Starman

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    ‘C’è un uomo delle stelle che aspetta in cielo
    Vorrebbe venire e incontrarci
    Ma pensa che potrebbe impressionarci
    C’è un uomo delle stelle che attende in cielo
    Ci ha detto di non distruggerlo
    Perché lui sa che ne vale la pena’.

    È così che recita Starman, di David Bowie. E ogni volta che mi perdo tra le note di questa canzone, faccio fatica a trattenere le lacrime nei miei occhi. In qualità di testimone di certi eventi indicibili, mi è impossibile evitare che emozioni come angoscia, paura e tormento, possano affliggere il mio stato d’animo tutte le volte in cui alzo lo sguardo al cielo. Credevo che l’uomo non dovesse infrangere certi limiti e che, da ciò, sarebbero potute scaturire conseguenze assai gravi e misteriose; poiché, allo stesso modo in cui un topo non riconosce la differenza tra un cibo velenoso e uno commestibile, nemmeno noi, esseri umani, siamo in grado di comprendere tutto ciò che l’immensità dell’universo ha da offrire. Tuttavia, ad oggi, nel 1979, uno strano presentimento aleggia furtivo sul mio corpo nudo, rivolto alla luna: dice che una storia come la mia ha lo stesso ciclo di vita di una stella cadente e che presto, secondo modalità a me ignote, svanirà, lasciando dietro di se un alone di incommensurabile bellezza e oscurità.

    I misteri dell’occulto e dell’inspiegabile mi attrassero sin dalla tenera età. Durante gli anni della mia infanzia, circa nel 1970, Uri Geller cominciò ad apparire in televisione e i suoi prodigi esercitavano su di me un fascino irresistibile: in molti sostenevano che l’uomo che riusciva a sciogliere i cucchiai tra le sue dita non fosse un illusionista e non si servisse di alcun tipo strumento o sostanza chimica per i suoi portenti; egli avrebbe agito esclusivamente in base alla forza della mente: un fenomeno per il quale non si disponeva di una spiegazione chiara, ma che era stato verificato da testimoni di ogni epoca e analogamente constatato nel corso degli anni nei laboratori di investigazione parapsicologica.

    Quando cominciai a dedicarmi allo studio di tali teorie o, più in generale, alla parapsicologia, mi parve di aver scovato un tesoro nascosto a cui ero predestinato fin dalla nascita. Col passare del tempo, per una sorta di ‘effetto catena’, venni a conoscenza dei misteri della levitazione, dello spiritismo e infine dell’astrologia. Tutto ciò interruppe la crescita della mia collezione di fumetti che reputavo ormai un passatempo puerile.

    Jerome Clarke, il commesso del Comic Book Store, pensava che fossi sul punto di perdere la testa e ogni volta che entravo nel negozio, strabuzzava i suoi occhietti e si rivolgeva al sottoscritto citando le gesta dei miei supereroi preferiti o facendo domande sullo stato di salute del mio canarino, Elvis. Mi accontentavo di scambiare qualche parola con quell’ometto goffo e andavo via a mani vuote. Si poteva parlare di tutto con lui e, nonostante l’apparenza trasandata, sembrava che il mondo non gli celasse segreti.

    Il mio vicino, Albert Finney, rimase conquistato dalle teorie di cui parlavo e pensò che sarebbe stato utile fondare un gruppo dedito all’occulto, composto dai nostri amici, per discutere dei misteri che circondavano il mondo. Purtroppo, però, l’assenza di una struttura da offrire allo scopo rese impossibile la fantasia. Tentai persino di convincere il vecchio zio Denver a cedermi il suo garage in Elmor Street, ma non volle, poiché ‘non ero abbastanza grande’. E così, pian piano, sembrammo dimenticarci dell’idea.

