In quel posto umido

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    #1

    Ti ritroverai ad aver paura
    Nel buio tra le pareti ruvide
    Il freddo ti oscurerà la cura
    Donde arrivano le macchie umide


    Plop, plop. Un lento stillicidio. E il graffiare del metallo sulla pelle.
    Questi suoni, che divorano il buio.

    Del gioco sarò la Commedia
    E tu il mio fedele attore
    Sarai bravo a trovare la via
    Per compiacere allo spettatore?


    Ogni tanto, qualche risolino sommesso. Forse un chiacchiericcio timido, poi un suono che è come lo scorrere dell'acqua, e ancora il vento che scombina i capelli, e per ultimo un odore di umido, di marcio, il tutto in un continuo mutamento di forme e odori. L'unica cosa che permane è il buio.

    Cerca il gigante acquario
    Sfuggendo allo scenario truce
    Ma è tempo che si apra il sipario
    E che torni a te la luce.


    La luce non venne. Almeno, non subito. All'inizio fu solo un grande sbatter d'occhi, mentre immagini confuse gli si accavalcavano in testa. Poi iniziò a distinguere i primi colori - grigio, grigio ovunque -, le prime forme irregolari, seppe dare un volto agli odori che gli pungevano le narici. Dopo qualche decina di secondi poteva dire di vedere di nuovo bene.
    Sedeva di schiena contro un muro. Due gomene spesse da marinaio, ma logore gli cingevano le mani bloccate a terra. Tentò di spezzarle con la sola forza delle braccia e osservando le varie abrasioni lungo tutta la corda avrebbe giurato di riuscirci facilmente. Però quelle non si ruppero. Si rese conto in quel momento di sentirsi debole. Nello sforzo aveva contratto gli addominali e ora gli dolevano. Da quanto tempo non mangiava? Solo a ricordare, ora, gli veniva fame. E poi dove si trovava? Cos'erano quelle pareti irregolari, quel tanfo freddo e umido che pervadeva l'ambiente, e quell'erbetta che spuntava a ciuffi dal pavimento alle sue spalle?
    Lo spazio che lo circondava assomigliava a una specie di caverna. Poteva distinguere l'ambiente solo grazie a una luce smorta e diffusa, proveniente da chissà dove, che dipingeva ombre sinistre sulle pareti della grotta. Nel pavimento in pietra erano incastonate delle lanterne che mostravano la via di quello che pareva essere un sentiero. Provò a seguire il percorso delle luci, ma dopo qualche decina di metri s'apriva un bivio e lui non riusciva a capire quale parte prendesse il percorso. Provò a ragionare, ma l'insensatezza di ciò che gli si presentava, con quella sensazione di essersi incarnato in un brutto incubo, gli ottenebrava la mente. Per un attimo il suo sguardo si fece di nuovo confuso, e vide quello scorcio di mondo turbinare, poi chiuse gli occhi, inspirò forte, li aprì. Era tutto come prima. Nessuna speranza che quel mondo di pietra si dissolvesse.
    S'accasciò contro il muro alle sue spalle, tentando di indovinarne la struttura. Nel tentativo di placare i morsi della fame fece per portarsi le mani allo stomaco, ma queste erano ancorate a quelle corde e il movimento finì per sfiancarlo del tutto. Pregò di qualche lamentela smozzicata, soffiando le parole per provare la densità di quel silenzio. E ricadde di nuovo in uno stato di torpore, la fame che cedeva il passo al sonno, gli occhi che ogni tanto rinsavivano per il terrore. Quando si svegliò era ancora lì. Si chiese se sarebbe arrivato qualcuno, chissà, magari tra qualche ora, o forse tra giornate intere, ma la stessa idea non lo consolava. Capiva che qualcuno sarebbe arrivato, ma quel qualcuno era lo stesso che l'aveva portato lì, quindi non c'era di che rallegrarsi. Non ebbe nemmeno la forza di domandarsi chi fosse, quel qualcuno.
    D'un tratto, mentre i suoi occhi vagavano sulle curve della pietra, in cerca di improbabili vie di fuga, Orazio si accorse che c'era una lama seghettata affianco alla parete. Prima non l'aveva vista, e il pensiero che qualcuno l'avesse messa lì nella sua dormiveglia lo fece rabbrividire. Poi però decise che probabilmente gli era solo sfuggita, senza comunque placare i tremori che gli percorrevano la pelle. Guardò il seghetto con un pizzico di diffidenza. Era vicino al muro, un paio di metri alla sua sinistra, forse anche meno. Non poteva raggiungerlo: le corde gli bloccavano le mani. Con malsana ironia, pensò che la situazione era beffarda: non poteva raggiungere la lama perché aveva le mani legate, e poteva tagliare quelle funi solo con la lama. Cadde ancora nello sconforto e riprese a esaminare la stanza. Dopo qualche minuto, però, ebbe un'intuizione. Certo, non aveva la disponibilità delle mani, ma poteva usare i piedi. Così, concentrando tutte le sue forze nelle braccia per reggersi, si sollevò e ruotò sensibilmente verso sinistra; allungò la gamba, provando un forte dolore all'inguine, e riuscì a spostare la lama con il piede, stavolta strisciando verso il centro; quindi tirò indietro le gambe e con un calcetto spedì il coltello contro il muro. Adesso l'aveva a portata di mano. Prima, però, si prese il tempo di rinforzarsi dopo lo sforzo che gli aveva rosicchiato le già esigue energie, respirando aria putrida a testa in su. Dopo qualche minuto si sentì meglio. Con la mano sinistra pigiò sulla corda e prese a sfregare contro i denti della lama. In poco tempo il cavo si spezzò e lui, nello strofinio, si provocò un graffio sul polso. Poi con la mano libera riuscì a usare il seghetto per rompere anche l'altra corda. Dopo qualche secondo era libero. Si alzò in piedi, strisciando contro il muro, e subito dovette aggrapparsi ad una delle sporgenze della roccia per non ricadere a terra. Vide tutto intorno come offuscato da una patina nera e gli prese una violenta fitta allo stomaco, dovuta alla fame o alla spossatezza o al timore, o ancora a un misto di tutto questo. Quando si fu ripreso iniziò a camminare a passi cauti sulla pietra, diffidente dei tranelli che poteva nascondere quel posto cupo. Solo allora notò cosa indossava. Era una tuta - o forse un pigiama - larga e a righi sottili, e ricordava le uniformi dei carcerati. Questa, però, non era bianca e nera: le righe erano dipinte dei colori più sgargianti, disposti in modo casuale. Partivano con un verde acqua, per poi passare a un rosso cremisi e a un fucsia splendente, e poi continuavano così, in un'accozzaglia di colori contrastanti tra di loro. Anche i pantaloni seguivano lo stesso motivo.
    Una volta superato lo stupore, Orazio tentò ancora di ragionare, questa volta con ordine. Qual era l'ultima cosa che ricordava? In realtà, tutto gli pareva fumo. Sapeva chi era e conosceva il viso di sua moglie - Marina! per un attimo si chiese se anche lei fosse finita in quel folle incubo, senza aver il pensiero di preoccuparsi sul serio: i suoi interrogativi gli bastavano -, sapeva che lavoro faceva e il percorso per raggiungere l'ufficio, con un po' d'impegno avrebbe anche ricordato le fermate del tram. Ma degli ultimi avvenimenti aveva solo il vuoto e la nebbia. Sperò senza vigore che le immagini gli sarebbero ritornate in mente nei minuti successivi e decise di seguire il percorso indicato dalle lanternine.
    Quando arrivò al bivio che aveva visto prima notò che sulla parete che divideva le due strade c'era un interruttore. La via illuminata era quella a sinistra, ma pigiando l'interruttore questa si spegneva e s'accendevano le luci sul percorso a destra. Quale imboccare? Si risolse per quella a destra e proseguì di lì. Il suo sguardo non andava oltre il breve tratto illuminato dalle lampadine sul pavimento.


