, e l’idea di scavare per andare alla ricerca di un morto… di qualcosa che chiedeva aiuto, là sotto, mi terrorizzava.
    «Cosa pensate di fare? Ci sta chiedendo aiuto!»
    «Sì, ma... Nicola, pensaci, potrebbe essere altro. Forse ci stiamo sbagliando» disse Marco. Aveva fatto un altro passo indietro.
    «Cosa?»
    «Non lo so. Ma, anche se fosse vero, perché dobbiamo farlo noi? Possiamo chiamare la polizia». Prese un respiro e sussurrò: «Non è per niente rassicurante».
    «E secondo te non ci ho pensato? E cosa gli diciamo? C’è mio fratello che cerca di parlarmi. È sepolto sotto terra e mi chiede aiuto. Davvero?» Nicola guardava Marco con aria torva, il naso arricciato e gli occhi come fessure.
    «E poi potrebbe essere troppo tardi…» mormorai io.
    «Come?» dissero Nicola e Marco, in coro.
    «Ho detto che potrebbe essere troppo tardi. Se Samuele fosse allo stremo…»
    «Tu ci credi?» mi chiese Marco, con gli occhi strabuzzati.
    Io scrollai le spalle. «Cos’altro potrebbe…» Mi bloccai. Un brivido mi attraversò dalla nuca alle ginocchia. All’improvviso, mi ero reso conto che non volevo immaginare cosa altro potesse essere.
    Il sole stava cominciando a scendere. Non avevamo orologi ai polsi – roba da grandi, all’epoca – ma dalle ombre che, lentamente, cominciavano a strisciarci attorno, potevo desumere che fossero circa le sei. Più o meno. Avevamo due ore abbondanti prima del tramonto.
    «Facciamolo» dissi io. Pensavo che avevamo l’occasione per salvare una vita. Saremmo diventati eroi.
    Nicola mi fece un sorriso largo. Questa volta, anche i suoi occhi sorrisero e si illuminarono, e l’effetto non era più sinistro. Solo d’incommensurabile, tenera felicità.
    «Non ha senso…» sussurrò Marco. Si passò una mano tra capelli, li scompigliò, chiuse per un attimo gli occhi.
    «Devi aiutarci, Marco» disse Nicola. «Ci sono due pale. Le ho portate qui stamattina. Potemmo alternarci… uno riposa e gli altri due scavano, sapete, e poi si fa il cambio».
    Marco sospirò. «Va bene. Ma fino al tramonto. Poi io vado, e se volete continuiamo domani». Scosse la testa, come per scacciare qualche ultimo dubbio.
    Sulla bocca di Nicola si allargò lo stesso sorriso. «Grande!»
    Facemmo la conta per chi doveva iniziare a scavare. Nicola disse che lui non si sarebbe fermato in nessun caso, e che quindi solo noi ci saremmo alternati. Venne fuori che io dovevo scavare per primo.
    E ci mettemmo all’opera.
    Per Dio, cominciammo a scavare.

    Edited by RàpsøÐy - 20/12/2017, 16:22
     
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