    Nel 1976 il mio corpo cominciò ad assumere la fisionomia di quello di un uomo. I miei genitori si recarono a Costerbrail, un paesino montano a nord della mia città, per verificare lo stato di salute della vecchia zia Marley, una religiosa fanatica a cui non restava molto tempo da vivere. Di solito trascorrevo qualche giorno di vacanza a Costerbrail con la mia famiglia, ma lo stato di salute della zia sembrava peggiorato, nonostante si ostinasse a nasconderlo e a non parlarne durante le conversazione telefoniche; perciò i miei genitori decisero di effettuare un sopralluogo in tutta fretta. I signori Gardner promisero a me e a mia sorella, Lory, che presto ci saremmo tornati tutti insieme.

    Le visioni oltre il velo del mondo fisico e i racconti delle esperienze di Swendenborg e Davis nel cosmo degli spiriti appagavano il mio interesse per l’ignoto. Per non parlare delle levitazioni dei fachiri e delle fotografie che ritraevano medium come Evans e Coli sospesi a mezz’aria. Ma nessuno tra questi argomenti compensava la curiosità e il fascino che potevo snidare tra le costellazioni del cielo. Dapprima mi dedicai allo studio dei segni zodiacali, tema su cui si fonda l’astrologia; ciò nonostante, preferii approfondire la conoscenza degli astri: un argomento senz’altro più concreto e, gli scaffali della mia stanza, che già straripavano di testi e raccolte sulle più disparate branche esoteriche, rischiarono di cedere numerose volte quando dovettero dare alloggio a volumi di carattere astronomico assai più pesanti e pratici del resto delle scritture.

    Durante la notte, iniziai ad uscire di casa, e a recarmi sul punto più alto che le abitazioni di Clarcksburg riuscissero ad offrire. Tentavo di riconoscere le costellazioni nella volta celeste e provavo un gran piacere nel farlo: mi sentivo l’unica creatura rimasta sulla Terra, accarezzata in modo dolce e pacato dalla brezza notturna. Tuttavia, la notte del 23 ottobre 1977, qualcosa cambiò la mia prospettiva delle cose.

    Mi trovavo sul tetto del signor Finney, a qualche isolato di distanza dalla mia dimora, quando notai il passaggio di un aereo. Era silenzioso. Terribilmente silenzioso. Ed emanava un bagliore rossastro che lampeggiava in modo irregolare. A quel punto, ricordo di aver sorriso: doveva essere uno di quei modernissimi aerei da combattimento che persino un missile avrebbe faticato a distruggere. Continuai ad osservarlo. Era una vista peculiare, ma molto seducente.

    Tentando di stabilire la distanza che si trovava tra me e la luce, per giudicare la possibilità di osservarla da un punto di vista più vantaggioso, mi accorsi che si trovava oltre tutte le case della città, almeno quelle del centro, e persino oltre il Comic Book Store: il bagliore che emanava doveva essere davvero potente. Ad un certo punto, spalancai gli occhi: “Gli aerei non hanno fari di quel tipo” pensai. Per un istante, il riflesso della luna illuminò l’oggetto mentre continuava il suo lento viaggio verso est e, nel momento in cui si destò dall’oscurità delle nuvole, ne scorsi superficialmente il corpo: non potevo essere sicuro di ciò che avevo visto, ma quella forma, così circolare e al contempo indefinita, non rispecchiava nemmeno in parte la struttura di un mezzo volante conosciuto.