    #2

    Imboccata la via, il soffitto s'abbassava e le pareti si stringevano, e pareva di procedere in un cunicolo di roccia. Orazio andò avanti per un po', le pareti tremolanti delimitavano una strada dritta. A tratti, quando lo spazio era più stretto, i suoi capelli sfioravano la pietra umida. Dopo qualche minuto s'accorse che, oltre alla luce proveniente dal pavimento, ce n'era un'altra che arrivava da sopra. Scrutò le rocce e le incrinature che le univano, provò a scorgere qualcosa dietro ad esse, ma pareva non esserci nulla. Nessuna traccia di lampadine o lanterne o candele. Ipotizzò potesse trattarsi della pietra che riverberava la luce che giungeva dal basso, ma decise che non era possibile: quello che veniva dall'alto era un bagliore più cupo, misterioso. Più tardi, procedendo ancora sulla strada, s'imbatté in una deviazione. La via continuava dritta, ma sulla destra si apriva un altro vicolo, ancora più piccolo rispetto a quello in cui camminava ora. Forse fu per quello che decise di non imboccarlo. Superato quello, però, sebbene fosse abbastanza sicuro della sua ultima scelta, cominciarono a sovvenirgli i primi dubbi. E se fosse stata sbagliata la sua prima scelta? Ormai era già da un po' che camminava e ancora non intravedeva una possibile meta. L'ipotesi di dover tornare indietro, ora, lo sconfortava. Andò ancora avanti però per quel tragitto, il cuore invischiato in un'inquietudine ancestrale. Ombre minacciose, ma dai contorni non definiti che s'allungavano sulle pareti, per poi scendere sul pavimento e arrivare a lambire il muro opposto. A volte, voltandosi, scopriva che le ombre appena passate, da quell'angolatura, si concretizzavano in immagini reali, e allora quella minaccia appena sussurrata diveniva un urlo a squarciare la sua tenuta nervosa. Quindi provava a scansarli, quei riflessi, timoroso delle insidie che nascondevano, saltando qua e là come un assennato, tra le rare zone illuminate su quella roccia dominata dalle tenebre. Nel frattempo, ai suoi lati s'aprivano ulteriori biforcazioni. All'inizio prese a contarle per non perdersi nel caso avesse dovuto tornare indietro, poi si rese conto che era una cosa insensata: lui proseguiva sempre dritto.
    Clac. Come un cancello che si apre. L'immagine che ne uscì era sfocata e Orazio non riuscì a metterla a fuoco. Subito sparì, inghiottita dallo stesso cancello e dallo stesso rumore di prima. Clac. Poi il mondo che turbina, lo stomaco che divora se stesso.
    Si aggrappò alla parete e impiegò qualche attimo a riprendersi. Provò una sensazione di inadeguatezza, e per un attimo l'assurdità della situazione lo travolse. Solo in una grotta misteriosa. Solo in una grotta misteriosa del cazzo. Solo in una grotta a cercare chissà cosa, a spaventarsi per delle ombre, a succhiare stralci di luce, ad abituarsi al puzzo di umido. Sua moglie, la sua famiglia, il suo lavoro. Sogni, speranze, ambizioni. Tutto sgretolato di fronte al dio del terrore. E volle per un secondo non essere mai nato, il suo pensiero sfiorò una preghiera sconosciuta e poi fuggì. Fu un attimo, poi passò tutto. Già.
    Riprese a camminare. Se mai avesse scoperto chi gli stava facendo ciò - giurò al cielo e a Dio - gliel'avrebbe fatta pagare. Ora si sentiva più debole. Intuiva che doveva esserci un motivo dietro quei continui giramenti di testa, ma non voleva indagare. Era molto più semplice dirsi che era solo stanco pur sapendo di mentire. I suoi passi troppo pesanti facevano vibrare il pavimento e ad ogni rumore il suo cuore sobbalzava. Ad ogni scricchiolio, il ritorcersi del suo stomaco. Ad ogni sussurro immaginato, il lieve avanzare verso il tracollo nervoso.
    D'un tratto, quando ormai iniziava a pensare che avrebbe camminato per sempre su una via infinita, vide davanti a sé una curva. Voltava a destra. Temette fosse uno scherzo dei suoi occhi esausti e quindi affrettò il passo perché quel miraggio non svanisse. Non svanì. Si fermò una decina di metri prima, e a quel punto tutto quell'inseguire assunse un senso, qualcosa di angosciante che però gli metteva addosso una morbosa curiosità. Respirò a fondo, diede una breve scrollata ai capelli. Li sentì sudici. Poi avanzo a passi lunghi e lenti.
    Oltre la curva non c'era nulla. Semplicemente, la strada finiva. Un muro. Sopra, un cartello nero e una faccina beffarda dipinta di rosso. Orazio provò a picchiare le mani contro il muro, ma non ci riuscì. Le braccia a mezz'aria, il respiro affannoso, la bocca dischiusa che voleva urlare, i muscoli contratti. Si lasciò cadere a terra, così, sconfitto, e pianse. Pianse, Orazio, senza aver un motivo vero e avendo tutti i motivi del mondo.


    #3

    Dormì. Quando si risvegliò, per un momento ancora tenne gli occhi chiusi, la speranza irrazionale che quello che aveva visto fosse finzione. Poi li aprì perché non ci credeva. Riprese a camminare nel verso opposto e, nonostante sentisse le forze venir meno, il suo passo era più determinato rispetto a prima, la sua postura più dignitosa. Sferrò un pugno alla parete e questa rimbombò. Camminando, sentì poi un diffuso vibrare come di foglia.
    La strada al ritorno gli parve più breve. Le ombre, prima così terrificanti, ora apparivano innocue, quasi scherzose, e si stupì per essersi inquietato per così poco. E provava una strana soddisfazione a calpestare quel buio che prima evitava, picchiarlo con vigore, come a stabilire una gerarchia tra lui e le tenebre. Quando intuì che il piazzale iniziale era vicino le sue certezze iniziarono a vacillare. E se anche l'altra strada fosse stata un vicolo cieco? Era scoraggiante. Magari avrebbe dovuto esaminare i vicoli che si aprivano nella via principale e di lì cercare un punto di fuga, ma allora gli sovveniva il dubbio che quelle contenessero ulteriori biforcazioni e temeva di perdersi. E poi le energie scemavano, non riusciva neanche ad avere fame. Le labbra secche sfregiate dall'ambiente.
    Ritornato al punto di partenza, desiderò accasciarsi lì e aspettare inerte la sua fine. La sua dignità di uomo non glielo permetteva, quindi decise di proseguire. Prima però si sedette un attimo per riposare le gambe. Pensò ancora senza grande convinzione a com'era arrivato lì. Poi prese a passare le dita a terra, dapprima con dei colpetti al suolo, poi queste andavano alla ricerca delle spaccature nella roccia e accarezzavano l'erbetta che vi cresceva. La sentivano umida. Orazio portò le dita alla bocca e prese a succhiare avido le poche gocce catturate dal pavimento. Tutti quei gesti avevano un che di secco e avventato, come se Orazio fosse preoccupato di nascondere il fatto a occhi indiscreti.
    Quando si stava preparando ad alzarsi per rimettersi in cammino, notò qualcosa alla parete dove si era ritrovato sveglio un po' di tempo prima. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco, poi li sbatté per sapere se era vero. Erano due oggetti argentei e lucidi. Una ciotola e una brocca, o forse qualcosa del genere. Orazio si alzò di scatto e corse: non poteva correre il rischio che gliele portassero via. Nella ciotola c'era una fetta di pane, nella brocca dell'acqua. Non si rifocillò subito. Poteva fidarsi? Qualcosa gli diceva di sì, ma non riusciva a fidarsi del suo istinto. Prima immerse un dito nell'acqua e lo portò alla bocca. Succhiò di nuovo. Era fresca, buona. Bevve di gusto, ingurgitò il pane. Quindi si rialzò e raggiunse il punto in cui s'apriva quel bivio. Pigiò l'interruttore, s'accesero le luci a sinistra.
    Solo una volta imboccata la via realizzò. Aveva appena mangiato e bevuto, ma prima quelle ciotole non c'erano. Voleva significare che qualcuno ce le aveva messe durante la sua assenza. E che quel qualcuno lo stava spiando. Un brivido lungo e freddo gli percorse la schiena.
    Cercò di non pensarci. Insomma, per quanto assurda fosse la situazione, doveva aspettarsi di essere osservato. Percorse i primi metri in quel vicolo e subito notò qualcosa di diverso. Era alto e stretto come l'altro, le pareti ruvide che si stringevano, l'odore di umido. Però qualcosa non gli tornava. Dopo qualche secondo capì. La luce. Questa era più scura, livida, e dall'alto non arrivava altro bagliore, così la strada appariva più buia dell'altra. Forse per questo aveva scelto il percorso a destra, all'inizio, perché, pur nella sua veste macabra, aveva un aspetto che infondeva più sicurezza. Per qualche minuto, le pareti sfilarono spoglie. Le ombre qui non apparivano minacciose e Orazio non sentiva il bisogno opprimente di evitarle. Più tardi, quando ormai era immerso nella penombra, sulle pareti iniziarono a comparire delle foto. Avevano tutte la stessa forma quadrata ed erano catturate in cornici in legno. Appese con un chiodo che si reggeva sulle pareti irregolari, penzolavano, come mosse da un vento che non c'era. Ciò che raffiguravano sembrava non aver nulla a che fare con il luogo in cui si trovavano. Le prime erano in bianco e nero ed erano delle foto di famiglia. Orazio andò oltre, perché quelle erano sbiadite e i contorni dei volti erano irriconoscibili. Poi le foto divenivano più recenti, i colori più nitidi, le forme più originali. E Orazio si appassionò a quella successione, ipotizzò correlazioni tra quel luogo e quegli scatti, la sua mente partì in fantasiose cospirazioni, e per quegli attimi fu libero dall'inquietudine. In tutti i volti che osservò, riconobbe tratti comuni: ora una gobba leggera sul naso, poi una forte rientranza degli zigomi, ancora un'espressione quasi macabra che distorceva il sorriso. Giunse all'ultima foto. Ritraeva un uomo sulla quarantina, capelli corvini, zigomi incavati, una piega macabra che imbruttiva il suo sorriso. Orazio sentì una rabbia atavica montargli lungo tutto il corpo, i nervi fremere per l'agitazione. Era quello quindi il volto del suo rapitore. Aveva voluto raccontare la sua storia attraverso quel seguito di diapositive, partendo dall'origine, dalle storie dei suoi antenati. Se da un lato odiò quel volto subito, dall'altro quel freddo egocentrismo lo affascinò. Ricercò su quel naso l'accenno di quella gobba che avevano i suoi parenti, ma non la trovò. Quando però ricordò ancora una volta - e ancora una volta fu come una pugnalata nello stomaco - che quel pezzo di merda l'aveva imprigionato lì, il fascino svanì e rimase la rabbia. Fredda, famelica. Distruttiva. Staccò quell'ultima foto dalla parete e la scagliò a terra, quindi proseguì il percorso. La roccia riecheggiava i suoi passi infuriati.
    Dopo qualche decina di passi, però, le sue certezze si disfecero di nuovo. Il ciclo ricominciava. Catturate dalle stesse identiche cornici in legno, una produzione in serie che non aveva nulla di ordinario. All'inizio foto di famiglia in bianco e nero, tutte pieghe e angoli, in cui poteva scorgere gli stessi segni comuni dell'altra successione - questa volta gli occhi scuri che spiccavano malgrado la mancanza di colori e un naso all'insù. Poi le immagini si facevano più recenti. L'ultima raffigurava una donna. Anzi, doveva essere poco più che una ragazza. Aveva i capelli mori e gli occhi verdi, il naso a sella e un sorriso largo. Orazio si chiese il perché di quegli occhi chiari, ma la domanda morì, soffocata da mille interrogativi più gravi e più urgenti. Chi erano quelle persone? E perché le loro foto erano lì? Per un attimo pensò che quella potesse essere la moglie del rapitore, ma dopo ancora qualche metro iniziò un'altra successione di foto. Non poteva essere. Questa volta, non seguì lo svolgersi di quella storia. Era confuso, e si rendeva conto che appena riassumeva un pizzico di lucidità arrivava qualcosa di inaspettato a scuoterlo. Era frustante. Nel frattempo, ai suoi lati le foto si susseguivano, e non appena pensava fossero finite il ciclo ricominciava. Smise di contarle dopo poco.
    D'un tratto, mentre camminava, iniziò a sentire dei suoni lievi, smorzati dall'aria umida. Plop, plop. Era sicuro di aver già sentito qualcosa di simile di recente, ma non riusciva a ricordare dove. E poi lo scroscio dell'acqua. Assomigliava allo scorrere di un fiume in piena, o al frastuono di una cascata, ma c'era un che di artefatto, in quel suono, che non lo convinceva del tutto. Era palesemente falso. Orazio era sicuro che fosse nelle intenzioni di chi lo aveva creato. Non cadde nella trappola, però poi pensò che magari anche quello era nelle intenzioni del rapitore. Magari voleva distogliere il prigioniero dall'effettiva presenza di un torrente nei dintorni. In ogni caso, perché questo indizio avrebbe dovuto depistarlo? E a che scopo, poi? Orazio diventava ogni momento più confuso.
    Dopo un po' quel suono cessò e venne il silenzio. Durò poco: ancora qualche minuto e Orazio udì un altro rumore, anche questo mezzo inghiottito dall'aria e dalle tenebre. Un sussurrio indistinto, un sibilare di voci inumane. Il suono si fece sempre più forte, ma le parole rimanevano vaghe, il vociare malvagio, e Orazio si ritrovò a guardarsi intorno con aria diffidente. Il cuore nel petto accelerava, il terrore gli ostruiva il pensiero. Erano parole fredde mai dette, sibili sussurrati in punto di morte, il rigurgitare di un demone, il tutto in una confusione di attimi e lamenti. Rumori di carne viva che lo inseguivano. e Orazio affrettò il passo per non farsi raggiungere. Nulla, in quelle vite impervie, taceva. Quello era il respiro incalzante di quelle rocce.
    Poi anche quello passò. Si sentì sollevato, il cuore liberato da una patina vischiosa. Nella successione di foto appena cominciate, riscontrò una certa familiarità, qualcosa che non riusciva a cogliere del tutto. Proseguì con curiosità. Ma dopo un po' la sua curiosità divenne inquietudine, l'inquietudine si fece terrore soffocante. Arrivò all'ultima foto, e subito capì che quella era anche l'ultima successione. Quello nella cornice, intrappolato in un momento di inconsapevolezza, era Orazio.
    Si sentì mancare, il pane appena mangiato gli risalì in gola. Cosa voleva significare tutto quello? Percepì una nuova presenza incombere alle sue spalle e aumentò ancora la falcata, prima impercettibilmente, poi arrivò quasi a correre. Dopo qualche minuto c'era una curva. Identica a quella che aveva trovato al termine dell'altra strada. Non sapeva se pregare che non finisse allo stesso modo o se invece sperare il contrario. La prospettiva di trovare una via di fuga che non sapeva nemmeno se esistesse lo sconfortava, ma ciò che c'era dietro l'angolo lo spaventava. Inspirò, girò l'angolo, mise a fuoco.
    Era uno spiazzale simile a quello da cui era partito. Questo, però, era un cerchio perfetto, dalle pareti levigate e lisce. Orazio vide sette persone legate alla parete com'era intrappolato lui quando si era svegliato per la prima volta. I volti tutti spigoli, il cranio rasato, gli occhi spenti. Non fu in grado di riconoscere differenze d'età o di sesso: quell'umidità pareva cancellare tutto. Indossavano tute simili alla sua, ma i colori di molte erano sbiaditi, le maniche di tutte graffiate. Solo alcune conservavano un certo nitore, ma quei colori lucenti si avviavano già all'ingrigimento. In bocca avevano dei pomi neri con una cinghia che partiva dal collo e che impediva loro di parlare. Nell'aria, però, risuonavano i loro mugoli disperati, i loro lamenti che sapevano di selvaggio. Li guardò tutti, Orazio, sconvolto da quelle espressioni stravolte da ciò che stavano affrontando. Riconobbe la donna con i capelli mori e gli occhi verdi, non trovò l'uomo con i capelli corvini e il sorriso strano. Poi si sentì mancare, la testa prese a girare. S'accasciò a terra e cadde in un sonno d'ovatta.


