Il sussurro

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  1. The Squid
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    Io non sono un assassino. Quelle disgustose belve non erano più esseri umani. Viscide larve si dimenavano nelle loro membra, contorcendosi in una perversa cacofonia. Ho fissato i loro occhi smorti, remoti oramai dal nume della ragione. Non ho fatto altro che compiere il mio dovere: ho colpito e mondato le impurità di quelle repellenti fiere. Non sarebbe stato sufficiente frantumar le ossa col bastone, dovevo assicurarmi di scarnificare i cadaveri da ogni lordura, perciò abbandonai il sentiero che stavo solcando e mi introdussi in una stalla limitrofa; brandii una scure e recisi le carni dei due corpi, come il loro sangue appestato mi zampillava addosso, a ogni fendente della mia arma. Fra i visceri e nell’atra lacuna ho scorto i vermi della piaga.
    Eppure, ancora non riesco a trovare l’immonda madre di quelle aberrazioni. È da giorni che ho iniziato a vedere i sintomi dell’infezione nei miei coetanei e non importa chi io abbia strangolato, dato fuoco, impiccato, la pestilenza sembra non aver fine. Che questo male dimori nell’essere stesso dell’uomo è per me pensiero folle; ma, se così fosse, siamo veramente tanto deboli che ci lasciamo soggiogare da siffatta depravazione? No, non può essere questa la risposta. Sebbene immerso nel sangue e nei parassiti, ancora distinguo la verità. È solo un fievole bagliore e, ciò nonostante, mi fa da appiglio, per non decadere nella degenerazione e nell’insania.
    Stremato, mi ritrovo a ginocchioni in quella putrescente melma. La testa inizia a girarmi e l’orizzonte mi si offusca davanti. Questa crociata si sta nutrendo di tutto il mio vigore, ma non posso arrendermi. Non voglio lasciar sprofondare la città in un baratro di selvaggia demenza ed efferatezza; tuttavia, quando arranco nel cuore della notte fra le vie urbane, la civiltà mi appare sempre più come un pallido spettro, un etereo ricordo in procinto di svanire. Per questo lotto, malgrado nessuno comprenderà mai il fardello che grava sulle mie spalle. Adesso, però, sono stanco: arrancherò verso casa, sperando di aver conforto nel sonno.
    La notte afosa non trova riposo. Come il sudore cola lungo la mia fronte, sbircio la penombra della stanza. Una cortina d’indistinguibile oscurità cinge la camera. Gli orrori amorfi che quel nero abisso cela esistono in una realtà sensibile manifesta solo alle bestie, dotate, nel loro primordiale essere, di capacità percettive ignote all’uomo.
    Nelle tenebre della mezzanotte, il sinistro scricchiolare della porta mi inorridisce. Una bizzarra fragranza di erbe inizia a diffondersi per l’aria e il soffio ameno del vento, che fin da poco prima accarezzava le tende della finestra, si ammutolisce all’istante. Il serpentino insinuarsi di quell’alone fa da eco ai suoi passi silenti.
    Stringo con vigore, che sembra abbandonarmi, il lenzuolo e rimango a fissare la corvina foschia. Poi, si mostra a me: parzialmente illuminata dal fioco chiarore della luna, un’alta sagoma emerge dalle ombre con le quali sembra rimaner congiunta, come una piaga cresce sulla carne senza separarsi da essa. Mentre il suo cavernoso respiro cresce, il mio anela fuori dalla gola secca, togliendomi la parola. Le mani, sgraziate, ruvide, aguzze quanto artigli, dapprima toccano il mio volto pallido, poi, all’improvviso strette attorno alle spalle, mi strattonano su dal letto. Faccia a faccia, riesco a delineare sul viso di quell’aberrazione due occhi sporgenti e senza vita, il cui sguardo non sembro in grado di eludere.
    Che sia una crudele beffa? Ho combattuto il flagello fin dalle sue più putrescenti radici, finendo col venirne infettato a mia volta? Quale infausto destino, quale ignobile scherno! Per lo meno, la malattia non ha asservito il mio intelletto, non sono decaduto nell’ottusità della barbarie, morirò uomo… no, sto vaneggiando: ho un compito da svolgere, il mio spirito non verrà spezzato da ignava indole. È l’estenuazione a farmi vacillare. Non ho intenzione di cadere schiavo della mia stessa debolezza. Questo è solo un terribile miraggio della realtà.
    Provo, quindi, a scacciare la visione come delirio febbrile o un folle incubo, ma il contorcersi delle viscere non mi concede alcun abbaglio: questa abominevole apparizione non è frutto del perverso ingegno umano. Allora, con le mie ultime forze, obbligo le palpebre a chiudersi, ma attratto dall’assurda vista di quell’entità non sono capace di resistere.
    Essa, tuttavia, dopo avermi adagiato nuovamente sul materasso, si ritira nel buio. Un senso di vuoto e incerto timore mi attanaglia, finché la luce di una candela illumina la soglia del locale: un'altra presenza si fa avanti e entrambe iniziano a discutere.
    Immobilizzato dal terrore, rimango ad ascoltare i loro i sinistri bisbigli. D’un tratto, però, colgo una parola: “Peste”.

    Edited by Emily Elise Brown - 5/4/2017, 12:45
     
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8 replies since 25/3/2016, 01:20   763 views
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