    Il fiato gelido dell’autunno, che sino ad allora non avevo avvertito, parve penetrare nel mio corpo in un turbine di schegge ghiacciate. Cos’era quell’oggetto? Forse, mi trovavo di fronte a uno di quei misteri che tanto mi affascinavano; ma non c’era spazio per le ipotesi, poiché il mezzo aveva già cambiato direzione. Cominciai a guardarmi attorno spaventato. Il corpo luminoso si muoveva a ovest e dopo qualche secondo saliva, poi ancora verso ovest e di nuovo in alto: un moto a zig zag, molto veloce, che sfidava le leggi di ogni veicolo artificiale in grado di volare. La distesa di tegole marroncine che mi accerchiava divenne improvvisamente lugubre e un senso di impotenza pervase il mio animo sconvolto quando lo scintillio scomparve dal cielo e le stelle tornarono a brillare. Non avrei avuto via di scampo, neppure la più insignificante, se certe entità, in grado di fare ciò che avevo appena distinto nell’astrusità della notte, avessero voluto cercarmi. Ebbi paura. Paura di un orrore soprannaturale, ma per la prima volta concreto. Tornai a casa in tutta fretta e affondai nelle coperte del mio letto, senza badare a Elvis, che pareva agitato e si dimenava contro i lati della gabbietta.

    L’evento appena narrato segnò profondamente la mia crescita, sebbene fece fiorire il seme lanciato da Albert, di cui tutti parevano essersi scordati: l’esigenza impellente di raccontare a qualcuno il resoconto dei fatti verificatisi mi riportò dal vecchio zio Denver, a chiedere le chiavi del piccolo garage abbandonato in Elmor Street che, dopo una lotta vinta con insistenza e perseveranza, giunsero nelle mie mani. Il locale divenne un punto d’incontro per il mio gruppo d’amici. Tuttavia, prima di tutto ciò, cercai informazioni riguardo l’apparizione rossastra nel cielo e fui sorpreso nel notare che non ero stato il primo e neppure l’unico a vivere una tale esperienza.

    Mi recai al Comic Book Store e Jerome assistette alla narrazione dell’accaduto con interesse, ma senza troppa sorpresa. “Hai sicuramente assistito al passaggio di un Oggetto Volante Non identificato” disse. Inoltre, mi mostrò alcune immagini e dei resoconti scritti su quegli oggetti, noti anche come OVNI o UFO. Scoprii che il fenomeno ‘Ufo’ era stato riconosciuto come tale a partire dal lontano 1947 quando, un uomo d’affari noto come Kenneth Arnold, avvistò una formazione di nove oggetti volanti nell’area del monte Rainier, nello stato di Washington. Egli li definì come ‘una serie di piatti o dischi lanciati sull’acqua’. Tale evento, insieme a tutti quelli seguenti, catalizzò l’interesse dei mass-media negli Usa e in seguito quelli del mondo intero sulla questione dei casi detti ‘dischi volanti’.

    “Sì, alcune persone dicono di essere state rapite da navi spaziali comandate da esseri più intelligenti e diversi da noi” risposi alla domanda di Albert. Eravamo intenti a discutere dell’incidente di Roswell, del rapimento dei coniugi Hill e dei contatti di George Adamski. Lory, invece, preferiva occuparsi del lato estetico del locale più che delle discussioni che si creavano: in poco tempo, il muro del garage fu tappezzato di poster e disegni che riguardavano lo spazio e l’atmosfera divenne perfetta per lo scopo. A volte, organizzavamo maratone di ‘2001: Odissea nello spazio’. Era divertente ma, allo stesso tempo, penso che tutti noi volessimo saperne sempre di più e, in fondo, speravamo di risolvere il mistero dei dischi volanti.

    L’argomento, tuttavia, era ben più complesso di come credevamo. Poiché, gli Ufo, dovevano per forza essere il frutto di una conoscenza e una tecnologia più avanzate della nostra e, per crederci, bisognava accettare l’idea che esistessero forme di vita pensanti, sconosciute e sicuramente lontane dalla Via Lattea: alieni. E ogni volta che ci pensavo mi tornava alla mente una frase di Robert Clarke, uno scrittore di fantascienza: “Esistono due possibilità: o siamo soli nell’universo, o non lo siamo. E sono una più terrificante dell’altra”.

    Durante la primavera del 1977, gli incontri nel garage cominciarono a diminuire. Nonostante ciò, io continuavo a cercare informazioni su Ufo ed extraterrestri, ma avevo perso speranza e curiosità. Probabilmente, la fatidica notte di ottobre, ciò che si era manifestato nel cielo, era il frutto di un esperimento governativo o chissà cos’altro che non aveva niente a che fare con tecnologie o forme di vita aliene.