    #4

    Più tardi anche gli altri si addormentarono. Se l'aspettavano: accadeva ogni volta che arrivava qualcuno. Il sonno durava poco e al loro risveglio si ritrovavano con le mani e la bocca libere. Questa volta la prima a ridestarsi fu Elsa. Al solito, c'era un coltello al centro della stanza. S'affrettò ad afferrarlo e lo nascose nella tuta, facendo attenzione a non tagliarsi. Poi un po' alla volta anche gli altri si risvegliarono, chi scattando sull'attenti appena aperti gli occhi, altri cercando di aggrapparsi ancora un attimo al sonno perduto. Elsa guardò le facce di tutti, osservò le pieghe speranzose che si creavano su quei visi spigolosi, le vide trasformarsi in grinze scorate. Ormai s'era abituata, ma rimaneva sempre quel pizzico di dolore, un tocco di amarezza che la consuetudine non poteva cancellare.
    Quando furono tutti in piedi si portarono al centro del cerchio. Il nuovo arrivato era legato all'ingresso della stanza, ma anche lui tra poco si sarebbe risvegliato. Era sempre così. Nel frattempo, i prigionieri si guardavano, cercavano pensieri non pronunciati sui volti altrui, annusavano l'aria portata con sé da quell'uomo. Sapevano tutti cosa avrebbero deciso, ma quello era una sorta di rituale consolidato che tutti ricordavano esistere da sempre.
    Passò un po' di tempo, forse minuti. Attendevano. Qualcuno prese a passeggiare nervosamente per la grotta, altri s'accasciarono di nuovo a terra, Elsa rimase lì con altri due prigionieri. Non parlavano. Uno di quelli che si erano appoggiati alla parete osò sussurrare: «Che ne dite?» Elsa non riconobbe la voce - in quella grotta umida che riverberava ogni suono era impossibile - e rispose: «Vedremo». Passò altro tempo e finalmente la voce arrivò.
    «Buongiorno, concorrenti. Come state oggi?»
    I volti contratti d'odio smorto, il freddo rimescolarsi del sangue, le orecchie mezze tese. Ma non era mai odio puro o sangue che ribolliva. Al sentire quel suono c'erano ogni volta le stesse reazioni spezzettate, complete di nulla. Elsa s'era abituata anche a quello e lo odiava. Non capiva come quelle pareti potessero soffocare anche l'odio, renderlo fiacca insopportazione.
    «Oggi, come vedete, tra di voi c'è un nuovo compagno. Si chiama Orazio, ha...» gracchiava intanto la voce metallica. Elsa non l'ascoltò: ormai conosceva quella cantilena a memoria. Guardò invece il nuovo prigioniero. Era di media altezza, aveva i capelli neri e un viso anonimo. Una lieve ruga gli calcava il centro della fronte. Provò a riconoscersi in quei lineamenti, tentò di ricordare le sensazioni che aveva provato quando s'era trovata per la prima volta in quella grotta, le inquietudine e le paure, le speranze e la fortuna. Cercava di rievocare un odio atavico, ma non ci riusciva mai. Ormai la sua vita era quelle rocce e i vicoli sparsi e una livida apatia.
    Dopo un po', il viso di quell'uomo prese a contrarsi. Mugolò qualcosa, forse stava sognando. Poi ebbe come un brivido e i suoi occhi si dischiusero.

