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Sono un attore sin da quando ho memoria di me stesso, è superfluo dire che conosco il mondo e la gente che lo abita tanto bene da saperne prevederne i comportamenti. Girare il continente per un’ intera esistenza non ha fatto che plasmarmi come l’uomo saggio e corretto che sono, ormai troppo stanco per rincorrere quegli ideali giovanili che mi muovevano decenni fa e troppo smaliziato per maledire le lingue che rantolano i loro “Macbeth” alla mia entrata in scena.
Tutto ciò che ho ora, abbandonati i sogni, la voglia di viaggiare e persa anche la speranza di rivedere l’unica donna che io abbia mai amato, è questo pubblico, celato nell'impenetrabile oscurità che mi circonda da sempre, questa schiera di facce mai viste che per tutta una vita mi ha fissato, mi hanno visto ridere, piangere, soffrire o gioire.
E dire che non mi conoscono, nessuno di loro, immobili nelle proprie poltrone, sicuri di avere di fronte uno scellerato personaggio di cui si riesce a leggere ogni cosa dalla maschera di trucco e pianto che mostra; nessuno, di questi celati scrutatori, riesce a concepire per un solo istante della propria vita chi io sia veramente.
Dopotutto, questa è la maledizione di chi, come me, è avvezzo all'utilizzo di finzioni per mostrare il proprio spirito.
Calarsi anima e corpo nell'interpretazione di uno storpio, o di un dio, di un amante rifiutato o di un innocente straccione.
Sbattersi sulle toghe del palco come un ossesso o come un disperato, ridere di sé stessi , strapparsi i capelli, complottare la morte di altre persone.
Ogni singolo atto, ogni battuta studiata e fatta propria, ogni parola pronunciata tra i denti o urlata.
Non ci si nasconde, dietro questa finzione: si mostra all'oscurità astante la propria anima più pura e nuda, si emana da ogni poro l’essenza più privata di sé stessi.
E quello che si ottiene, sappiamo tutti cos'è. Quei volti onnipresenti e sconosciuti ci calano una maschera addosso. Più pesante e resistente di qualunque lega o minerale.
Diventiamo fantasmi, esseri privi di fattezze a cui dare una forma e un volto che compiacciano i propri gusti.
I gusti di una massa invisibile che, seduta su poltrone a volte di buon velluto austriaco, a volte di scadente legno francese, vuole forzare l’artista che si mostra a lei nudo e splendente ad assumere le forme del buffone che le piace.
Vedete, non scherzo e non esagero quando dico di conoscere i vostri comportamenti, le vostre azioni prima che riesca a conoscere voi stessi. Dopotutto, non vi ho mai visti in volto.
So benissimo dove vi nascondete, dietro quei riflettori perennemente puntati sul vostro zimbello.
La notte, nel silenzio e nelle tenebre, vengo spesso a toccare i rigidi lineamenti del vostro volto, impietrito nelle risate che vi fate quando è in scena la mia vita.
Non dormo mai, passo tra le vostre poltrone e cerco di parlarvi, di abbattere quel muro buio che mi alzate attorno, ma in cambio ottengo solo il vostro silenzio e mortale scherno.
Immagino non possiate capirlo, nelle vostre intirizzite membra, che sono io quello che riesce a leggervi dentro.
Sono io che creo quei raggelati sorrisi che avete addosso.
Sono io che vi costringo, morti e freddi, a guardare dentro la mia persona, durante lo spettacolo, e che vi parlo e sfioro la faccia durante la notte.
Siete stati per anni intenti a modellare la mia vita.
Ma ormai, nella morte, non desidero altro che mi guardiate e capite. Che ascoltiate il pianto che tengo dentro. Voglio che vi sia rivelato il mio vero spirito.
Riuscite a vederlo, vero?
Edited by »VShade - 6/10/2014, 22:41
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