    A contribuire al decadimento della creazione del gruppo, arrivò l’estate e dovetti partire per Costerbrail. Chi altro avrebbe potuto guidare Albert, Jenny, Richard e Lory nelle sconfinate dimensioni dello spazio, se non il sottoscritto?

    Il paese si trovava sulla cima di una montagna, ed era distante parecchie ore dalla mia città. Preparai Elvis per il lungo viaggio in auto e prima di poggiare la gabbia nel cofano della macchina, mi avvicinai ad essa: “Giuro che se muori, mi arrabbio” annunciai sorridendo.

    Mentre mio padre era impegnato a guidare e a impregnare il poco ossigeno presente nell’auto con il fumo, io e Lory guardavamo il panorama montano che si presentava dai finestrini. Il sole era alto nel cielo e illuminava i sentieri che si sviavano dalle colline, per poi salire sui monti o nei boschi circostanti. Amavo quel posto e credevo che sarebbe stato possibile associarlo al paradiso, qui sulla terra. Ne ero convinto.

    ”Vincent, Quanto sei cresciuto!” esclamò zia Marley quando mi vide entrare dalla porta della sua casa enorme. Non ebbi nemmeno il tempo di salutarla, che già cominciò a parlare della processione che si sarebbe svolta nel paese a distanza di qualche giorno.

    Mi sistemai nella stanza al piano di sopra, poiché in mancanza di altre camere, avrei condiviso il letto con mia sorella. Ogni angolo della dimora era condito da un odore di naftalina e tutte le volte che percorrevo il corridoio che conduceva alla mia stanza, ero colto alla sprovvista e mi tappavo il naso con le dita. Poggiai Elvis sul comò di fronte alla branda e per il resto del giorno riposai. Le giornate trascorrevano nella monotonia caratteristica dei luoghi isolati e passavo pomeriggi interi sul terrazzo, ad osservare il cielo.

    Talvolta chiudevo gli occhi e ricordavo il bagliore rossastro che avevo visto circa un anno prima nella mia città. Il pensiero si diramava nelle teorie più disparate e, mentre il sole cocente batteva sulla mia fronte, mi sembrava di viaggiare nell’universo e immaginavo di incontrare degli esseri umanoidi, un po’ più bassi di me, con gli occhi completamente neri e il colorito delle pelle grigiastro. Erano inquietanti. E non osavo escogitare cosa avrebbe supposto la vecchia zia, guardandoli. Sicuramente, li avrebbe ricondotti al demonio. Nelle ore trascorse a meditare, in preda al delirio mentale a cui mi conduceva il calore estivo, cercavo di stabilire un contatto con certe entità ignote, situate in altri sistemi solari o galassie. Iniziò come un gioco, ma il grado di concentrazione che raggiungevo era incredibile e credevo di poter annullare il distacco tra me e gli angoli più remoti dello spazio, con la forza della mia mente. Proprio come mi aveva insegnato Uri Geller.

    Giunse il 24 luglio 1977, e portò con sé la processione cristiana a cui avrebbe partecipato gran parte della popolazione di Costerbrail. Nel pomeriggio, incontrai alcuni parenti arrivati per l’occasione e scambiai qualche parola con mio cugino, Marcus. Avevamo più o meno la stessa età, ma non l’avrebbe pensato nessuno, poiché la sua muscolatura era sottosviluppata. Decisi che, durante il pomeriggio, avrei riposato. Tuttavia, non potei trattenermi dall’influenza che esercitava su di me lo stato catatonico in cui sprofondavo quando mi stendevo sul terrazzo e, colpito dai raggi infuocati, compivo dei viaggi incredibili oltre il nostro mondo. Ma non mi trattenni a lungo: ero particolarmente stanco e rientrai in casa nel primo pomeriggio con uno strano ronzio nelle orecchie, ma pensai che l’esposizione prolungata al sole avrebbe certamente potuto provocare simili malesseri. “Smettila Elvis, ci farai l’abitudine” dissi al canarino prima di stendermi nel letto. Pareva agitato.