    «Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi, oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...»
    Appena sveglio, Orazio non capì se quel vociare metallico fosse uno strascico del suo sonno. Lo sentiva ancora rimbombare nelle orecchie, unica certezza in un mondo ancora appannato. Poi prese a sbattere le palpebre, cercando di mettere a fuoco lo scenario.
    Dov'era? Si ricordava la grotta e i due percorsi, aveva una vaga rimembranza delle sequenze di fotografie, dello scrosciare finto, del sussurrio che lo rincorreva. Però poi come si era addormentato?
    Dopo qualche attimo il mondo prese colore. Allora gli tornò in mente lo spiazzale in cui era finito il suo percorso. Per un attimo ebbe timore, un brivido gelido gli attraversò il collo. Poi altre domande s'ammucchiarono nel cervello, le più se l'era già fatte, altre non avevano risposta. Tentò di ricordare per l'ennesima volta com'era finito lì, ma non ci riuscì. Qualcosa vedeva, ma era solo una giravolta di forme confuse. Prima aveva sperato che tutto gli sarebbe stato chiaro più avanti, ora iniziava a dubitarne. Poi rivide le sue foto in quella galleria e provò un'ansia più profonda. Perché erano lì e chi ce le aveva messe e come le aveva avute? Era confuso, ma se prima la sua mente riusciva a ipotizzare soluzioni improbabili, ora le sue congetture s'appannavano sul nascere e non facevano in tempo a partire.
    Ora, incastrato in una trappola per topi, la sua paura più grande non era la morte, né il dolore o l'aspettativa di dover passare molto tempo in quel posto. Temeva di dimenticare. Al ripensare ai colori di fuori, questi gli apparivano sbiaditi, quel grigio lì dentro li stava appassendo. Valeva lo stesso per i visi delle persone e per i loro risi acuti — si domandò se avrebbe mai rivisto una persona ridere —, per il sapore dei cibi e l'odore del polline o del gesso o della benzina, e forse anche per quello dell'alcol etilico, che odiava, sì, ma che ora, nell'umidità imponente, avrebbe annusato con fare voluttuoso.
    Si concentrò su ciò che aveva davanti agli occhi. Gli altri prigionieri questa volta erano in piedi, radunati in un cerchio al centro di quello spazio. Parevano confabulare tra loro, ma senza intenzione di nascondere le loro frasi.
    Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi...
    Ancora quella voce, questa volta più umana. Orazio la sentì addirittura intima: sussurrava solo nel suo orecchio. Provò ad alzarsi anche lui e a raggiungerli, ma si accorse di essere legato a terra. Era di nuovo stanco, di un torpore annidato nelle ossa, e sentiva il respiro pesante e sibilante. Provò a dire qualcosa, ma gli venne fuori solo fiato acido. Per un momento pensò d'aver dimenticato anche il suono della propria voce.
    D'un tratto, i sette che stavano al centro smisero di parlottare e tornarono vicino alle pareti. Rimase lì solo uno, e Orazio riconobbe in quello la donna della foto, quella con gli occhi verdi e i capelli mori. Di capelli non ne aveva più, gli occhi parevano essersi scuriti, ma forse era solo la luce. Il volto magro accentuava la concavità del naso. La sua tuta, i cui colori erano tanto schiariti da sembrare tutti uguali, era troppo larga e nascondeva — o forse divorava — un corpo secco, senza più forme. La donna girò di poco la testa verso i suoi compagni, cercò un cenno d'assenso senza rivolgersi a nessuno di preciso, poi tornò dritta. Sembrava soddisfatta e Orazio non capì per cosa. Poi infilò la mano nella tasca dei pantaloni.
    Quando tirò fuori il coltello, Orazio sobbalzò. Sentì il cuore fermarsi e poi battere troppo forte. Poi ci fu il terrore accecante.
    ...oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...
    La donna avanzò verso di lui, stringendo forte la lama tra le dita. Vene sporgenti spaccavano la pelle diafana. I due si guardarono negli occhi, Orazio la osservò avanzare e lei studiava l'inutile accartocciarsi di lui contro la parete. Si fissavano ancora mentre Orazio tentava di indietreggiare scontrandosi col muro, mentre pregava di mugoli sommessi e gemiti acuti. Era il contatto empatico tra assassino e vittima, si disse lui.
    Ad ogni passo, il terrore si faceva più grande. Ogni metro percorso era l'avvicinarsi della sua morte. Adesso - si rese conto - non valeva nulla tutto ciò che temeva di dimenticare. Se avesse avuto scelta, avrebbe barattato tutte le bellezze che ricordava in cambio di qualche giorno ancora di respiro, anzi, qualche ora bastava. E magari fumare una sigaretta, o baciare sua moglie. Banalità che in una grotta a pochi secondi dalla morta diventavano enormità. Pensava a questo, Orazio, mentre guardava l'incedere deciso della sua morte.
    La donna arrivò sopra di lui. A guardarla dal basso, appariva altissima. S'inginocchiò, avvicinò la testa alla sua, aggiustò l'inclinazione del coltello. Da questa angolatura i suoi occhi apparivano più chiari, di un verde smeraldo percorso da giochi di luci. Orazio si stupì di quel dettaglio notato in punto di morte. La donna s'avvicinò ancora - ormai dovevano essere a pochi centimetri -, quindi deviò la testa verso la spalla di lui. «Ti prego» si ritrovò a sussurrare Orazio nell'orecchio dell'altra, senza volerlo sul serio. Poi contrasse gli addominali, strinse i denti in un'espressione già agonizzante. Sentì un liquido viscido e caldo colargli lungo le gambe.
    La donna tagliò le corde che lo legavano a terra. Orazio se ne accorse solo mentre lei si rialzava e tendeva la mano libera verso di lui. Dopo qualche secondo di esitazione, l'afferrò e lasciò che quella lo tirasse su. Era libero, pensò. Si corresse subito: imprigionato o morto, non faceva differenza. Gli venne da ridere di quella paura che gli aveva appena invaso le viscere e si chiese come avesse potuto farsi sconfiggere. Si sentì prima buffo, poi, sentendo le sue gambe imbrattate di urina, ridicolo. Si affrettò a coprirsi e sperò che la donna che aveva davanti non si fosse accorta del fatto che se l'era fatta sotto.

    5

    Adesso era in piedi. Imbambolato, si guardava intorno, studiava lo spazio circostante. Intanto la donna lo fissava col busto voltato, come se lo aspettasse per fargli strada. Orazio mosse qualche passo incerto verso di lei. Ancora non si sentiva al sicuro. C'era qualcosa di losco, in quell'aria - forse un odore, forse un riflesso sui visi, forse la tensione tagliente -, che lo rendeva diffidente.
    Cominciava ad avere freddo, di un gelo che s'infiltrava nei vestiti e li gonfiava con i suoi soffi. Camminando, sentiva i muscoli atrofizzati, le ossa scricchiolanti. Una strana fiacchezza s'era impadronita della sue membra e muoversi gli costava troppa fatica. E poi gli arrivava l'odore acre della sua urina, la sentiva coagularsi sulle cosce e appiccicarsi ai pantaloni. Era rivoltante.
    Si fermarono dopo pochi passi, poco distante dalla parete. Qualcuno si avvicinò, i più rimasero dov'erano ed evitavano lo sguardo di Orazio. Altri invece lo spiavano, gli mandavano sguardi guizzanti e timidi. Alzavano gli occhi e subito li abbassavano. Quelli che si erano avvicinati gli tesero la mano, lui le strinse.
    «Giovanni» disse un uomo con uno sfregio che gli percorreva la guancia.
    «Daniele» fece un altro, occhi azzurri e labbro leporino.
    «Franco». L'ultimo era allampanato, più magro degli altri. Oltre la pelle diafana si scorgeva il verde delle vene.
    Si guardarono per qualche momento. Orazio iniziava a provare un pizzico di imbarazzo. Aveva appena invocato aiuto di fronte a loro, aveva preso a calci la propria dignità, si era pisciato addosso. Una fitta vuota al centro del petto. Poi la donna che l'aveva salvato disse: «Io mi chiamo Elsa, tu?»
    «Orazio».
    Tornò il silenzio. Orazio voleva parlare, indagare, andare a fondo, cercare un modo per salvarsi, il perché di quelle assurdità. Non disse nulla. Dopo un po' l'uomo con gli occhi azzurri tornò al suo posto. Orazio si accorse di aver già dimenticato i nomi di tutti. Quindi anche gli altri si ritirarono e rimasero solo lui e la donna.
    «Vieni, sediamoci» disse lei, e si sedettero sulla roccia, abbastanza distanti dagli altri. C'era puzza di umidità e di legno vecchio. Anche a terra credette di sentire una sottile patina di bagnato, ma forse era solo la sua immaginazione. In fondo aveva le gambe impregnate di urina.
    «Come hai detto che ti chiami?»
    «Elsa».
    Anche in quella stanza, notò Orazio, si diffondeva una luce cupa e innaturale, simile a quella che aveva trovato nei due percorsi. Non capiva da dove provenisse. Le pareti della stanza erano levigate, il soffitto anche. Nessuna crepa in cui potesse nascondersi una lampada. Eppure la luce c'era. Sommessa, non disegnava ombre sul pavimento, ma c'era. Mentre ancora studiava la stanza, Orazio chiese: «Da quanto tempo sei qui?»
    «Oh, tanto» disse Elsa. «Non posso esserne sicura, ma devono essere passati mesi.»
    Orazio annuì. Si aspettava quella risposta. «E gli altri?»
    «Pure. Un po' di meno, io ora sono la più vecchia»
    Orazio ricordò le sequenze di foto. Il primo doveva essere stato quell'uomo col sorriso macabro, ma sapeva di non averlo visto. Chissà che fine ha fatto? si chiese. Lo sapeva.
    Trascorsero minuti, i due non parlarono. Orazio sentiva un ticchettio secco, ma forse anche quello era fantasia, forse era solo il battito della sua follia.
    «Com'è lì fuori?» chiese Elsa.
    Orazio non capì. «Eh?»
    «Voglio dire, com'è la situazione? È successo qualcosa?»
    Orazio continuava a non capire, ma non voleva fare la figura dello stupido. «Oh, il solito» sussurrò. Benché tentasse di far rimanere quelle parole solo tra loro due, non ci riusciva: la stanza rimandava l'eco in tutti gli angoli. Poi osò una battuta: «Il cielo è sempre azzurro, il mare blu...» Elsa fece una risata di circostanza. Quelle parole del resto erano suonate strane anche alle orecchie di Orazio. Cos'erano l'azzurro e il blu? Lì non esistevano colori, lì c'erano solo rocce grigie e tute sbiadite. La sua era nuova, ma i colori sgargianti erano falsi, troppo lucidi per qualsiasi cosa esistente. Già faticava a ricordare l'azzurro del cielo e il blu del mare. Allora capì la domanda di Elsa: lei voleva ricordi, stralci di quella terra ormai lontana. Quella grotta divorava, con la carne e i nervi, anche il mondo che c'era fuori. Prima o poi anche i ricordi s'ingrigivano ed Elsa voleva evitarlo.
    Dopo un po' di tempo iniziò a sentire uno strano odore. Era pungente, ma non sgradevole. Gli ricordava forse quello del polline nei prati. Però col passare del tempo i muscoli si facevano più rigidi, una stanchezza più profonda si prendeva la sua testa. Si guardò intorno con lo sguardo già annebbiato. Pareva che tutti quanti stessero accusando lo stesso problema. Però loro si arrendevano. Quasi tutti avevano già mollato, il volto reclinato sulla spalla, le pieghe incattivite del viso che man mano s'addolcivano, i lineamenti che riesumavano una vaga beatitudine.
    «Che sta succedendo?» ebbe la forza di chiedere a Elsa. La sua voce era impastata e non celava un tremito di paura.
    «Ci addormentano» disse Elsa, come fosse la cosa più normale del mondo.
    Orazio non ebbe il tempo di riflettere su quelle parole. S'addormentò ancora, la solita bruma che gli divorava i pensieri.