    Una fila interminabile di persone, guidata da un uomo provvisto di megafono, procedeva a passo lento per i viottoli del paese e una litania cristiana si spargeva tra le case diroccate e i negozi antichi, attirando la poca gente che non faceva ancora parte del gruppo. Ogni ritardatario era ben accolto e, immediatamente, gli veniva porta una fiaccola che, qualcun altro, avrebbe acceso con la propria candela. I lampioni emettevano una luce fioca e giallastra, che pareva lugubre mentre si attraversavano le vie del centro storico, ed era confortante mentre si passeggiava al fianco di qualche recinzione che svettava su una vista panoramica alle montagne lontane, oscurate quasi completamente dalla notte.

    Ero stato svegliato di soprassalto dal coro di voci e, in tutta fretta, avevo raggiunto i miei genitori e zia Marley. Indossavo una maglia a maniche corte e non ebbi il tempo di cambiarla. Non c’era traccia di Marcus, ma probabilmente si trovava più avanti con i suoi genitori. I partecipanti alla funzione religiosa sembravano incantati. Non credevo in Dio, ma se me l’avesse chiesto qualcuno, in quel momento, non avrei avuto il coraggio di ribadirlo.

    Mentre percorrevamo una via in salita, una folata di vento mi fece rabbrividire: decisi che sarei tornato indietro per prendere una giacca. E fu allora che l’incredibile divenne realtà.

    Percorsi la strada a ritroso, stavolta da solo. In lontananza udivo le preghiere farsi sempre più sottili, sino a sparire. Il rumore dei miei passi riecheggiava regolare nell’aria e la luce dei lampioni rischiarava il sentiero che conduceva alla casa della zia Marley, ma alcuni angoli restavano bui, intrisi dell’oscurità della notte. La sensazione d’angoscia che trasmette una città deserta è indescrivibile e ogni tentativo di consolazione personale che tentavo di compiere veniva abbattuto da qualcosa. Qualcosa che non si poteva vedere, ma che si poteva avvertire, annidata negli spazi tetri e indistinguibili su cui neppure il dio dei cristiani osa posare i suoi occhi. Tali pensieri mi affollavano la mente e affrettavano le mie gambe, ma quando l’edificio verso cui ero diretto cominciò a prendere forma davanti al mio sguardo, provai un senso di familiarità. Aprii la porta e accesi la luce. Un rumore ridondante proveniva dal piano di sopra.

    Lentamente, salii le scale. L’odore di naftalina riempì le mie narici. Il battito del mio cuore aumentò: per premere l’interruttore della luce su quel piano, avrei dovuto attraversare il corridoio che conduceva alla stanza in cui dormivo. Il suono sembrava provenire da lì. Mi feci coraggio. Attraversai il corridoio correndo e tastai il muro alla ricerca del pulsantino. Non lo trovavo. La parete ruvida e gelida di quella casa sembrava volermi giocare un brutto scherzo. Intanto, nella stanza alla mia sinistra, il rumore stava crescendo. Poi il lampadario si accese: finalmente avevo trovato l’interruttore. Aprii leggermente la porta della mia stanza e notai che Elvis si dimenava nella sua gabbia, in preda ad una crisi asmatica terribilmente violenta.

    Cercai di calmarlo, ma c’era ben poco da fare: doveva essersi preso un bello spavento. All’improvviso, una luce scarlatta che notai con la coda dell’occhio passò davanti alla finestra della stanza, illuminando l’ambiente per un istante. Pensai che la pressione a cui ero sottoposto mi stava tirando un altro brutto scherzo, ma ciò non bastò a confortarmi e, dopo aver recuperato la giacca, fui felice di abbandonare quel luogo. Tuttavia, il parossismo del terrore che stavo provando si concretizzò proprio mentre varcavo la soglia della porta e mi dirigevo verso il gruppo religioso. Un’occhiata fugace alle mie spalle mi permise di distinguere, sul terrazzo dell’abitazione, una figura scarna e immobile. “Marcus? Che ci fa lì sopra?” pensai. Probabilmente mi aveva spiato nei momenti di meditazione e tentava di replicarli, ma fu comunque spaventoso osservare quella sagoma scura, immobile e difficilmente distinguibile, contrapposta al riflesso lunare.

    Corsi a perdifiato per le strade deserte di Costerbrail, alla ricerca della processione. Il demone dell’agitazione mi fece smarrire numerose volte e, quando finalmente sentii la litania che si innalzava da una vallata asfaltata sotto i miei piedi, mi affrettai a raggiungerla. Decisi che, per quella sera, non avrei parlato con nessuno dell’evento cui avevo assistito.

    Tuttavia, quando interrogai zia Marley, restai sconvolto: Marcus si era ammalato il pomeriggio prima del rito e, i suoi genitori, avevano deciso di non partecipare alla processione. Credevo che non avrei mai avuto una risposta sufficientemente concreta riguardo l’accaduto e che, se avessi voluto provare a dedurla, sarebbe stato difficile spremere le meningi e venirne a capo in assenza di Elvis, poiché, al mio ritorno in casa, il canarino era morto stecchito.

    Col passare degli anni, mi convinsi sempre più che, quella notte, qualcosa era stato attirato alla dimora della zia e aveva provocato la morte di Elvis. Qualcosa che aveva a che fare con una luce rossastra, che poteva spostarsi nel cielo a velocità e direzioni umanamente inconcepibili. Qualcosa di molto simile a noi uomini, ma più dotato intellettualmente e meno sviluppato sul piano fisico. Quando arrivai a simili conclusioni, non ebbi più il coraggio, e nemmeno l’intenzione, di rivolgere lo sguardo al cielo. In fondo, però, ero stato io a chiamare l’uomo delle stelle, e dovetti accettare le conseguenze di quel gesto, seppur inconsapevole, il prima possibile; poiché, dopo quell’esperienza, i fenomeni bizzarri e gli avvistamenti di strane luci nella volta celeste, crebbero sensibilmente.

    Ma c’era qualcosa di diverso in me, o forse, nella mia mente. A seguito dell’accaduto, continuai a passare del tempo con Albert e il resto del gruppo; ma tendevo ad isolarmi e non sentivo più il bisogno di una vita sociale. Difatti, restituii le chiavi del garage a zio Denver, e non misi più piede al Comic Book Store: Jerome mi avrebbe senz’altro scambiato per un folle degenarato. Trascorrevo sempre più tempo a riflettere e a seguire certi segnali incomprensibili che, talvolta, giungevano alla mia mente e che, col tempo, imparai a capire.

    Ora corre l’anno 1979. L’aria è fresca, ma non avverto il bisogno di coprirmi. Sono nudo sulla terrazza della mia casa, a Clarcksburg. La radio diffonde le note incantevoli di Starman. Un attimo, quale radio? La luna illumina le mie braccia spalancate. Mi sento come Elvis: uno spirito libero felice di essere prigioniero di qualcosa di più grande. Poi, un ronzio incessante riempie le mie orecchie. Chiudo gli occhi. Un turbine caotico di suoni, lettere e numeri invade la mia mente. Ci metto un po', ma comprendo il segnale. Il grande momento è giunto. Tra gli astri infiniti dello spazio, c’è uno luccichio in movimento, ha un colorito rosso fuoco, e si sta dirigendo verso la mia abitazione. Tali saranno le mie ultime parole su questo mondo.

    Edited by @AnthonyInBlack - 28/8/2019, 23:46
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