    #6

    Al risveglio annusò un insieme di profumi. Sopraffacevano l'umidità e il legno marcio, il suo sudore pungente e l'asprezza del freddo.
    Anche questa volta si ritrovò intorpidito, strizzava gli occhi e non riusciva a mettere a fuoco. Però c'erano quegli odori ed erano nitidi. Familiari, anche. Tentò di seguirli, Orazio, con lo sguardo ancora appannato seguì la loro scia. La sua mente disegnava bistecche succulente e tavole imbandite.
    Aveva ragione. Al centro della stanza c'erano un tavolo di legno e otto sedie, anche quelle in legno. C'era sopra del cibo - o almeno Orazio ci sperava -, ma dal basso non riusciva a riconoscere cosa.
    Dovrete scegliere se lasciarlo vivo e avere un pasto succulento più tardi, oppure ucciderlo, e avere la pancia piena adesso...
    Allora Orazio ricordò. Quella voce. L'aveva ritenuta un rigurgito del sonno, ma c'era stata sul serio.
    Gli altri prigionieri si stavano già alzando, ma senza fretta. Doveva esserci cibo in abbondanza, o forse avevano perso anche la voglia di mangiare. Anche lui si sollevò, le ginocchia scricchiolarono nel movimento.
    «Che è successo?» chiese a Elsa, che era lì vicino.
    «Adesso mangiamo». La sua voce era mesta, un po' vergognata.
    «Sì, ma il tavolo prima... prima non c'era, giusto?» Il dubbio gli venne davvero. Era un'assurdità, certo, il tavolo prima non c'era. Ma non riusciva a credere neanche a se stesso.
    «Ce lo hanno messo mentre dormivamo».
    «Chi?» chiese Orazio, ma subito si pentì di quelle parole. Sperò che il vuoto le inghiottisse.
    «Non lo so. Chi ci tiene rinchiusi qui, immagino». Anche lei, camminando, trascinava le gambe e tratteneva a stento un respiro affannato. Parve accorgersi che Orazio aveva notato quel particolare e spiegò: «È ogni volta così. Deve essere il gas». Poi, senza lasciargli il tempo di domandare, continuò: «Hai sentito quell'odore, no?» Lui capì.
    A tavola quasi tutti già mangiavano. I loro occhi, nel masticare famelico, prendevano screziature rossastre ai lati, che davano loro un aspetto animalesco. Fili di bava che penzolavano dai menti, olio caldo sulle guance. Non masticavano, infilivano tutto in bocca e mandavano giù. In piedi erano rimasti lui, Elsa e il tipo con lo sfregio. Gli altri due si scambiarono uno sguardo, forse di rimostranza, di un dubbio però troppo cedevole per sopravvivere. Si sedettero, Orazio li imitò.
    A tavola c'era carne in abbondanza. Semplice o speziata. Solo allora riuscì a riconoscere i vari profumi che l'avevano colpito prima. Anche lui iniziò a mangiare, prima con timidezza, poi con voracità. Anche lui, pensò, doveva avere lo stesso aspetto animalesco degli altri. La carne era stopposa, un po' amara. Forse erano le spezie. Tutti tacevano, si udivano solo il battere dei denti e i vassoi che vibravano.
    D'un tratto, mentre ancora mangiava, notò una lieve sporgenza nella roccia. Era lontano, quindi non capiva di cosa si trattasse. Arricciò gli occhi, ma la vista non si fece più nitida. Continuava a non capire. Si alzò e aggirò il tavolo, sentendo gli sguardi di tutti che gli si appiccicavano addosso come bava. Fece qualche passo e s'avvicinò, diffidente.
    Era un occhiello nero incastonato nella roccia. C'era un'apertura argentea al centro. Una telecamera. Quel figlio di puttana li spiava.
    Prima venne l'odio. Lo sentiva galleggiare nelle vene. Poi s'insinuò un dubbio che presto divenne agitazione. Perché li filmava? Era solo un sadico che si godeva l'agonia delle sue prede o c'era altro? Provava uno strano presagio, ma non sapeva spiegarlo. Tornò al suo posto, si sedette. Tutti stavano ancora mangiando e fingevano di non essersi nemmeno accorti del suo movimento. Riprese anche lui a mandare giù quella carne, nonostante quell'ansia gli pesasse sulla bocca dello stomaco. Aveva fame e non sapeva quando avrebbero mangiato di nuovo.
    A un certo punto notò una cosa. Elsa e lo sfregiato non mangiavano. Di tanto in tanto sollevavano pezzi di carne tenendoli stretti tra due dita, quasi ne avessero schifo. Davano uno o due morsi, i loro volti si contraevano in espressioni contrite. Le guance s'indurivano, i muscoli del collo si tendevano. Poi abbandonavano la carne sulla tovaglia e s'allontanavano con la sedia dal tavolo.
    Orazio iniziò a sospettare. C'era qualcosa che non andava, ma non capiva cosa. Quei due si comportavano in modo strano. Poteva essere la mancanza d'appetito, certo, ma allora perché quei visi schifati? No, non poteva essere quello il motivo. Orazio pensava e intanto li guardava di sottecchi. Sembravano averci rinunciato, avevano gli occhi socchiusi, il viso gettato all'aria e le braccia che stringevano i braccioli della sedia.
    La risposta gli arrivò come una bufera mentre guardava lo sfregio di quell'uomo. Erano due lembi di pelle tesi uniti da una cicatrice. Lì sotto, la carne viva che pulsava. Allora sentì lo stomaco rivoltarsi, la gola stringersi in un modo.
    «Che carne è, questa?» chiese. La voce gli venne fuori tremula, prese a balbettare dall'agitazione.
    Nessuno rispose. Cessò per un attimo quel rumore di denti che sbattevano. Tutti lo guardavano in silenzio, qualcuno teneva la testa bassa. Orazio cercò gli sguardi di Elsa e dello sfregiato. Quando li incrociò, anche loro chinarono la testa.
    Allora seppe che l'intuizione era fondata, sentì un liquido acido percorglierli la gola.
    Stavano mangiando carne umana.

    #7

    Passò del tempo, forse giorni. Nulla scandiva il passare delle ore e Orazio si sentiva sempre più confuso. Il tempo trascorreva lento, con fare strisciante percorreva i loro corpi, seghettava pelle e capillari. Le vesti iniziavano ad incollarsi addosso, i capelli si facevano sempre più sudici, le unghie nere e lunghe. Le labbra gli si seccavano e ogni tanto si spaccavano, lasciando colare rivoletti di sangue dentro la bocca. Gli faceva schifo. Poi ricordava l'ultimo pasto consumato, quel sapore ferroso e ruvido, riviveva l'ansia e il subbuglio dell'inconsapevolezza, e sentiva un liquido acido e grumoso venirgli su per la gola. Non poteva ancora credere che quella che aveva mangiato era la carne di un uomo. Quello era ormai l'incubo che s'era appropriato dei suoi pochi momenti di sonno, l'odore che gli pizzicava le narici negli attimi più inaspettati. Da quella volta non avevano più visto cibo, ma per Orazio era un sollievo.
    Parlavano poco, ma non c'era mai silenzio. Il ronzio e i gemiti del sonno di qualcuno, il fruscio della stoffa dei pantaloni contro la roccia, lo scalpiccio di passi di chi vagava senza meta nella stanza. A tratti ricompariva lo stillare misterioso di quel torrente forse finto. Costante, il battito del proprio cuore nel petto. Orazio a volte riconosceva anche le pulsazioni di Elsa, che dormiva affianco a lui. Avevano un che di energico che non c'entrava nulla con quella prigione. Solo lei osava rompere il silenzio. A volte, quando tutti erano svegli, lei li richiamava e si riunivano in cerchio. Chiacchieravano un poco, si raccontavano storie. Di tutti i tipi. C'era un uomo che raccontava aneddoti divertenti; Orazio dubitava che fossero cose che gli erano davvero accadute: gli sembrava di aver già sentito tutte quelle vicende, forse come barzellette. Comunque le sue storie provocavano le risate sganasciate di tutti e anche Orazio si ritrovava a sorridere. Elsa e il tizio con lo sfregio raccontavano storie più serie, a volte racconti letti sui libri, altre vicende personali. Orazio però non riusciva mai ad ascoltare il secondo: guardava la cicatrice che pulsava e ricordava quella carne. Doveva distrarsi. Non parlavano mai della loro prigione: quella c'era ed era naturale ci fosse. Solo Orazio osò tirare fuori l'argomento. «Da quand'è che siete qui, voi?» chiese, tentando di mantenere una voce disinteressata, come se quella fosse una domanda come un'altra. Non lo era. Se ne accorgeva dalle reazioni degli altri, dai loro occhi bassi e dalla loro mestizia, dal corpo che si abbandonava allo sfinimento, preda di una consapevolezza che loro volevano celarsi. Solo Elsa rimaneva impassibile. Forse il tempo passato lì aveva inaridito il dolore, forse quello era il suo carattere e null'altro. Però Orazio l'ammirava perché non soffriva, o almeno non lo dava a vedere. Gli altri vivevano invischiati nel male che non volevano notare. Allora Orazio immaginava le loro turbe. I tentativi di evadere, lo stesso sconforto che stava provando lui. Il tempo che passava e loro non potevano tenere il conto. Li capiva, Orazio, ma si sentiva troppo preso da se stesso, dai suoi turbamenti, quindi incalzava con quell'argomento. Scoprire qualcosa era di vitale importanza. Un'altra volte chiese se anche loro si fossero accorti delle telecamere. Alcuni annuirono, altri dissero di no, ma mentivano. Leggeva la paura nei loro volti. Quella volta Elsa lo prese in disparte e gli aveva parlato. «Qui le abbiamo viste tutti, le telecamere. Non sappiamo a cosa servono».
    Orazio non rispose.
    «Cioè, ne abbiamo discusso e ci siamo fatti tante idee, ma tanto tempo fa. Non c'era quasi nessuno di quelli che ora sono qui e molti di quelli che c'erano allora sono morti».
    Ancora, Orazio tacque.
    «Non è l'unica cosa strana. Il resto lo noterai col tempo. L'importante qui è restare uniti, sempre. Lui vuole dividerci e ci riesce spesso. Da quando sei arrivato tu non parliamo molto, ma è normale. Le cose cambieranno presto».
    «Importante per cosa?» chiese Orazio, ironico. Era uno dei suoi momenti no, si sentiva succube degli eventi. Nulla aveva un senso in quel posto.
    «Per sopravvivere».
    In effetti le cose migliorarono. Quelle che prima sembravano riunioni forzate ora risultavano spontanee. Si scambiavano battutine, parlavano delle loro vite, raccontavano ancora storie. Orazio passava molto tempo a chiacchierare con Elsa. Era una commessa di un supermercato quando era entrata lì dentro, doveva finire gli studi di economia. Lui non l'avrebbe mai immaginata così giovane: adesso aveva il cranio rasato, rughe rade ma profonde le calcavano il viso, il corpo era secco come quello di un moribondo. Spesso s'incantava nei suoi occhi, verdi e grandi come ampolle, e quel verde nelle sue iridi ora splendeva di smeraldo, ora s'offuscava, poi ancora splendente. Era come se quel colore oscillasse. Come olio nelle ampolle.
    A volte si faceva prendere dallo sconforto. Quello c'era sempre, sì, ma in quei momenti lo sentiva più profondo, vivo. Come una bestia che s'attorciglia sul cuore e lo avvinghia. La luce della libertà si faceva sempre più tenue. Rimaneva abbandonato sul pavimento come senza vita, gli occhi aperti, le braccia un po' storte che giacevano lungo i fianchi. Si mordicchiava le labbra e lasciava che il suo sguardo vagasse nell'aria. S'era accorto che in quello stato il tempo pareva scorrere più in fretta, quindi ogni tanto tentava di raggiungerlo. Si raccoglieva in meditazione e cercava il suo nirvana: l'avvilimento. Però più ci provava, meno ci riusciva. Erano momenti che non andavano cercati, quindi li lasciò al proprio corso.
    Affrontò una serie di problemi che non aveva calcolato in precedenza. Innanzitutto doveva andare in bagno. Naturalmente lì non poteva esserci un gabinetto. «C'è un bagno qui?» chiese comunque, provocando i risolini degli altri. «Allontanati e cercati un vicolo» suggerì Elsa e lui così fece. Si trovò un vicoletto laterale al percorso principale è s'acquattava lì. Si sentiva schifato e anche un po' umiliato, ma non c'era altra soluzione. Solo allora, nelle ore successive, prese a notare il puzzo che aleggiava forse da sempre nell'aria, ma che solo ora si faceva insopportabile. Gli faceva rivoltare lo stomaco. Per un po' di tempo non riuscì neanche a respirare col naso e fu costretto a boccheggiare, poi si abituò.
    Un'altra volta, appena sveglio, si ritrovò una ciocca di capelli neri tra le dita. Iniziò subito a tastarsi la testa, in cerca di chiazze in cui i capelli iniziavano a mancare. Ne trovò diverse. Quello di perderli era sempre stato uno dei suoi più grossi timori, ma ora non riusciva a disperarsi. Anche gli altri lì dentro non li avevano più e non poteva certo pensare che fosse stato un barbiere.
    A volte pensava. La sua vita, il suo lavoro, le banalità. Pensava a sua moglie e ai figli che non avevano mai avuto. Era un sogno che ora non sentiva più proprio. Chissà se Marina l'aspettava ancora o se magari s'era arresa alla rassegnazione. La immaginò a piangere nella stanza e non provò dolore né malinconia né nulla. A volte si sfogava con Elsa, che pareva assorbire tutta la sua rabbia, ma non poteva dirle tutto. C'erano cose che non riusciva a confessare neanche a se stesso.
    «Stavi con qualcuno lì fuori?» le chiese una volta. Stavano chiacchierando da un po', lui appoggiato alla parete, lei lì di fronte con la schiena un po' curva. Le loro gambe s'incrociavano e Orazio provava un solletico piacevole all'altezza della coscia.
    Lei abbassò lo sguardo, come persa in una malinconia vagabonda. Qualche gocciolina di sudore aveva interrotto il suo corso sul labbro e ora non voleva andar via, aggrappata a una delle tante spaccature su quella bocca rossa. «Sì» disse, poi passò a raccontare di lui. Orazio non l'ascoltò: s'era trovato a provare un pizzico di fastidio quando lei aveva iniziato a parlarne, una specie di vuoto nel petto, come di carne che mancava. La guardava, le studiava gli occhi in cerca di un qualche residuo di amore, e intanto le sue parole gli scivolavano addosso.
    «Ci pensi ancora?» chiese. Poi, temendo che le sue parole potessero essere fraintese, aggiunse: «Te lo chiedo perché io sono sposato e non riesco proprio a pensare a mia moglie».
    Elsa abbassò la testa, chiuse per un attimo gli occhi. Con le punte delle dita ossute aveva cominciato a ticchettare sull'osso della caviglia di Orazio, e lui ora sentiva anche lì lo stesso solletico di prima. «Ogni tanto sì, però poco».
    «E all'inizio com'era?»
    «Uguale, credo. Pensavo solo a me stessa e a come uscire da qui. Ora ho più tempo per pensare» disse, e poi un sorriso amaro apparve sulle sue labbra.
    «Già. Forse è lo stesso per me» disse Orazio. Lei annuì. Dopo qualche secondo, però, sussurrò: «Sai, non lo ricordo per nulla».
    Orazio tacque, forse per rispetto. Aveva sentito un rimescolio nello stomaco che era come nausea. Per un attimo aveva sentito come proprio il dolore di Elsa. Poi ripresero a parlare di altro.
    Poi la fame tornò. Non c'era niente da mangiare da nessuna parte, il solo pensiero di farlo gli provocava ribrezzo. Però sentiva il suo stomaco brontolare, il gorgoglio dei succhi gastrici. Si stringeva la pancia con le braccia per placare quel bisogno, si rosicchiava le unghie e ingoiava la propria saliva. Non serviva a nulla. Si contorceva, rotolava sul pavimento, ma i morsi della fame si facevano sempre più forti. Anche gli altri dovevano sentirlo, perché s'erano fatti più silenziosi, forse concentrati, come se ogni parola pronunciata sottraesse loro la poca energia rimasta. Lui però non riusciva a sopportarlo. Strane cicatrici comparivano su tutto il corpo, i ciuffi di capelli che cadevano diventavano sempre di più, ma lui non aveva la forza per preoccuparsene.
    «Cerchiamo un'uscita» disse a Elsa a un certo punto. Il suo tono era implorante.
    Lei lo guardò strano. «Eh?»
    «Ho fame. Cerchiamo un'uscita o almeno del cibo».
    «Orazio, qui non c'è niente».
    «Ti prego».
    «Abbiamo rivoltato questo posto da cima a fondo, non troveremo un'uscita».
    Insistette ancora per un po', poi, quando era sul punto di desistere, Elsa si rassegnò. «Va bene, ma cerchiamo di fare subito. Ho paura lì fuori» sussurrò perché nessuno l'ascoltasse. Si avviarono nel sentiero che lo aveva portato lì. Percorsi i primi metri, Orazio aveva già perso la speranza, ma si costrinse a continuare.

    #8

    Ora erano in quel vicoletto e procedevano a passo lento. Subito Orazio si ritrovò inghiottito da quello spazio. La stanza di prima c'era ancora, lì vicino, bastava voltarsi ed eccola a pochi passi, però la sua mente la faceva già lontana. Per qualche motivo, girarsi e tornare indietro gli pareva già impossibile. La via era stretta, il soffitto basso e umidiccio. Camminando, i capelli chiazzati di Orazio vi strisciavano ed emettevano un fruscio ovattato. Gli dava fastidio, quindi si abbassò e proseguì con la schiena curva. Poteva sentire l'alito di Elsa che gli spirava addosso e l'odore dei loro sudori che si mischiavano. A volte, forse perché le energie scemavano, si ritrovava a perdere l'equilibrio, e la sua spalla s'incrociava con quella di Elsa. Riconosceva l'osso sporgente e i muscoli rinsecchiti appena oltre la veste molle. La sentiva debole e temeva di farle male, ma allo stesso tempo quel contatto gli piaceva.
    Le lanternine incastonate nel pavimento emettevano una luce fioca e cupa. A volte, forse perché ci camminavano sopra, il bagliore tremolava, e sui muri si disegnava un tremolare d'ombre inquietanti, l'inseguire frenetico dei propri incubi. Allora Elsa s'accartocciava su se stessa; stringeva forte i pugni, serrava i denti, tratteneva per un attimo il respiro. Poi il mondo tornava immobile e i suoi nervi s'allentavano.
    Lei - Orazio - aveva quest'impressione - tentava di affrettare il passo, ma non riusciva a star dietro alla propria fuga. Camminava fiera, ma si tormentava le labbra. C'erano pochi momenti in cui il suo passo si faceva davvero più svelto e deciso, e per un attimo il suo volto s'illuminava di convinzione, però poi quella si spegneva, la camminata s'irrigidiva, il buio riprendeva a far paura. Le colavano stille di sudore lungo la nuca.
    Per un po' ci fu silenzio, poi cominciarono i rumori che aveva già sentito. Prima i sussurri. Erano le stesse voci incomprensibili che si rincorrevano, il bisbigliare di un animo folle. Si affievolivano - quel percorso non doveva essere stato pensato perché lo si percorresse al contrario, ma quello non faceva altro che acuire il terrore. E per qualche motivo Orazio aveva l'impressione di essere spiato. Elsa, invece, veniva percorsa da continui brividi lungo tutto il corpo. Ogni volta era come una sorpresa. Orazio s'accorgeva dell'elettricità dei peli di lei che si rizzavano, vedeva le sue labbra carnose scoprirsi per quel brivido e rivelare un interno corroso da piaghe indistinte. Poi quel rumore cessò e ci fu il silenzio. Elsa continuava a tremare, lui le si avvicinò per rasserenarla. Era incredibile come quella donna che sembrava non avere paura di nulla adesso congelasse dal terrore. Però era anche delicato, dolce in un modo assurdo.
    Poi ci fu lo stillicidio del torrente. Orazio se l'aspettava, ma per Elsa anche quella doveva essere stata una sorpresa. Si è dimenticata tutto, chissà da quanto tempo non viene qui si domandò Orazio. Sobbalzava al ritmo di quel lento palpito d'acqua. Ogni tanto si sfregava le braccia e le gambe, si alitava sulle mani a coppa, come sommersa davvero dal gelo di quell'acqua. Il respiro le veniva fuori come un ansito smozzicato, a volte emetteva mugoli interrotti. Poi anche quel suono sparì e Elsa parve tranquillizzarsi.
    Camminando, Orazio notò che le foto alle pareti erano scomparse. Dove prima c'erano le cornici la parete era più lucida. Quel particolare gli strappò un altro brivido d'ansia: qualcuno s'introduceva lì quando voleva e loro non se ne accorgevano. Ormai, riflettendoci, lo riteneva normale, ma il suo animo non rispondeva alla ragione, e lui non poteva evitare di galleggiare in un'angoscia continua e inconscia. Accanto a loro, i vicoletti scorrevano via veloci. S'angolavano verso la loro stanza e loro non potevano scorgere che l'inizio di qualche sentiero diroccato, subito avvolto dal buio. Incrociarono qualche pozzanghera - da dove veniva? - e Orazio si scoprì a specchiarsi nell'acqua putrida. Non riconosceva la sua immagine. Catturato tra le macchie marroni in quell'acqua verdastra, vide un volto deformato. Gli zigomi sporgenti, il naso un po' storto, la bocca consumata dalle stesse piaghe di Elsa. I capelli umidi gli cadevano sulla fronte in lunghi ciuffi divisi, ispidi e duri come setole. Per istinto si passò una mano in quella zazzera, come a esaminare ancora quante chiazze s'erano formate.
    Passò oltre. Camminarono ancora in quel silenzio ovattato solo dal respiro di Elsa. Dopo qualche minuto giunsero al piazzale in cui Orazio s'era risvegliato la prima volta. Non era simmetrico come l'altro spiazzale. Appena entrati, la strada proseguiva bassa per qualche passo e poi il soffitto s'impennava e si faceva più liscio. A terra, tra gli spiragli nelle rocce, i soliti ciuffi di erba incolta. A sinistra s'apriva l'altro percorso, quello che finiva con un vicolo cieco. Le stesse lampade incastonate nel pavimento illuminavano la via, ma il bagliore era più intenso.
    Arrivarono al centro della stanza, poi insieme si fermarono. Tacquero per pochi secondi, poi Orazio chiese: «E ora?»
    «Torniamo indietro» sussurrò Elsa.
    Orazio fece finta di non aver sentito e indicò l'altra via. «Andiamo di lì?»
    «Ma non sappiamo cosa ci può essere». La sua voce era un singhiozzo.
    «Io ci sono andato. La prima volta, quando mi sono risvegliato qui. Non c'è niente».
    Elsa parve tentennare per un attimo. Che anche in lei si fosse accesa una scintilla di speranza? Orazio non poteva dirlo, ma sfruttò l'occasione: «Dai, andiamo» disse, e l'afferrò per il braccio strascinandola via.
    Fecero i primi passi e Orazio subito s'accorse che la via era più larga. Non camminavano più separati solo da pochi palmi, i loro corpi che a tratti si sfioravano, i loro respiri che s'incrociavano. Ora erano distanti, troppo distanti. Fu come una stretta di malinconia, quella che s'avvinghiò al suo cuore. Piano, prese a indirizzare il suo passo di sbieco, senza farsi notare. Un centimetro alla volta, Elsa si faceva sempre più vicina. La morsa che gli aveva stretto il cuore si sciolse, tutto sembrava andare bene anche in quel posto del cazzo.
    Lei non tremava più. Guardandola di sottecchi, Orazio notò nel suo sguardo un colore diverso, un barbaglio di curiosità che aveva sostituito il terrore. Era ancora intermittente. I suoi occhi ripiombavano in quell'abisso, ma sempre meno spesso. Orazio cercò anche un contatto tra le loro dita e lo trovò. Le loro nocche si solleticavano, i graffi s'incrociavano.
    Questa volta il tragitto fu breve. I vicoli ai loro fianchi scorrevano via veloci, non c'era niente che potesse provocare angoscia. Presto Orazio riconobbe la curva oltre la quale sarebbe finito il loro cammino. Dovevano solo tornare indietro ed esplorare uno a uno tutto i vicoli che avevano trovato. Ci avrebbero messo ore e Orazio si sentiva stanco solo all'idea. Decise di arrivare fino alla fine e poi confrontarsi con Elsa.
    Quando vide che la strada terminava lì, Elsa si voltò verso di lui e lo guardò contrariato. La fronte corrugata, le labbra imbronciate. Sembrava una bambina a cui avessero tolto il giochino preferito. «Finisce qui?»
    «Già».
    «E adesso?»
    «Dovevamo cercare una via d'uscita, no?»
    Elsa annuì.
    «Allora dobbiamo vedere i vicoli»
    «Tutti?»
    Orazio fece cenno di sì. Elsa prima sbuffò, poi assentì anche lei. Si girò e sembrava già pronta per rimettersi in cammino. «Riposiamoci un attimo, sono un po' stanco» disse accasciandosi alla parete dietro di lui.
    Prima udì uno scricchiolio, poi qualcosa che frusciava. Non erano i suoi vestiti. S'immobilizzò dallo stupore. Quello era il rumore della cartapesta. Non poteva sbagliarsi. Ci aveva lavorato per anni e, sebbene fossero passati anni dall'ultima volta, quel rumore gli era rimasto dentro, in un posto a metà tra le orecchie e il cuore. Forse Elsa intuì qualcosa dalla sua espressione stupita, perché gli chiese: «Che c'è?»
    «No, nulla, nulla, tranquilla. Andiamo» disse, e si risollevò da terra.
    Doveva essere un abbaglio. Uno scherzo della mente, forse era la stanchezza, forse lo stomaco vuoto, forse un rigetto della coscienza. Però non riusciva a convincersi. No, conosceva quel rumore troppo bene. E l'aveva sentito sul serio. E se fosse quella, la via d'uscita che cerchiamo? Già sentiva il cuore liberarsi in mille esaltazioni. Rivide i colori e i volti delle persone. A quel punto, però, tornò l'incertezza. Non illuderti, Orazio, calma. Ipotizzò di tornare indietro e verificare, ma non poteva: Elsa non doveva sapere niente. O almeno, non ancora. Gli sembrava troppo volubile, in quel momento, e non poteva pensare cosa potesse essere in grado di fare. E poi c'erano le telecamere: se davvero qualcuno li spiava, non era un bene che sapesse che lui aveva scoperto come fuggire di lì. Gli altri dovevano saperlo, e subito: bisognava fuggire tutti insieme. Sempre che davvero si potesse uscire di lì, certo.
    Intanto entrarono nel primo vicolo. Elsa camminava più veloce e lui non riusciva a starle dietro. Del resto non gli interessava neanche: se davvero c'era una via d'uscita, lui l'aveva già trovata. Seguì comunque i suoi passi, preso da una sorta di fibrillazione che faceva scadere tutto il resto in noia. Il primo che esplorarono era buio, impolverato e finiva dopo pochi passi. Il secondo era simile. Dopo poco Orazio disse: «Senti, torniamo indietro, qui non c'è niente. Questi servono solo per sviarci». Elsa prima cadde in uno sconforto un po' ingenuo, poi annuì e riconobbe che Orazio aveva ragione. Si ritirarono trascinando i passi dalla stanchezza. Orazio accentuò ancora il contatto tra le loro braccia, e questo, insieme alla possibilità di uscire di lì, gli faceva fremere la pelle. Si sentiva cullato come da una febbricitante felicità. Stavano per arrivare allo spiazzale centrale. «Sei stanca?» chiese Orazio.
    «Un po'» disse Elsa alzando le spalle.
    «Ci riposiamo qualche minuto?»
    «Va bene».
    Proseguirono e ci arrivarono. Elsa si lasciò subito scivolare a terra. Lo stava facendo anche Orazio, quando la terra prese a tremare.
    Venne giù una fitta pioggia di piccole pietre. Poi due forti scatti metallici. Elsa cacciò un urlo acuto e breve. «Tutto bene?» le gridò Orazio, senza ascoltare risposta. Aveva la vista offuscata, quel rumore aveva risvegliato un malessere strano, nauseante. Sbatté le palpebre, tentò di mettere a fuoco.
    Si ritrovò sdraiato a terra. Si tirò su a sedere, la vista venne meno per qualche altro attimo. Poi tornò.
    Il pavimento era cosparso di quelle pietroline che erano precipitate sulla loro testa. All'inizio di ognuno dei due percorsi, dall'alto, era scesa un cancello metallico. Sbarre metalliche verticali bloccavano la via. Erano spesse, tra l'una e l'altra non c'era tanto spazio.
    Elsa era ancora a terra. Si stropicciava gli occhi con il dorso delle mani. Quando riprese la vista, la bocca rimase aperta. Prima fu stupore, poi angoscia, poi terrore.
    Erano intrappolati in quella stanza. Dagli angoli del soffitto, sempre più forte, cominciava a venir giù una polvere granulosa e marrone.

    #9

    All'inizio Elsa non s'accorse di quel flusso granuloso. Camminava a piccoli passi nella stanza, cacciando brevi strepiti alternati a qualche singhiozzo. Ora il suo cammino si faceva cadenzato e nevrotico; le sue mani, preda di un accesso d'ira, si chiudevano e si riaprivano ripetutamente, sfregavano contro la stoffa dei vestiti, s'arrossavano sulle nocche e sui dorsi. Subito però i suoi passi annegavano in una sorta di flemmatica indolenza, le braccia abbandonate lungo i fianchi, le spalle lente e storte. E il suo viso sembrava riflettere le pose umorali del suo corpo. La rabbia, infiltrata nelle pieghe del suo viso, enfatizzava la durezza dei suoi lineamenti. La luce cupa, il labbro tremulo e nervoso, l'inarcarsi del sopracciglio, tutto sembrava dipingerle il volto di un pallidume furioso e sublime. Poi però la rabbia svaniva e veniva lo smarrimento: le guance s'afflosciavano e la testa si reclinava sulla spalla. Lo sguardo rintronato, gli zigomi appassiti, Elsa sembrava smorta come una regina spodestata.
    Orazio studiava la polvere che veniva giù agli angoli del soffitto. Ne prese un pizzico tra le dita e la lasciò scorrere. Dalla consistenza, riconobbe, doveva essere terra mista a sabbia. Guardava le sorgenti di quei fiumiciattoli, che non promettevano di fermarsi, e sentiva sprofondarsi nello sconforto. Perché anche quello? Non bastava la tortura di quella prigione? Qualcosa però non gli tornava. Sebbene intorpidito dalla paura, intuiva che la terra non li avrebbe sommersi. Non sarebbero morti lì, non avrebbe avuto senso. Cercò di intrufolarsi nei pensieri di quel sadico e il suo presentimento gli parve più saldo. Quella non era una punizione. Era un avvertimento. Arrivò a stupirsi della sua lucidità e per un attimo dubitò di se stesso. E se fossero state solo congetture insensate, figlie di una qualche esaltazione? Ora aveva altro a cui pensare, ma l'euforia per la scoperta di qualche minuto prima ancora gli scorreva nelle vene. Si rassegnò alla nebbia dell'incertezza e tornò a guardare Elsa.
    Lei la lucidità l'aveva persa del tutto. Ora, aggrappata alle sbarre che li impigionavano, sussurrava al vuoto preghiere d'aiuto. Aveva agli occhi le screziature rosse di un'invasata e le vene sul collo che sporgevano. Orazio le si avvicinò. «Stai calma. Usciremo presto».
    Lei si voltò lenta. «Perché ci ha rinchiusi?» Non gli lasciò il tempo di rispondere e continuò: «Te l'avevo detto che non dovevamo uscire, te l'avevo detto!» Quindi riprese a mugolare frasi indistinte.
    «Ascolta, tra poco ne usciremo. Ne sono certo». Orazio in realtà questa certezza non l'aveva. Il flusso sembrava solo farsi più spesso e una prima patina di terra s'era posata sui loro piedi. Infilatasi nelle unghie, ora pizzicava. L'intuizione di prima già vacillava, ma non volle pensarci. Dopo qualche minuto Elsa parve tranquillizzarsi. I suoi occhi presero un'intonazione placida, le vene sul collo s'erano sgonfiate e ora disegnavano morbidi solchi sulla sua pelle. «Non dovevamo farlo» disse. Non era un rimpianto né un rimprovero. «È ciò che vuole dirci, non dovevamo farlo. Ma perché?».
    Orazio fece finta di non sentire la domanda e rispose: «Sì, lo penso anch'io». Si scambiarono uno sguardo che durò qualche secondo. Poi lei chiese ancora: «Ecco, ma perché?»
    Orazio aveva un'idea, ma non osava crederci. Anche questa poteva essere frutto di quell'esaltazione euforica di prima.
    Quella lì è davvero l'uscita e lui ha capito che io adesso lo so. Ci ha spiato di sicuro, qui ci sono telecamere ovunque. Vuole intimidirci.
    A questi pensieri un'ebbrezza onirica lo riavvolgeva. Si sentiva un genio. Tra poco sarebbero stati fuori di lì. Lui, Elsa, il tipo con lo sfregio, tutti, e sarebbe stato grazie a lui. Avrebbe rivisto il sole.
    Subito però si ripresentavano i dubbi. Magari era davvero una punizione. Forse era un modo per sviarlo: fargli credere di aver trovato l'uscita e lasciarlo a gongolarsi in questa convinzione. O forse non c'era un senso. Quel figlio di puttana si divertiva a torturarli e lui tentava ancora di combattere. Intanto Elsa lo guardava, aspettando ancora una risposta. Aveva un'aria un po' accigliata e la fronte tutta rughe come corrosa da quella domanda. Perché? Orazio non rispose: non voleva che Elsa sapesse della sua scoperta. Prima doveva accertarsene. Lei però — Orazio ebbe questa sensazione — in qualche modo aveva intuito. Quell'espressione tutt'a un tratto perplessa non lo convinceva. Perso com'era nelle sue supposizioni, decise di lasciar perdere.
    Poco dopo, comunque, seppe di aver ragione almeno su qualcosa. Il fiume di terra, una volta che questa era arrivata alle ginocchia, s'interruppe. Le sbarre che li rinchiudevano tornarono su con la stessa violenza con cui erano scese. La terra tremò ancora per un breve attimo. Elsa si rivolse ad Orazio con lo sguardo fisso sulla strada che avevano davanti: «Andiamo?» La sua voce era calma. Sembrava rinsavita.
    Tornarono alla loro stanza camminando veloce. Poco prima di arrivare Elsa si fermò. Orazio, che le era qualche passo indietro, la raggiunse e attese.
    «Mi nascondi qualcosa?» disse lei. Aveva un'aria che era a metà tra quella di una bambina furba e quella di chi riconosce che qualcosa non torna.
    «No. Perché?»
    «Così. Mi sembri strano».
    «Sono un po' scosso forse» suggerì lui.
    «È da prima che ti vedo così».
    Lui fece spallucce, poi ripeté: «No, non ho niente». Elsa lo squadrò, lui scostò lo sguardo. Poi s'incamminarono di nuovo.
    Evitarono di parlare agli altri di quello che era successo. Orazio temeva che ogni parola potesse fornire un indizio sulla sua scoperta. Elsa sembrava strana. Aveva salutato gli altri, poi s'era rintanata in un posticino. Fronte corrucciata, braccia conserte, gambe incrociate. Orazio la guardava. Ogni volta che lei alzava lo sguardo, lui spostava il suo e fingeva di guardare il vuoto; poi, appena qualche secondo dopo, tornava a fissarla. Così per un tempo indefinito, in un rincorrersi di sguardi carichi. Dalla nuca di lei colavano lente gocce di sudore, che s'infilavano nello spazio tra la schiena esile e la maglietta. Il cranio nudo riverberava la luce strana della stanza.
    Dopo un po' Orazio iniziò a provare un fastidioso prurito alle gambe. Lunghi filamenti rossastri si ramificavano dai piedi fino al punto in cui era arrivata la terra. Guardò Elsa e capì che anche per lei era lo stesso. Entrambi presero a grattarsi e un uomo — quello che raccontava barzellette idiote — chiese loro: «Che è successo?»
    Orazio ed Elsa si guardarono. Lei fece un cenno, poi parlò: «Non lo sappiamo. Forse...» e stava per inventare qualcosa, ma l'uomo la interruppe. «Siete stati a contatto con della sabbia?»
    I due si guardarono ancora. Un brivido d'ansia percorse la schiena di Corrado. E se li avessero spiati? Non c'era nessun motivo di aver paura, lo riconosceva. Però anche quell'idea lo faceva temere. Doveva custodire gelosamente quella scoperta.
    A parlare fu ancora Elsa. «Non lo so, forse, in qualche vicolo... perché?» Era brava a fingere, riconobbe Orazio.
    «Sono un medico. Non ve l'avevo detto?» rispose l'uomo. «Potrebbe essere un parassita. Lo conosco perché è molto diffuso, l'irritazione è quella. Si chiama... no, ora non mi viene in mente».
    «È pericoloso?» chiese subito Orazio.
    «No, no, fa solo un po' male. Poi passa da solo» rise quello. Orazio annuì, non del tutto rincuorato.
    Passò poco tempo. Orazio era sognante, ma i morsi della fame lo costrinsero a riprendersi. Li aveva dimenticati, assorbito com'era dai suoi vagheggiamenti. Ora però erano tornati. Insieme a loro, venne anche un torpore improvviso e nebbioso. S'addormentò presto, ma non del tutto. Nel dormiveglia, sentiva il rado mugolare di una voce conosciuta.

    Edited by RàpsøÐy - 5/3/2017, 15:48
     
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    Smisto questi primi tre capitoli!
     
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  3. {Barone Rosso}
         
     
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    Uao Tommas, complimentoni.
    Jonathan Kramer, sei tu?
     
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    Grazie! :)
     
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    Aggiunto il quarto capitolo.
     
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  6. {Barone Rosso}
         
     
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    A quando il quinto Tommas?
     
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    Il quinto è in smistamento, il sesto è pronto ma devo copiarlo qui :)
     
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    Aggiunto il capitolo 5 ;)
     
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  10. sedimitik
         
     
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    Leggerlo tutto è stato un mattone, ma mi è piaciuto c:
     
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    Bene ahahaha mi fa piacere, grazie :)
     
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  12. {Barone Rosso}
         
     
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    Ehi Tommas, mi è venuto un dubbio:
    come fanno a sapere che è carne umana?
    Nel senso, glielo ha detto il rapitore? Altrimenti l'unica spiegazione è che ne conoscessero il sapore prima di essere rapiti e quindi forse è meglio che stiano lì :asd:
     
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    CITAZIONE ({Barone Rosso} @ 24/1/2017, 09:20) 
    Ehi Tommas, mi è venuto un dubbio:
    come fanno a sapere che è carne umana?
    Nel senso, glielo ha detto il rapitore? Altrimenti l'unica spiegazione è che ne conoscessero il sapore prima di essere rapiti e quindi forse è meglio che stiano lì :asd:

    ahahaha magari è un centro di recupero per cannibali :D
    Allora, io penso che un rapitore sadico che fa mangiare ai suoi prigionieri carne umana non avrebbe alcun interesse a tenerlo per sé. Insomma, troverebbe un modo per farlo sapere, anche solo per soddisfazione personale. C'è anche un altro particolare, ma volevo svelarlo più avanti nel racconto. Bella domanda comunque :)
     
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    dal cuore dell'oscurità

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    aggiunto il settimo capitolo
     
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  15. ReaperBrown
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    Tommas02 hai davvero talento.
     
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19 replies since 2/1/2017, 12:41   1017 views
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